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|  Emilio Salgari
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|  I pescatori di balene
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   Emilio Salgari
   I PESCATORI DI BALENE


   I. IL CAPODOLIO

   La notte del 24 agosto 1864, una nave correva bordate, a tutte vele sciolte, a centotrenta miglia a sud delle Aleutine, lunga catena di isole che si estende dinanzi al mare di Behring fra le coste dell’America e dell’Asia. Era un magnifico veliero di oltre quattrocentoventi tonnellate, attrezzato a «barco», colla prua tagliata quasi ad angolo retto e munita di un solido sperone di acciaio, i fianchi piuttosto larghi e difesi da lamine di rame di notevole spessore. Alta era la sua alberatura, con uno sviluppo grandissimo di vele; libera quasi del tutto la sua coperta, ma untuosa e sdrucciolevole, senza cassero e senza castello. Sulla poppa, in lettere dorate, spiccavano questi due nomi: «Danebrog Aalborg».
   Sulla gran gabbia, aggrappati alle sartie e alle griselle, si vedevano due uomini un po’ curvi innanzi, cogli occhi fissi sull’oscuro mare che muggiva sordamente frangendosi contro i fianchi del naviglio.
   Uno dimostrava quarant’anni. Era di statura bassa ma tarchiato, con larghe spalle e grosse e robustissime membra. Aveva la pelle un po’ abbronzata, gli occhi di un azzurro profondo, il naso un po’ rosso, forse per il soverchio abuso di bevande spiritose, e la barba e i capelli biondi.
   Aveva accostato agli occhi un cannocchiale e guardava attentamente l’immensa distesa d’acqua.
   L’altro era invece un giovanotto di venticinque o ventisei anni, di statura molto alta, biondo di capelli, cogli occhi pure azzurri, ma la pelle ancora bianca. Dai suoi lineamenti traspariva una energia straordinaria e un coraggio indomito.
   – Ebbene, tenente Hostrup, – disse ad un tratto il giovanotto – si vede nulla?
   – Ho un bel guardare, fiociniere, ma non vedo proprio nulla – rispose il compagno.
   – Eppure ho udito distintamente un tonfo e ho visto con questi occhi una grossa ondata correre a quattrocento passi dal nostro legno.
   – E tu credi che sia stata una balena?
   – Sì, tenente.
   – Se fosse vero! – esclamò l’ufficiale mordendosi i baffi. A quest’ora tutti i balenieri hanno dell’olio nel ventre del loro legno, mentre noi non ne abbiamo ancora una goccia. E siamo in pieno agosto! Comprendi, Koninson, in pieno agosto!
   – Lo comprendo, signore, ma la colpa non è nostra. Se quel «brick» del malanno non ci avesse, colla sua speronata, inchiodati per tre lunghi mesi nei cantieri della Nuova Arcangelo, a quest’ora avremmo già mezzo carico nella stiva.
   – Che il diavolo si porti quel «brick» e tutta la ciurmaglia che lo monta! Fortunatamente abbiamo del fegato, noi, e il nostro «Danebrog» è un legno che non teme i ghiacci. Se sarà necessario andremo fino al polo.
   – Il capitano ha questa intenzione?
   – Per Bacco! Se non troviamo balene nel mare di Behring, egli ci trascinerà sotto il polo. Vuole vincere la scommessa a qualunque costo.
   – C’è una scommessa – chiese il fiociniere.
   – Sì, e molto grossa.
   – E con chi,tenente?
   – Col capitano del «Biscoë».
   – Ah! Quel dannato norvegese scommette contro i danesi? Allora bisogna sfidare tutto, pur di vincere.
   – E tutto sfideremo, Koninson.
   – Io sono pronto a seguire il capitano anche al polo, purchè colà vi siano delle balene, e vi giuro, signor Hostrup, che il mio rampone non fallirà una sola volta.
   – Lo so che la tua è un’arma terribile, che ha già ucciso parecchie dozzine di balene.
   – Delle centinaia, signore! – disse Koninson con orgoglio. – Sono duecento e più anni che viene adoperata nella mia famiglia.
   – Corbezzoli! La tua è adunque una famiglia di fiocinieri?
   – Sì, tenente, e il rampone di cui oggi mi servo si trasmette di padre in figlio.
   – E chi lo adoperò per primo?
   – Mio nonno Erico Koninson, il quale lo ebbe in dono dal re Cristiano V.
   – Ah! È un’arma reale?
   – Sì, e…
   Il fiociniere fu bruscamente interrotto da una voce che pareva scendesse dal cielo e che aveva gridato:
   – Ohè! L’animale soffia!
   Il tenente e Koninson alzarono il capo e videro sulla crocetta dell’albero di trinchetto un marinaio che stava guardando il mare.
   – L’hai udito tu? – chiese il signor Hostrup.
   – Sì, tenente! – rispose il marinaio.
   – Da qual parte?
   – Il soffio veniva da sottovento.
   Il tenente puntò il cannocchiale e guardò con profonda attenzione.
   – Ebbene? – chiese Koninson, che non era capace di star fermo.
   – Il marinaio non si è ingannato. Laggiù ho veduta una massa nerastra sorgere e poi tuffarsi.
   – È una balena?
   – Non lo so poichè, come ben vedi, l’oscurità è profonda e il cetaceo è apparso a un buon miglio di distanza.
   – Balena o capodolio, noi lo prenderemo, tenente.
   – Lo spero, Koninson. Andiamo ad avvertire il capitano Weimar.
   – E prepariamo le baleniere. Ho il sangue che mi bolle nelle vene pensando che fra poco mi misurerò col mostro che soffia.
   Il tenente e il fiociniere si aggrapparono alle griselle e scesero rapidamente in coperta, dove dieci o dodici marinai stavano già preparando le baleniere per la caccia.
   Il capitano, tosto avvertito della presenza del cetaceo, non tardò a comparire sulla tolda.
   Valdemaro Weimar, comandante e proprietario del legno, non aveva più di trentacinque anni. Era alto, vigoroso, biondo come il tenente Hostrup, con una fronte alta, lo sguardo vivo e nero e labbra sottili che denotavano una energia non comune.
   Nato in Danimarca, come tutti gli uomini del suo equipaggio, aveva affrontato il mare a soli dieci anni e ora godeva una grande fama, come marinaio e come pescatore di balene. Nulla lo spaventava; nè le più terribili tempeste, nè le più ardite navigazioni nei poco conosciuti mari artici, nè i ghiacci del polo.
   Sei volte, con un’audacia senza pari, mentre tutti i suoi colleghi fuggivano verso il sud dinanzi all’avanzata del gelo, aveva condotto la sua valorosa nave al di là delle terre abitate, sfidando i ghiacci polari per inseguire le balene che vi si erano rifugiate, e due volte, sorpreso dagli immensi campi di ghiaccio, aveva svernato sulle deserte coste della Giorgia occidentale e senza perdere nè un uomo nè una imbarcazione.
   Quando il tenente Hostrup lo informò della presenza di un cetaceo, gli occhi del bravo capitano scintillarono di gioia.
   – Ah, è così! – esclamò. – Sta bene, domani mattina lo cacceremo. Dov’è?
   – Laggiù, un miglio sottovento! – disse il tenente.
   – Non bisogna perderlo di vista. Due gabbieri sulle crocette e tu, mastro Widdeak, – aggiunse, volgendosi ad un vecchio marinaio che stava al timone – governa in modo di tenerti sempre a poca distanza dal cetaceo. E ora andiamo a vedere coi nostri occhi.
   Salì sulla murata di tribordo aggrappandosi alle sartie del trinchetto e guardò nella direzione indicata con un forte cannocchiale.
   – Lo vedete, capitano? – chiese Hostrup che l’aveva raggiunto.
   – Sì, tenente.
   – Balena o capodolio?
   – Non è facile dirlo, ma dalle sue mosse brusche, lo crederei più un capodolio che una balena.
   – Lo cacceremo egualmente.
   – Lo credo, tenente; Koninson non teme simili mostri, quantunque siano, specialmente se soli, pericolosissimi. Mi ricordo che una volta uno, un solitario anche quello, ebbe l’audacia di gettarsi contro un brigantino.
   – E lo colò a picco?
   – Lo sfasciò di colpo, tenente. Ehi, Koninson, prepara due baleniere.
   – Pronto, capitano! – rispose il fiociniere.
   Con un fischio chiamò i diciotto marinai che formavano l’equipaggio del «Danebrog», e si mise alacremente al lavoro. Dieci minuti dopo tutto era pronto per la pesca. Non mancava che di calare le baleniere in mare e di muovere contro il cetaceo che non pareva disposto ad abbandonare quelle acque.
   Il capitano Weimar e il suo tenente, sempre in piedi sulla murata seguivano attentamente collo sguardo l’enorme pesce che di quando in quando si tuffava o avventava dei formidabili colpi di coda sollevando delle grandi ondate.
   Il primo si mostrava impazientissimo e imprecava contro l’oscurità; il secondo invece, uomo flemmatico quanto mai, quantunque non meno intrepido marinaio del capitano, appariva tranquillissimo e taceva fumando con tutta flemma in una vecchia pipa che quasi mai abbandonava.
   Anche Koninson e l’equipaggio erano in preda ad una viva agitazione, e ingiuriavano il cetaceo che non si lasciava accostare dalla nave, quantunque questa filasse con una notevole velocità avvicinandosi alle isole Aleutine, che ormai non dovevano essere molto lontane.
   Finalmente cominciò a far chiaro. Ad oriente apparve una luce biancastra che fece impallidire la luce degli astri e che gettò sui neri flutti delle tinte madreperlacee di bellissimo effetto.
   Il capitano attese ancora un po’, quindi tornò a puntare il cannocchiale verso il cetaceo che allora si trovava a due miglia dal «Danebrog», ma quasi nel medesimo istante il gigantesco pesce, quasi indovinasse che qualcuno lo spiava, si tuffò.
   – Ah, brigante! – esclamò Weimar. – Ma non per questo mi sfuggirai. Ehi, mastro Widdeak governa dritto su quel briccone!
   Il mastro non si fece ripetere il comando e lanciò il «Danebrog» verso il luogo ove il cetaceo si era inabissato; ma passarono dieci, venti, trenta minuti, senza che apparisse a galla.
   – Non è una balena quella là! – disse il capitano. – Se lo fosse, a quest’ora sarebbe già tornata a galla.
   – È un capodolio, capitano – disse il tenente. – Non ci sono che questi cetacei che siano capaci di starsene quaranta, cinquanta e anche sessanta minuti senza respirare.
   – Niente di meglio. Alla balena preferisco il capodolio che dà maggior profitto. Ma come mai si trova qui?
   – Guarda! Guarda! – gridò in quell’istante Koninson.
   A cinquecento metri dal «Danebrog» si era visto alla superficie dei mare un largo tremolio, segno evidente che il cetaceo stava per risalire; poi apparve un punto nero, indi una massa enorme che gettò in aria due nuvolette di vapore grigiastro. Koninson gettò un grido:
   – Un capodolio! Un capodolio! Alle baleniere, ragazzi!


   II. LA CACCIA

   Il fiociniere non si era ingannato.
   Era un vero capodolio, pesce enorme, dalla testaccia spaventevole che eguaglia il terzo della lunghezza del corpo, il muso assai rigonfio, la bocca immensa armata di cinquantaquattro denti di forma conica e ricurvi all’indentro e il dorso coperto di gibbosità più o meno grandi.
   Era lungo diciassette o diciotto metri, con una circonferenza di quattordici o quindici, enorme massa che prometteva almeno sessanta o settanta tonnellate dì eccellente olio, senza contare quel prezioso liquido conosciuto col nome di bianco di balena che portava nella testa.
   Il mostro pareva non essersi accorto della presenza del «Danebrog», e dopo il primo soffio si era messo a nuotare lentamente, quasi interamente sommerso, mostrando di quando in quando l’estremità dei muso e lanciando in aria, con sordo rumore, le nuvolette di vapore che diventavano però sempre meno fitte.
   – Abbiamo da fare senza dubbio con un vecchio maschio – disse il capitano.
   – Peccato che sia solo – disse Koninson che guardava il cetaceo con occhio fiammeggiante.
   – Avrai un gran da fare egualmente, fiociniere. Tu sai che questi mostri sono sempre di cattivo umore e coraggiosi fino alla pazzia. Affrettiamoci prima che si allontani troppo. Ai vostri posti, giovanotti.
   In un baleno furono imbrogliate le vele e le due baleniere sospese alle gru furono calate in mare. Erano queste due svelte imbarcazioni, colla prua tagliente, le costole saldissime, a prova di coda. I remi, i ramponi, le lance e le lenze erano già state collocate a posto.
   Il tenente Hostrup, Koninson e quattro robusti rematori, presero posto nella prima; mastro Widdeak, il secondo fiociniere Harwey, un bravo giovanotto allievo di Koninson e che aveva già ramponate non poche balene, presero posto nella seconda assieme ad altri quattro marinai.
   – C’è tutto? – chiese il capitano curvandosi sulla murata.
   – Tutto – risposero ad una voce il tenente e il mastro.
   – Al largo adunque e che Dio vi guardi!
   Le due baleniere a quel comando s’allontanarono fendendo le onde con grande rapidità. Il tenente e il mastro, con un lungo remo le guidavano e accanto a loro con una coscia trattenuta nella scanalatura della poppa, stavano i due fiocinieri cogli occhi fissi sul cetaceo e i ramponi in mano, lance terribili, munite di una freccia lunga un buon metro, in forma di una V rovesciata, coi margini esterni taglientissimi e i margini interni grossi e dritti per impedire all’arma, una volta entrata nelle carni del cetaceo di uscirne.
   Ad ognuna di queste armi era già attaccata una lenza di 400 metri terminante in una tavoletta di sughero grossa assai e sulla quale si vedeva impresso, a ferro rovente, il nome del «Danebrog» e il porto da dove era salpato.
   Il capodolio, a quanto pareva, non aveva ancora scorto le due baleniere che gli si avvicinavano rapidamente e in silenzio, manovrando in modo da coglierlo in mezzo. Continuava tranquillamente a nuotare, tuffando ora la testa per pascersi, o sollevando la possente coda bilobata, un sol colpo della quale era più che sufficiente per gettare in aria o schiacciare gli arditi cacciatori che stavano per affrontarlo.
   Già le baleniere non erano che a tre gomene, quando il mostro si voltò bruscamente verso di esse guardandole coi suoi occhietti e mostrando la sua enorme bocca capace di contenere tutti i dodici uomini che correvano su di lui. Contemporaneamente battè la coda in basso sollevando onde gigantesche.
   – Attenzione! – disse il tenente. – Il capodolio è inquieto.
   – Che brutto sguardo! – disse Koninson con voce un po’ alterata. – Si direbbe che affascina.
   – Non guardarlo, Koninson.
   – Guardo il punto ove posso lanciare il mio rampone.
   Le due baleniere avevano rallentata la corsa ed avanzavano colla massima prudenza cercando di virare al largo.
   Ad un tratto il capodolio gettò fuori una nuvoletta di vapore più denso, agitò la coda e si inabissò lentamente formando un piccolo vortice.
   – Fermi! – gridarono il tenente e il mastro.
   I marinai alzarono i remi e le due baleniere rimasero ferme, lasciandosi dondolare dalle onde.
   Nessuno fiatava nè si muoveva e tutti, eccettuato il tenente, erano pallidissimi. Persino Koninson, che aveva già cacciato centinaia di volte i giganti del mare era bianco e le sue membra provavano, di quando in quando, dei tremiti nervosi.
   Era il principio di quella strana paura che sovente invade i balenieri, anche i più audaci e i più invecchiati nel mestiere, paura che talvolta assume proporzioni tali da far perdere completamente la testa ai timonieri e ai remiganti e da togliere ai fiocinieri le forze in siffatta guisa da non essere più capaci di alzare il braccio per scagliare, al momento opportuno, il rampone.
   Se il mare fosse stato tranquillo e le baleniere, nel ricadere, non avessero fatto rumore, si sarebbe udito il cuore di Koninson e di tutti gli altri battere precipitosamente.
   – Coraggio, fiociniere! – disse il tenente.
   – Ne ho, signore! – rispose il giovanotto, sforzandosi di sembrare calmo. – Aspetto solo che il mostro ricompaia per piantargli nelle costole il mio rampone, e Dio mi danni se non gli farò una ferita mortale.
   – Attenti, ragazzi! – gridò in quell’istante mastro Widdeak.
   Cento passi più innanzi, alla superficie del mare si scorse un largo tremolio, poi apparve prima l’estremità del muso indi la testa e quindi l’intero capodolio.
   Ad un cenno del tenente i marinai tuffarono i remi e la baleniera mosse velocemente contro il gigante. Già non era più che a trenta braccia e Koninson aveva afferrato e alzato il rampone, quando il cetaceo sollevò colla sua potente coda una montagna d’acqua così enorme, che la baleniera fu rovesciata violentemente su di un fianco atterrando coloro che la montavano
   – Maledizione – urlò Koninson.
   Dopo quella prima ondata il mostro ne sollevò una secondi e finalmente una terza ancora maggiore che riempì più che mezza l’imbarcazione, la quale si trovò nell’impossibilità di agire.
   Koninson e i marinai abbandonato il rampone e i remi si videro costretti a vuotare l’acqua imbarcata che minacciava di mandarli a picco, mentre il cetaceo, preso da un subitaneo accesso di collera, correva qua e là come fosse impazzito gettando sordi brontolii che somigliavano al tuono udito a grande distanza e lanciando ovunque colpi di mare. Pareva che cercasse i nemici per frantumarli a colpi di coda ma, male servito dai suoi occhietti che, sono debolissimi, non riusciva a scorgerli.
   Mastro Widdeak, che fino allora si era tenuto un po’ indietro, spinse la baleniera contro di lui. In tre minuti giunse ad una distanza di sole venti braccia.
   – Coraggio, Harwey! – gridò Koninson.
   Il giovane fiociniere, quantunque pallidissimo e in preda ad un forte tremito che paralizzava in parte le sue forze, alzò il rampone cercando un buon punto per lanciarlo.
   – Getta! – urlò il mastro.
   Il rampone ondeggiò innanzi ed indietro e partì. Forò due onde, sfiorò una terza e si piantò nel fianco destro del capodolio in una parte carnosa e ricca di tendini.
   Subito la baleniera si mise a indietreggiare rapidamente lasciando scorrere la lenza.
   Il mostro, ferito forse pericolosamente fece un balzo innanzi gettando un urlo così acuto da poter essere udito a parecchi chilometri di distanza, indi si tuffò. Ma non rimase sott’acqua che brevissimi istanti e riapparve cento braccia più innanzi gettando un secondo e più forte urlo, battendo furiosamente la coda e rovesciandosi sul fianco ferito come se cercasse di strapparsi l’arma che lo tormentava.
   Mastro Widdeak diresse l’imbarcazione verso di lui, mentre Harwey afferrava una lancia munita all’estremità di una specie di palla tagliente, aspettando il momento che alzasse la coda per lanciargliela sotto le ultime vertebre caudali.
   Il tenente spinse pure innanzi la sua baleniera, ma il cetaceo, che senza dubbio non era stato ferito molto gravemente dopo aver descritto un semicerchio, si mise a filare con estrema rapidità verso nord-nord-est.
   In breve la lenza del rampone fu tutta consumata senza che il capodolio scemasse la sua velocità. Harwey attaccò una seconda la lenza, ma anche questa in pochissimo tempo fu tutta fuori.
   – Cerchiamo di affaticarlo! – disse mastro Widdeak.
   – Lega la lenza! – gridò Koninson, che era ancora lontano, quantunque i remiganti arrancassero disperatamente.
   Harwey legò la lenza e la baleniera fu trascinata dal cetaceo che continuava a nuotare verso nord-nord-est, senza tuffarsi e senza fermarsi un solo istante.
   Ma anche questo tentativo non riuscì a scemare la corsa del mostro, anzi si accrebbe tanto che c’era da temere che le onde invadessero la baleniera.
   Mastro Widdeak fece legare la «droga» alla lenza e lasciò andare il capodolio, certo di ritrovarlo ben presto senza vita.
   – A bordo! – disse egli. – Quel brigante si di stancherà di correre e allora lo troveremo.
   La scialuppa virò di bordo e si diresse verso il «Danebrog» che avanzava a tutte vele spiegate verso la baleniera del tenente, sulla quale bestemmiava su tutti i toni e in tutte le lingue della terra il fiociniere Koninson.
   Pochi minuti dopo i dodici cacciatori salivano sul «Danebrog».
   – Mille tuoni! – esclamò Koninson, mettendo piede sulla tolda. – Non mi aspettavo quest’oggi un tiro così birbone. Brigante d’un capodolio, sfuggire così al mio rampone! Ma se lo incontro ancora gli farò passare un gran brutto quarto d’ora.
   – Non pigliartela tanto a cuore, fiociniere! – disse il tenente. – Lo raggiungeremo e ben presto, è vero, capitano?
   – Lo spero – rispose Weimar.
   – Lo spero anch’io – disse Koninson. – Ma se il mio rampone l’avesse toccato!… Quel briccone di Harwey ha sempre più fortuna di me.
   – Saresti geloso? – chiese il capitano, ridendo.
   – Io! Mai più! Ma se l’avessi ramponato io!… Mille tuoni, non sarebbe corso tanto.
   – Ti ripeto che lo raggiungeremo.
   – Ma dove sarà fuggito?
   – Scommetterei una botte di «wisky» contro una tazza di «gin» che si è diretto verso lo stretto di Isanotzkoi.
   – Ci dirigeremo adunque verso quello stretto.
   – Subito, fiociniere A bordo le baleniere, giovanotti.
   Le due imbarcazioni in brevi istanti furono issate alle gru, dopo di che il «Danebrog» si rimise in marcia dirigendosi verso la penisola di Alaska che coll’isola di Uminak forma lo stretto accennato di Isanotzkoi
   L’equipaggio a cui premeva assai ritrovare il cetaceo per non perdere la famosa scommessa impegnata col norvegese, erasi già quasi tutto installato sulle coffe e sulle crocette, tenendo gli occhi fissi verso nord – nord – est. Il capitano aveva promesso una bottiglia di «wisky» al primo che lo scopriva, e quel premio era da tutti agognato.
   Ben presto però dovette rinunciare a quella guardia che stancava assai, tanto più che non scorgeva alcuna traccia del fuggitivo nè una macchia rossastra che indicasse del sangue, nè quelle materie grasse che si lasciano ordinariamente dietro i cetacei in genere.
   Per quattro lunghe ore il bravo veliero, spinto da un fresco vento di sud-ovest, filò con una velocità superiore al sette nodi senza deviare dalla sua rotta, poi piegò un po’ verso nord-est colla speranza di ritrovare su quella nuova via le tracce.
   – Nulla! – esclamò il capitano che scrutava l’oceano con un cannocchiale. – Bisogna che sia ben forte per camminare tanto.
   – Io temo che non sia gravemente ferito, signore – disse il tenente che fumava pacificamente la sua pipa, seduto sulla murata di babordo.
   – Ha lanciato forse male il rampone Harwey?
   – Bene no di certo, capitano; nè del resto, lo poteva. Il capodolio aveva sconvolto il mare in siffatta guisa, che nelle baleniere non era possibile tenersi in piedi.
   – Diavolo! Che lo si perda?
   – Non lo credo. Camminerà molto, è cosa certa, forse fino allo stretto di Behring, ma poi si fermerà e morrà.
   – Ma lo ritroveremo noi?
   – E perchè no? C’è la «droga» attaccata alla lenza.
   – Lo so ma io so pure che vi sono dei balenieri che non si fanno scrupolo di impadronirsi dei cetacei ramponati dagli altri. E questi pirati di nuova specie non sono pochi.
   – Aggiungo qualche cosa d’altro, ora che ci penso – disse il tenente.
   – Che cosa, signor Hostrup?
   – Che se il nostro capodolio va a morire su qualche isola o su qualche costa per noi è perduto. Gli abitanti se lo prenderanno senza curarsi della «droga».
   – Non ci mancherebbe che questa disgrazia! Sapete, tenente, che noi siamo molto sfortunati? E proprio quest’anno che abbiamo impegnato la scommessa con quel briccone di norvegese. Fortunatamente ho un equipaggio forte e coraggioso e una nave che non teme i ghiacci del polo.
   – Siete risoluto a salire molto al nord?
   – Sì, signor Hostrup – rispose il capitano con voce grave.
   – Salirò fin oltre lo stretto di Behring, e andrò a visitare le coste della Giorgia. Se non troverò colà tante balene da completare il carico, salirò ancora più al nord verso la terra di Wrangel.
   – Siate prudente, capitano.
   – Avete paura dei ghiacci, voi?
   – Io!… Quando ho una borsa di tabacco e una bottiglia di «gin» o di «brandy», vado dritto fino al polo.
   – Lo so, tenente, che voi non avete paura di nulla. Sta bene, saliremo fino a incontrare i grandi banchi di ghiaccio. Bisogna che i danesi vincano i norvegesi.
   Due ore dopo il «Danebrog» avvistava le isole Aleutine.


   III. IL MARE DI BEHRING

   Le isole Aleutine formano una lunga catena che separa il Grand’Oceano dal mare di Behring. Si dipartono dalla penisola di Alaska, il punto più avanzato della costa americana verso occidente, e descrivendo un immenso semicerchio vanno a congiungersi colla costa asiatica, lasciando fra di esse degli stretti numerosissimi, ora piccoli ed ora grandi, spesso ingombri di scogIietti e di banchi che rendono la navigazione assai difficile.
   Dirne il numero esatto è impossibile anche oggi, poichè molte sono appena conosciute e molte altre non lo sono affatto. Ad ogni modo sono moltissime e talune di rispettabile grandezza, quali la Behring, Atton, Unalaska, Unimak, ecc. La popolazione di tutto l’arcipelago si crede non superi le 6000 anime.
   Per lo più dette isole sono montagnose con alcuni vulcani che vomitano quasi sempre fumo e le spiaggie alte assai rendono l’approdo difficile, anche perchè cinte da numerosi frangenti contro i quali, da una parte e dall’altra, si rompono con orribile frastuono le onde del Grand’Oceano e quelle del mare di Behring.
   Su quelle rupi non crescono che degli intristiti abeti, delle piccole quercie, dei salici nani, e nelle valli riparate dai gelidi soffi del vento settentrionale, delle fitte e alte erbe. Ma se la flora è così misera la fauna invece è ricca, infatti innumerevoli sono le volpi, le renne e anche le foche. Non poche lontre, quantunque accanitamente cacciate dagli agenti della compagnia russo-americana, vivono presso le sponde, e anche le balene di quando in quando vi fanno la loro comparsa.
   Prima del 1741 queste isole erano a tutti sconosciute. Il celebre navigatore danese Vito Behring fu il primo a scoprirne alcune, il suo compagno Tchirikof ne scopriva altre nel 1742, e Billings e Saritchef negli anni 1793 e 1795 visitavano le restanti. È però probabile che talune non siano ancora state percorse da alcun europeo od americano
   L’isola avvistata dal «Danebrog» era Unimak, la più occidentale dell’arcipelago, situata a 54° 30’ di latitudine nord e 167° di longitudine ovest. Si distinguevano chiaramente le sue tre montagne, la prima colla cima irregolarissima, la seconda in forma di cono e alta assai, vomitante un fumo nerissimo e la terza, chiamata dagli indigeni Kaighinak, mozzata. Quantunque si fosse in piena estate, sulle cime scintillavano con magico effetto i ghiacci non ancor disciolti dal sole.
   – Entriamo nello stretto o giriamo di fuori? – chiese mastro Widdeak al capitano, che osservava l’isola.
   – Il passo di Isanotzkoi ci è troppo famigliare perchè non si tenti il passaggio. Così potremo vedere se il capodolio si è arenato sulle coste della penisola d’Alaska.
   Mastro Widdeak tornò al timone e diresse la nave verso Io stretto accennato che divide l’isola di Unimak dall’Alaska. Ben presto si trovò a poche gomene dalle sponde della prima, dove virò di bordo veleggiando parallelamente ad esse.
   L’isola sembrava completamente deserta, quantunque l’abitino un cento o centocinquanta aleutini. Non si vedeva alcuna capanna e nemmeno un battello fra i piccoli «fiords». Anche i terreni apparivano aridissimi: solamente dei piccoli abeti rizzavano verso il cielo il loro verde fogliame e poche erbe si scorgevano in fondo alle vallette.
   Le sponde dappertutto erano alte, dirupate e sparse qua e là di massi di basalto, forse colà lanciati dal vulcano fumante durante la terribile eruzione del 1820.
   Alle 2 del pomeriggio il «Danebrog» entrava lentamente nello stretto di lsanotzkoi percorso da forti ondate, le quali andavano a rompersi con estrema furia contro le sponde dell’isola.
   Colà volteggiavano numerosissime bande di gabbiani dalle piume bianchissime ma tinte leggermente di rosa sotto l’addome, i piedi neri e il becco giallo, uccelli voracissimi che si tengono quasi sempre presso le isole artiche, ma di una codardia fenomenale, poichè basta un uccello qualsiasi per metterli in fuga. Quantunque la loro carne sia poco pregiata, il tenente Hostrup, appassionatissimo e bravissimo cacciatore, sparò alcune fucilate abbattendone parecchi nel momento che passavano sopra il legno.
   Alle 3 fu segnalata una barca indigena che pareva provenisse dalla vicina penisola di Alaska. Era una «baidaire», scialuppa grandissima, scavata nel tronco di un grossissimo albero colà portato senza dubbio dalle correnti marine e montata da una ventina di aleutini, uomini di mediocre statura ma robustissimi di tinta bruna, con viso rotondo, naso schiacciato, occhi piccoli ma espressivi e capelli nerissimi.
   Passando presso il «Danebrog» salutarono con alte grida i marinai. Il capitano approfittò per interrogarli circa il capodolio, ma nulla potè sapere, avendo quegli uomini lasciata la penisola di Alaska da due sole ore.
   Più tardi fu vista anche una «bodarkie», leggerissimo canotto costruito con pelli di vitello marino e somigliantissimo a quello usato dai groenlandesi. Lo montava un solo uomo munito di un remo a due pale, e pareva venisse da nord. Camminava però così rapidamente che in breve sparve verso est.
   – Forse quell’uomo poteva direi qualche cosa – disse Koninson al tenente che guardava distrattamente le coste dell’isola.
   – Se avesse scoperto il capodolio io ti dico che non ce l’avrebbe detto, fiociniere – rispose Hostrup.
   – E perchè?
   – Per spogliarlo lui coi suoi compagni. Un capodolio rappresenta una vera fortuna per questi poveri abitanti che ben sovente soffrono la fame, ma lo troveremo, fiociniere, non temere. Ho guardato poco fa l’acqua e ho scorto delle macchie oleose galleggiare e ciò indica che il nostro cetaceo è passato di qui.
   – Mille tuoni! Bisogna seguire queste tracce.
   – Le seguiremo Koninson.
   – Io pianterò domicilio nella rete della delfiniera per non perderle.
   – Niente di meglio.
   Alle 9 di sera il «Danebrog», che filava con una discreta velocità, usciva dal canale di Isanotzkoi ed entrava nel mare di Behring, ampia distesa d’acqua compresa fra il 52° e 66° di latitudine nord e il 160° e 200° di longitudine est, cinta al sud dalla lunga catena delle isole Aleutine all’est e al nord-est dalle coste americane e al nord-ovest e ovest dal Kamtsciatka.
   La maggiore lunghezza di questo mare che per lo più è coperto di nebbioni e di ghiacci, è da est ad ovest di circa 560 leghe. Tanto sulla costa americana quanto su quella asiatica, forma baie ampie ove non di rado vanno a partorire le balene durante la «stagione dei seni». Sono rimarchevoli a nord-ovest la grande baia, che può chiamarsi anche golfo d’Anadyr, ove si scarica il fiume omonimo, ad ovest quelle di Aliutorskoi e di Kamtsciatka e ad est quelle di Bristol e di Norton. Racchiude pure nel suo seno isole considerevoli, quali Sidov, San Matteo, San Paolo e San Giorgio.
   Nel momento che il «Danebrog» entrava in questo vasto e molto pericoloso mare, nessuna vela si scorgeva sull’orizzonte, nè alcun cetaceo. Solamente alcune procellarie, funesti uccelli che non si dilettano che di tempeste, sfioravano le onde, entro le quali di quando in quando si tuffavano per pescare i pesciolini. Tre o quattro vennero a volteggiare attorno alla nave, mostrando le loro penne nerissime.
   Il «Danebrog», spinto da un forte vento di sud-sud-ovest, si slanciò verso l’ampia baia di Bristol, dove si scorgevano sui flutti le sostanze oleose che davano all’acqua una tinta più verdastra, ma l’intera notte passò senza che quel dannato capodolio si facesse vedere.
   L’indomani, 26 agosto, ancora nulla. Il capitano Weimar cominciò a diventare inquieto e di assai cattivo umore. Gli pareva impossibile che il mostro, con un rampone nei fianchi, avesse potuto percorrere tanta via quantunque si continuassero a scorgere le macchie oleose sui flutti.
   Anche il secondo, di solito così flemmatico, era diventato un po’ nervoso. Passeggiava per la coperta fumando la sua eterna pipa con maggior furia e di tratto in tratto lo si udiva brontolare.
   Koninson poi, che da ventiquattro ore aveva piantato domicilio nella rete della delfiniera per non perdere di vista le macchie oleose, dormendo colà e facendosi servire pure colà i pasti, era proprio furibondo. Lo si vedeva in continua agitazione, a rischio di sfondare la rete e di quando in quando lo si udiva mandare al diavolo tutti i capodolii degli oceani e. qualchevolta il rampone di Harwey.
   Il 27 nulla ancora. Il mattino del 28, a trenta miglia a sud dal capo Rumjenzow, un gabbiere segnalò una nave che si dirigeva verso il sud correndo bordate.
   Il capitano Weimar ordinò subito al timoniere di dirigere il «Danebrog» a quella volta per interrogare l’equipaggio.
   Mezz’ora dopo si trovava a un solo miglio dalla nave segnalata. Era un bel «brick» di duecentocinquanta o trecento tonnellate, di forme eleganti e quasi carico. A poppa si alzava un fumo nerissimo segno evidente che l’equipaggio procedeva alla fusione di materie grasse.
   – Deve essere un baleniere – disse il tenente.
   – Weimar fece spiegare la bandiera danese e con una serie di segnali pregò il «brick» di mettersi in panna: il che subito fece. Il «Danebrog» in pochi minuti lo raggiunse mettendosi pure in panna a tre gomene di distanza.
   – In che cosa posso esservi utile? – chiese il capitano del «brick», imboccando il portavoce, mentre il suo equipaggio spiegava la bandiera stellata degli Stati Uniti d’America.
   – Venite dallo stretto? – chiese Weimar.
   – L’avete detto.
   – Avete incontrato un capodolio con un rampone al fianco?
   – Sì, capitano. L’ho scorto ieri sera dinanzi la baia di Norton.
   – Vivo?
   – Vivo sì, ma mi parve agli estremi.
   – Come va la pesca?
   – Ho carico completo. Se volete un buon consiglio uscite dallo stretto e costellate la Giorgia. Troverete balene in gran numero.
   – Grazie, capitano.
   – Buona fortuna, signore.
   Il «brick» spiegò le vele e riprese la corsa verso il sud, mentre il «Danebrog» si dirigeva verso il capo Rumjänzow che doveva apparire fra breve.
   La speranza di ritrovare ben presto il capodolio era rinata in tutti i cuori. Koninson per primo aveva abbandonato il suo domicilio per arrampicarsi sulla gran gabbia e parecchi altri marinai l’avevano seguito, anzi alcuni si erano spinti più in alto, fino alle crocette. Persino il flemmatico tenente si era arrampicato sul trinchetto e dalla coffa esplorava il mare con un forte cannocchiale.
   Alle 10 del mattino il «Danebrog» girava il capo Rumjänzow ed entrava nella baia di Chactoole, assai aperta e poco sicura, a nord-est della quale, fra il 64° e il 65° di latitudine nord e il 163° e il 164° di longitudine ovest, si apre la baia di Norton, scoperta dal celebre capitano Cook nel 1778.
   Le coste apparivano dirupate e altissime, frastagliate, minate, sventrate dall’eterna azione del mare e con piccolissimi «fiords» entro i quali si ingolfavano le onde con grande fragore. Qua e là si vedeva qualche abete, qualche betulla nana, qualche cespuglio e delle cascate d’acqua che balzavano di roccia in roccia con bellissimo effetto.
   Il «Danebrog» per qualche tratto navigò in prossimità delle coste, indi mise la prua verso la baia di Norton che raggiunse verso le 4 del pomeriggio dopo aver girato un capo dirupatissimo che cadeva quasi a piombo sul mare.
   Quasi subito si udì Koninson dall’alto della gran gabbia gridare:
   – Il capodolio a prua!
   Tutti gli occhi si volsero verso la direzione accennata. A cinque sole gomene dal «Danebrog», vicinissimo alla costa, galleggiava coi ventre in aria il cetaceo circondato da migliaia e migliaia di uccelli marini che formavano, colle loro discordi grida, un baccano indiavolato.


   IV. L’URAGANO

   Era proprio il cetaceo che Harwey aveva ramponato dinanzi all’arcipelago delle isole Aleutine e che dopo due, tre, quattro giorni di continua fuga era colà andato a spirare.
   Il mostro portava ancora nel fianco l’arma che l’aveva ucciso alla quale era attaccata la lenza colla «droga» portante le cifre del «Danebrog».
   Sul suo ventre e sulla enorme testa che era un po’ affondata si vedevano le procellarie, i gabbiani, le urie e le strolaghe cibarsi delle sue grasse carni. Ve n’erano delle migliaia ed altre ancora accorrevano da tutte le parti dell’orizzonte per prendere parte al lauto banchetto.
   Il «Danebrog», abilmente diretto da mastro Widdeak, venne a collocarsi a fianco del cetaceo, attorno al quale nuotavano già, ma senza arrischiarsi ad addentarlo, tanta è la paura che destano in tutti gli abitanti del mare siffatti giganti, numerosissime torme di smisurati pescicani.
   – È un bel mostro – disse Koninson gettando gli occhi su quell’enorme massa. – Scommetterei che misura diciannove metri
   – E forse di più disse il tenente. – Ci darà almeno novanta tonnellate d’olio.
   – Ci vorrebbe una bestiaccia così ogni settimana. Si diventerebbe ricchi in una sola stagione.
   – Al lavoro, giovanotti! – gridò il capitano. – Bisogna far presto se si vuole uscire dallo stretto di Behring prima della comparsa dei ghiacci.
   Mastro Widdeak fece calare in mare una baleniera e vi saltò dentro con sei uomini armati di palette taglienti, abbordando il cetaceo alla testa. Con parecchi vigorosi colpi aprirono il labbro inferiore, entrarono nella enorme bocca e intaccarono la lingua, enorme massa oleosa del peso di parecchie tonnellate e che, ben cucinata, è un cibo non disprezzabile.
   Mentre il mastro operava da quel lato, Koninson, seguito da parecchi marinai, tagliava un fitto strato di grasso in prossimità della testa, facendolo passare, senza però spezzarlo, a bordo.
   Quando la lingua fu ritirata in coperta, i marinai cominciarono a far girare lentamente l’enorme cetaceo, il quale presentò presto il dorso irto di strane protuberanze.
   Il tenente Hostrup e quattro uomini armati di scuri, con mille precauzioni, per non cadere in mare raggiunsero il cranio che tosto sfondarono per raccogliere quel prezioso olio che è conosciuto in commercio sotto il nome di «bianco di balena» e viene specialmente adoperato nella fabbricazione delle candele e dei saponi di lusso.
   Quest’olio, o meglio questo spermaceto, è bianco, brillante, perlaceo e si trova in un canale allungato che forma, riunendosi, le ossa del cranio con quelle della faccia. Nell’animale vivo è fluido, ma nell’animale morto lo si trova coagulato e talvolta il canale, ne contiene più di quattro tonnellate. Ordinariamente però non sono che tre, e tante appunto ne conteneva il capodolio abbordato dal «Danebrog».
   Raccolto lo spermaceto che si vende ad un prezzo piuttosto elevato, i marinai continuarono a far girare il cetaceo strappandogli la cotenna che appena a bordo veniva tagliata a pezzi e ammucchiata grossa a poppa, dove erano già state apparecchiate sul fornello delle caldaie della capacità di quattrocento cinquanta litri, per la fusione.
   Ben presto la coperta della nave baleniera offrì una scena selvaggia. Quelle nubi di fumo nere, puzzolenti, che s’alzavano dai fornelli alimentati dai frammenti di tessuto cellulare del cetaceo; quelle caldaie che bollivano spandendo all’intorno un odore ancora più nauseante; quelle masse grasse che venivano gettate da tutte le parti spandendo veri rivi d’olio; quel sangue che salendo dalla cotenna arrossava la tolda e le murate quei marinai scalzi imbrattati di sudiciume e armati di coltelli di ogni dimensione, quel carcame enorme che mostrava le carni rossastre e le costole gigantesche, e quelle migliaia e migliaia di uccelli che s’incrociavano in tutti i versi, mescendo le loro rauche grida ai comandi degli uomini, ai brontolii delle caldaie e ai tuffi dei mostruosi pescicani, formavano uno strano quadro.
   Le tenebre però, in breve, posero fine allo smembramento del carcame. Il capitano Weimar, che aveva lavorato anche lui come l’ultimo dei suoi marinai, fece distribuire, dopo la cena, una larga razione di «gin» e, fatta assicurare la nave con due solide àncore, affinchè non venisse gettata verso la costa che non era molto lontana, ordinò il riposo.
   All’indomani il lavoro fu ripreso per tempissimo e con maggiore alacrità. La cotenna fu interamente tirata a bordo, poi vennero strappati i denti che quantunque composti di un avorio non troppo bello hanno pure qualche valore, parte dei muscoli che danno una colla eccellente, i tendini, grande quantità di ossa dalle quali si ricava il nero animale e finalmente il canale ove nascondesi spesso l’«ambra grigia», materia preziosissima che tramanda un profumo delicatissimo molto ricercato dalle eleganti americane ed europee, tanto poco densa che galleggiava sull’acqua e che altro non è se non un escremento alterato, una parte d’alimento infine, incompiutamente digerito.
   Koninson ne trovò sei pezzi, nel canale del capodolio, dei peso di cinque o seicento grammi ciascuno e di forma irregolare.
   Alle 6 del pomeriggio più nulla vi era da trarre dalla carcassa.
   Il capitano, che aveva molta fretta di raggiungere lo stretto di Behring per arrivare alle coste della Giorgia prima della comparsa dei ghiacci fece spiegare le vele, e alle 7, dopo due lunghe bordate, il «Danebrog» lasciava la baia di Norton colla prua nord-nord-est, portando con sè oltre novanta tonnellate di materie grasse una parte delle quali erano state già fuse, ottenendo un olio giallastro, d’un sapore di pesce rancido, della densità di 0,927 e che non doveva gelare che a 0°.
   Fuori dalla baia il mare era un po’ agitato a causa di un forte vento di nord-ovest, freddo assai e che tendeva a crescere. Per di più, per il cielo correvano dei nuvoloni di una tinta biancastra, saturi di elettricità e che non presagivano nulla di buono.
   – Temo che si scateni un uragano – disse il capitano abbordando il tenente che passeggiava, in coperta colle mani in tasca e la pipa in bocca.
   – Danzeremo! – si accontentò di dire il flemmatico uomo.
   – Ma molto forte, signor Hostrup. Ho notato che il barometro si abbassa rapidamente e che lo «storm-glass» si decompone assai. Vorrei già essere lontano dai pericolosi paraggi dello stretto.
   – Bah! Il «Danebrog» è un eccellente veliero che se ne infischia degli uragani, capitano.
   – Non dico di no. Spero che se la caverà bene anche questa volta.
   – Verso le 10 di sera, la massa delle nubi diventò più densa e il mare cominciò ad alzarsi. Numerose procellarie correvano sopra le spumeggianti creste dei flutti, gettando rauche strida. Si sarebbe detto che quei funesti uccelli invocassero la tempesta che stava per scoppiare.
   Il capitano, temendo che l’uragano si scatenasse da un momento all’altro, rimase in coperta fino ad ora tardissima, ma vedendo che il vento, quantunque soffiasse irregolarmente, non mutava direzione si ritirò nella sua cabina dopo aver fatto chiudere i pappafichi e i contra e terzarolare le vele basse.
   La notte infatti passò abbastanza tranquillamente. Non vi furono raffiche violente nè cavalloni molto alti.
   Il 31 però la massa delle nubi divenne più densa e più nera, abbassandosi tanto da credere che volesse tuffare i suoi lembi nel mare. Il vento crebbe di violenza girando da sud a sud-est, fischiando in mille guise attraverso gli attrezzi e sollevando gigantesche ondate che andavano coprendosi di bianchissima spuma.
   Ben presto si udì in lontananza il tuono e alcuni lividi lampi illuminarono i neri vapori che allora correvano disordinatamente come cavalli sbrigliati.
   Il capitano fece chiudere buona parte delle vele e salire in coperta tutto l’equipaggio. Il lupo di mare prevedeva un uragano violentissimo e voleva essere pronto a sostenerne gli attacchi.
   Verso le 11 del mattino il mare diventò burrascosissimo e il vento ancora più impetuoso. Non erano onde, ma vere montagne d’acqua quelle che correvano urtandosi furiosamente. Non si udivano che i mille muggiti del vento, lo sbattere delle vele e dei cordami, il gemito degli alberi, le grida dei marinai e le strida delle procellarie.
   Il «Danebrog», guidato dall’abile mano di mastro Widdeak, si comportava valorosamente, fendendo le onde col suo acuto e solido sperone, ma dopo qualche ora si trovò in una situazione così scabrosa che fece illividire il viso a più di un marinaio e aggrottare la fronte persino al flemmatico tenente.
   Il vento aveva allora raggiunto la straordinaria velocità di 27 metri al minuto secondo, velocità che solo raggiunge nelle grandi tempeste, e alle quali ben poche navi resistono. Infatti il «Danebrog» si sentiva trascinare via con velocità incalcolabile, andando attraverso le onde che si rimescolavano orribilmente empiendo l’aria di mille muggiti, tuffando spesso il tribordo nell’acqua. Gran parte delle sue vele, in meno che non si dica, furono lacerate e strappate dai pennoni, compromettendo così molto seriamente la sua stabilità.
   Il povero legno, che non obbediva quasi più al timone, traballava disordinatamente, ora salendo i cavalloni, ora precipitando negli avvallamenti dove minacciava di venire per sempre inghiottito: gemeva, perdeva ora un pezzo di murata, ora un attrezzo della coperta. C’erano certi momenti che tanta era la massa dell’acqua che si slanciava sopra i suoi bordi, da non sapere se galleggiasse ancora o fosse per andare a picco.
   Il capitano Weimar, aggrappato alla ribolla del timone con a fianco mastro Widdeak, malgrado la gravità della situazione, conservava un ammirabile sangue freddo e comandava con voce tonante la manovra.
   Il tenente aggrappato ad una catena di prua faceva eseguire gli ordini con voce tranquilla, come se si trovasse in una solida casa, anzichè su una nave che da un momento all’altro poteva sfasciarsi.
   I marinai, scalzi, seminudi, senza berretti, inzuppati d’acqua, i volti lividi per il terrore, si tenevano stretti stretti alle murate o alle sartie, o ai bracci delle vele inferiori, cogli occhi fissi sui comandanti, pronti a eseguire le manovre. Di quando in quando qualcuno di loro, investito da un colpo di mare, veniva trascinato per la coperta o gettato contro gli alberi, riportando talvolta delle contusioni di qualche gravità. E uno fu persino sbattuto fuori dalla murata e si salvò solamente aggrappandosi prontamente ad una gru.
   Alle 9 pomeridiane, cioè dopo tredici ore di ostinatissima lotta, il «Danebrog» che aveva sempre camminato con una celerità superiore ai dodici, e qualche volta ai tredici nodi, si trovava a breve distanza dallo stretto di Behring. Già la costa americana, al chiarore di un lampo era stata scorta a sette od otto miglia sopravvento.
   Il capitano Weimar mandò due uomini sulla gran gabbia, affinchè fossero pronti a segnalare le isole Diomede che sorgono in mezzo allo stretto, e contro le quali poteva venire spinto il «Danebrog».
   Alle 10 una raffica furiosa si rovesciò sulla nave, la quale, presa di traverso, fu violentemente rovesciata su di un fianco. Un immenso grido di spavento echeggiò sulla coperta mescendosi a urli della tempesta. Tutti i marinai credettero che non si risollevasse mai più.
   Fortunatamente Koninson, che si trovava presso i bracci della vela di maestra con pochi colpi di scure tagliò le manovre. Ciò bastò perchè la nave riprendesse il suo equilibrio prima che le onde si precipitassero sulla tolda.
   Quasi subito successe una breve calma. Le nubi, violentemente squarciate da quel furioso colpo di vento, mostrarono per alcuni istanti il sole, che in quelle latitudini elevate, nella stagione estiva, si può dire che non tramonta mai.
   L’effetto prodotto da quella luce dorata sullo sconvolto mare fu stupendo, ma durò pochi istanti. Le nubi richiusero quello strappo, la semi-oscurità tornò a stendersi sui flutti e il vento ricominciò a ruggire con maggior forza, spingendo innanzi a sè la nave, alla quale non restavano più che la vela di trinchetto e la randa dell’albero di mezzana.
   Ad un tratto si udirono i gabbieri gridare:
   – Terra a prua!…
   Il capitano affidò il timone a mastro Widdeak e si slanciò, nonostante i violenti rollii, a prua dove l’aveva già preceduto il tenente.
   Ad una distanza di quattro miglia il mare si sollevava a prodigiosa altezza intorno al gruppo delle Diomede formato dall’isola Ratmanoff che è la più grande, dalla Krusenstern che è la mezzana e da Ferway che è un arido scoglio.
   – Bisogna tenersi al largo assai, capitano! – disse il tenente
   – Mi metterò io al timone! – rispose Weimar. – Fate preparare alcune vele di ricambio.
   – Temete che scappino quelle spiegate?
   – Se giunge una raffica forte quanto quella di prima non potranno resistere, ne son certo.
   Il capitano ritornò a poppa e prese la ribolla del timone mentre il tenente faceva portare in coperta alcune vele.
   Il «Danebrog» era giunto nello stretto, il quale è largo ben 83 chilometri fra il capo orientale dell’Asia e il capo di Galles dell’America e profondo assai.
   Qui il mare era orribilmente agitato. Le onde, spinte dal vento, si schiacciavano, per così dire, fra due coste, quantunque, come si disse, queste siano assai distanti l’una dall’altra; e si frangevano furiosamente contro le isole lanciando sprazzi di spuma a tale altezza che questi toccavano le nere frange delle nubi.
   A mezzanotte il «Danebrog» giungeva dinanzi all’isola Ratmanoff, sulla quale volteggiavano disordinatamente migliaia di uccelli marini.
   D’improvviso, quando i marinai si credevano già quasi fuori di pericolo, una raffica furiosa investì la nave che tuffò più di mezza prua nel seno degli spumanti flutti. Gli alberi si curvarono come fossero semplici stecchi, poi si udirono due scoppi violenti seguiti da urla di terrore. Le due vele strappate dai pennoni volarono via come due immensi uccelli. Il capitano Weimar, malgrado il suo straordinario coraggio, impallidì.
   – Una vela! Una vela o siamo perduti! – gridò.
   Infatti il «Danebrog», senza un brano di tela, veniva spinto dalle onde e dal vento contro l’isola Ratmanoff che mostrava i suoi scogli a meno di quattro gomene di distanza.
   Il tenente, Koninson, mastro Widdeak e una decina di marinai malgrado le disordinate scosse che li atterravano, tentarono di spiegare una trinchettina, ma le onde che si precipitavano in coperta e i soffi tremendi del vento, rendevano quell’operazione quasi impossibile.
   Tre volte la vela fu innalzata fino al pennone e tre volte il vento l’abbattè e con essa gli uomini.
   Allora un grande spavento si impadronì del l’equipaggio. Alcuni marinai perduta completamente la testa per il terrore, si misero a correre per la coperta sordi ai comandi e alle minacce dei capi. Altri, non meno spaventati, si gettarono sulle baleniere.
   Il «Danebrog», semi-rovesciato su un fianco, coperto d’acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla.
   Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta.
   Quando si risollevarono il «Danebrog» non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall’isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.


   V. L’ISOLA RATMANOFF

   Il capitano Weimar sentendo la nave ferma e comprendendo che forse una grave avaria le era toccata, gettò un vero ruggito.
   Con un vigoroso colpo di timone tentò dapprima di trarla da quegli scogli che potevano, da un istante all’altro, sventrargliela, ma non riuscendovi si precipitò verso prua dove si affollavano i marinai gettando grida di terrore. Hostrup, che anche in quel terribile frangente, che pur poteva diventare per tutti fatale, non aveva perduto un millesimo della sua tranquillità, vi era già.
   – Perduti? – gli chiese il capitano col denti stretti.
   – Forse no! – rispose con voce calma il tenente.
   Il capitano respinse alcuni marinai e salì sul bompresso. Il «Danebrog» posava la prua su di un banco di sabbia, riparato a destra e a sinistra da una doppia fila di scoglietti. La poppa però galleggiava e se da una parte era un bene, dall’altra era anche un male poichè le onde, sollevandola violentemente minacciavano di disarticolare il vascello.
   – Che ci sia una falla? – chiese il tenente,
   – Lo temo! – rispose Weimar – Mi pare di vedere un’apertura un po’ sotto la linea di galleggiamento. Ira di Dio! Anche questa disgrazia doveva toccarci! Non bastava dunque la speronata dell’americano? Povero il mio «Danebrog»!
   – Ma forse la cosa non è grave, capitano.
   – Ma chi turerà la falla? Qui siamo come in mezzo ad un deserto.
   – Abbiamo un abile carpentiere a bordo.
   – Scendiamo nella stiva, signor Hostrup.
   I due comandanti fecero aprire il boccaporto maestro e scesero nel ventre del vascello preceduti da Koninson e da mastro Widdeak che avevano accese due lanterne. Rimosse le botti che occupavano la stiva, si diressero verso prua dove si arrestarono, ascoltando con profonda attenzione.
   Udirono distintamente un sordo gorgoglio, dovuto senza dubbia all’acqua che entrava nella falla apertasi.
   – Sarà grande l’apertura? – si chiese con ansietà il capitano.
   – Non lo credo, – disse mastro Widdeak. – Il gorgoglio non è molto forte.
   – Dobbiamo levare le botti? – chiese Koninson.
   – Per ora è inutile, – disse il tenente. – Finchè la burrasca non sarà cessata, nulla potremo fare.
   – Non c’è pericolo di colare a picco?
   – No, – disse il capitano. – Il «Danebrog» è fortemente incagliato e la poppa è molto alta. Saliamo in coperta.
   Abbandonarono la stiva e tornarono sulla tolda ove i marinai, ancora pallidi, li attendevano con grande ansietà. Il capitano con poche parole li rassicurò.
   Pel momento nulla eravi da fare, poichè l’uragano continuava a infuriare in siffatta maniera da rendere impossibile la calata delle baleniere.
   Il capitano fece gettare un’àncora a poppa per assicurare maggiormente il vascello, e altre due ne fece gettare fra gli scoglietti, a babordo l’una e a tribordo l’altra. Ciò fatto attese, in preda ad una certa agitazione che non riusciva a vincere, che il mare si calmasse.
   La sua pazienza e quella dell’equipaggio furono messe a dura prova, poichè l’uragano infuriò tutto il giorno, scuotendo fortemente la nave che gemeva sinistramente sul suo letto di sabbia.
   Verso però le 11 pomeridiane quei formidabili soffi a poco a poco scemarono di violenza e attraverso gli squarciati vapori tornò a mostrarsi il sole che allora radeva l’orizzonte occidentale.
   Alla mezzanotte una calma assoluta regnava negli strati superiori, e l’aria, poco prima così agitata e fredda, era diventata così tiepida da far quasi credere di essere nel Messico anzichè nello stretto di Behring. Il mare però mantenevasi ancora agitatissimo e continuava a infrangersi con grande violenza contro le isole, inoltrandosi nei «fiords» con muggiti prolungati.
   L’indomani, 2 settembre, a bassa marea il capitano, il tenente, Widdeak e il carpentiere scesero in una baleniera e approdarono sul banco dove la prua del vascello era rimasta quasi interamente allo scoperto.
   L’avaria causata dal violentissimo urto era gravissima ma non irreparabile. A pochi piedi dall’asta di prua, subito sotto la linea di galleggiamento, la punta aguzza di uno scoglietto aveva aperto un buco così grande che vi poteva passare comodamente un barile. La chiglia fortunatamente non aveva riportato alcun guasto, avendo incontrato un banco di sabbia, in cui vi si era quasi interamente seppellita,
   – Che ne dici, carpentiere?– chiese il capitano con inquietudine.
   – Il colpo è stato fierissimo, – rispose l’interrogato, – e la falla è ragguardevole. Però....
   – Però?… – disse il capitano, nei cui sguardi brillò un lampo di gioia.
   – La si turerà.
   – Quanto tempo chiedi? Bisogna che sia breve affinchè possiamo approfittare della gran marea del 12 settembre.
   – Per quel giorno il Danebrog sarà pronto a prendere il mare.
   – E quando avremo lasciato il banco, dove andremo? – chiese il tenente che caricava flemmaticamente e con profonda attenzione la sua pipa.
   – Vi spiacerebbe seguirmi verso il nord? – disse il capitano, guardandolo fisso fisso.
   – Ne sarei lietissimo, signore.
   Il capitano gli prese la destra e gliela strinse fortemente.
   – Siete un brav’uomo, signor Hostrup.
   – Mi sta sul cuore la scommessa, signor Weimar, – rispose Hostrup. – E da parte mia rischierò senza esitare la mia vita, pur di tenere sempre alta la fama dei balenieri danesi.
   – Grazie, tenente. Ed ora, carpentiere, al lavoro.
   Dovendosi approfittare della sola bassa marea, il carpentiere si mise alacremente all’opera, aiutato da una squadra di marinai che su un’altra baleniera gli avevano recato gli attrezzi necessari, una considerevole quantità di legname e parecchie grosse lastre di rame, mentre alcuni altri sgombravano la prua delle botti che l’occupavano e mettevano in opera le pompe per estrarre l’acqua entrata dalla falla.
   Il tenente Hostrup, che di simili lavori si intendeva poco, tornò a bordo a prendere il suo fucile.
   – Faremo una passeggiata sull’isola, – disse a Koninson. – Vedo dei grossi uccelli e forse nei «fiords» si nasconde qualche foca o qualche tricheco. Prendi un fucile e seguimi....
   – Maneggio meglio il rampone che le armi da fuoco, tenente, – rispose il fiociniere. – Voi penserete ai volatili e io alle foche.
   – Come vuoi, amico.
   S’imbarcarono sul piccolo canotto e presero il largo girando attorno agli scoglietti sui quali venivano a rompersi le ultime onde sollevate dall’uragano.
   Arrancando con lena, in brevi istanti raggiunsero l’isola, ma da quella parte la costa non offriva approdi, essendo tagliata quasi a picco e molto alta. Attorno vi volteggiavano numerosi uccelli marini, i quali fra i crepacci avevano piantato i loro nidi.
   Proseguendo, i due cacciatori scoprirono ben presto un piccolo «fiord», il quale terminava in una sponda bassa coperta in parte d’una sabbia finissima e in parte di ciottoloni neri e arrotondati dal continuo lavorio delle onde.
   Legarono il piccolo canotto ad una rupe e balzarono a terra portando le loro armi.
   L’isola offriva un brutto aspetto. Qua e là si rizzavano delle alture aridissime, più oltre delle grandi rocce nere nei cui crepacci scorgevansi alcuni magri licheni, qualche rosa canina selvatica, o qualche pianticella di ribes o di uva spina.
   – Che desolazione! – esclamò Koninson. – Troveremo almeno delle foche?
   – Lo spero, fiociniere, – rispose il tenente. – Una volta qui erano talmente numerose, che alcuni balenieri vi facevano i loro carichi d’olio; oggi però, in causa delle cacce accanite, non se ne incontrano che pochissime.
   – Dovevano, distruggerne un numero enorme quei balenieri per fare un carico intero.
   – Delle migliaia, Koninson.
   – Allora non tarderanno a sparire dappertutto.
   – Ciò avverrà sicuramente e forse fra non molto. Già le sponde dell’America settentrionale cominciano a essere spopolate.
   – Che disgrazia! E dire che sono animali così inoffensivi! Se la prendessero almeno cogli orsi bianchi, quei balenieri paurosi.
   Dato uno sguardo alle rive, i due cacciatori si addentrarono nell’isola, ove gli uccelli si mostravano talmente numerosi da oscurare talvolta la luce del sole.
   Ora passavano immense bande di urie, uccelli dalle penne nere e bianche, il becco lungo e dritto e le gambe collocate così indietro da costringere quei volatili a sedersi anzichè coricarsi; ora stormi di strolaghe, bellissimi uccelli col petto e il dorso neri, le ali macchiate e le parti inferiori di un bianco niveo, e ora lunghe file di oche bernine, grosse come un’oca comune e che facevano un baccano indiavolato.
   – Per bacco! – esclamò il tenente. – Se si volesse fare un carico di uccelli la fatica non sarebbe molta.
   – Accontentiamoci di empire la dispensa del cuoco, – disse Koninson. – All’opera, signore.
   II tenente si arrampicò su di una rupe, si accomodò sulla cima e di là cominciò a sparare contro le bande di volatili che gli passavano sopra, a destra, a sinistra e dinanzi senza mostrarsi spaventate.
   In breve parecchi gabbiani, oche, urie e strolaghe si trovarono a terra colpite dal piombo del valente cacciatore. Koninson ammazzava gli uccelli feriti a colpi di rampone.
   Quelle continue detonazioni finirono però collo spaventare i volatili, i quali si allontanarono dalla rupe volando verso le coste dell’isola.
   – Siete un tiratore da far paura, – disse Koninson al tenente, che raccoglieva le vittime. – C’è qui tanta carne da nutrire per un’intera settimana l’equipaggio del «Danebrog».
   – E non ho ancora finito, fiociniere. Ho visto laggiù due grossi uccelli e conto di abbatterli.
   Ammucchiarono le vittime sotto la sporgenza di una rupe e si rimisero in cammino riaccostandosi al mare, e precisamente verso un piccolo «fiord», sopra il quale volteggiavano due grandissimi uccelli dalle penne bianche e nere.
   – Cosa sono? – chiese Koninson. – Aquile forse?
   – Aquile qui? A me sembrano due albatros.
   – Ma gli albatros sono uccelli dei mari australi, signore.
   – Non ti dico, di no, ma non pochi di quei voraci giganti vanno a piantare i loro nidi, sulle isole dei mari della Cina e del Giappone e in giugno si spingono, sin qui.
   – La loro carne è eccellente?
   – Se devo dirti la verità, è coriacea; però tenuta qualche tempo nel sale e condita con una salsa piccante, non è sgradevole.
   I due cacciatori giunsero ben presto al «fiord», ma i due albatros, un po’ magri si ma veramente giganteschi, le cui ali spiegate misuravano non meno di cinque metri, si allontanarono e così rapidamente, che in pochi istanti, furono fuori di vista.
   – Vigliacchi! esclamò il fiociniere.
   – E lo sono davvero, malgrado la loro mole e, il loro formidabile rostro – disse il tenente.
   – Ma… oh!…
   – Che hai?
   – Guardate alla vostra sinistra, presso il mare! – disse Koninson a bassa voce.
   Il tenente guardò nella direzione indicata e sopra una roccia che cadeva a picco sul mare, ma poco alta, scorse una massa rossiccia, di dimensioni ragguardevoli.
   – È una foca! – disse Koninson.
   – No, deve essere un tricheco – disse il tenente, che caricò subito il fucile a palla.
   – Bisogna ammazzarlo.
   – Lo ammazzeremo, fiociniere. Cerchiamo però di non farci vedere, altrimenti si lascerà cadere in mare.
   Si gettarono in mezzo alle rocce e tenendosi sempre nascosti giunsero a soli duecento passi dalla preda che si scaldava ai raggi del sole mezza coricata su un fianco.
   Il tenente non si era ingannato. Era proprio un tricheco, che taluni chiamano anche morsa, lungo quasi quattro metri e con una circonferenza di tre, coperto di un pelo corto, scarso e rossiccio. Si vedevano distintamente i suoi lunghi denti di avorio che scendono verticalmente dalla mascella superiore.
   Tali animali, che un tempo erano numerosissimi su tutte le coste settentrionali dell’Asia e dell’America, sono inoffensivi a terra, ove si muovono con molto stento, ma aggrediti in mare, ove nuotano con grande sveltezza, si difendono disperatamente e più di una volta i loro solidi denti spezzarono le scialuppe dei cacciatori.
   Il tenente mandò Koninson dietro una rupe che era a breve distanza da quella occupata dal tricheco, poi puntò lentamente il fucile, mirò con somma attenzione e sparò.
   Il tricheco, colpito alla testa, fece un brusco salto mandando una specie di ruggito e si mise a dibattersi, cercando tuttavia di guadagnare l’orlo della roccia per precipitarsi in mare. Ma Koninson era vicino; in dieci salti lo raggiunse e gli vibrò una tale ramponata da finirlo quasi sul colpo.
   – Bella fucilata – esclamò il fiociniere volgendosi al tenente che si avvicinava colla solita calma. – Questi sì che sono animali che valgono una palla!
   – Lo credo, Koninson. È tanto grasso questo tricheco che ci fornirà più di due barili d’olio.
   – E olio migliore di quello della balena, signor Hostrup.
   – Che ce ne siano degli altri?
   – Ne dubito, Koninson. I balenieri hanno distrutto anche i trichechi.
   – E ve n’eran molti in quest’isola?
   – Delle migliaia, fiociniere. Mi fu narrato da un capitano olandese, quindici anni, or sono, che un baleniere norvegese in quattro sole ore ne ammazzò più di cinquecento.
   – Che strage!
   – E so pure, ma non mi ricordo più ora in quale località, che l’equipaggio di un bastimento inglese nel 1705 ne uccise ben ottocento nello spazio di sei ore e che tre anni più tardi un altro equipaggio ne uccise novecento in sette ore.
   – In una giornata, in quei tempi si caricava un bastimento di olio.
   – Ed erano carichi quelli che valevano molto di più dei nostri, poichè anche le pelli dei trichechi hanno valore e i denti, che danno un avorio più compatto e più bianco di quello degli elefanti, si pagavano molto cari.
   – E come faremo a trasportare a bordo questo bestione?
   – Lasciamolo qui. Manderemo i marinai a raccoglierlo. Continuiamo l’escursione Koninson.
   – I due cacciatori si misero a costeggiare l’isola facendo un’ampia raccolta di uova di uccelli marini, per lo più depositati sulle sabbie o nei crepacci delle rocce e sparando di quando in quando sui gabbiani.
   Alle 6, carichi come muli, s’imbarcavano nel piccolo canotto e tornavano a bordo dove il carpentiere, il capitano, mastro Widdeak e i marinai lavoravano febbrilmente attorno alla falla.


   VI. IL DISINCAGLIAMENTO

   La mattina del 12 settembre, giorno della grande marea, il «Danebrog» era pronto a riprendere il mare. La falla era stata accuratamente chiusa dal carpentiere, e tanto bene da non lasciare penetrare la più piccola goccia d’acqua e da poter sopportare gli urti dei ghiacci. Non restava da farsi che il disincagliamento, operazione difficile ma sul cui esito nessun uomo dell’equipaggio dubitava.
   Mancando quattro sole ore alla massima altezza del flusso, i preparativi furono alacremente spinti innanzi. Per il mezzodì tutto doveva essere pronto e ogni uomo al suo posto, onde non correre il pericolo di far riuscire vani gli sforzi e dover attendere parecchi altri giorni.
   Il capitano innanzi tutto fece trasportare tutto il carico della stiva a poppa per rendere più leggera la prua e quindi più facile il disincagliamento. Dopo di che fece imbarcare due delle maggiori ancore che furono gettate a sessanta braccia dalla poppa, su di un fondo resistente, e fermare le gomene ai due molinelli di bordo, mentre il tenente faceva preparare le vele, per allontanarsi subito, disincagliata la nave, dal pericoloso bacino che gli scogli chiudevano quasi interamente.
   Alle 10 tutto era pronto a bordo del «Danebrog» e tutti gli uomini ai loro posti.
   La marea cresceva con qualche rapidità, coprendo le nere degli scoglietti e producendo sopra questi un forte gorgoglio. Ben presto quasi tutte le rocce scomparvero e a prua della nave si udì un leggero fremito seguito tosto da alcuni scricchiolii.
   – Pronti! – gridò il capitano.
   I marinai si curvarono sulle aspe dei molinelli e attesero con trepidazione. Più di un viso era diventato pallido per l’emozione.
   I fremiti e gli scricchiolii continuavano, anzi diventavano più forti man mano che il flusso montava.
   Alle 12,25 il capitano, che aveva in mano un cronometro, gridò con voce tonante:
   – Forza, ragazzi! Forza!
   I marinai diedero un colpo violento alle aspe che si curvarono. Le due gomene di poppa si tesero senza che le ancore si movessero, ma la nave, quantunque continuasse a scricchiolare, non si mosse. Il capitano impallidì e si sentì bagnare la fronte di un freddo sudore.
   – Forza, forza! – ripetè.
   Il tenente si precipitò in aiuto dei marinai che facevano sforzi disperati. Passarono alcuni secondi che parvero lunghi come tanti minuti poi il «Danebrog» scivolò bruscamente sulla sabbia retrocedendo con notevole velocità. Il capitano, che era subito balzato a prua, lasciò andare a picco un ancorotto, mentre il tenente correva alla ribolla del timone.
   Il «Danebrog» percorse cinquanta braccia, poi si arrestò di colpo a meno di una gomena dagli scogli.
   Un urrah fragoroso irruppe da tutti i petti. La nave baleniera era ormai salva.
   Il tenente si fece incontro al capitano che era diventato raggiante di gioia e gli strinse vigorosamente la destra.
   – Dio ci protegge – gli disse.
   – Bisogna crederlo, signor Hostrup, – rispose Weimar. – Ho tremato assai per il mio «Danebrog», che amo come se fosse un pezzo della mia carne. Se l’avessi perduto non mi sarei più consolato.
   – Ed ora andiamo?….
   – Sulle coste della Giorgia, tenente. Faremo una rapida campagna, poi torneremo a sud.
   – Con un carico completo, speriamo.
   – Sì, tenente. Il cuore mi dice che vinceremo la scommessa.
   – Dio lo voglia, capitano.
   Non essendo prudente fermarsi fra quegli scogli, Weimar fece calare in mare le baleniere e rimorchiare il «Danebrog» al largo.
   Alle 2 del pomeriggio, dopo aver visitata la riparazione che fu trovata perfettamente asciutta, i marinai spiegavano le vele e la nave si rimetteva in cammino dirigendosi verso il capo di Galles, che forma l’estrema punta, verso occidente, della costa americana.
   Il mare era quasi tranquillo, di un verde superbo e affatto deserto. Solamente delle procellarie e dei gabbiani volteggiavano sopra le larghe ondate, mandando di quando in quando delle rauche strida.
   Un vento fresco, ma che soffiava irregolarmente, ora da sud ed ora da sud-sud-est, gonfiava le vele della nave, la quale scivolava con celerità discreta lasciandosi a poppa un solco spumeggiante.
   – Signor Hostrup, – disse Koninson avvicinandosi al flemmatico comandante che guardava attentamente le onde, appoggiato alla murata di tribordo – impiegheremo molto a raggiungere la costa americana?
   – Prima di mezzanotte gireremo il capo di Galles, fiociniere.
   – Ditemi, tenente, è vero che questo stretto ha una profondità spaventevole?
   – Sì e tanto che se una fregata affondasse, i suoi alberetti rimarrebbero fuori dall’acqua. Se vuoi saperlo, la sua spaventevole profondità non supera i diciannove metri.
   – Soli?
   – Soli, Koninson, nè uno più nè uno di meno.
   – E sono molti anni che fu scoperto questo stretto?
   – Non troppi, Koninson. Prima del 1741 lo si ignorava, anzi molti credevano che l’America fosse unita all’Asia.
   – E chi lo scoperse?
   – Vito Behring
   – Un russo?
   – Per i russi sì, ma per gli altri no, poichè Bhering è nato in Danimarca come ci sono nato io e come ci sei nato tu.
   – Ah! Un nostro compatriota! Deve essere stato un grande marinaio.
   – Se non lo fosse stato, non si sarebbe spinto fin qui, a quel tempi in cui si ignorava dove erano le coste, le isole, gli scogli, i banchi e quali le correnti.
   – Aveva intrapreso la spedizione per suo conto?
   – No, per incarico dell’imperatrice delle Russie, Caterina. E ciò accadeva nel 1728, ma Behring volle prima esplorare le coste siberiane e accertarsi se il Giappone era unito o staccato dalla penisola di Kamtsciatka. Dapprima navigò verso sud-est, ma non trovando alcuna terra mise la prua verso nord-est e dopo 44 giorni, a 58° 50’ di latitudine, scopriva le montagne della costa americana.
   – E vi sbarcò?
   – No, poichè allora scoppiò una tempesta così orribile che lo costrinse a ritornare, e quale ritorno! Il 3 novembre la spedizione naufragava su di un’isola lontana 160 chilometri dalla penisola di Kamtsciatka e colà pativa tali sofferenze che molti marinai perirono e fra questi anche Behring.
   E qui viene un punto molto oscuro.
   Si narrò da taluni che quando lo sfortunato navigatore fu gettato nella fossa onde seppellirlo, respirava ancora anzi che respingeva colle mani la sabbia che gli veniva gettata sopra.
   – Che sia stato commesso un delitto?
   – Chi può dirlo?
   – Povero Behring! E cosa successe dei suoi compagni?
   – Rimasero colà tutto l’inverno, poi fabbricarono una navicella coi rottami della nave naufragata e ripresero coraggiosamente il mare; dopo altri patimenti riuscirono a raggiungere le coste della penisola di Kamtsciatka.
   In quell’istante si udì un marinaio, che era salito sulla gran gabbia segnalare la costa americana, che una nebbiola aveva fino allora tenuta celata. Era il capo di Galles, punta scoscesa, aridissima, dietro la quale, ad una certa distanza però, si elevano delle montagne che per la maggior parte dell’anno si vedono coperte di neve.
   Il «Danebrog», che correva assai, si avvicinò alla costa, poi virò di bordo dirigendosi verso il golfo di Krotzebue che si apre fra il capo Krusenstern a nord e il capo Espemberg a sud e che rinchiude ad est la baia di Escholtz, davanti la quale si trova l’isola Chamisso, a sud quella di Spasariet e ad ovest quella di Buona Speranza.
   A due chilometri dal capo di Galles la costa americana, che fino allora si era mostrata dirupatissima, cominciò ad abbassarsi e apparvero immense paludi sulle quali si vedevano volteggiare migliaia di oche, di gabbiani, di gazze marine, di strolaghe e di urie. Le loro grida, portate dal vento, giungevano fino a bordo del «Danebrog».
   Alcuni di quegli uccelli vennero fin presso la nave, e il tenente si divertì a sparare alcune fucilate.
   Durante la notte del 12-13 – notte per modo di dire, poichè il sole splendeva sempre – il vento crebbe considerevolmente, accelerando la corsa del «Danebrog», e la temperatura, fino allora dolcissima si abbassò improvvisamente a 0°. L’indomani il legno girava il capo Espemberg e passava dinanzi al golfo di Kotzebue che s’insinua entro terra per ben venti leghe su una larghezza di ventitrè. Le sue coste erano alte, spalleggiate da gruppi di montagne e apparivano affatto deserte. Nessun canotto solcava le acque tranquille del golfo, dove in certe epoche si recano a pescare gli indiani Kitgoni che abitano le sponde settentrionali, e gli indiani Kiumisi che abitano le meridionali.
   Di balene nessuna traccia. Invece furono segnalati alcuni delfini gladiatori, nemici accaniti delle prime, dotati di una forza prodigiosa e di una voracità straordinaria. Qualcuno era lungo più di otto metri.
   Il 14, presso il capo Krusenstern, Koninson che guardava sempre attentamente il mare sperando di trovare quelle materie oleose che si lasciano addietro le balene, segnalò un banco di «boete», il quale aveva fatto cangiare tinta all’acqua, che appariva bruna anzichè verdastra. Questi banchi, che le balene cercano avidamente, sono formati da piccoli crostacei in forma di gamberi ma il cui diametro non supera i due millimetri e si producono in primavera e in estate. Talvolta hanno una lunghezza di quindici e persino venti leghe, una larghezza di una o due e uno spessore di quattro o cinque metri.
   – Una volta, quando s’incontravano questi banchi, si trovava sempre una balena o anche due – disse malinconicamente Koninson, volgendosi verso il tenente che gli stava presso.
   – Mio caro fiociniere, oggi le balene sono assai scemate rispose Hostrup. – Non sono molti secoli che si vedevano a frotte nel mare di Biscaglia, ed ora se si vuol trovarne una bisogna risalire in questi mari.
   – Sono forse diminuite a causa di qualche malattia?
   – No, a causa della caccia accanita dei balenieri. Ogni anno se ne distruggono un numero grandissimo, anzi non si esita ad affermare che nessuna balena può raggiungere il suo completo sviluppo, perchè prima di questo cade sotto il rampone dei fiocinieri.
   – E siamo solamente noi a distruggerle?
   – Purtroppo no. Le balene hanno altri nemici e forse più accaniti di noi.
   – E quali mai? Chi osa sfidare simili giganti che hanno una coda così possente?
   – Il più feroce è un crostaceo detto «pidocchio di balena», il quale aderisce talmente alla pelle dei cetacei che per staccarlo bisogna farlo a brani.
   – Ma come può, un crostaceo, uccidere una balena?
   – Nel modo più facile, Koninson. Questo pidocchio le si aggrappa nei punti più delicati, o sulle labbra, o sugli organi generativi e comincia a rodere cacciandosi entro le carni, causandole dolori sì atroci che dopo un certo tempo la disgraziata è costretta a morire.
   – Che mostro!
   – Ma ci sono altri nemici e non meno feroci. I capodolii, come ben sai, assalgono le balene tutte le volte che le incontrano e le mordono, così orribilmente da ucciderle.
   – Ho assistito una volta a una simile lotta.
   – Ve ne sono degli altri: i pescispada e i narvali, che si divertono a cacciare il loro acuto corno nel ventre dello sfortunato cetaceo; e i delfini, specie quelli detti gladiatori, che gli si cacciano, in bocca e ne divorano la lingua.
   – Che canaglie! E di tutti questi nemici quale è il più terribile?
   – L’uomo, il quale ogni anno ne distrugge centinaia e centinaia.
   – Allora verrà un giorno che non se ne troverà più una.
   – Sì, se le balene non si affrettano a rifugiarsi al di là dei ghiacci eterni, sotto il polo.
   – E nell’oceano australe sono pure così accanitamente cacciate dai balenieri?
   – Tanto come su questi mari.
   – E le balene di quell’oceano sono eguali a quelle di questo?
   – No, Koninson; ve ne sono tre specie e tutte differenti dalla balena franca che noi cacciamo. Vi si trova il «rightwhale», un cetaceo molto grande e che è privo della pinna natatoia; l’«hump-back» con due pinne biancastre e che è grosso come una balenottera, infine il «finback», d’una tinta bronzina, di una irrequietezza straordinaria e assai rumoroso.
   – E tutti danno olio?
   – Tutti, Koninson.,
   – Ah! Vorrei provare il mio rampone anche contro quei giganti.
   – Lo proverai fiociniere. Se usciamo salvi da questa spedizione, l’anno venturo andremo a pescare nel mari del sud. Il capitano me l’ha promesso.
   – Quel giorno che metteremo la prua a sud sarà il più bello della mia vita, signor Hostrup.
   – Lo credo, fiociniere.


   VII. LA BALENA

   La mattina del 17 settembre, all’altezza del capo di Barrow, che è il più avanzato verso il nord della Giorgia occidentale, l’equipaggio del «Danebrog» scopriva le tracce del passaggio delle balena.
   Erano larghe macchie di sostanze oleose che spiccavano vivamente sull’acqua verdastra del mare, e così copiose da far credere che colà fosse passato un numerosissimo branco di cetacei.
   Il capitano Weimar, che già aveva cominciato a disperare, mise subito delle vedette sugli alberi e fece preparare le baleniere affinchè tutto fosse pronto al momento opportuno.
   Koninson tornò a piantar domicilio nella rete del bompresso per non perdere di vista quelle macchie oleose che si dirigevano verso, l’est, seguendo le coste, della Giorgia. Ben presto fu segnalato un immenso banco di «boete», il cibo prediletto delle balene, ma qua e là rotto. Senza dubbio i cetacei avevano colà pescato – come diceva Koninson – facendo dei gran vuoti colle loro enormi bocche. Anche qui le sostanze grasse galleggiavano in gran nunero, spiccando ancor meglio sulla tinta brunastra dei banco.
   Alle sette del pomeriggio, alla distanza di quattordici miglia dalla punta Tangente, si udì un gabbiere gridare dall’alto della crocetta di maestra:
   – Una balena a babordo!
   Il capitano Weimar e tutti i marinai, che da dodici ore erano in preda ad una viva agitazione, si precipitarono verso la murata di babordo aguzzando gli sguardi verso il punto indicato.
   A due miglia dal «Danebrog», si scorgeva una specie di cilindro di dimensioni gigantesche e risplendente come se fosse di acciaio. Era perfettamente immobile, però ad una estremità si vedevano apparire, di quando in quando, due piccole colonne di vapore che si alzavano in forma di V.
   – Sì, sì è una balena! – gridò il capitano.
   – E di dimensioni non comuni – aggiunse il tenente che aveva puntato lentamente un cannocchiale. – La briccona pranza tranquillamente in mezzo di un banco di «boete».
   – Ebbene, che mangi anche il mio rampone – gridò Koninson che aveva abbandonato precipitosamente la rete. – Mille milioni di fulmini! Era tempo che se ne incontrasse una! Olà! Ragazzi, sangue freddo e audacia, e io rispondo della vittoria!
   – Il capitano diede ordine al timoniere di dirigere il «Danebrog» verso il gigante, mentre Koninson e i marinai calavano a fior d’acqua le due più solide e più svelte baleniere, mettendovi dentro tutti gli attrezzi necessari: remi, ramponi, lancie, lenze e le «droghe».
   – A un chilometro di distanza il «Danebrog» si mise in panna. Avvicinarsi troppo ad una balena che si caccia non è prudente, perchè essa quando è ferita perde completamente la testa e si getta contro qualunque cosa. Il capitano Weimar ben si ricordava del brutto caso toccato alla nave «Essex» nel 1820, quando, investita da una balena resa pazza dal dolore cagionatole da una ferita, era andata a picco.
   Subito il tenente Hostrup, Koninson e quattro marinai presero posto nella maggiore baleniera e mastro Widdeak, Harwey e altri quattro remiganti nell’altra.
   – Badate che non ci sfugga – disse il capitano che era rimasto a bordo.
   – Vi, giuro, signore, che non si ripeterà il caso del capodolio – disse Koninson. – Mi sento indosso un coraggio da non temere venti balene.
   – Al largo, dunque!
   Le due baleniere si staccarono dal «Danebrog» e si diressero, rapidamente, ma senza far rumore, verso il cetaceo. Quella del tenente precedeva di una gomena quella di mastro Widdeak.
   Ben presto i cacciatori giunsero a sole trecento braccia dalla preda, la quale non aveva ancor dato il più piccolo segno di inquietudine.
   Era una superba balena franca, lunga più di venti metri, del peso di ottanta o novanta tonnellate, con una testa voluminosissima, convessa superiormente e fornita di una bocca enorme, lunga più di tre metri e alta più di quattro. La pelle del gigante, nera, liscia, untuosa, sotto ai raggi del sole brillava così vivamente da offendere gli occhi di chi la guardava.
   – Cosa fa? – chiese sottovoce il tenente a Koninson che la fissava con occhi fiammeggianti.
   – Pascola in mezzo al banco di «boete». – rispose il fiociniere.
   – Se si potesse sorprenderla..
   – Lo dubito, tenente. Ecco che comincia a dar segni d’inquietudine.
   La balena infatti, che fino allora aveva conservato una immobilità quasi perfetta, aveva alzato la sua potente coda terminante in una pinna orizzontale, triangolare e larga sei o sette metri. Con un colpo vigoroso lanciò a destra ed a sinistra due altissime onde, poi agitò le pinne pettorali che sono lunghe ben tre metri, causando nuove onde e si mise a filare fra il banco di «boete», cacciando fuori dagli sfiatatoi due colonne di vapore, il quale ricadeva sotto forma di goccioline che formavano sull’acqua macchie oleose.
   – Attento, Koninson! – disse il tenente, facendo segno ai remiganti di raddoppiare la battuta.
   – Spingete innanzi la baleniera senza tema, signore, – rispose il fiociniere che aveva afferrato il suo terribile rampone.
   – Sono pronto!
   – Ad un tratto la balena si tuffò lasciando dietro di sè un piccolo vortice. Il tenente guardò attentamente da qual parte aveva piegata la coda per indovinarne la direzione presa, poi comandò ai remiganti di avanzare lentamente e senza far rumore.
   Passarono alcuni minuti che parvero lunghissimi, poi si udì un rumore simile ad un tuono lontanissimo e sulla tranquilla superficie del mare si scorse un largo tremolio.
   – Attenti! – disse il tenente. – La balena sta per mostrarsi. Sei pronto, Koninson?
   – Sempre! – rispose il fiociniere.
   Il rumore si faceva sempre più distinto, poi a quattrocento passi dalla baleniera, verso prua, apparve un punto nero, l’estremità del muso del cetaceo, indi gli sfiatatoi, il dorso e finalmente la formidabile coda, la quale battè violentemente il mare.
   – Il gigante è inquieto – disse il tenente. – Ci ha sentiti. Allungate la battuta, ragazzi.
   Tornata a galla, la balena aveva lanciato in aria, a parecchi metri d’altezza due colonne di bianco vapore, poi si era un po’ immersa.
   Per trenta o quaranta secondi scivolò mostrando solamente il dorso, e a intervalli la coda; indi rialzò la testa e gettò due altre colonne di vapore. Tornò a immergere la testa e per parecchi minuti ancora ripetè quella manovra gettando, di quando in quando, colonne di vapore che diventava però sempre meno denso, e agitando la coda innanzi e indietro.
   – La briccona scandaglia – mormorò Hostrup,.
   Le due baleniere avanzavano lentamente e con prudenza. I due fiocinieri in piedi, colla coscia cacciata nella scanalatura di prua, il rampone in aria un po’ pallidi, lanciavano sguardi di fuoco sulla preda.
   Il cetaceo non fuggiva, ma dava sempre segni di inquietudine. Il suo respiro, che si ode a una non breve distanza, era più frequente, la sua coda si alzava e si abbassava con molta violenza; e spesso sollevava la testa fuori dell’acqua come se cercasse di vedere i nemici che la seguivano.
   – Arranca a tutta lena! – gridò ad un tratto il tenente.
   La baleniera partì rapida come una saetta. In brevi istanti si trovò a sole venti braccia dal cetaceo.
   – Koninson! – gridò il tenente.
   – Pronto, signore! rispose il fiociniere.
   – Getta!…
   Koninson alzò il rampone, lo fece oscillare innanzi e indietro e lo lanciò con tutta la forza del suo braccio, piantandolo profondamente nel fianco destro della balena in un punto ricco di tendini e di carne.
   Parve che il cetaceo subito non si accorgesse di essere stato ferito, ma dopo alcuni secondi agitò furiosamente la coda lanciando contemporaneamente una nota così acuta da udirsi a parecchi chilometri di distanza.
   – Attenti ragazzi! – gridò il tenente, mentre Koninson afferrava una lancia munita di una specie di palla taglientissima.
   La baleniera si spinse innanzi a tutta velocità, ma il cetaceo si rovesciò bruscamente sul fianco ferito sforzandosi di strapparsi l’arma, che doveva farlo soffrire atrocemente; indi si tuffò con grande fracasso, dopo aver lanciato un’altra e più formidabile nota.
   – Maledetto! – gridò Koninson – Se aspettava due secondi ancora, gli tagliavo i tendini e l’arteria della coda.
   La lenza filava rapidissimamente, anzi tanto che si dovette bagnare il bordo della baleniera affinchè per il continuo strofinio non si accendesse. Ben presto fu quasi tutta finita; Koninson ne aggiunse un’altra.
   – Per mille, boccaporti! – gridò il fiociniere. – Vuol scendere all’inferno?
   – Pazienza, – Koninson – disse il tenente. Ricomparirà, te lo dico io.
   Mezzo minuto dopo la lenza cessò di filare.
   – Ehi, mastro Widdeak, sta bene attento! – gridò il tenente. – Il cetaceo apparirà vicino alla tua baleniera.
   – Lo riceveremo, come si deve! – rispose il mastro.
   – Eccolo! Eccolo! – gridarono ad un tratto alcuni marinai.
   Sulla tranquilla superficie del mare, a una sola gomena dalla prua della baleniera di Widdeak, era stato scorto il tremolio.
   Harwey, che era ansioso di lanciare la sua arma si alzò di colpo.
   Poco dopo il gigante apparve. Aveva il rampone ancora piantato nel fianco e manifestava il suo dolore con sordi brontolii e con un continuo eruttare di densi vapori dai due sfiatatoi.
   Mastro Widdeak diresse verso di lui la sua baleniera. Harwey alzò il rampone e lo lanciò con grande forza.
   Il cetaceo, nuovamente ferito, emise una formidabile nota che durò otto o dieci secondi. Si sarebbe detto che quella nota era prodotta da una impetuosissima corrente d’aria spinta dentro un largo tubo di bronzo.
   Subito dopo il mostro si mise a guizzare qua e là, ora avvicinandosi alle baleniere e ora allontanandosi come se avesse completamente perduto la testa. La sua possente coda e le sue grandi pinne pettorali battevano furiosamente l’acqua sollevando delle ondate. Sordi brontolii gli uscivano dalla gola e fischi acuti, dagli sfiatatoi i quali lanciavano senza posa bianchissime e molto dense nubi di vapore.
   – Avanti! Avanti! – gridò Koninson.
   Il tenente, punto curandosi dei colpi di mare e punto spaventato dai tremendi colpi di coda che il mostro avventava, fece avanzare la baleniera mentre mastro Widdeak girava al largo per non imbrogliare le due lenze.
   I cacciatori con pochi colpi di remo si trovarono a breve distanza dal cetaceo.
   Koninson che era diventato frenetico, appena lo vide alzare la coda gli lanciò il rampone dalla punta rotonda, colpendolo nelle ultime vertebre caudali. Dalla larga ferita uscì subito un grosso rivo di sangue, il quale arrossò per un largo tratto le acque.
   – Urrah! Urrah! – urlò il fiociniere balena è nostra!
   Infatti per il cetaceo era ormai finita. Colpito ai fianchi dai due ramponi e poi sotto la coda da quella larga palla tagliente che gli aveva recisi i tendini e l’arteria, non poteva più fuggire. Era questione di ore, forse di soli minuti, poichè le baleniere tornavano alla carica per gettare le lancie.
   In meno di quindici secondi altre ferite gli furono aperte sui fianchi dai due fiocinieri, e tutte mortali.
   Allora cominciò l’agonia, ma un’agonia terribile e pericolosissima, non solo per le baleniere, ma per il «Danebrog».
   Il gigante diventato pazzo per il dolore e anche cieco si precipitava in tutte le direzioni con impeto irresistibile. Usciva più di mezzo dall’acqua, si tuffava, tornava a galla, si rovesciava sui fianchi, ora filava colla rapidità di una freccia, ora si arrestava mandando suoni rauchi, metallici o note potenti, ora descriveva delle curve o dei bruschi angoli.
   Il «Danebrog» si era messo nuovamente alla vela per non venire investito e si teneva ad una grande distanza e le due baleniere avevano un gran da fare per non venire subissate dalle onde che il gigante sollevava, o sfasciate dalla coda.
   Ad un tratto però la balena si arrestò. Dai suoi sfiatatoi uscirono con sinistro rumore due getti di sangue che arrossarono una grande zona di mare, poi un fremito agitò l’intera massa.
   Mandò un’ultima e più acuta nota, indi sollevò la testa mostrando la sua immensa bocca, poi si rovesciò sul dorso e rimase immobile col ventre a fior d’acqua.
   Era morta!


   VIII. I PRIMI GHIACCI

   Pochi minuti dopo il «Danebrog» che, come si disse, aveva già spiegato le vele, abbordava la balena che era tornata a galla e presso la quale si erano già ormeggiate te le due baleniere.
   Il gigante galleggiava in mezzo ad un ampio cerchio di sangue uscitole dalle numerose ferite apertegli dai ramponi e dalle lancie e sul suo ventre avevano già preso posto gli uccelli marini sempre pronti ad accorrere dove sanno che c’è da rimpinzarsi. Ve n’erano delle migliaia giunti da tutte le parti dell’orizzonte e specialmente dalla costa americana che non distava più di sette miglia.
   Lo smembramento cominciò subito. Il capitano, seguito da un forte drappello di marinai armati di pale taglienti, entrò nella bocca della balena, dopo averle strappato il labbro inferiore, onde estrarle la lingua che è lunga non meno di otto metri e per raccogliere i fanoni i quali sono in numero di settecento, della lunghezza di cinque metri, un po’ curvi, stretti gli uni agli altri per lo più neri ma talvolta anche variegati. Pendono dalla mascella superiore e sono riuniti da una sostanza glutinosa, attaccaticcia assai, la quale disseccandosi forma su di essi una specie di vernice lucida e liscia.
   Terminate queste due importanti operazioni, i marinai posero mano alla dipanazione di quell’enorme massa che pesava non meno di novantamila chilogrammi e che era avvolta da un grossissimo strato di grasso.
   Ben presto i fornelli ricominciarono a funzionare empiendo l’aria di un fumo nerissimo e fetente e la coperta del legno offerse il riluttante aspetto che abbiamo già descritto nello smenbramento del capodolio. Questa volta però fiocinieri e marinai lavoravano con maggior alacrità, essendo impazientissimi di rimettersi alla vela. Quegli uomini che da parecchi anni navigavano in quei freddi mari, quantunque la temperatura fosse, cosa insolita, ancora mite, presentivano l’avvicinarsi dell’inverno e d’un inverno rigidissimo
   Già il sole non lanciava più, alla mezzanotte i suoi splendidi raggi su quei mari e su quelle terre. Da alcuni giorni, fra le 10 e le 11 della notte tramontava e per alcune ore si teneva celato sotto l’orizzonte. E già gli uccelli marini erano diventati meno numerosi e ad ogni istante grandi bande fuggivano verso il sud in cerca di un clima più mite. I ghiacci non erano ancora apparsi, ma i marinai se non li vedevano, li sentivano.
   Il capitano aveva notato e presentito tutto ciò prima dell’equipaggio e perciò stimolava i lavoranti, non avendo tuttavia ritardato a spingersi più innanzi per completare il carico.
   Prima che il sole tramontasse una terza parte del cetaceo era stata già dipanata e parecchie tonnellate d’olio erano state calate nella stiva.
   Quella notte, per la prima volta, il freddo scese tre gradi sotto zero e l’acqua gettata sulla tolda poco prima dello spuntare del giorno, gelò.
   Il 18 e il 19 settembre lo smembramento fu continuato con tanta alacrità che alle 10 pomeridiane l’ultimo pezzo di grasso veniva ritirato a bordo. Il capitano fece tosto spiegare le vele e il «Danebrog» abbandonò il gigantesco carcame agli uccelli marini, mettendo la prua ad est ove si scorgevano sempre, ed in grandissima quantità, le macchie oleose galleggiare sull’acqua.
   La sera era magnifica. Il sole splendeva superbamente calando lentamente verso l’orizzonte, dove erravano alcune nuvolette dalla tinta di fuoco, e il mare era liscio come uno specchio, senza la più piccola ruga.
   In lontananza, verso sud, giganteggiavano le dirupate coste americane coi loro abeti e i loro pini piantati sulle vette; verso nord una coppia di delfini gladiatori scherzava, mostrando ora le code e ora l’oscuro dorso; verso ovest una gran frotta di oche bernine filava in silenzio e rapidissimamente verso regioni più calde.
   L’aria era mite e aveva una mollezza che rammentava una delle più belle notti d’autunno dei climi temperati, rinfrescata di quando in quando da un venticello che spirava da ovest.
   Il «Danebrog», con tutte le sue vele spiegate, per alcune miglia filò verso est, poi piegò verso la costa americana ove si dirigevano le macchie oleose.
   Nulla accadde durante la notte, ma poco dopo il sorgere del sole fu fatta una scoperta che turbò gli animi e fece aggrottare la fronte al capitano Weimar che era appena salito sulla tolda.
   Era una montagna di ghiaccio, un «iceberg» che scendeva lentamente verso sud spinto dalle correnti e dal vento che da alcune ore soffiava da nord.
   – Brutto incontro! – disse Koninson al tenente, che era salito sulla murata per meglio osservare l’«iceberg».
   – Era ora! – rispose con voce tranquilla il signor Hostrup. – Non siamo più in estate.
   – Non dico di no, tenente, ma se a questa montagna ne tenessero dietro altre cento o duecento, come avanzeremo noi?
   – Il «Danebrog» ha un solido sperone e non teme i ghiacci.
   – Ditemi, tenente, le montagne di ghiaccio si spingono molto verso sud?
   – Molto, Koninson. Io ne vidi alcune a parecchie centinaia di miglia dalle isole Aleutine, in pieno oceano Pacifico, altre a sud del Banco di Terranova o sulle coste del grande Impero russo e perfino presso le sponde della Norvegia. Anzi mi ricordo che una nave in viaggio dalla Scozia a Brema fu schiacciata da un «iceberg» che era sceso nel mare del Nord.
   – Tanto scendono!
   – E scenderanno sempre più. Se tu vivrai un secolo ne vedrai alcuni anche sulle coste della Danimarca e fors’anche della Prussia.
   – E perchè, signore?
   – Perchè la linea dei ghiacci ogni anno guadagna spazio.
   – Dunque il freddo cresce nelle regioni polari?
   – Sì, Koninson. Alcuni mari, che alcuni secoli or sono erano navigabili, ora sono ingombri dai ghiacci e alcune terre, un tempo fertili, oggi sono ridotte a deserti di neve. Vuoi degli esempi?
   – Gettateli fuori, signor Hostrup.
   – Nel IX secolo, alcuni Scandinavi che avevano fondato delle colonie in Groenlandia e in Islanda, sbarcavano su una costa ove cresceva la vite, e perciò chiamarono quella terra Vinland. Sai come si chiama oggi quel paese?
   – No, signor Hostrup.
   – Si chiama Labrador.
   – Come, nel IX secolo nel Labrador cresceva la vite!
   – Si, fiociniere. E cosa è oggi il Labrador?
   – Un deserto di neve ove la vite non crescerebbe nemmeno accanto alla stufa. Per Bacco, che discesa hanno fatto i ghiacci!
   – Un altro esempio, Koninson. Quattrocento anni fa gli Islandesi trafficavano liberamente, in pieno inverno, coi Groenlandesi. Oggi d’inverno non si arrischiano più a navigare in quel tratto di mare per non venire stritolati dai ghiacci.
   – È strano! – disse Koninson.
   – Vuoi ora un terzo esempio? Quaranta o cinquant’anni fa, sulle coste dell’America settentrionale e sulle vicine isole, vivevano in grande numero i buoi muschiati, grossi e bellissimi ruminanti dal pelo lunghissimo e dalle grandi corna. Sai perchè oggi questi ruminanti sono scomparsi?
   – Perchè, tenente?
   – Perchè il freddo è sceso a distruggere le praterie e questa è cosa quasi recente. Io ho conosciuto un capitano il quale cinquant’anni fa cacciava le balene, durante l’inverno, nella baia di Melville. Chi è l’audace baleniere che oggi ardisce entrare d’inverno in quella baia?
   – E nell’oceano antartico, la linea dei ghiacci si spinge pure sempre più innanzi?
   – Più che nell’oceano artico, Koninson. Colà si trovano dei ghiacci sopra il 50° parallelo e talvolta anche sopra il 45°, specialmente nel tratto di mare compreso fra l’America del Sud e l’Australia.
   – Che ciò dipenda dal raffreddarsi del nostro globo?
   – Certamente. Ecco l’«iceberg»; guarda come è bello!
   La montagna di ghiaccio era allora vicinissima al «Danebrog». Aveva la forma di una piramide, un’altezza di oltre cento metri e una base di trecento. I raggi del sole, riflettendosi sulle mille faccettine, la rendevano così sfolgorante che a guardarla gli occhi provavano un acuto dolore.
   Sulla cima di quel colosso, che il vento del nord spingeva verso la costa americana, alcuni uccelli marini avevano piantato i loro nidi e mandavano acute strida.
   Tutto l’equipaggio del «Danebrog», quantunque abituato a simili incontri, era salito in coperta a contemplare quel primo apportatore del freddo che, colpito in pieno dal sole, scintillava come fosse un enorme diamante.
   – Bello! – disse Koninson.
   – Ma pericoloso – aggiunse il tenente.
   Ad un tratto dalla sommità di quella montagna caddero dei frammenti di ghiaccio che produssero sull’acqua un rumore analogo a quello delle goccie d’acqua. Subito gli uccelli se ne volarono via mandando strida di spavento.
   – L’«iceberg» si rovescia!– gridò mastro Widdeak. – Attento all’onda, timoniere!
   La montagna di ghiaccio, rosa alla base dall’acqua, stava per perdere il suo equilibrio. Fu veduta oscillare da destra a sinistra per alcuni istanti, poi tutto d’un colpo la sua vetta tracciò nell’aria una grande curva e l’intera massa piombò nel mare con un cupo rimbombo. Sparve tutta, poi una grande punta azzurra emerse fra un vortice di spuma, dapprima lentamente, indi con un balzo repentino e ricadde sollevando un’ondata che fece piegare sul babordo il «Danebrog», correndo poi ad infrangersi con indescrivibile violenza contro la costa americana.
   Per alcuni minuti la montagna, che presentava una punta assai aguzza, ondeggiò spaventosamente, ora tuffandosi e ora risalendo, poi a poco a poco riprese l’equilibrio e si allontanò verso sud sempre scintillante, sempre superba, sempre gigantesca.
   Quello stesso giorno di fronte alla baia Smith, altri due «icebergs», ma di dimensioni più piccole, furono incontrati dal «Danebrog» che navigava sempre in vista della costa americana, dietro le macchie oleose che apparivano ancora numerosissime.
   Il 21 la temperatura discese bruscamente a 7° sotto zero e il vento crebbe di violenza diventando così freddo che i marinai furono costretti a indossare le vesti d’inverno.
   Verso il mezzodì il «Danebrog» entrava fra due lunghissime file di «hummoks», piccoli ghiacci di pochi metri di altezza, staccati senza dubbio da qualche campo di ghiaccio o da qualche grande «iceberg».
   Erano cinque o seicento, arrotondati gli uni, aguzzi gli altri, o scabri, o lisci, o screpolati, che si urtavano rumorosamente frangendosi e che ad ogni istante perdevano l’equilibrio prendendo nuove forme. Il sole, battendovi sopra, dava ad alcuni l’apparenza di zaffiri, ad altri di smeraldi, ametiste e diamanti di grande splendore.
   II «Danebrog» non provò gran fatica ad aprirsi il passo col suo solido sperone di acciaio e spinto da un buon vento se li lasciò ben presto tutti a poppa. Ma tre miglia più innanzi nuovi ghiacci apparvero, più solidi, più grandi e più numerosi dei primi. Li capitanava un gigantesco «iceberg» ai cui piedi nuotavano alcuni narvali, grandi pesci armati da un dente lungo assai e molto aguzzo.
   A rendere ancor più difficile la navigazione, scese dalla costa americana un nebbione fittissimo, il quale in pochi istanti coprì il mare celando agli occhi dei marinai i ghiacci.
   – Hum! – mormorò il capitano che era diventato inquieto. – Se non procediamo cauti, corriamo pericolo di rompere una costola al «Danebrog».
   Fece prendere terzaruoli su quasi tutte le vele per diminuire la velocità della nave, e mise alcuni uomini a prua con dei solidi buttafuori per respingere i ghiacci che potevano danneggiare il bompresso.
   Alle 5 del pomeriggio il nebbione era diventato così fitto che il timoniere non distingueva più l’albero di trinchetto, e i gabbieri dalle coffe a gran fatica discernevano la coperta del bastimento.
   Una viva inquietudine si impadronì dell’equipaggio. Ognuno temeva l’incontro improvviso di qualche «iceberg» che forse in quei momenti navigava a poche gomene e fors’anche a sole poche braccia.
   Di quando in quando agli orecchi degli uomini di guardia giungevano dei forti cozzi, degli scricchiolii e dei colpi sordi come di ghiacci che, perduto l’equilibrio, capitombolano e delle forti ondate venivano ad infrangersi contro i fianchi del «Danebrog» il quale procedeva alla cieca.
   Alle 10, dopo il tramonto del sole, a bordo non ci si vedeva più in là di cinque passi.
   – La cosa diventa seria assai! – disse Koninson al tenente. – Non si sa più dove si va.
   – Questo nebbione non durerà molto, fiociniere – rispose il signor Hostrup. – Appena il sole risorgerà lo dileguerà, io vedrai.
   – Ma prima di domani mattina…
   – Taci!…
   – Che avete udito?
   – Qualche gran ghiaccio naviga presso di noi, Koninson. Non odi questo gridìo?
   Il fiociniere tese gli orecchi trattenendo il respiro. Attraverso la fitta cortina di vapori udì distintamente un acuto gridìo che lentamente si avvicinava, indi un sordo muggito, come il rompersi di una grande ondata contro una costa.
   – Oh! Oh! – esclamò.
   – Vedi nulla? – chiese il tenente.
   – Nulla, signore, ma sento la presenza di un «iceberg». Gli uccelli marini non si riuniscono in gran numero che attorno ad una balena morta o a un grande ghiaccio.
   – Attenzione, timoniere! – gridò il tenente. – E voi, ragazzi, pronti ai bracci delle manovre.
   Il capitano, che stava a poppa accanto al timoniere, accorse a prua. Quasi nel medesimo istante a poche braccia dallo sperone apparve un debole chiarore.
   – Un «iceberg»? – chiese Weimar.
   – Sì, capitano! – rispose il tenente. – E se non m’inganno deve essere colossale.
   – Barra a babordo tutta, mastro Widdeakl – gridò il capitano.
   A prua si udirono alcuni cozzi violenti seguiti da forti crepitii, poi un’onda di considerevole altezza venne a spezzarsi contro lo sperone. Un centinaio di uccelli marini fendette il nebbione e calò sulla nave, credendola forse, fra quell’oscurità, il corpo di una balena.
   – I buttafuori! I buttafuori! – gridò Weimar salendo sul bompresso per meglio vedere.
   Dieci marinai muniti di solidi spuntoni accorsero per respingere l’assalto del formidabile nemico che li minacciava, ma d’improvviso furono rovesciati sulla coperta. Un urto violentissimo era avvenuto a prua e il «Danebrog» era stato respinto.
   Un grido di spavento sfuggì da quasi tutti i petti. Un «iceberg» alto almeno cento metri era sorto dinanzi alla nave dondolandosi spaventosamente.
   – Tutti a prua, perdio! – urlò il capitano che non aveva perduto il suo sangue freddo.
   I marinai, risollevatisi prontamente, si slanciarono colà e spinsero fuori gli spuntoni, alcuni dei quali si spezzarono contro l’«iceberg» che continuava a oscillare formando alla sua base delle forti ondate.
   Il «Danebrog», vigorosamente respinto, virò di bordo e scivolò lungo i fianchi del ghiaccione. Tre volte fu toccato e tre volte i suoi pennoni corsero rischio di spezzarsi e le sue murate di piegarsi, ma finalmente si allontanò dirigendosi verso sud-ovest. Pochi istanti dopo l’«iceberg» scompariva fra la nebbia.


   IX. I FURORI DELL’OCEANO ARTICO

   Tutta quella notte il «Danebrog» continuò a urtare contro i ghiacci che di ora in ora diventavano più numerosi e più grandi e due altre volte corse il pericolo di farsi schiacciare da due immensi «icebergs» che non erano stati scorti a tempo e che gli erano passati a sole poche braccia, a babordo l’uno ed a tribordo l’altro. Fortunatamente, come il tenente aveva predetto, ai primi albori quelle fitte brume cominciarono a rompersi, lasciando vedere qua e là dei tratti di mare ed i ghiacci che li coprivano. Sorto il sole, si alzarono bruscamente formando in cielo una nuvola color del piombo, il cui aspetto nulla di buono prometteva.
   Uno splendido quadro apparve tosto all’equipaggio del vascello, che si trovava tutto in coperta.
   Fin dove giungevano gli occhi, il mare, che in quel momento era perfettamente calmo, senza la più piccola ruga, appariva coperto di ghiacci che un superbo e ancor caldo sole d’autunno faceva scintillare vivamente.
   Qui si ergevano gli «icebergs» imponenti, aguzzi, brillanti come se fossero di quarzo; là si alzavano delle piramidi stupende dalle pareti liscie, tinte di un verde superbo alla base e fiammeggianti sulla cima; più oltre si slanciavano arditamente in aria svelte colonne tutte infuocate dai raggi del sole, e più oltre ancora punte aguzze, grandi arcate sotto le quali il mare prendeva la tinta opaca della malachite alternata colle trasparenze dello smeraldo, massi enormi che parevano di marmo incrostati di grandi opali e di perle, strane cupole d’un azzurro magnifico, poi piccoli «streams» di forme allungate, piccoli «palks» di forme circolari, dirupati «hummoks» dai cui fianchi scendevano con lieve mormorio cascatelle d’acqua, poi altri «icebergs» ancor più scintillanti, poi altre colonne fiammeggianti, altri massi, altre cupole ed infine, lontano lontano, verso il nord, un gran campo di giaccio, un vero «ice-fìeld», sopra cui splendeva quella luce biancastra, acciecante, che sale fino alle nubi, che si vede a grandi distanze e che i marinai chiamano «ice-blink».
   Un silenzio perfetto, strano, regnava sopra quell’immensa distesa di ghiacci, e due soli uccelli, due poveri gabbianelli, solcavano quella abbagliante atmosfera, mandando di quando in quando un triste grido.
   – Ventre di balena! – esclamò Koninson che, come il solito, si trovava vicino al signor Hostrup. – È’ uno spettacolo superbo, tenente.
   – Non dico di no, ma sarei più contento se non l’avessi dinanzi agli occhi – rispose l’ufficiale.
   – Perchè, signore?
   – Perchè questi ghiacci finiranno coll’unirsi e, se ci prendono in mezzo, per il «Danebrog» sarà finita.
   – Il nostro vascello ha un solido sperone.
   – Ma i ghiacci avranno allora uno spessore tale da sfidare lo sperone di una fregata di cinquemila tonnellate. E poi, non conti tu le pressioni?
   – Le costole del «Danebrog» sono ancora salde, signore.
   – Ma le pressioni sono formidabili, Koninson. Quando i ghiacci non trovano più posto, stritolano irresistibilmente tutto ciò che impedisce loro di allargarsi. E tu sai quanti vascelli colarono a picco completamente stritolati!.
   – Ditemi, tenente, è proprio terribile la forza del ghiaccio?
   – Immensa, fiociniere.
   – E perchè?
   – Per il semplice motivo che l’acqua, congelandosi, cresce di volume. Mi ricordo d’aver veduto una palla di ferro che era stata riempita d’acqua e poi collocata in una ghiacciaia ove il termometro segnava 4° sotto zero, scoppiare come se fosse di vetro.
   – Se me lo dicesse un altro non ci crederei, tenente.
   – Io so che anche un cannone scoppiò.
   – Un cannone!
   – Sì, fiociniere, e aggiungerò che l’esperimento fu fatto da Huggens nel 1667. Questo Huggens aveva riempito d’acqua un pezzo d’artiglieria di ferro, le cui pareti avevano uno spessore di tre centimetri, poi l’aveva ben chiuso. Alla notte l’acqua gelò e al mattino fu trovato il cannone spezzato.
   – Corpo d’una balena!
   – Anche il maggiore Edwards William nel 1784 fece degli esperimenti.
   – Con altri cannoni?
   – No, con bombe. Ne riempì otto che avevano il diametro esterno di 32 centimetri e una grossezza di parete di millimetri 0,038; le turò con tappi di ferro solidamente trattenuti da lamine e le sottopose ad una temperatura che variava fra i 19° e i 28° sotto zero. Sette bombe lanciarono in aria il turacciolo e la ottava scoppiò. E nota, non tutta l’acqua racchiusa si era gelata.
   – Ora credo che una nave possa venire stritolata dalle pressioni dei ghiacci, per quanto abbia le costole salde. Ditemi, tenente, quale densità ha il ghiaccio?
   – Gli scienziati, dopo lunghi studi, l’hanno determinata al valore medio di 0,918, a 0° di temperatura.
   – Un’altra domanda, tenente. Perchè il mare gela solamente alla superficie? Se il freddo è intenso dovrebbe gelare anche in fondo.
   – Ora te lo spiego, curioso fiociniere. Quando la temperatura è scesa allo zero, lo strato d’acqua superiore di un mare, di un lago o di un fiume, raffreddandosi diventa più pesante rispetto agli altri strati che possiedono ancora del calore e allora precipita in fondo. Il secondo strato, occupando il primo posto, pure si raffredda e pure precipita, e così avviene pure di tutti gli altri. Quando a tutti è stato sottratto il calore, il primo strato gela ed essendo il ghiaccio un cattivo conduttore, impedisce o almeno ritarda molto il congelamento degli altri. Ecco perchè difficilmente un mare gela dalla superficie al fondo.
   – Secondo questa vostra teoria, i mari più profondi gelerebbero meno facilmente degli altri.
   – Certo, Koninson.
   – Ditemi, tenente, quale è la più bassa temperatura a cui gela l’acqua?
   – Secondo le ultime osservazioni questa temperatura sarebbe di 12 centesimali sotto zero per l’acqua limpida e tranquilla.
   – L’acqua del mare, che è salata, si solidifica meno facilmente di quella dei laghi e dei fiumi?
   – Sì, perchè prima deve separarsi dai sali. Oh!, cosa vedo!
   – Cosa mai? – chiese Koninson, curvandosi sulla murata e gettando uno sguardo sul mare.
   – Ancora le macchie oleose.
   – Siamo adunque sulle traccie delle balene. Ah!, se venissero a tiro del mio rampone!
   Il tenente non si era ingannato. Dinanzi alla prua del «Danebrog» erano ricomparse le macchie oleose che il nebbione aveva fatto smarrire.
   La bella nuova fu tosto recata al capitano, il quale ordinò tosto di seguirle per quanto lo permettevano i ghiacci, che erano sempre numerosissimi.
   Disgraziatamente non lo dovevano che per un breve tratto. Già da alcuni minuti la nuvola formatasi in cielo si era dilatata prendendo una tinta più fosca e minacciando di coprire il mare con un nebbione pari, se non maggiore, a quello del dì innanzi.
   Ben presto la costa americana, che non distava più che sei o sette miglia, scomparve, poi si coprì pure il sole. La nube continuò a scendere qualche ora dopo e finalmente si trovò a breve distanza dalla superficie del mare che aveva perduto la sua brillante tinta verdastra.
   A mezzodì un vento freddissimo cominciò a soffiare dal nord, abbattendo non pochi ghiacci male equilibrati e mettendo in movimento tutti gli altri con grande pericolo del «Danebrog» che poteva venire schiacciato.
   Tutto all’ingiro s’udirono allora tonfi, scoppi violenti e cozzi formidabili che diventavano, quanto più il vento cresceva, sempre più forti.
   Alle 2 il mare presentava uno spettacolo spaventevole. Lunghe ondate, come se fossero mosse da una forza misteriosa, correvano da nord a sud, colle creste coperte di candida spuma, accavallandosi disordinatamente e lanciando in aria giganteschi sprazzi che il vento tosto disperdeva e polverizzava.
   Sulle loro cime o nei loro avvallamenti, gli «icebergs», gli «hummoks», i «palks» e gli «streams» si dondolavano spaventosamente, ora tuffandosi ed ora tornando a galla; si urtavano furiosamente struggendosi reciprocamente e, lanciando ovunque frammenti, si rovesciavano facendo fuggire con acute strida gli uccelli marini che avevano piantato nei crepacci i loro nidi. Guai se uno di essi avesse urtato, con quell’impeto, i fianchi del vascello!
   I marinai, pallidi, col terrore negli occhi, seguivano attentamente i balzi disordinati di quelle montagne e ogni qualvolta una di esse minacciava di portarsi presso il vascello, sporgevano i buttafuori onde possibilmente respingerla.
   Alle 3, quando l’oscurità era maggiore, cominciò a cadere attraverso il nebbione una neve fitta che in pochi minuti coperse i ghiacci, la tolda e gli attrezzi del «Danebrog». Il freddo scese quasi tutto d’un colpo di altri 8 gradi!
   – L’affare diventa serio assai! – disse il tenente a Koninson. – Corriamo il pericolo di venire sfracellati.
   – E l’oscurità cresce sempre – disse il fiociniere, masticando rabbiosamente un mozzicone di sigaro. – Un gran brutto navigare è il nostro, con tutti questi ghiacci che pare abbiano una voglia matta di fare del «Danebrog» una frittata. Vedete la costa americana, signor Hostrup?
   – No, Koninson, e anche quella costa mi dà assai da pensare. Possiamo trovarci da un istante all’altro dinanzi a una delle numerose isole o scogliere che la cingono..
   In quell’istante, tra i fischi del vento e i muggiti delle onde, si udì mastro Widdeak gridare con accento di terrore:
   – Abbiamo un «iceberg» a prua!
   Il capitano, il tenente e Koninson, malgrado i violentissimi beccheggiamenti del vascello, si slanciarono colà. A mezza gomena appena, attraverso il nebbione, si vedeva scintillare una gran montagna di ghiaccio la quale, urtata da tutte le parti dalle onde, pareva fosse lì lì per capovolgersi.
   – Vira, timoniere! – urlò il capitano. – Tutti ai bracci delle manovre!
   Il «Danebrog», che non era più che a venti o a trenta passi dall’«iceberg», virò prontamente sul posto, ma ricevette sul fianco tale colpo di mare che lo fece quasi rovesciare sul tribordo. Quasi nel medesimo istante si udì ancora mastro Widdeak urlare:
   – Bada, timoniere! Un altro «iceberg» dinanzi la prua!
   Infatti, dritto l’asta di prua, era improvvisamente apparso un altro «iceberg» e questo ancora più grande del primo. Era una specie di colonna alta almeno cento metri e grossa quasi altrettanto.
   – Siamo proprio circondati? – gridò il capitano con ira.
   Si slanciò alla ruota del timone, e mentre i marinai, ad un comando del tenente, si portavano tutti a prua armati dei buttafuori, diresse la nave in modo da passare fra le due montagne che erano distanti appena due gomene l’una dall’altra, manovra quanto mai pericolosa, poichè potevano proprio in quel momento perdere l’equilibrio e sfracellare il «Danebrog» assieme a tutti quelli che lo montavano.
   – State in guardia, capitano! – gridò il tenente, appena vide la nuova direzione presa dalla nave. – Gli «icebergs» non mi sembrano bene equilibrati.
   – Non temete, tenente! – rispose il capitano con voce ferma. – Che nessuno abbandoni i buttafuori!
   Il «Danebrog», spinto dal vento e dalle onde e guidato dalla ferrea mano del capitano Weimar, si avvicinò rapidamente alle due montagne le quali, violentemente urtate dalle acque che muggivano e rimuggivano, balzando e rimbalzando, oscillavano spaventosamente minacciando di urtarsi e di capovolgersi.
   Non mancavano più che poche decine di metri, perchè il «Danebrog» giungesse al pericoloso passo, quando dall’«iceberg» più grande caddero in mare parecchie centinaia di ghiacciuoli, ciò che indicava che stava per perdere l’equilibrio.
   Un urlo di terrore si alzò sul ponte della nave; i marinai che si erano raggruppati a prua, lasciarono il posto precipitosamente, gettando via i buttafuori. Alcuni si slanciarono verso le baleniere, ritenendo ormai imminente una catastrofe.
   Il tenente, che era rimasto intrepidamente sul castello di prua, si gettò in mezzo ai fuggiaschi alzando minacciosamente il buttafuori che teneva in mano.
   – Ai vostri posti! – urlò.
   – Il primo che pone una mano sulle baleniere lo ammazzo come un cane! – tuonò dal canto suo il capitano, che si teneva aggrappato alla ruota del timone. – Tutti a prua o siamo perduti!
   Koninson primo, mastro Widdeak secondo, poi tutti gli altri riguadagnarono i posti assegnati. Era tempo! Il «Danebrog» si era cacciato fra le due montagne di ghiaccio e una di queste, portata innanzi da un’onda, minacciava di spezzare i pennoni e le murate.
   I marinai, quantunque il terrore li agghiacciasse, ubbidirono di comune accordo. L’«iceberg» che avanzava sempre rollando spaventosamente, tutto d’un tratto s’inclinò verso la nave che gli passava di fianco ratta ratta e sfracellò i buttafuori mandando a terra gli uomini che li stringevano. Per la seconda volta i marinai abbandonarono i loro posti fuggendo a tribordo. Il capitano Weimar gettò un vero ruggito e il tenente, malgrado tutto il suo coraggio, impallidì. Entrambi credettero che questa volta pel «Danebrog» fosse proprio finita.
   Un’altra onda avvicinò di più la montagna di ghiaccio. Un pennone, quello di maestra, che sporgeva assai fuori dal bordo, fu smussato da un blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima dell’«iceberg»
   – Si salvi chi può! – urlarono alcuni marinai, che avevano perduto completamente la testa.
   – Fermi! Fermi! Passiamo! – tuonò il capitano Weimar sempre ritto dietro la ruota del timone.
   Il «Danebrog», trasportato dal vento che soffiava con forza irresistibile, filava come una rondine marina quasi strisciando sul fianco della montagna. Due volte toccò, ma finalmente uscì dal pericoloso passo e si slanciò sulle onde furenti lasciandosi addietro i due «icebergs», i quali in brevi istanti scomparvero nel nebbione.
   Un grido di gioia s’alzò fra l’equipaggio, unito al grido di: «Viva il capitano»!
   Ma quel grido cessò quasi subito. Uno strano e formidabile fragore si era improvvisamente udito verso sud-est. Pareva che l’oceano si rompesse contro una costa che il nebbione non permetteva di vedere.
   – Tenente Hostrup! – gridò il capitano che aveva pure udito quel lungo muggito. – Cosa abbiamo dinanzi a noi? La costa americana forse?
   Il tenente salì sul castello di prua e guardò attentamente dinanzi, a babordo e a tribordo, ma altro non vide che furiosi marosi i quali trascinavano nei loro disordinati movimenti ghiacci di ogni dimensione, sfracellandoli gli uni contro gli altri. Si curvò più che potè verso l’acqua e tese attentamente gli orecchi. Fra i fischi del vento e i cozzi dei ghiacci udì distintamente un sordo muggito.
   – Sì, capitano – gridò. – Noi abbiamo vicina la costa o una scogliera.
   – Tutti ai bracci delle vele pronti a virare! – comandò il capitano,
   Il «Danebrog» per dieci minuti tirò innanzi, sempre orribilmente sballottato dalle onde, che saltavano sopra le murate inondando la tolda da prua a poppa. Ad un tratto, a breve distanza apparve una spuma biancastra e il muggito poco prima udito divenne così intenso da credere che la costa o le scogliere fossero a poche gomene. Il capitano Weimar stava per dare il comando di virare, quando avvenne un leggero cozzo che arrestò subito la marcia del «Danebrog».
   Il tenente e Koninson corsero a prua e si issarono, per meglio vedere, sul bompresso. Quasi subito avvenne un secondo urto e questa volta così forte da rovesciare tutto l’equipaggio. Una montagna d’acqua, varcate le murate, si precipitò sulla tolda atterrando tutto ciò che incontrava.
   Tra i fischi del vento ed i muggiti delle onde s’udirono due grida d’aiuto, poi più nulla. Quando i caduti si rialzarono, il «Danebrog» galleggiava ancora, ma due uomini mancavano. Il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, che al momento dell’urto si trovavano sull’albero di bompresso, erano stati trascinati via dal colpo di mare!


   X. LA SCOGLIERA

   L’uragano non cessava un solo momento, anzi tendeva a diventare ancora più terribile. Un vento indiavolato, irresistibile, spazzava senza posa l’oceano ora fischiando e ora muggendo, lacerando il nebbione e sconvolgendo le acque che s’alzavano in forma di montagne, urtandosi con mille muggiti. I ghiacci, che pareva crescessero ad ogni istante di numero, orribilmente scrollati, perdevano ad ogni tratto l’equilibrio, si sprofondavano, tornavano a galla, si rovesciavano ora su un fianco e ora sull’altro e si frantumavano con scoppi paragonabili a quelli delle folgori o delle artiglierie.
   In mezzo a tutti quei fragori, che diventavano ognora più intensi, di quando in quando si udiva un grido gutturale seguito da un fischio acuto, tagliente, che non era prodotto nè dal vento, nè da alcun abitante dell’oceano, ma che pure pareva uscisse dalle onde. Quel grido e quel fischio erano emessi da Koninson.
   Il fiociniere, strappato dal bompresso dal colpo di mare che aveva rovesciato l’equipaggio, era stato portato subito lontano dal «Danebrog» in mezzo agli elementi scatenati, prima che avesse avuto il tempo di aggrapparsi alle corde e di chiamare aiuto.
   Il povero giovanotto, quantunque abituato fino dall’infanzia ai freddi intensi delle regioni polari e quantunque fortissimo nuotatore, nel trovarsi tutto d’un colpo immerso in quelle acque ghiacciate e fra quelle onde di cui alcune superavano in altezza quindici metri, aveva perduta la testa e aveva bevuto parecchio, ma ben presto aveva riacquistato il suo sangue freddo e con un vigoroso colpo di tallone era risalito a galla girando attorno uno sguardo colla speranza di rivedere il «Danebrog». Ma ahimè! Il vascello, spinto dal vento che soffiava con crescente furia, era ormai scomparso nel fitto nebbione. Provò una stretta al cuore; si credette per sempre perduto.
   Lanciò due o tre grida di aiuto, ma furono soffocate dalle urla del vento, dai muggiti delle onde e dai cozzi dei ghiacci.
   – È finita – mormorò, battendo i denti per il freddo e per il terrore. – Che fare ora? Dove dirigersi?
   Ad un tratto si ricordò dell’urto avvenuto e dei muggiti che avevano segnalato la vicinanza di una costa o per lo meno di una scogliera. Tese gli orecchi e alla sua destra udì ancora rompersi le onde e aguzzando gli occhi vide una lunga distesa di spuma biancastra.
   – Animo, Koninson – disse. – La terra è vicina, cerchiamo di guadagnarla. Poi vedremo ciò che si potrà fare.
   Ringagliardito dalla speranza, si mise a lottare contro le onde che l’assalivano da tutte le parti, ora spingendolo a destra, ora a sinistra, ora innanzi ed ora indietro, ora portandolo a grande altezza ed ora precipitandolo in profondi baratri dai quali usciva a prezzo di immani fatiche. E malgrado ciò, nella previsione che qualche suo compagno fosse stato pure strappato dalla tolda della nave, gettava di quando in quando un grido ed un fischio.
   Aveva percorso circa cento metri verso sud, cioè verso il luogo ove l’oceano si rompeva con furia estrema, quando dall’alto di un’onda vide a breve distanza degli oggetti neri apparire fuori dell’acqua.
   – Tò! Dei rottami! – esclamò. – Che il «Danebrog» sia andato a picco? Dio non lo voglia!
   Si rimise a nuotare con disperata energia, cercando di evitare i ghiacci che potevano stritolargli la testa o sfondargli le costole e risalì un’altra onda. Anche questa volta, attraverso la nebbia, scorse degli altri oggetti neri, somiglianti a punte aguzze e contro i quali l’oceano si frangeva.
   – La costa! – esclamò. – Quelli là sono scogli! Ah se potessi approdare senza sfracellarmi! Forse…
   Non terminò la frase. Fra i muggiti delle onde aveva udito distintamente un fischio acuto e poi un grido umano.
   – Ho un compagno vicino? – si chiese.
   Con un colpo vigoroso si sollevò sull’onda e guardò attentamente innanzi a sè, ma nulla vide. Allora gettò un grido altissimo e si arrestò trattenendo il respiro e tendendo gli orecchi.
   Nessuno rispose alla sua chiamata.
   – Mi sono senza dubbio ingannato – mormorò. – Io solo sono stato strappato dalla tolda del «Danebrog». Animo, ragazzo, e attento agli scogli!
   Quantunque il freddo a poco a poco gli irrigidisse le membra e le vesti, diventate pesantissime, lo impacciassero assai, continuò ad avanzare. Ad un tratto, in un momento in cui il vento taceva, udì il fischio di prima.
   – Chi fischia? – gridò con quanta voce aveva in petto.
   – Ohè! Del «Danebrog»! – gridò una voce poco lontana.
   – Ma dove siete? – chiese Koninson, dibattendosi gagliardamente contro le onde che minacciavano di trascinarlo verso un masso di ghiaccio.
   – Qui, che bevo allegramente! – rispose la voce di prima. – Ma chi siete voi? Un marinaio del «Danebrog» forse?
   – Sono Koninson, il fiociniere del «Danebrog». Uno scroscio di risa si udì fra i fischi del vento. Koninson sbarrò gli occhi.
   – Si ride con questo freddo e questo mare indiavolato! – esclamò. – Ma chi siete voi?
   – Ehi, ragazzo, poggia un pò che il tuo tenente ti aspetta, – disse la voce.
   – Siete voi, signor Hostrup?
   – In carne e ossa, fiociniere.
   – Anche voi strappato dal «Danebrog» da quella dannata ondata?
   – Sì, fiociniere. Avvicinati che ti aspetto, ma sbrigati perchè la gran tazza bolle orribilmente.
   Koninson, facendo sforzi disperati, si avanzò nella direzione onde aveva udita la voce e poco dopo si trovò a pochi passi dal tenente Hostrup, il quale nuotava tranquillamente come si fosse trovato in un lago, anzichè in un mare furibondo.
   – Ah! Quale consolazione provo nel vedervi, signore! – disse Koninson, avvicinandoglisi.
   – Briccone! Bella consolazione trovarmi in mezzo a queste onde che mi pestano e mi gelano le carni. E del «Danebrog». cos’è successo?
   – Non ne so più di voi, signor Hostrup. Dopo che fui portato via non lo vidi più.
   – Che sia andato a picco? Mi ricordo di un urto violentissimo.
   – Non è possibile. Il «Danebrog» ha le costole dure e poi non sarebbe scomparso tutto d’un colpo.
   – Speriamo, Koninson, che si sia messo in salvo. Ma chissà mai dove lo ha portato l’uragano e se a bordo si sono accorti subito della nostra scomparsa!
   – Credete che tornerà a cercarci?
   – Ne sono certo, ma quando il mare e il vento si saranno calmati.
   – E intanto cosa faremo noi?
   – Guadagneremo la scogliera che ci è vicina.
   – E là moriremo probabilmente di freddo e di fame.
   – Dietro la scogliera vi sarà la costa americana, Koninson, ne sono certo. Sei stanco?
   – Stanco no, ma ho le membra quasi irrigidite e le vesti così pesanti che fatico assai a mantenermi a galla. Ah, se potessi levarmele di dosso!
   – Non farlo, Koninson. Come resisterai dopo a questo freddo?
   – Ma se non troviamo da asciugarci…
   – Bah! Sulla costa americana gli alberi non mancano.
   – Ma chi li accenderà?
   – Ho la mia pipa e il mio tabacco, Koninson, e tu sai che assieme a queste due cose va sempre unito l’acciarino.
   – E anche un pezzo d’esca, spero.
   – Nella mia scatoletta ho anche l’esca. Ora bada a non romperti le costole contro la scogliera; siamo a meno di una gomena dai primi scogli. Avanti, fiociniere!
   I due disgraziati marinai del «Danebrog», ora avvicinati in modo da urtarsi, ed ora separati violentemente, si diressero verso la scogliera che, come sì disse, era vicinissima. Ben presto entrarono in mezzo ad una candidissima spuma piena di ghiacciuoli così acuti che laceravano le membra. Qui le onde si frangevano e si rifrangevano con tale furore contro gli scogli, che i due nuotatori si trovarono grandemente imbarazzati a mantenersi a galla. C’erano dei momenti che entrambi scomparivano.
   – Coraggio, fiociniere! – gridò ad un tratto il tenente che non perdeva, malgrado tutto quel diavolìo, la sua abituale flemma. – Attento alle punte!
   – Ho paura! – disse Koninson battendo i denti. – Questi muggiti mi fanno perdere la testa.
   – Calma e coraggio, Koninson.
   – Verremo stritolati, tenente. Guardate che punte aguzze.
   – Nuota contro corrente, fiociniere. L’onda ci spingerà egualmente a terra.
   Erano allora a sole cinquanta braccia dalla scogliera, le cui punte nere e sottili, al solo vederle, mettevano i brividi. L’oceano, frangendosi contro, produceva un baccano orribile: erano spaventevoli muggiti, scoppi violenti che parevano colpi di cannone, scricchiolii, fischi, cozzi. Colonne d’acqua si slanciavano furiosamente in alto e ricadevano con incredibile violenza rompendo le ondate, le quali talora, chissà mai per qual causa, formavano dei vortici e gran numero di ghiacci si frantumavano scagliando ovunque i loro pezzi, di cui parecchi di non piccole dimensioni.
   Un mezzo minuto più tardi i due nuotatori assordati, pesti, acciecati e mezzi soffocati, erano quasi sopra gli scogli. Un’onda li sollevò a prodigiosa altezza, e dopo averli furiosamente scossi, li trascinò sopra le punte aguzze scagliandoli impetuosamente contro una rupe che usciva parecchi metri fuori da quelle acque irritate. Si udirono, fra i muggiti dell’oceano e i cozzi dei ghiacci, due grida, poi più nulla. Erano stati sfracellati sul colpo?
   Per alcuni istanti la scogliera apparve deserta, poi fra la spuma che la copriva incessantemente, apparve una forma umana: era il tenente Hostrup. S’alzò quanto era lungo aprendo ben bene le gambe per non venire portato via dal mare, si tastò lentamente le costole, poi le gambe, indi le braccia, poi starnutò sonoramente.
   – Nulla di rotto! – disse, con una certa compiacenza. – Per Bacco! C’è qualcuno che mi protegge. Ma quel povero ragazzo, dov’è cacciato?
   Gettò uno sguardo all’intorno ed a pochi passi vide un uomo dibattersi contro le onde.
   – Ehi, Koninson, coraggio, ragazzo mio, e, se hai nulla di rotto, alzati,
   – Ah, mio tenente! – esclamò il fiociniere, battendo i denti per il freddo e per l’emozione. – Che brutto approdo!
   – Sei intero?
   – Sì, ma tutto ammaccato.
   – Poco di male, allora. Vieni, amico, cerchiamo di guadagnare un pezzo di terra meno umida e meno fredda. Brr!… Ancora dieci minuti e noi geleremo.
   Koninson si strinse addosso i panni che sgocciolavano da tutte le parti e, aggrappandosi alle sporgenze delle roccie, lo raggiunse.
   – Cosa facciamo? – chiese.
   – Laggiù attraverso la nebbia, non ti sembra di vedere una massa, oscura alla base e biancastra alla cima?
   – Sì, tenente.
   – Che sarà?
   – La costa americana.
   – Tale è anche la mia opinione. Ragazzo mio, bisogna farsi animo e raggiungerla.
   – Ma questa scogliera mi pare isolata.
   – Torneremo a saltare in acqua.
   – Con questo freddo?
   – Ci scalderemo prima.
   – A qual fuoco?
   – Non parlare di fuoco ora. Bisognerà accontentarsi di un esercizio violento. Imitami, Koninson.
   Così dicendo il tenente si era messo a saltare come una capra agitando pazzamente le braccia Koninson comprese che solamente quella bizzarra ginnastica poteva arrestare il gelo che a poco a poco gli irrigidiva le membra.
   – Ora che le braccia e le gambe funzionano discretamente bene, andiamocene! – disse il tenente dopo un quarto d’ora. – Spicciamoci, Koninson, e bada di tenerti vicino a me.
   – Non ci fracasseremo le costole questa volta?
   – Speriamo che la costa abbia un pendio più dolce e sia priva di scogli.
   Attraversarono la scogliera che misurava dieci o dodici metri di larghezza su venticinque o trenta di lunghezza e scesero dall’altra parte. Ivi il mare era più tranquillo, ma un gran numero di ghiacci lo ingombravano e tutti coperti da un alto strato di neve.
   Koninson si arrestò indeciso,
   – Farà un freddo terribile lì dentro!– disse.
   – La traversata durerà poco, fiociniere – rispose il tenente. – Non abbiamo che sei o settecento metri da percorrere.
   – E se quei ghiacci ci pigliano in mezzo e ci schiacciano la testa?
   – Cercheremo di evitarli. Orsù, non tardare un secondo di più, Koninson, se ti preme la pelle. Guarda, la scogliera sta per essere spazzata da quell’onda mostruosa. Coraggio, fiociniere, che Dio non ricuserà di aiutarci.
   Il tenente saltò in acqua per il primo; Koninson, dopo un pò di esitazione, lo seguì. Credettero tutti e due di morire gelati tanto quell’acqua era fredda, ma si fecero animo e ricominciarono a nuotare affrettando i movimenti.
   – Tene…nte – balbettò Koninson. – Mi… pare che… mi si schiacci… il petto…
   – Nuota… forte, fiociniere… La costa non è lontana.
   – Auff… ne ho… per una settimana e…
   – Sta zitto… conserva le… tue forze…
   Ansando, rantolando, l’uno vicino all’altro, i due disgraziati avanzavano verso i ghiacci che pareva volessero ostruire il passo. Ben presto si trovarono fra due «palks» di non piccole dimensioni i quali dondolavano perpendicolarmente scricchiolando ad ogni colpo. Il tenente si cacciò arditamente nel canale da essi formato, spintovi anche dalle onde che, superata la scogliera, correvano ad infrangersi verso la costa, la quale era difesa da un grande banco tagliato in forma di sperone. Koninson lo seguì.
   Passato il canale, si cacciarono entro un altro formato da due piccoli «icebergs», dalle cui cime cadevano ad ogni istante pezzi di ghiaccio così sottili e acuti che parevano lame di coltelli. Più di uno cadde addosso ai nuotatori, lacerando le loro casacche.
   Dopo dieci buoni minuti giunsero finalmente ad una sola gomena dal banco di ghiaccio. Dietro a questo appariva confusamente, fra il nebbione, la costa che era senza dubbio quella americana. Era alta, dirupata, coperta da uno strato di neve e, a quanto pareva, deserta. Però sulla cima di quelle rupi, il tenente credette di vedere delle piante.
   – Co…rag…gio, Koni…nson! – balbettò.
   – A…van…ti – rispose il fiociniere, che non ne poteva proprio più e che aveva le braccia paralizzate.
   Fecero un ultimo e disperato sforzo e si avvicinarono ancor più.
   Finalmente un’onda li prese e li portò abbastanza tranquillamente sul banco di ghiaccio ove rotolarono senza forze e irrigiditi, in mezzo alle nevi ed ai ghiacciuoli.
   Erano allora le 6 del mattino.


   XI. ATTRAVERSO LE NEVI

   I due poveri nuotatori, esausti, ansimanti, intirizziti dalla lunga immersione in quelle acque eccessivamente fredde e pesti dai continui assalti delle onde, rimasero parecchi minuti dove li aveva deposti l’oceano, rannicchiati nelle loro vesti che gocciolavano da tutte le parti, e senz’essere capaci di scambiare una parola. A tutti e due non pareva vero di essere giunti colà e di essere ancora vivi, dopo tante vicende passate in così breve tempo.
   Il tenente finalmente, che doveva essere proprio di ferro, con un poderoso sforzo si alzò.
   – Konin…son! – balbettò, additandogli la costa che in quel luogo scendeva dolcemente. – Vi…eni, se non… vuoi… morire… qui…
   – An…co…ra un mo…mento, te…nente – balbettò il fiociniere, le cui mascelle, nel pronunciare quelle poche parole, scricchiolavano come se le articolazioni fossero state inchiodate.
   – No… no… vie…ni…, po…vero… ragazzo… vie…ni – ripetè il tenente.
   – Non… lo… posso.... non…,
   Il tenente comprese che il compagno era assolutamente nell’impossibilità di muoversi. Allora gli si avvicinò, gli strappò di dosso le vesti e, messolo quasi a nudo, si mise a strofinargli energicamente le braccia, le gambe, il corpo e il viso colla neve.
   – Aiut…ami, Ko…ninson – mormorò.
   Il fiociniere lo secondò per quanto gli permettevano le sue forze esauste. Quelle doppie frizioni riattivarono ben presto la circolazione del sangue che pareva fosse lì lì per arrestarsi e per sempre. Allora il tenente pensò a sè e spogliatosi, malgrado il vento freddissimo, ripetè su se stesso l’operazione aiutato da Koninson, che si sentiva rinvigorito e discretamente caldo.
   – Ora, – disse il bravo comandante, dopo aver fatto sette od otto salti come se volesse provare l’elasticità delle sue membra – affrettiamoci a guadagnare la costa.
   – E dove andremo? – chiese Koninson, infilando le vesti ancora bagnate.
   – In cerca di un rifugio e di un pò di fuoco.
   – Ma sperate di trovare qualche capanna?
   – Capanne no, ma qualche caverna sì; la costa americana ne ha moltissime. Animo, Koninson!
   Attraversarono il banco di ghiaccio che scricchiolava sinistramente sotto i loro piedi e salirono la sponda che era assai elevata e coperta da più di mezzo metro di neve. Giunti sulla cima, girarono attorno Io sguardo.
   Dinanzi a loro si estendeva una specie di altipiano, interrotto qua e là da profonde fessure, da roccie e da alcuni pini neri e chiuso verso sud da una doppia catena di colline dirupate e nevose. Non c’era alcuna capanna e, quel che è peggio, nessuna selvaggina in vista. A destra e a sinistra di quell’altipiano si alzavano pure delle alture, anche queste dirupatissime e coperte di un fitto strato di neve. Sulle loro cime si rizzava qualche pioppo la cui sommità s’incurvava bizzarramente formando un grand’arco.
   – È un deserto di neve questo – disse Koninson.
   Il tenente non rispose. Si volse e guardò l’oceano che appariva quasi sgombro dal nebbione. Fin dove giungeva lo sguardo altro non si vedeva che grandi ondate spumeggianti, che il vento sbatteva in tutte le direzioni, e massi di ghiaccio di tutte le forme e dimensioni che cozzavano violentemente fra loro mandando in aria nembi di ghiacciuoli.
   Del «Danebrog» nessuna traccia.
   – Dove sarà? – mormorò il tenente che era diventato pensieroso.
   – Chi?– domandò Koninson.
   – Il «Danebrog».
   – Che sia andato a picco?
   – O che si sia rifugiato in qualche seno della costa per riparare le avarie causategli dall’urto?
   – Allora lo ritroveremo.
   – Lo spero, poichè il capitano Weimar non è un uomo da abbandonare questi paraggi, sapendo che due dei suoi uomini sono qui.
   – Ma può crederci morti, tenente.
   – Non lo credo, Koninson. La costa era vicina e il capitano sa che noi siamo forti nuotatori.
   – E cosa faremo intanto?
   – Raggiungeremo quelle alture e là aspetteremo che la tempesta sia cessata.
   – E poi?
   – Poi seguiremo la costa verso est. In cammino, Koninson.
   Si posero in marcia con passo rapido per non gelare vivi, poichè il freddo era veramente feroce, accresciuto anche dal vento il quale sollevava attorno ai due poveri marinai delle vere nubi di minutissimi ghiacciuoli e di nevischio. La via era aspra, ineguale e spesso intersecata da profondi crepacci pieni di neve, entro i quali molto spesso Koninson e il tenente cadevano, penando poi assai nell’uscirne. Tuttavia camminarono così bene, che dopo mezz’ora giunsero ai piedi di una collina assai dirupata e sulla cui cima ondeggiavano fortemente alcuni pini. La girarono e guadagnarono un luogo ove la collina scendeva dolcemente verso il mare.
   Quasi subito gli occhi del tenente scorsero una nera apertura presso la quale giungevano talora gli sprazzi delle onde.
   – Là dentro staremo bene! – disse a Koninson. – Potremo riposarci, scaldarci, e nel medesimo tempo guardare l’oceano.
   – Avanti allora, signor Hostrup. Io non ne posso più!
   Si avvicinarono all’apertura che era larga assai, ma poco alta e per di più in parte ostruita da certe colonne di ghiaccio, scese forse dalla volta, ed entrarono. Ad un tratto Koninson, che camminava innanzi al tenente, si arrestò bruscamente facendo un gesto di sorpresa e di terrore.
   – Che hai? – chiese Hostrup.
   – C’è qualcuno dentro – rispose il fiociniere.
   – È impossibile! Non vedo che tenebre.
   – Ho udito un ruggito, signore.
   – Un ruggito!… Oh!… Oh!… Che ci sia un orso?
   – Lo temo.
   – Io ho un coltello alla cintura.
   – E anch’io, ma poco varranno tali armi contro una bestia così grossa e così feroce. Zitto!…
   In fondo alla caverna si udì un profondo ruggito, poi si videro brillare due occhi grandi, rotondi, dai riflessi verdastri.
   – Non è un orso – disse il tenente, che aveva subito impugnato il coltello. – O m’inganno di molto, o abbiamo da fare con una foca o con un tricheco.
   – Una foca qui dentro?
   – E perchè no? Non siamo forse a due passi dal mare? Sarà venuta qui a riposare o a mettersi al riparo dalla tempesta. Va a prendere un ramo di pino.
   Koninson si affrettò a obbedire e poco dopo ritornò con una bracciata di rami resinosi. Il tenente estrasse da una scatoletta di metallo ermeticamente chiusa l’acciarino e un pezzo d’esca e accese una di quelle torcie.
   – Avanti! – disse poi. – E i coltelli in pugno!
   Entrarono nella caverna che pareva assai profonda, e fatti dieci o dodici passi, si trovarono dinanzi ad una foca gigantesca, la quale si era appoggiata ad una parete mostrando i denti ed emettendo rauchi ruggiti.
   – Addosso, Koninson! – gridò il tenente.– Abbiamo la cena!
   Il fiociniere balzò addosso alla foca; con un formidabile pugno applicatele sul naso la stordì, poi con un rapido colpo di coltello la scannò. La morte fu quasi istantanea.
   Il tenente si avvicinò col ramo acceso e la osservò con curiosità.
   Era una otaria, anfibio appartenente alla famiglia delle foche, dalle quali si distingue per avere un poco d’orecchio esterno.
   – Quest’animale ci voleva – disse Koninson. – Ho una fame proprio feroce.
   – Metteremo ad arrostire il fegato, che passa per un boccone delicatissimo– disse il tenente. – Ma affrettati ad accendere il fuoco, Koninson, poichè stiamo per gelare. Tò! Cosa c’è laggiù? Una provvista di legna!
   Riprese il ramo di pino che aveva piantato accanto la foca e si recò in fondo alla caverna. Con sua grande sorpresa trovò una considerevole provvista di legna, un alto strato di licheni e due lance colla punta di ossidiana.
   – Ma questa caverna ha servito di ricovero a qualche indigeno – diss’egli.
   – Forse a qualche cacciatore! – aggiunse Koninson. – Ah! Il bel fuoco che accenderemo!
   Con due pezzi di roccia improvvisò un camino e vi gettò sopra un ammasso di legna. Il ramo, che continuava ad ardere, fu messo sotto e pochi istanti dopo una superba fiamma illuminava l’antro, spandendo all’intorno un dolce calore.
   Il tenente e Koninson si spogliarono rapidamente delle vesti che cominciavano a indurirsi, le stesero dinanzi alla fiamma e, impugnati i coltelli, sventrarono destramente l’otaria strappandole il fegato che fu tosto infilzato in una lancia e avvicinato ai tizzoni.
   – Che colazione! – esclamò Koninson, tornato di buon umore.– Ventre di balena! Il mio naso non ha mai sentito un profumo più appetitoso di questo. Non mancherebbe che una bottiglia di «gin» o di «wisky».
   – Ne faremo senza! – rispose il tenente, che si era accoccolato accanto alla fiamma e che si stropicciava energicamente le membra per riattivare completamente la circolazione del sangue.
   – Ditemi, signor Hostrup, – ripigliò il fiociniere. – è buona la carne delle otarie? Confesso di non averne mai mangiato.
   – Per gli Eschimesi, che vanno pazzi per l’olio e pel grasso, sì, ma per noi bianchi è detestabile.
   – Ma avendo fame la si può inghiottire.
   – Anche i tuoi stivali, non avendo altro da porre sotto i denti, si possono rosicchiare. Ma come mai questa otaria si trova qui sola?…
   – Vi sorprende forse?
   – Sì, Koninson, poichè ordinariamente vanno a branchi numerosissimi, specialmente in questa stagione. Su certi punti della costa americana, se ne vedono anche oggidì delle migliaia, malgrado la caccia spietata che loro fanno i balenieri e gli indigeni.
   – È vero, tenente, che queste otarie non appariscono sulle coste americane che il primo di maggio?
   – Sì, Koninson, e posso aggiungere anche che tutti gli anni giungono anche alla stessa ora..
   – E quanto vi rimangono?
   – Fino alla metà di dicembre. Oltre quest’epoca non si trova un’otaria a volerla pagare a peso d’oro. È un magnifico spettacolo, Koninson, che merita di essere veduto, l’approdo di questi anfibi.
   – Ma cosa vengono a fare sulle coste?
   – Vengono ad attendere le femmine, le quali giungono infallibilmente tutti gli anni il 15 di giugno.
   – Avete mai veduto uno di questi arrivi?
   – Sì, Koninson, e parecchie volte.. Sei anni or sono io mi trovavo nella baia Smith quando fu segnalato l’arrivo di parecchie migliaia di otarie. Erano tutti maschi. In men che lo si dica occuparono un punto della costa disponendosi su tre file: dinanzi i «beach-master», o padroni del posto, in mezzo i «bachelors» o celibatari, quasi tutti giovani, ultime le «riserve». Il 15 giugno fu segnalato l’arrivo delle femmine. Venivano innanzi in ranghi compatti e lunghissimi; anche qui le otarie si contavano a migliaia. Allora si vide uno spettacolo curioso.
   I «beach-master» si gettarono in mare, nuotarono incontro alle femmine e prendendole gentilmente per la pelle della nuca, ne portarono un gran numero a terra. Quando ognuno ne ebbe sette od otto, lasciarono allora il posto ai celibi i quali a loro volta balzarono in mare disputandosi con ferocissime zuffe le femmine rimaste.
   – I ranghi dei celibi di cosa sono composti?
   – Di otarie giovani.
   – E i «beach-master» sono invece?…
   – Gli adulti, e, come ti dissi, ognuno prende sette od otto femmine.
   – Corpo d’una balena! Sono veri sultanelli questi signori «beach-master».
   – E ve ne sono taluni forti e prepotenti che si prendono persino venti femmine.
   – E, giunta l’epoca della partenza, se ne vanno tutte assieme le otarie?
   – No, prima partono i vecchi, e ciò avviene in ottobre, poi i nati, quindi le femmine.
   – E mentre sono uniti non vengono disturbati?
   – I balenieri e gli Eschimesi piombano sovente in mezzo a questi grandi campi e fanno degli orribili macelli.
   – Per averne le pelli?
   – Sì, Koninson.
   – E si pagano bene?
   – Sei, otto e qualche volta dieci dollari ciascuna.
   – Fanno adunque dei lauti guadagni i cacciatori.
   – Sempre, poichè uccidono in quei massacri delle migliaia di otarie. Leva dal fuoco il fegato, che mi pare sia cotto a puntino.
   Il fiociniere obbedì e lo depose su di un sasso ben levigato.
   II tenente lo divise per metà e tutti e due cominciarono a lavorare di denti e così bene, che in cinque minuti più nulla restava.
   – Ora, – disse il tenente – facciamo una pipata e poi una dormita.
   – E non pensate al «Danebrog»? – chiese Koninson.
   – La tempesta continua, Koninson, e il «Danebrog» non tornerà finchè non sarà finita.
   – Ma sperate che ritorni?
   – Ne sono certo; ti ho detto che il capitano Weimar non è uomo da abbandonare i suoi marinai,
   II tenente accese la pipa che aveva ritrovata in una tasca della sua giacca assieme alla scatola del tabacco che era rimasto perfettamente asciutto, si sdraiò sullo strato di licheni e si mise a fumare flemmaticamente, mentre Koninson richiudeva alla meglio, con grossi sassi e rami di pino, l’apertura della caverna, per essere meglio riparato dal vento e dal freddo.
   Alle 9 mentre l’uragano accennava a decrescere, i due marinai, coricatisi l’uno accanto all’altro, coi piedi rivolti verso il fuoco, si addormentavano profondamente. Il loro sonno però fu di breve durata, poichè il baccano che veniva dal di fuori era veramente spaventevole. Erano continui muggiti prodotti dalle onde che venivano a sfasciarsi ai piedi del colle, lanciando degli sprazzi d’acqua persino dentro la caverna; erano continui scoppi prodotti dai ghiacci che si frantumavano gli uni contro gli altri e continui fischi ed urla indiavolate prodotte dal vento, il quale dopo essersi un pò calmato, aveva ripreso novella foga. Verso le 11, secondo i calcoli del tenente, provarono a mettere la testa fuori. Non nevicava più, ma il cielo era sempre coperto da gigantesche nubi le quali correvano disordinatamente per il cielo, accavallandosi confusamente sotto i furiosi colpi di vento, e il mare era ancora agitatissimo. Sulle onde oscillavano spaventosamente gran numero di «icebergs», di «hummocks» e di «streams».
   – Che cosa facciamo? – chiese Koninson.
   – Ti senti forte?
   – Sì, tenente.
   – Allora mettiamoci in cammino. Ho fretta di rivedere il «Danebrog».
   – Seguiremo la costa?
   – Finchè potremo sì, poi daremo la scalata a quella catena di colline che vedi lassù.
   Si coprirono alla meglio, si armarono di un grosso ramo di pino per aiutarsi nell’ascensione che stavano per intraprendere attraverso le dirupate colline, e si misero in cammino con passo abbastanza rapido, tastando però prima il terreno onde non cadere in qualche crepaccio che poteva celarsi sotto lo strato di neve. Per un po’ di tempo seguirono la costa passando in mezzo a picchi aguzzi, poi deviarono verso sud non essendovi più passaggi e cominciarono a scalare un’altissima collina coperta di neve e sulla quale ruggiva furiosamente il vento, torcendo un gruppetto di intristiti abeti.
   – Dannata bufera! – esclamò Koninson, piegandosi verso terra per meglio resistere agli urti del vento. – Quando cesserà?
   – Ne avremo fino a domani di certo. – rispose il tenente, che segnava la via.
   – Se il «Danebrog» si trova ancora in mare, sarà a quest’ora ben lontano da noi.
   – Se non lo troveremo oggi, sarà domani.
   – Ma dove dormiremo stasera?
   – In qualche altra caverna.
   – E metteremo sotto i denti?
   – Ho un bel pezzo di foca in tasca. Animo, Koninson, che la marcia comincia a diventare faticosa. Bada di non perdere l’equilibrio se non vuoi fracassarti le ossa.
   La marcia infatti diventava allora difficilissima e anche pericolosa.
   Non c’erano sentieri in nessun luogo e dalle nevi sorgevano punte rocciose così aguzze da lacerare le scarpe. Oltre a ciò il vento non cessava dal soffiare; anzi, la sua violenza, man mano che i due marinai si innalzavano, diventava sempre maggiore, trascinando con sè nembi di neve e ghiacciuoli e strappando, dalla cima del colle, delle pietre di non piccola mole, le quali scendevano rimbalzando violentemente di roccia in roccia. Verso la cima si udivano poi certi fischi e certi muggiti da mettere i brividi.
   I due poveri cacciatori di balene, acciecati dalla neve, gelati da quel ventaccio, percossi dai sassi, ora spinti da una parte e ora dall’altra, non procedevano che con molto stento. Ad ogni istante erano costretti a curvarsi ed aggrapparsi alle roccie per non essere portati via.
   Verso il tocco, sfiniti, insanguinati, coperti di neve, colle vesti lacere, le scarpe sfondate, giungevano sulla cima della collina che si stendeva in forma di altipiano. Colà il vento, non più imprigionato fra le rupi, urlava in modo orribile sconvolgendo lo strato di neve e torcendo come pagliuzze i pochi abeti che lassù vegetavano.
   – Vedete nulla? – chiese Koninson, addossandosi ad una rupe.
   Il tenente si arrampicò sulla cima della rupe e guardò innanzi a sè. Alla sua sinistra, ad un miglio di distanza, scorse il mare coperto di ghiacci; alla sua destra si elevava un’alta montagna dirupatissima e coperta di neve; dinanzi si estendeva una pianura ondulata, interrotta qua e là da piccoli corsi d’acqua gelata. Ad un tratto fece un gesto di stupore. Seguendo collo sguardo la costa, aveva veduto sorgere nel mezzo di una profonda spaccatura che doveva senza dubbio essere qualche piccolo seno o qualche stretto «fiord», gli alberi di una nave.
   – Vedete nulla, signor Hostrup? – chiese Koninson per la seconda volta.
   – Sì, fiociniere, vedo gli alberi di una nave – rispose il tenente.
   – Ventre di foca! Una nave avete detto? Il «Danebrog» forse!
   – Sì, è il «Danebrog», ne sono certo, Koninson.
   – Iddio sia ringraziato! È molto lontano?
   – Un miglio e mezzo forse.
   – Partiamo, partiamo, signor Hostrup! Non sono più stanco. Ah! Bravo capitano! Urrah! Urrah!
   – Calmati, Koninson.
   – Andiamocene di qui, signor Hostrup. Io ho le vampe sotto i piedi.
   Il tenente, che malgrado tutta la sua calma era pure impaziente di ritornare a bordo del valoroso «Danebrog», scese dalla rupe e si mise in cammino preceduto da Koninson. Nonostante la furia della burrasca, attraversarono rapidamente l’altipiano e scesero sul versante opposto lambendo un profondo abisso da cui uscivano dei lamentevoli ululati, forse emessi da qualche branco di lupi affamati.
   Dopo aver arrischiato più di venti volte di fracassarsi in fondo di quell’abisso e di rompersi le gambe giù per il dirupato pendio, giunsero nella pianura. L’attraversarono quasi a passo di corsa e si arrestarono sulle alte sponde di un lungo e stretto «fiord», in fondo al quale stava solidamente ancorato il «Danebrog» fra un gran numero di ghiacciuoli staccatisi da un grande e grosso banco di ghiaccio che si era incastrato dinanzi l’uscita di quel braccio di mare.
   – Ohe! Del «Danebrog»! – urlò Koninson con voce tonante.
   Un marinaio, poi due, poi cinque, poi tutti apparvero sulla tolda della nave. Un gran grido echeggiò
   – Il tenente Hostrup! Viva il tenente! Viva Koninson!
   Una baleniera fu subito calata in acqua, sette uomini, compreso il capitano Weimar, vi presero posto, e si diresse a tutta forza di remi verso la riva.
   Pochi minuti dopo il tenente e Koninson si trovavano l’uno fra le braccia del capitano e l’altro fra quelle di due camerati che ormai li avevano creduti per sempre perduti!


   XII. BLOCCATI DAI GHIACCI

   Il valoroso «Danebrog», guidato dall’abile e robusta mano del non meno suo valoroso capitano, era uscito sano e salvo dalla formidabile tempesta.
   Spinto dal vento, era andato ad investire non già contro la scogliera che era stata segnalata e come avevano dapprima creduto il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, bensì contro un gran banco di ghiaccio che era apparso quasi improvvisamente dinanzi la prua.
   L’urto era stato così gagliardo da atterrare l’intero equipaggio e da balzare in mare il tenente e il fiociniere, ma non aveva prodotto avarie al solido sperone della nave. Questa, dopo essersi arrestata per alcuni istanti, sollevata da una montagna d’acqua era tornata a cozzare contro l’ostacolo; poi aveva proseguito la disordinata corsa attraverso il nebbione.
   Appena accortosi della scomparsa del tenente e del fiociniere, malgrado la furia del vento, il mare sollevato spaventosamente e i numerosi banchi di ghiaccio che correvano disordinatamente in tutte le direzioni, il capitano, che amava assai quei due coraggiosi, aveva audacemente dato il comando di virare di bordo e di allestire la grande baleniera, ma la manovra ardita quanto pericolosa, con quell’imperversare degli elementi, non era riuscita.
   Allora diede il comando di poggiare verso la costa, risoluto di non abbandonare quei paraggi senza avere ritrovato vivi o morti i due disgraziati.
   Ed infatti, dopo una ostinata lotta contro l’uragano che la trascinava verso est e contro i ghiacci, la nave era riuscita a rifugiarsi in quel profondo «fiord», il quale era stato subito chiuso da un gran banco di ghiaccio staccatosi da un altro ancora più grande. E lì il capitano aspettava che la tempesta si calmasse un pò per rimettersi in cerca del tenente e del fiociniere, che supponeva rifugiati su qualche punto della costa o sulla scogliera intravveduta attraverso la nebbia.
   Il signor Hostrup e Koninson a bordo furono accolti con grande festa, poichè tutti li amavano assai per il loro coraggio e per la loro valentìa. Dovettero stringere le mani a tutti quanti e, quando furono ben vestiti ed ebbero calmati gli stiracchiamenti dello stomaco, furono costretti a narrare le loro avventure.
   – Ed ora, che cosa si fa? – chiese il tenente al capitano Weimar, quand’ebbe finita la narrazione.
   – Si aspetta che la burrasca finisca per fuggire verso ovest. La stagione della pesca è finita, tenente, e disgraziatamente assai male.
   – La scommessa è perduta dunque?
   – Sì, tenente! – rispose Weimar con tristezza. – I Danesi sono stati sconfitti.
   – Bah! Riprenderemo la rivincita l’anno venturo, capitano.
   – Sì, se riusciremo a guadagnare il porto che ci ha veduti partire.
   – Temete i ghiacci, capitano?
   – Sì, perchè ci siamo spinti troppo innanzi. A quest’ora noi dovremmo essere nel mare di Behring.
   – La nave è ancora solida, capitano, e può lavorare di sperone.
   – Non dico di no, ma temo che si avanzino i grandi banchi di ghiaccio. Sento per istinto che l’«icefield» non è lontano. Dannata scommessa che forse pagheremo assai cara! Essa sola ci ha trascinati fin qui.
   – E anche il destino, capitano. Due urti in una stagione sono stati troppi. E l’uscita dal «fiord» sarà facile? Ho veduto un banco di ghiaccio all’entrata.
   – Lo spezzeremo, tenente. Il «fiord» è lungo; possiamo quindi prendere un grande slancio. Ora andate a riposarvi, che ne avete bisogno; io ispezionerò il banco e cercherò di indebolirlo.
   Il tenente, che si sentiva affranto per la lunga marcia fatta attraverso le nevi e le rupi, si ritirò nella sua cabina, mentre il capitano scendeva nella baleniera con una dozzina di marinai muniti di grandi seghe, di picconi e di scuri.
   Il banco di ghiaccio che chiudeva il «fiord» fu accuratamente visitato. Era lungo duecentosessanta metri, largo centoventi e grosso nove pollici. Per di più, sul dinanzi, spinti dalle onde e dal vento si erano aggruppati parecchi «hummoks», «streams» e «palks» che tendevano a cementarsi rendendo maggiore l’ostacolo.
   – Il «Danebrog» avrà un osso duro da spezzare! – disse mastro Widdeak al capitano. – E se non facciamo presto diverrà ancora più duro.
   – La tempesta si calma, vecchio mastro. – disse Weimar. – Stanotte potremo partire.
   – Dobbiamo assalire il banco?
   – Assalitelo.
   – Non si chiuderà il canale che apriremo, col freddo che fa?
   – Speriamo che ciò non accada. Non abbiamo che due gradi sotto zero. Mano alle seghe e ai picconi.
   Il mastro tracciò sul banco un canale largo sette o otto metri e i marinai si misero alacremente al lavoro manovrando vigorosamente i loro attrezzi.
   Prima di sera un terzo del banco era stato spezzato. Non restava che un tratto di sessanta metri e questa rottura poteva benissimo farla, e senza pericolo, lo sperone del «Danebrog».
   Alle otto il capitano e i marinai tornarono a bordo. L’uragano allora cominciava a diminuire rapidamente. Non soffiava il vento che a colpi irregolarissimi e il mare non si sollevava più così furiosamente come il giorno innanzi.
   Durante la notte anche il cielo si rischiarò e apparve il sole, illuminando d’una tinta porporina, superba, i ghiacci che galleggiavano sul mare diventato ormai quasi tranquillo.
   Alle 6 del mattino il capitano Weimar, il tenente e tutti i marinai erano in coperta, decisi di uscire a qualunque costo da quel «fiord».
   Tutte le baleniere furono ritirate a bordo e ben assicurate onde l’urto, che poteva essere violentissimo, non le danneggiasse, poi furono solidamente assicurati i mobili delle cabine di poppa e i barili della stiva. Alle 7 le vele furono spiegate e i! capitano si mise alla ribolla del timone mentre i marinai si disponevano ai bracci delle manovre.
   Un vento fresco soffiava da sud-sud-est portando in alto mare i ghiacci che la tempesta aveva spinto verso la costa, e un superbo sole brillava sull’orizzonte spargendo all’intorno un dolce calore.
   Alle 7 e dieci minuti l’ancora fu strappata dal fondo e ritirata a bordo. Subito il «Danebrog», sotto l’azione del vento che gonfiava le sue vele, si scosse come un cavallo che sente lo sprone e cominciò a filare con notevole velocità verso l’uscita del «fiord», dinanzi al quale scintillava il banco di ghiaccio.
   C’erano oltre novecento metri da percorrere. Tale distanza era più che sufficiente per imprimere al «Danebrog» lo slancio necessario per frantumare l’ostacolo già stato considerevolmente indebolito il dì innanzi dalle seghe, dai picconi e dalle scuri dei marinai.
   – Saldi, in gambe! – gridò il capitano che stringeva con ferrea mano la ribolla del timone.
   Spinto dal vento che tendeva a crescere, il «Danebrog» si avvicinava rapidamente al banco, lasciandosi dietro una scia bianchissima in mezzo alla quale guizzavano non pochi pesci.
   I marinai, aggrappati al bordo o alle sartie, non respiravano quasi più e guardavano con qualche apprensione il banco che si faceva ad ogni istante più vicino.
   – Attenzione! – gridò il capitano.
   Non c’erano che quindici o venti metri. Il «Danebrog», che correva colla velocità di sette nodi all’ora, in brevi istanti superò quello spazio e si scagliò in mezzo al canale scavato il dì innanzi dai marinai. Avvenne un urto formidabile che mandò a gambe levate gran parte dell’equipaggio, seguito subito da uno scricchiolìo sinistro e da una mezza dozzina di sorde detonazioni.
   Il banco colpito in pieno dall’acuto e solido sperone della nave baleniera si fendette come una lastra di vetro, poi si spezzò in dieci diversi punti con lunghi stridii.
   Per alcuni momenti il «Danebrog» restò quasi immobile, poi guidato dal suo intrepido capitano, si cacciò in mezzo a quei frantumi e uscì in pieno mare colla prua verso nord.
   – Urrah! – urlò l’equipaggio che si era subito rimesso in gambe. – Viva il «Danebrog»! Viva il capitano Weimar!
   Dinanzi al «fiord» il mare era libero, ma a destra e a sinistra, un numero immenso di ghiacci accumulativi dall’uragano, ingombrava le coste. Montagne gigantesche, picchi aguzzi, piramidi tronche, colonne enormi, arcate curiose, cupole ancor più strane, poi grandi banchi si estendevano verso nord formando coi loro riflessi la luce bianca che, come dicemmo, i marinai chiamano «ice-blink».
   Nessuna nave solcava le onde che erano diventate basse assai e molto lunghe e che, sotto i raggi del sole, splendevano magnificamente come se fossero cosparse di pagliuzze d’oro. Solamente in aria, attraverso l’«ice-blink», volavano silenziosamente alcuni gabbiani.
   – Bisogna spingersi verso nord per qualche centinaio di miglia – disse il capitano al tenente, dopo aver guardato attentamente, con un forte cannocchiale, l’ampia distesa d’acqua. – Troveremo il mare libero e potremo allora navigare senza lottare contro i ghiacci.
   – Non allontaniamoci tanto dalle coste, capitano – disse il tenente.– Appena lo possiamo, pieghiamo verso ovest; bisogna affrettarsi a raggiungere lo stretto di Behring.
   – Lo faremo, signor Hostrup, a meno che non incontriamo sulla nostra via qualche…
   – Che cosa, capitano?
   – Tornare in porto sconfitto, mi punge assai.
   – Ah! Volete dire che se una balena venisse a nuotare nelle nostre acque…
   – Non esiterei a darle la caccia, dovessi spingere la mia nave fino ai grandi campi di ghiaccio.
   – Sarebbe un’imprudenza imperdonabile, capitano. Abbiamo già tardato troppo a ritornare quest’anno. Due giorni ancora perduti potrebbero esserci fatali. Non vi pare?
   Il capitano non rispose. Aveva puntato il cannocchiale verso est e guardava con grande attenzione. Il suo viso, di solito tranquillo, si era tutto d’un tratto cambiato e un leggero tremito agitava le sue braccia.
   – La via è lunga assai! – continuò il tenente che non si era accorto di nulla. – Io sono certo che quando giungeremo nel mare di Behring lo troveremo in gran parte gelato e…
   – Tenente! – esclamò in quell’istante il capitano con voce alterata. – Non vedete nulla voi laggiù, verso est?
   – Sì, degli «icebergs» che danzano allegramente.
   – No, più lontano, guardate più lontano. A voi, prendete il cannocchiale.
   Il tenente prese lo strumento e lo puntò nella direzione indicata. Là dove il mare pareva confondersi coll’orizzonte, scorse parecchi punti neri apparire e scomparire e poi riapparire.
   – Vedete nulla? – chiese Weimar.
   – Sì! – rispose il tenente con voce tranquilla. – Vedo un branco di balene.
   – La vittoria è nostra, tenente! Anche quest’anno i Danesi trionferanno.
   – Cosa intendete dire, capitano?
   – Che daremo la caccia alle balene. Torneremo a Nuova Arcangelo così carichi da affondare, o poco meno. Il tenente fece un gesto di stupore.
   – Perderemo un’altra settimana, signore – disse poi con grave accento.
   – Che importa?
   – Vi ho detto poco fa che siamo lontani dal mare di Behring, e che dubito assai lo si possa attraversare.
   – Bah! Lavoreremo di sperone, se i ghiacci l’avranno chiuso.
   – Capitano, pensateci due volte. Giuocate la sorte non solo del «Danebrog», ma di noi tutti.
   – Quando si tratta dell’onore dei balenieri danesi non occorre pensarci su due volte. Bisogna cacciare quelle balene, tenente, e a qualunque costo.
   – E sia, signore. Ma badate a me, facciamo presto, assai presto o saremo costretti a svernare in mezzo ai ghiacci.
   – Non domando che tre o quattro giorni. Ehi!, mastro Widdeak, governa dritto a quelle balene e voi, ragazzi, preparate le baleniere e i ramponi!
   – Ma… capitano… – arrischiò il vecchio lupo di mare, che come il tenente Hostrup aveva previsto il pericolo.
   – Che vuoi tu dire? – chiese il capitano.
   – Siamo innanzi assai colla stagione…
   – Sei hai paura, sbarca sulla costa americana.
   – Mai, signore. Il vecchio Widdeak non abbandona il «Danebrog».
   – Allora ubbidisci. Alle manovre, ragazzi! Domani avremo tanto grasso da affondare il «Danebrog» fino al bastingaggio.
   Un istante dopo il «Danebrog» virava di bordo mettendo la prua verso la direzione indicata. I marinai, quantunque avessero pur essi compreso che stavano per giuocare una carta pericolosa, che poteva anche costare loro la vita, si erano subito messi alacremente al lavoro, incoraggiati dai due fiocineri. Tutti ci tenevano assai alla scommessa, gelosi dell’onore dei balenieri danesi; per di più, in quel branco di balene, intravvedevano dei grossi guadagni.
   Le baleniere furono in brevissimo tempo armate e sospese alle gru pronte ad essere calate in mare al comando del capitano. I remi, le fiocine, le lancie, le lenze, furono ben disposte nelle imbarcazioni.
   In capo ad un’ora il «Danebrog» era lontano otto miglia dalla costa americana e solamente sette dalle balene che filavano superbamente verso nord fra una doppia fila di banchi di ghiaccio. Quale spettacolo offrivano quei giganti dell’oceano artico!
   Erano nove, seguiti da due o tre balenottere e anche queste di dimensioni non comuni. Avanzavano lentamente, gettando in aria, dai loro sfiatatoi, colonne di bianco vapore che tosto si scioglievano. Il sole, battendo sulla loro pelle oleosa, li faceva sembrare immensi cilindri d’acciaio.
   Ogni qual tratto uno di essi si tuffava formando alla superficie del mare un vero vortice e poco dopo riappariva a grande distanza sollevando colla possente coda grandi ondate, che facevano oscillare vivamente i ghiacci galleggianti.
   I marinai del «Danebrog», entusiasmati a quella vista, non stavano più fermi, quantunque il comandante avesse raccomandato a tutti calma e silenzio. Salivano sulle griselle, sulle coffe e più su, fino alle crocette, per meglio vederli e mandavano grida di gioia.
   Koninson, col suo terribile rampone in pugno correva da prua a poppa animando tutti, seguito da Harwey che era pure desideroso di venire a una lotta con quei mostri, malgrado il loro numero che poteva riuscire fatale all’equipaggio del «Danebrog». Persino mastro Widdeak aveva dimenticato l’altro pericolo che minacciava la nave baleniera e nei suoi occhi brillava un’ardente bramosia. Il solo tenente, calmo sempre, seguiva con sguardo perfettamente tranquillo lo sfilare di quel branco.
   Già il «Danebrog», spinto da un freschissimo vento di sud-sud-ovest non distava che cinque o sei nodi dalle balene, quando queste ad un tratto, e tutte insieme, si tuffarono. Quando tornarono a galla diedero segni di una viva inquietudine.
   Si volgevano spesso verso sud, battevano la coda precipitosamente, si drizzavano slanciandosi più che mezze fuori dell’acqua e gettavano con maggior frequenza colonne di vapore.
   – Cosa succede laggiù? – si chiese il capitano aggrottando la fronte. – Che abbiano paura di noi?
   – Non lo credo! – disse il tenente che gli stava appresso. – Scommetterei che sono state assalite.
   – Assalite! E da chi?
   – Voi sapete, capitano, che hanno numerosi nemici. Ah! Guardate là, verso est, quei corpi nerastri che si avanzano rapidamente.
   – Sì, sì, li scorgo.
   In quell’istante si udì Koninson, che si era arrampicato sulla coffa di trinchetto, gridare:
   – Abbiamo una truppa di delfini gladiatori!
   Quasi nello stesso tempo le balene si davano a precipitosa fuga verso nord. Avevano scorto i delfini, che sono loro acerrimi nemici.
   Il capitano fece un gesto di rabbia.
   – Dannazione! – gridò. – Chissà quanto dovremo filare!
   – Ma guadagneremo qualche balena senza adoperare il rampone! – disse Koninson che aveva lasciato la coffa. – I delfini raggiungeranno senza dubbio le balene e qualcuna, nella lotta, ci lascerà la vita.
   – Ma saremo costretti a salire ancora verso nord, e la stagione invernale si avanza a rapidi passi.
   – Bah! Poi ci trarremo d’impaccio come potremo. Ah! Se potessi affrontare quel branco! Che colpi di rampone!
   Le balene intanto, che temono assai i delfini gladiatori per la loro forza, per i loro aguzzi denti e per la loro ferocia, fuggivano sempre più rapidamente dirigendosi verso le rigidissime regioni del polo. Attorno ad esse il mare, percorso da quelle dodici code, pareva in burrasca. A destra e a sinistra correvano grandi ondate le quali facevano capovolgere con grande fracasso i numerosi ghiacci galleggianti.
   Di tratto in tratto si tuffavano come se temessero di venire assalite per di sotto, indi riapparivano cacciando con grande furia nubi di vapore ed emettendo delle note acute che si udivano distintamente dall’equipaggio del «Danebrog».
   Ben presto però, grazie alla loro prodigiosa andatura, scomparvero dietro ghiacci che coprivano l’orizzonte. I delfini gladiatori, che dovevano essere almeno due dozzine, le seguirono nuotando pur essi con grande velocità.
   Il «Danebrog» però non si arrestò. Il capitano Weimar, e come lui quasi tutto l’equipaggio, avevano giurato di raggiungerle e, ancorchè i pericoli diventassero sempre più numerosi essendo il mare coperto ovunque di ghiacci d’ogni dimensione, ordinò al timoniere di seguire le grandi macchie oleose lasciate dalle balene.
   Favorito dal vento, che tendeva sempre a crescere, il «Danebrog» navigò tutta la notte verso nord, notte per modo di dire, poichè il sole non rimaneva nascosto che poche ore, ed anche in quelle poche ore all’orizzonte rimaneva tanta luce da distinguere le traccie oleose.
   Il mattino del 25 settembre, la nave si trovava già a un centinaio di miglia dalla costa americana, ma le balene, senza dubbio vigorosamente inseguite dai loro accaniti nemici, non erano state ancora scoperte.
   La sera dello stesso giorno però, presso uno «stream», fu raccolto un delfino gladiatore colla testa sfracellata, probabilmente da un colpo di coda di qualche balena. Il mostro era lungo sette metri e gli uccelli marini gli avevano già lacerato la pelle del dorso.
   Fu issato a bordo, fatto a pezzi e il grasso rinchiuso nelle botti.
   Il 26 l’equipaggio del «Danebrog» notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull’orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria.
   Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il «blink» che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell’animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il «Danebrog» non cambiò rotta.
   All’indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord.
   – È un banco solo o sono due divisi dal canale? – si domandò il capitano.
   – Sono due senza dubbio – disse Koninson che l’aveva udito. – E le macchie oleose continuano nel canale.
   – E cosa vuoi concludere, fiociniere?
   – Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall’altro lato.
   – Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale!
   Il «Danebrog», che avanzava con una velocità di otto nodi all’ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un «iceberg» immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi.
   Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il «blink» rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi.
   Il «Danebrog» guidato dall’esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli «streams» e «hummoks» che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero.
   Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò:
   – Capitano! Il canale è chiuso!
   Weimar salì sull’alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un’imprecazione uscì dalle sue labbra.
   Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all’estremità di quel braccio di mare.
   – Bisogna tornare indietro – disse il tenente.
   – Ma le balene dove sono fuggite? – chiese il capitano con i denti stretti.
   – Probabilmente sono uscite prima dell’arrivo del banco.
   – Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi – aggiunse Koninson.
   – Che fare ora? – chiese il capitano.
   – Capitano, – disse il tenente – badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito.
   – E la scommessa?
   – Ci prenderemo la rivincita l’anno venturo.
   Il capitano, sceso in coperta diede l’ordine di tornare indietro. Il «Danebrog» virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua.
   Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all’imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L’«iceberg», visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!


   XIII. ALLA DERIVA

   Il «Danebrog», la valorosa nave del capitano Weimar, altro non aspettava che lo spezzamento di quei tre banchi per uscire dal canale, o il loro squagliamento, cosa questa assai difficile ad avverarsi in quell’alta latitudine e in una stagione così avanzata.
   Tutta la polvere della Santa Barbara, tutte le braccia dell’equipaggio e lo sperone, per quanto solido, sarebbero stati impotenti ad aprirsi un varco. Dinanzi, l’«iceberg» colla sua torre e la sua alta vetta era inattaccabile; a destra, a sinistra e dietro i tre banchi, ormai solidamente uniti, colla loro immensa superficie, non lo erano meno. C’era il pericolo di dover svernare in quello stretto braccio di mare. E quali orrori allora! Lo stesso tenente Hostrup, che di nulla si sorprendeva e di nulla si spaventava, provò un fremito al solo pensarlo.
   Sulla coperta della nave baleniera, dopo le prime imprecazioni, regnò un funebre silenzio. Tutti i marinai, quantunque già abituati ai terribili freddi del polo e quantunque parecchi di essi fossero usciti salvi da più di uno svernamento, erano atterriti.
   Il capitano, dopo aver dato il comando di virare di bordo onde non infrangere la nave contro quelle solide pareti di ghiaccio, si era portato sul castello di prua e di là, colle braccia incrociate, lo sguardo torvo, silenzioso, scoraggiato e irritato ad un tempo, si era messo a contemplare l’«iceberg» che gli chiudeva l’uscita. Forse cercava un modo qualsiasi per uscire da quella prigione che poteva anche cambiarsi per lui e per il suo equipaggio in una tomba.
   La voce del tenente Hostrup, tranquilla anche in quel terribile frangente, lo strappò alle sue meditazioni.
   – Signore, che intendete fare?
   – Non lo so ancora, tenente! – rispose il capitano. – Ah! Perchè non ho seguito i vostri consigli? E il cuore me lo diceva che la fortuna avrebbe finito col volgersi contro di noi. Ci aveva protetti troppo in questa campagna, che per ogni altro sarebbe stata fatale.
   – Lasciamo i rimpianti, capitano. Cerchiamo invece se è possibile uscire di qui.
   – Ma in qual modo?
   – Forse possiamo aprirci un passo attraverso l’«iceberg».
   – Tutta la nostra polvere non basterebbe.
   – Forse non presenta una grande solidità. Le mine prima e lo sperone dopo potrebbero riuscire a qualche cosa.
   – Andremo a visitare quella dannata montagna. Ma se non si riuscisse a nulla?
   – Aspetteremo.
   – Cosa mai? Non dimenticate, tenente, che siamo al 28 di settembre e che in questa epoca il sole non ha più tanta forza da sciogliere un campo di ghiaccio.
   – Sullo scioglimento non calcolo, capitano.
   – E allora?
   – Calcolo invece sull’incontro di qualche «icefield». Nell’urto che accadrebbe, i campi di ghiaccio potrebbero fendersi e permetterci l’uscita.
   – Debole speranza, signor Hostrup.
   – Lo so, ma non ne abbiamo un’altra migliore. Fate ancorare la nave, signore, e andiamo a visitare l’«iceberg».
   Mastro Widdeak, ad un ordine del capitano, diresse il «Danebrog» verso una specie di «fiord» che formava il banco di sinistra e lo fece ormeggiare con doppie gomene ad un solido «hummock». Ciò fatto, Weimar, Hostrup, Koninson e sei marinai si imbarcarono in una baleniera e si portarono sotto l’«iceberg», in un punto ove l’approdo non era difficile.
   La montagna di ghiaccio fu minutamente visitata. Misurava novanta e più metri di larghezza e milleduecento di lunghezza con una vetta di almeno quattrocento. Da una parte combaciava perfettamente con un banco, ma dall’altra lasciava un canaletto, così piccolo però da non permettere nemmeno il passaggio ad un canotto.
   – È inattaccabile! – disse il capitano. – Occorrerebbero cinque tonnellate di polvere e cento uomini per aprire un passo capace di permettere l’uscita al «Danebrog».
   – Lo riconosco – rispose il tenente.
   – E se si tentasse di tagliare l’uno o l’altro dei banchi? – disse Koninson.
   – I grandi freddi ci sorprenderebbero prima di aver scavato un canale di cinquecento braccia – rispose Weimar.
   – Allora non c’è più speranza di riguadagnare lo stretto di Behring.
   – Lo temo, Koninson.
   – Dannate balene! Mi vengono i brividi al pensare che forse dovremo qui svernare.
   – Torniamo a bordo; non abbiamo più nulla da fare qui – disse il capitano.
   – Cammina il banco?
   – Sì, verso sud-sud-ovest. La corrente polare lo porta.
   – Ma allora finiremo nello stretto di Behring.
   – Sì, se non verremo arrestati da altri banchi o da qualche isola della costa americana. A bordo, amici, e fidiamo in Dio.
   La baleniera in pochi colpi di remo li ricondusse al «Danebrog», dove li attendevano con viva ansietà i marinai. Il capitano in poche parole li informò del vero stato delle cose, lasciando però intravvedere delle speranze che forse più non esistevano, poi diede ordine di ammainare le vele che per il momento diventavano inutili e di assicurare vieppiù la nave, ma in modo da tenerla in mezzo al «fiord».
   Quelle diverse manovre erano state appena eseguite, che il sole scomparve dietro una massa di vapori di un color plumbeo. Era un nebbione che avanzava stendendosi al disopra dei grandi banchi, ma così fitto da oscurare perfino il «blink».
   – L’inverno procede a grandi passi – disse il tenente a Koninson. – Temo che per il «Danebrog» sia proprio finita.
   – Anch’io ho questo timore, signor Hostrup – disse il fiociniere. – Fra pochi giorni avremo intorno a noi tanti ghiacci da sfidare lo sperone di cento fregate. Tò! Ecco quegli uccelli che volano verso sud. Fortunati volatili!
   Verso le 10 il nebbione che avanzava rapidissimamente, spinto innanzi dal vento che aveva cambiato già direzione, era giunto sopra i grandi banchi avvolgendo il «Danebrog» in un velo umidissimo e freddissimo. Quasi subito il termometro scese a 4° sotto zero.
   L’equipaggio, dopo aver acceso per ogni precauzione i fanali e collocato due sentinelle armate di fucile, onde impedire che qualche orso bianco si avvicinasse alla nave, cosa del resto non difficile stante la vicinanza dei banchi, si ritirò sotto coperta.
   Durante la notte nulla accadde di straordinario. Il «wacke» – tale è il nome che i balenieri danno ai banchi contenenti un bacino d’acqua – navigò lentamente verso sud-sud-ovest, spinto dal vento e dalla corrente polare, aggregando alla già sua enorme mole i ghiacci che incontrava sul suo cammino.
   L’indomani, 29, il sole non si fece vedere, nascosto come era dal nebbione sorto alla sera, e il termometro scese di due altri gradi sotto lo zero. I ghiacciuoli, che ingombravano il canale, in parecchi luoghi si unirono formando dei sottili lastroni di ghiaccio. Quel principio di congelamento impressionò non poco l’equipaggio del «Danebrog». Parecchi marinai cominciarono a perdere ogni speranza di poter riguadagnare il porto da cui erano partiti.
   Il capitano e il tenente, durante la giornata, fecero una visita all’«iceberg» e notarono con dolore che si era cementato ancor più solidamente ai banchi e che il canaletto era interamente gelato.
   Il 30 fu una giornata orribile. Una nevicata abbondantissima cadde dal cielo coprendo i banchi di un lenzuolo alto parecchi palmi e la coperta del «Danebrog». Il termometro scese di un altro grado.
   Il capitano fece accendere le stufe e, per non tenere i suoi uomini in ozio, che in quelle fredde regioni influisce assai sul morale, ordinò di procedere alla depurazione dell’olio di balena.
   Per questa operazione si adoperano sacchi di flanella ripieni nel frammezzo di carbone in polvere distribuito su uno strato grosso un mezzo pollice e trattenuto da trapunti, onde impedire che si raccolga tutto nel fondo.
   Entro questi sacchi si versa l’olio, dopo averlo liquefatto, se il freddo l’ha già fatto gelare, e si lascia filtrare entro un vaso contenente una certa quantità d’acqua mescolata con solfato di rame. Quando il vaso è quasi pieno, si lascia riposare l’olio tre o quattro giorni, indi si estrae col mezzo di una chiavetta posta alcune linee sopra il livello dell’acqua.
   Se si vuol avere un prodotto purissimo, che non sappia di pesce rancido, basta ripetere l’operazione due o tre volte.
   L’equipaggio, impedito di uscire per la neve che cadeva senza posa e per il gran freddo che regnava in coperta, accettò di buon grado quel passatempo.
   Verso sera la burrasca di neve si calmò e apparve attraverso le bigie nubi un raggio di sole di una bellezza incomparabile, il quale tinse di rosso l’immensa distesa di ghiacci accavallati attorno alla nave.
   Il tenente e Koninson ne approfittarono per scendere sul banco e abbatterono una mezza dozzina di oche e alcune procellarie. Videro anche, a non molta distanza dalla nave, una foca, ma questa appena scorse gli uomini si cacciò nel buco che aveva scavato nel ghiaccio per venire a respirare.
   – Se non è oggi, ti prenderemo domani! – disse il fiociniere.
   – Non sarà però cosa facile, Koninson. Ora che ci ha scoperti diventerà prudente assai.
   – Ci nasconderemo dietro qualche «hummock» e appena uscirà dal buco le manderemo una palla nella testa. Che ci siano anche degli orsi bianchi su questo «wacke»?
   – Non è improbabile. Sovente, spinti dalla fame, questi feroci carnivori si imbarcano sugli «icebergs» colla speranza di sbarcare in una contrada ben fornita di selvaggina. Non sarei sorpreso se domani ne vedessi giungere qualcuno.
   – Niente di meglio, signor Hostrup. La carne degli orsi è eccellente.
   – Non dico di no, ma quelle bestiacce non temono di assalire una nave.
   – Bah! Siamo in molti noi, e fucili ne abbiamo in quantità. Ventre di balena! Guardate laggiù, signor Hostrup! Guardate, guardate!
   – Vedi un orso forse?
   – Le nostre balene vedo, ventre di foca!
   Il fiociniere non si era ingannato. Dall’altra parte del banco, undici balene, comprese tre balenottere, nuotavano verso sud aprendosi a gran colpi di coda il passo fra i ghiacci.
   – Si direbbe che vengono a deriderci – disse il tenente.
   – Eh! Vorrei essere fuori di qui col mio rampone, per insegnar loro a ridere! – esclamò il fiociniere che seguiva cogli occhi fiammeggianti quei superbi giganti. – E invece siamo qui, chiusi dappertutto, e anche colla brutta probabilità di restarvi un bel pezzo.
   – Puoi dire colla certezza, Koninson.
   – Non avete alcuna speranza voi, tenente?
   – Nessuna, fiociniere.
   – E lo dite così tranquillamente! Si direbbe che uno svernamento non vi spaventa.
   Il tenente alzò le spalle.
   – Bisogna prendere e le cose come vengono, mio caro – disse. – Torniamo a bordo, che comincia a soffiare un vento indiavolato e rigidissimo. Prevedo per domani una burrasca.
   – Bisognerebbe che fosse così formidabile da spezzare questo dannato «wacke».
   – Sarà tremenda, te lo assicuro. Guarda che brutte nubi si accavallano in cielo.
   – E spezzerà il banco?
   – È probabile, Koninson.
   Quando tornarono a bordo, il vento aveva cominciato già a soffiare con furia estrema, spazzando la neve che copriva il banco e sollevando a grande altezza l’acqua dell’oceano. Pareva che portasse con sè una legione di demoni; ora fischiava attraverso gli alberi e le corde della nave, ora ruggiva tremendamente sulle vette degli «icebergs», ora muggiva ancor più forte delle onde che già s’infrangevano con grande impeto contro i ghiacci, abbattendoli e frantumandoli contro il «wacke».
   Il capitano, temendo che la nave non resistesse a quei poderosi soffi, la fece maggiormente assicurare con altre e più grosse gomene, e ordinò che si raddoppiassero gli uomini di guardia.
   La notte fu spaventevole. I ghiacci dell’oceano, cacciati dalle regioni settentrionali, venivano a cozzare contro il banco a centinaia, con un fracasso indicibile, accavallandosi gli uni sugli altri, spezzandosi, frantumandosi.
   Ondate mostruose, spinte dal vento, si sfasciavano incessantemente contro il banco e, cacciandosi sotto di esso, malgrado il suo enorme peso e la sua grande estensione, lo facevano traballare e scricchiolare. Dei larghi crepacci si aprivano di quando in quando, ma tosto si riunivano come se avessero paura che la nave fuggisse per di là.
   Anche nel canale l’acqua era agitatissima e molti ghiacci, strappati alle rive o rovesciati dal ventaccio, galleggiavano correndo disordinatamente ora qua ora là.
   Il «Danebrog», quantunque solidamente assicurato, tre volte si spostò minacciando di urtare contro le rive del piccolo «fiord». I marinai, malgrado la profonda oscurità, furono costretti a gettare nuove funi e a portare sul banco due ancore che furono cacciate entro profonde fessure.
   Alle 2 del mattino, quando maggiore era la furia dell’uragano, il banco, come se fosse stato mosso dal terremoto, ondeggiò fortemente da sud a nord e una grande apertura si manifestò in quella direzione con uno scroscio così forte da poter essere udito a dieci chilometri di distanza.
   L’«iceberg» che chiudeva il canale fu visto un istante dopo staccarsi e oscillare. Un urlo di gioia si alzò fra l’equipaggio del «Danebrog», salito tutto in coperta.
   Credette di essere finalmente libero!
   Disgraziatamente quella gioia fu di breve durata. Il colosso, dopo essersi allontanato di poche decine di braccia, spinto dalle onde tornò a urtare contro il banco, incastrandosi ancor più fortemente di prima dentro il canale.
   Anche la grande fenditura manifestatasi attraverso il «wacke» si chiuse in seguito alla straordinaria pressione esercitata dai ghiacci che scendevano a migliaia dal settentrione.
   – Tutto è finito per noi! – disse il capitano al tenente. – Bisognerà svernare.
   – Forse – rispose Hostrup, che da qualche istante guardava con un cannocchiale verso sud.
   – Su che sperate?
   – Ho scorto or ora laggiù una vetta oscura che s’innalza in mezzo ad un banco di ghiaccio.
   – Ebbene?
   – Il vento ci spinge verso quella terra, capitano.
   – Ma siete certo che sia una terra?
   – Non m’inganno.
   – Ma è impossibile che siamo già giunti presso la costa americana.
   – Sono già due giorni che il vento ci spinge verso il sud, aiutando la corrente. Può essere anche, invece della costa americana, un’isola.
   – E cosa sperate nell’incontro di quella terra?
   – L’uragano ci porta con una velocità non indifferente.
   – Ah! Voi sperate in un urto.
   – Sì, capitano.
   – Infatti il banco potrebbe infrangersi. E non correrà pericolo il «Danebrog»?
   – Il canale è largo.
   – Lo so, ma i ghiacci potrebbero accumularvisi dentro e stritolarci.
   – Se ci mettessimo alla vela?
   – Avete ragione. Ehi, mastro Widdeack! Fa spiegare le vele e sciogliere gli ormeggi.
   C’era il tempo necessario, essendo la terra scoperta dal tenente assai lontana. I marinai, che avevano compreso di che si trattava e su quale speranza calcolava il capitano, in un batter d’occhio portarono in coperta le vele, le infierirono ai pennoni e le spiegarono, mentre mastro Widdeack, assieme a Koninson e ad Harwey, scesi sul banco, liberavano le ancore e scioglievano le gomene.
   Mezz’ora dopo il comando dato, il «Danebrog» usciva dal «fiord» infrangendo i ghiacciuoli che lo ingombravano e si portava in mezzo al canale, allontanandosi dall’«iceberg» che doveva essere il primo a sostenere l’urto. La terra segnalata non distava allora che un miglio. Era una roccia di mille metri di estensione e alta un trecento o quattrocento. Tutto intorno si estendevano grossi banchi di ghiaccio e grande numero di ghiacci galleggianti.
   Il «wacke», che filava con una velocità di tre o quattro nodi all’ora, in brevi istanti fu addosso all’isolotto. Si udì uno scroscio cento volte più forte di quello avvenuto poche ore prima, seguito, poco dopo, da un tonfo sordo causato dalla caduta di alcune montagne di ghiaccio.
   Il «wacke», fracassati i ghiacci che circondavano dal lato nord l’isolotto, andò a cozzare contro lo scoglio con tale impeto da ritornare indietro. Due larghe fessure si aprirono, le rive del canale si restrinsero e in parte diroccarono, le piramidi, le arcate, le colonne crollarono, ma il «Danebrog» rimase prigioniero. L’«iceberg», quantunque avesse sopportato quasi tutto il cozzo, non aveva ceduto. Solo la sua torre aveva oscillato e si era screpolata, ma senza cadere.
   Sul ponte del «Danebrog» si alzò un urlo di rabbia. Questa volta per i balenieri era proprio finita. Più non restava che svernare.


   XIV. LO SVERNAMENTO

   Sì, questa volta per il «Danebrog» era proprio finita. Non gli restava più alcuna speranza di potersi liberare da quella formidabile cerchia di ghiacci che lo stringevano come in una morsa di ferro, impossibile a spezzarsi, anzi tendente a chiudersi sempre più, forse fino a stritolarlo.
   Bisognava attendere il ritorno dell’estate, non meno di sei mesi, se non anche più.
   Sei mesi fra i ghiacci! Sei interminabili mesi fra le tempeste di neve; sei interminabili mesi fra le nebbie, avvolti in una continua oscurità, giacchè il sole fra breve doveva tramontare.
   E quali freddi da sopportare! E quali pericoli da sfidare! C’era di che spaventare il più intrepido baleniere dei mari artici; c’era di che far rabbrividire il più intrepido esploratore delle regioni polari.
   Quando l’equipaggio del «Danebrog» s’avvide che il gran banco di ghiaccio non si era spezzato, come aveva dapprima sperato, fu preso da una violenta collera che si tramutò ben presto in un profondo scoraggiamento. Dinanzi ai suoi occhi erano passate tutte d’un colpo le orribili sofferenze che porta con sè lo svernamento.
   Fortunatamente il capitano Weimar, dotato di un’audacia senza pari e di un sangue freddo ammirabile, quantunque avesse compreso che la sua nave aveva novanta probabilità su cento di venire stritolata, non aveva perduta la testa.
   Con un gesto energico chiamò attorno a sè i marinai e disse:
   – Non scoraggiatevi, amici. Altri balenieri, rinchiusi come noi fra i ghiacci del polo, hanno riveduto la loro patria. La nostra nave è solida, le nostre provviste abbondanti, i nostri cuori sono forti, i nostri corpi agguerriti contro i freddi più intensi. Perchè non riusciremo anche noi vincitori della terribile prova? Forse che i Danesi sono da meno degli altri? Animo, amici, diamo coraggiosamente mano ai preparativi di svernamento, e guardiamo serenamente in faccia i freddi del polo e gli assalti dei ghiacci. Mastro Widdeak, fa portare sul ponte un barile di «gin», e poi tutti all’opera.
   – Bravo capitano! – gridò Koninson. – Li affronteremo, questi ghiacci, e li sfideremo, questi freddi del polo. Siamo danesi e per di più balenieri danesi.
   Mastro Widdeak fece portare in coperta il bariletto di «gin», il quale in pochi istanti fu perfettamente asciutto.
   I marinai, riscaldati e rinvigoriti dall’ardente liquore, si misero febbrilmente al lavoro parte sotto la direzione del capitano e parte sotto quella del tenente, ambedue uomini cui lo svernamento non era nuovo.
   Fu dapprima condotta la nave entro un «fiord» aperto nel banco e colà solidamente assicurata sia a prua che a poppa, con grossi cavi girati attorno agli «hummocks» e con ancore ben infisse nei crepacci delle sponde.
   Ciò fatto, vennero staccate le vele, calate le antenne e gli alberelli e le cime dei travi ben avviluppate onde il freddo non le guastasse. Disarmata la nave, si pensò di cambiare la sua coperta in una comoda sala onde tenere gli uomini al riparo e anche per mantenere vieppiù il calore nelle sottostanti cabine.
   Costruirono un tetto di tavole, con una certa pendenza verso la prua e la poppa della nave e al disopra delle murate vennero collocate altre tavole in modo che si unissero al tetto, formando una sala lunga quanto quasi la coperta della nave. Quattro finestre furono aperte per la luce e per la ventilazione e le fessure lasciate fra tavola e tavola vennero coperte da carta incatramata per impedire il passaggio dell’aria.
   Fu da ultimo sparsa della cenere sul ponte affinchè i marinai non scivolassero.
   – È una sala magnifica! – esclamò Koninson, che aveva lavorato forse più di tutti. – Passeremo, qui sotto, delle belle giornate.
   – Organizzeremo delle feste! – disse il capitano.
   – Da ballo?
   – E perchè no? Harwey ha una fisarmonica, mastro Widdeak in fondo alla sua cassa deve avere una vecchia chitarra e il gabbiere Tomshoë una tromba. Come vedi, l’orchestra non manca.
   – Allora non ci annoieremo più.
   – Poi organizzeremo qualche altro divertimento.
   – E quale mai?
   – Pianteremo un teatro.
   – Superba idea, capitano. Ma chi reciterà?
   – Voi altri, e se avrete una discreta voce vi faremo anche cantare.
   – Il nostro svernamento diventa un carnevale, capitano.
   – Sì, se il freddo, le pressioni e lo scorbuto non ci annoieranno.
   – E intraprenderemo delle caccie, anche?
   – Formeremo una squadra di cacciatori e una di pescatori. La carne fresca è necessaria per tener lontano lo scorbuto.
   – Ma non vedo selvaggina, capitano.
   – Non dirlo così presto, Koninson. Fra poco giungeranno gli orsi bianchi.
   – Da quell’isolotto forse?
   – Dall’isolotto e anche dal mare.
   – Faremo loro buona accoglienza, capitano. Abbiamo delle buone carabine e le munizioni abbondano.
   L’indomani il capitano e il tenente rivolsero le loro cure all’interno della nave.
   La stiva venne accuratamente raschiata e lavata con acqua mescolata a calce, onde il legname non soffrisse troppo durante i grandi freddi e sotto il gran boccaporto fu collocata la stufa munita di un tubo assai curvato affinchè il calore non si espandesse troppo al di fuori. Sopra di essa venne pure collocato un doppio cilindro di ferro galvanizzato destinato allo scioglimento della neve, per aver sempre acqua per la cucina e per la pulizia dell’equipaggio.
   Anche le cabine furono prima raschiate e lavate con acqua mescolata a calce e a tutte fu aperto un foro dal sotto in alto per lasciar entrare e uscire liberamente l’aria, la quale combatte efficacemente il congelamento e l’umidità.
   Da ultimo fu munito lo scafo della nave di un rivestimento verticale di grosse travi destinato a difenderla dagli urti e a sollevarla durante le pressioni impedendole così lo schiacciamento.
   Il 30 settembre il capitano lo destinò al lavoro più faticoso e nel medesimo tempo più indispensabile: l’erezione di un magazzino sul banco di ghiaccio onde, nel caso molto probabile che la nave venisse frantumata dalle pressioni dei ghiacci, l’equipaggio non si trovasse sprovvisto di viveri e dei mezzi necessari per guadagnare la costa americana.
   Fu scelto a tale uopo un rialzo, una specie di terrazza, che si trovava a non più di sessanta braccia dalla nave e là sopra fu costruito con legname e con blocchi di ghiaccio il magazzino, fornendolo di un’ampia provvista di legna e di carbone, di una stufa, di alcune casse di vestiti, di vele, di remi, di munizioni e di una grossa partita di viveri sufficienti a nutrire per un mese l’intero equipaggio del «Danebrog». A tutto ciò furono aggiunte due delle più grandi baleniere, armate completamente.
   Compiuti questi ultimi provvedimenti, il capitano e i suoi marinai attesero coraggiosamente i rigori dell’inverno polare. E questi purtroppo non si fecero attendere.
   Il 2 ottobre il termometro, che da qualche giorno era in moto, scese al mattino a 15 gradi. L’acqua del canale in meno di mezz’ora gelò, stringendo la nave in un cerchio così solido che la scure a mala pena era capace di spezzare.
   – Addio autunno! – disse Koninson che era uscito con il tenente dalla sala costruita sopra coperta. – Fra qualche giorno tutto il mare che ci circonda sarà gelato.
   – È probabile! – rispose il tenente.
   – E poi verranno le pressioni a farci passare dei brutti quarti d’ora.
   – Delle brutte giornate, Koninson.
   – Resisterà il «Danebrog»?
   – Chi può dirlo?
   – Avete svernato altre volte voi, signor Hostrup?
   – Sì, una volta a bordo dell’«Albert» e una seconda volta a bordo dell’«Islanda».
   – Si sono salvate le navi?
   – No, Koninson. La prima è andata a picco in seguito ad una falla apertasi per la caduta di un «iceberg», la seconda fu frantumata dalle pressioni come fosse stata una semplice noce.
   – Brutti esempi tenente.
   – Ma non devi spaventarti, Koninson. Molte altre navi hanno sopportato uno svernamento senza essere danneggiate, e qualcuna ne ha sopportati anche due senza venire fracassata.
   – E usciremo di qui quando avverrà lo scioglimento dei ghiacci?
   – Sì, se il banco si sfonderà. Certi anni la stagione estiva è così pessima da non finire lo scioglimento dei campi di ghiaccio, e allora la nave che si è lasciata prendere in mezzo è costretta ad aspettare un altro anno.
   – Se a noi tocca ciò, moriremo di fame.
   – Speriamo che la sorte non sia così crudele, Koninson
   – Ditemi, tenente, dove siamo precisamente ora?
   – Il punto che feci ieri mi diede 72° 05’ di latitudine e 140° 15’ di longitudine ovest di Greenwich.
   – Siamo dunque assai vicini alla costa americana.
   – Non ci dividono più di centoquaranta o centocinquanta miglia.
   – E sapete che scoglio sia, questo?
   – Non tutti gli isolotti che sorgono presso la costa americana hanno un nome, Koninson.
   – Se non ci avesse arrestati, forse a quest’ora saremmo in vista della terraferma.
   – Certamente, fiociniere. La corrente…
   Un fortissimo scroscio, partito dal grande «iceberg» che ostruiva il canale, gli mozzò la parola.
   – Cosa sta per succedere? – chiese Koninson, che involontariamente fece due passi indietro.
   – Che stia per crollare l’«iceberg»? – si chiese il tenente. – Se ciò accade frantumerà il banco.
   – No, tenente, non è lui che crolla, bensì la sua torre. Guardate! Guardate!
   La torre infatti si era smossa, facendo inclinare, colla sua mole, la montagna intera e oscillava lievemente facendo piovere al basso migliaia e migliaia di ghiacciuoli.
   Ben presto si udì uno scroscio ancora più forte, seguito da una serie di detonazioni paragonabili allo scoppio di piccole mine; poi la torre scivolò lentamente in mare lasciando sempre cadere una grande quantità di ghiacciuoli.
   Ad un tratto si staccò dalla montagna e sparve tutta intera nell’abisso spalancato, mandando in aria uno sprazzo immenso. Restò sottacqua cinque secondi, poi in mezzo alla spuma nuovamente apparve, dapprima lentamente, poi con un balzo improvviso, rovesciandosi subito su di un fianco.
   Un’onda mostruosa si alzò e si slanciò muggendo sul ghiaccio del canale che in un attimo fu sollevato e sminuzzato e balzato sopra i banchi. Il «Danebrog», investito a poppa, si alzò spaventosamente rovesciando l’equipaggio che era uscito fin dai primi scrosci, poi s’inchinò gemendo e tendendo gli ormeggi.
   – Ventre di foca! – esclamò Koninson, risollevandosi prontamente. – Un’altra onda come questa e il «Danebrog» sarà sfracellato.
   – Ai buttafuori! – si udì tuonare in quel momento la voce del capitano.
   La gran torre, spinta innanzi da una seconda ondata, minacciava di investire la nave e di sfondarle i fianchi.
   I marinai corsero a prendere i buttafuori e si disposero a tribordo, pronti a respingerla. Fortunatamente incontrò sulla sua via un lastrone di ghiaccio staccatosi dal banco a causa dell’ondata e si arrestò un momento. Ciò bastò perchè una terza ondata la facesse deviare verso una delle due rive alla quale si cementò solidamente.
   Dieci soli minuti dopo, l’acqua del canale, essendosi calmata, era nuovamente coperta da uno strato di ghiaccio dello spessore di tre pollici!
   L’equipaggio si affrettò a rientrare nella sala ove la stufa aveva sparso un dolce tepore.
   Il 3 ottobre il freddo discese a 17 gradi e il tempo si cambiò. Dapprima un nebbione assai fitto si estese al disopra del grande banco e dello scoglio, poi cominciò a cadere la neve ed a soffiare un vento fortissimo ed eccessivamente freddo. L’equipaggio non osò mostrarsi all’aperto.
   Il capitano, verso mezzogiorno, essendosi un po’ calmata la bufera, fece scendere sul banco una decina d’uomini armati di picconi e di scuri, e fece tagliare il ghiaccio attorno alla nave onde le pressioni, sopraggiungendo improvvisamente, il che poteva accadere, non la stritolassero.
   Fu constatato che il ghiaccio del canale aveva già raggiunto uno spessore di trenta centimetri.
   – Bisognerà tagliarlo ogni mattina attorno al «Danebrog» – disse il capitano al tenente. – Sento per istinto che le pressioni non sono lontane.
   – Se questo freddo cresce ancora un pò, tutto il mare gelerà e allora le pressioni ci daranno addosso! – rispose Hostrup.
   – Però un buon tratto è ancora libero. Non vedete laggiù che il cielo è cupo?
   – Lo vedo, capitano. È segno che il mare è ancora libero.
   – Ma pur troppo lo sarà per poco. Temo che questo inverno sia rigidissimo.
   – Lo sosterremo con coraggio, capitano.
   – Purchè lo scorbuto non venga a fiaccare le nostre forze. Voi sapete che questo terribile male è un nemico che trova buon terreno nelle regioni polari.
   – Lo so e farete bene anzi a prendere delle precauzioni contro di esso, fin d’ora.
   – Avete ragione, tenente. Cominciando da domani dispenseremo a colazione una fetta di patata e qualche pò di sugo di limone.
   – Farete bene anche a lanciare dei cacciatori sul banco. La carne fresca è pure efficace per tener lontano quello spietato male.
   – Anche questo faremo, quando il tempo lo permetterà. Voi, che siete un sì abile tiratore, vi metterete alla testa dei cacciatori.
   – Domani allora farò una visita allo scoglio. Forse incontrerò qualche orso e delle foche.
   Disgraziatamente il tempo, che pareva dapprima volesse rimettersi al bello, l’indomani fu orribile. La neve cadde in siffatta abbondanza da coprire il banco d’uno strato alto un buon mezzo metro e soffiò tutto il giorno un vento così freddo e così impetuoso da rendere pericolosa anche la più piccola marcia.
   L’equipaggio, che cominciava già a soffrire il freddo, quantunque avesse indossato le vesti più pesanti, non abbandonò un solo istante la sala ove ardeva senza posa la stufa.
   Il capitano, onde non mantenerlo in ozio, fece purificare una certa quantità d’olio di balena. Questa operazione però diede poco frutto, essendo cosa non facile lo sgelare il grasso.
   Il 5 il tempo non migliorò, anzi divenne più orribile. La neve continuò a cadere attraverso un nebbione fitto assai, che il vento non era capace di scacciare. A mezzogiorno il termometro segnò 19° sotto lo zero, ma dopo ridiscese a 15° essendosi calmata la burrasca.
   Il capitano fu costretto a far sgomberare il tetto della sala dalla neve che lo copriva, onde non finisse col crollare. Per meglio riparare, poi, la nave dal vento che ammucchiava contro di essa una grande quantità di neve e ghiaccioli, fece alzare a breve distanza quattro alte muraglie di ghiaccio, quattro veri bastioni con due uscite.
   Il 6 il sole apparve all’orizzonte, ma era un sole senza forza, d’un giallo pallido assai. Poco dopo scomparve dietro al nebbione che pareva non volesse più abbandonare il gran banco di ghiaccio.


   XV. L’INVERNO POLARE

   Molti e molti giorni sono trascorsi dopo quella notte in cui le prime pressioni dei ghiacci si sono fatte sentire.
   L’inverno polare è piombato con tutti i suoi orrori sulla nave danese che non aveva più potuto districarsi dalla cerchia dei ghiacci. Il sole dopo essersi mostrato per qualche giorno ancora sul fosco orizzonte, sempre più smorto e sempre più freddo, ha definitivamente abbandonato quei paraggi e sugli immensi campi di ghiaccio, riuniti dalle correnti prima e dal freddo poi, si è stesa un’oscurità quasi perfetta che ben di rado la luna riesce a rompere.
   Nebbioni pesanti, che i venti più furiosi non riescono a disperdere, si succedono gli uni agli altri accompagnati da spaventevoli tempeste, i cui ruggiti formidabili gelano l’anima dei più intrepidi marinai e orribili nevicate.
   I banchi di ghiaccio, pochi giorni innanzi popolati di foche, di trichechi, di volpi e di qualche orso bianco, sono diventati deserti e così pure hanno disertato in massa gli uccelli che si sono affrettati a raggiungere climi meno rigidi. È già molto se qualche procellaria o qualche ardito gabbiano solca il nebbione e viene a volteggiare attorno alla nave.
   L’equipaggio, vinto dal freddo che talvolta scende fino ai 40° sotto lo zero, da molto tempo non osa più affrontare l’aria esterna e vive costantemente sotto la tolda ove circola ancora un po’ di calore, in preda ad una viva inquietudine che prende proporzioni angosciose ad ogni tremito della nave, ad ogni crollo di un «iceberg», ad ogni fischio più acuto del vento polare.
   Non è più il baldo equipaggio di prima. I marinai più audaci hanno perduto il loro coraggio; i più forti la loro vigoria; i più allegri il loro buon umore. Lo stesso sig. Hostrup è diventato pensieroso e di umore nero; perfino il capitano Weimar, che pur ha dato tante prove di ardire e di grande fiducia, è abbattuto.
   I loro sforzi per mantenere vivo lo spirito dell’equipaggio, non riescono più.
   Le cacce sono finite perchè nessun cacciatore osa abbandonare la stufa; le danze ed i concerti sui quali tanto avevano contato, sono pure cessati, perchè nessuno ha più buon umore; i lavori più o meno faticosi che mantenevano vive le forze sono pure finiti, poichè nessuno più obbedisce nè si sente in grado di intraprendere il minimo sforzo. Più nulla vale a strapparli da quell’abbattimento, da quello snervamento, da quello scoraggiamento che ogni giorno guadagnano maggior campo, minacciando di produrre effetti disastrosi, incalcolabili.
   Eccoli tutti là, stretti accanto alla stufa che funziona senza posa e che non abbandonano se non spinti da un motivo imperioso e dopo molte preghiere e anche minaccie dei loro superiori. Hanno i visi pallidi, gli occhi infossati, le barbe ispide e coperte sempre di ghiacciuli; i loro movimenti sono incerti, le loro parole sono mozzate da un incessante tremolio delle labbra, la loro volontà è paralizzata, i loro pensieri sono tardi. Il freddo li ha piombati tutti in una specie di torpore che invano cercano di vincere.
   L’acquavite che bevono già è gelata formando un blocco color del topazio, la carne e il pane che mangiano più non si spezzano che a colpi di accetta, poichè hanno acquistato la durezza del ferro; la legna che bruciano è diventata così resistente dal non potersi quasi rompere, le ferramenta, le armi, gli attrezzi di metallo di cui si servono sono diventati, per l’eccessivo freddo, così roventi che posandovi sopra la mano nuda la pelle vi rimane aderente e la carne riporta dolorosissime bruciature; i bicchieri sono diventati pure tali, e a segno che per servirsene bisogna vuotare il liquido in gola onde le labbra non li tocchino; persino le pipe non funzionavano più, poichè a poco a poco la bocca di chi le fuma si riempie di ghiaccio; persino l’aria che respirano cagiona dolorose sensazioni alla gola e ai polmoni e, strano fenomeno, l’alito si trasforma in piccoli aghi di ghiaccio che cadendo ricordano il rumore che produce un pezzo di velluto che si laceri!
   Ma è giunto Natale. Dopo una notte burrascosa il gelido vento del nord ha cessato di soffiare e il nebbione si è alzato lasciando liberi i campi di ghiaccio.
   Una luce biancastra prodotta dall’«ice-blink» e dal luccichio degli astri che ormai sono visibili anche a mezzodì essendo il sole scomparso per parecchi mesi, si è diffusa ovunque e permette di vedere ad una non piccola distanza. Per di più il termometro da 40° sotto lo zero è disceso con un brusco salto a soli 14°.
   L’equipaggio, strappato al suo torpore da quel raddolcimento di temperatura, si è scosso e ha cominciato a lasciare la camera comune ove la stufa divora continuamente carbone e legna e interi barili di grasso e d’olio di balena.
   Il tenente ha ripreso il suo buon umore e fa tuonare ovunque la sua voce.
   – Animo, scuotetevi, poltroni; svegliatevi, dormiglioni. Natale ci porta una buona giornata e vi prometto di farvi passare la malinconia con un lauto banchetto. Non è vero, capitano?
   – Sì, sì! – risponde Weimar, che ha ripreso la sua fiducia. – Solennizzeremo il Natale con un banchetto.
   – E pianteremo anche l’albero.
   – Con dei regali per tutti.
   – Sì, con dei regali.
   In breve tempo la camera comune è diventata vuota. Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il «Danebrog».
   Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri.
   La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi «iceberg» di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d’un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d’Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma.
   Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie.
   – Siamo proprio accerchiati, e come! – esclamò il tenente. – Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via.
   – Fortunatamente la nave resiste sempre! – disse il capitano.
   – Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò.
   – Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi.
   – E i nostri magazzini avranno sofferto? – interrogò Koninson, guardando a babordo.
   – Non mi sembra – disse il capitano. – La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo.
   – Sì, domani! – affermò il tenente. – Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale.
   – E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup.
   – Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti.
   – Mi metterò io alla loro testa! – disse il fiociniere. – Ehi, mastro Widdeak, al lavoro!
   I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l’alta direzione della cucina.
   Alle 4 pomeridiane il ponte del «Danebrog» offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell’alta latitudine.
   Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione.
   Tutto all’intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s’intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l’albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie.
   – A tavola! – s’udì tuonare sotto coperta l’allegra voce del tenente.
   Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi.
   – Evviva al sig. Hostrup! – urlò l’equipaggio.
   – Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, – disse il tenente – e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco.
   I marinai, ai quali era tornato l’appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all’estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe.
   Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all’orlo il suo bicchiere si alzò.
   – Capitano, un brindisi – gridò.
   – A chi? – domandarono i marinai.
   – Al nostro valoroso «Danebrog»! Amici, capitano, evviva al «Danebrog»!
   Il tenente vuotò tutto d’uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono.
   Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito.
   – Cosa succede? – chiese il tenente che nulla aveva avvertito.
   – La nave si è mossa! – disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni.
   – Ed io ho udito un sordo boato – aggiunse Koninson.
   – Forse le pressioni? – chiesero i marinai.
   Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio.
   – Sono le pressioni! – esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. – E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci!
   – Zitti tutti! – comandò il capitano. – Udite! Udite!
   Ognuno prestò orecchio.
   In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee.
   D’un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un’immane tenaglia.
   – Fuori, fuori tutti! – disse il capitano.
   I marinai si slanciarono confusamente all’aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d’una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio.
   Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave.
   Gli «iceberg», le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell’accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni.
   Senza dubbio all’estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli «iceberg» che venivano dietro di loro.
   – Corriamo qualche pericolo? – chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata.
   – Chi può dirlo? – rispose Weimar. – Temo però che passeremo una brutta notte.
   – Cosa dobbiamo fare? – chiese Koninson.
   – Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta.
   – Perchè mai? – chiesero alcuni.
   – Perchè potrebbe darsi che la nave….
   Non finì. Un’esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d’artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d’acqua ed ingoiando alcuni «icebergs».
   L’equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore,
   – Presto, presto, – gridò il capitano – portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe.
   I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta.
   Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, «icebergs», «hummocks», piramidi, cupole, coni e colonne s’inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi.
   Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l’acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d’un tratto convertita in una massa d’acqua agitata da un furioso uragano.
   La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s’incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall’avanzarsi dei ghiacci.
   L’equipaggio, spaventato, coll’angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l’alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno.
   Per una mezz’ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l’equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di «icebergs» e di «hummocks» e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini.
   Il «Danebrog», che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l’urto, s’infranse. S’udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare:
   – Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il «Danebrog»!
   Nell’udire quelle grida che annunciavano l’irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe.
   Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d’ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando:
   – Indietro, fermi tutti! Il banco si apre!
   Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare.
   – Indietro – ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. – Volete farvi stritolare dai ghiacci?
   – Ma la nave affonda! – disse un gabbiere.
   – Non ancora! – gridò il tenente. – Tutti a poppa!
   Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa.
   – Signor Hostrup, – gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci – scendete nella stiva. Forse, coll’aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani.
   Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall’inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte.
   – Ebbene? – chiesero i marinai correndo verso di lui. – È finita per il «Danebrog»?
   – Non ancora! – rispose egli.
   – Non affondiamo?
   – No, almeno per ora.
   – Cos’è che ha ceduto? – chiese il capitano.
   – I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva.
   Il capitano lanciò un’imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l’equipaggio che lo circondava.
   – Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani?
   – Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave.
   – L’acqua entra?
   – L’ho udita precipitare nella sentina.
   – Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini?
   – Lo tenterò, capitano, se è necessario.
   – È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all’altro.
   – Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura.
   – Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! – rispose il coraggioso fiociniere. – Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura.
   – La attraverseremo, Koninson.
   – Affrettatevi dunque, signor Hostrup! – disse il capitano. – Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale.
   – Vieni, Koninson – disse il tenente.
   Si diresse verso l’albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio.
   – Ci servirà per passare il crepaccio! – disse al capitano che lo guardava senza comprendere. – Arrivederci ai magazzini, signor Weimar.
   – Dio vi guardi, signor Hostrup! – rispose il capitano con voce commossa.
   Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra.
   – Non so, – disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento – io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia?
   – Non lo credo – rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. – Addio, capitano, addio!
   Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso.
   – Si direbbe che una disgrazia mi minaccia – mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori.
   Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato.
   – Affrettiamoci tenente! – disse il fiociniere. – Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave.
   Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d’attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri.
   Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all’altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d’un tratto s’innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso.
   Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull’orlo della frana attraverso alla quale gettarono l’albero.
   Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l’opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita.
   – Mi sembra che non abbiano sofferto – disse il tenente dopo una rapida occhiata.
   – È vero – confermò il fiociniere.
   – Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi.
   Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono.
   – Le scialuppe? – chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto.
   – Eccole lì! – rispose l’interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino.
   – Saremo capaci di spingerle fuori?
   – Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli.
   In quell’istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal «Danebrog», giunsero pure ai loro orecchi.
   – Presto, presto, Koninson! – gridò il tenente. – Forse la nave sta per affondare.
   – Eccomi, signore! – rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri.
   Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino.
   Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all’imboccatura della galleria.
   Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva.
   Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all’orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s’udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave.
   – Koninson! – esclamò il tenente con voce soffocata dall’emozione.
   – Tenente! – rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere.
   – Aiuto! Si salvi chi può! – s’udì urlare al di fuori.
   Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti.
   Il «Danebrog», schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l’acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l’inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio.
   I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio.
   – Capitano! Capitano! – gridò il tenente.
   – Accorriamo! Accorriamo! – esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all’esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare.
   Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il «Danebrog» e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi!
   Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!


   XVI. LA CAPANNA DI GHIACCIO

   La terribile convulsione dei ghiacci, che ha sfondato i fianchi della valorosa nave baleniera, è cessata; una calma assoluta regna su quella regione perduta al di là del circolo polare, dove ha trovato la morte il disgraziato equipaggio danese.
   Un silenzio profondo, triste, che impressiona per la sua grandiosità, impera sull’immenso campo di ghiaccio; non una voce umana attraversa gli strati gelidi dell’aria, non un grido d’uccello echeggia, non un mormorio di ruscello, non un frangersi d’onda, non uno scricchiolìo, non un gemito. È un silenzio d’orrore; il silenzio della regione disabitata e inabitabile.
   Il cielo nondimeno è sgombro da quei fitti nebbioni che formano il terrore degli audaci naviganti che sfidano quelle regioni maledette. Una splendida luna, contornata da miriadi di scintillanti stelle, versa sul grande campo una luce azzurrina, illuminandolo come in pieno giorno. Gli «icebergs», gli «hummocks», le cupole, le piramidi, i picchi aguzzi, le colonne, tramandano per ogni dove mille sprazzi di luce come se una generosa fata avesse sparso su di loro diamanti a piene mani, d’una enorme grossezza.
   Ad oriente una pallida luce si stende, indicando il luogo ove è scomparso il sole; luce che le lontane montagne di ghiaccio raccolgono e che tramandano in cielo formando un «ice-blink» così limpido da gareggiare con lo splendore dell’astro notturno.
   Due uomini si trovavano sul gran campo, seduti su in un piccolo «hummock». L’uno ha la testa fra le mani e pare che mediti; l’altro guarda mestamente i ghiacci che gli si stendono dinanzi. Sono il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, i due superstiti del naufragio della nave baleniera.
   Per due interi giorni, pazzi di dolore per quell’inaspettata catastrofe che li aveva privati d’un sol colpo della nave e dei loro compagni avevano percorso in tutti i sensi il banco sfidando ogni specie di pericoli, rovistando le nevi, spaccando ghiacci quando udivano un rumore insolito e scendendo nei crepacci nella speranza di ritrovare qualche loro camerata vivo o morto, ma tutto era stato vano.
   Il mare non aveva più restituito la preda. Nave ed equipaggio erano scomparsi sotto quel gelido lenzuolo, scendendo negli inesplorati abissi dell’oceano polare.
   Sfiniti, semigelati, abbattuti, si erano fermati ai piedi dell’«hummock». Ormai avevano perduta ogni speranza.
   – Orsù, tutto è finito! – esclamò il tenente, lasciandosi cadere sul ghiaccio – I miseri sono tutti periti, tutti, tutti! Povero capitano, Poveri compagni che non rivedrete mai più le sponde della patria vostra!
   Un rauco suono che sembrava un singhiozzo soffocato si spense in fondo alla gola di quell’uomo che forse non aveva mai pianto, mentre due grosse lacrime gli si gelavano sulle brune gote.
   – Soli, soli in quest’immenso deserto di ghiaccio! – riprese egli dopo qualche istante, come se parlasse a sè stesso. – Chissà se anche noi torneremo a rivedere la nostra Danimarca!
   – Signor Hostrup! – disse il fiociniere con voce commossa.
   – Ti comprendo, Koninson! – rispose il tenente alzandosi – Non bisogna scoraggiarsi, hai ragione, amico mio.
   – Siamo in due, signor tenente, e, ringraziando Iddio, siamo e tutti e due solidi.
   – È vero, Koninson.
   – Contate di rimanere ancora su questo dannato banco?
   – È necessario.
   – Non vorrei che ci toccasse la sorte del povero capitano e dei suoi uomini.
   – Penso che se la Provvidenza ci ha risparmiati, non l’avrà fatto per farci morire domani o fra qualche mese.
   – Infatti, lo credo anch’io, tenente. Ma se si potesse lasciare questo banco sotto cui dormono i nostri disgraziati compagni sarei ben lieto.
   – E dove vorresti recarti? Chi oserebbe sfidare i terribili freddi della regione polare sotto una tenda? No, Koninson, se vogliamo salvarci bisogna svernare qui. Ci costruiremo una capanna di ghiaccio e attenderemo la buona stagione.
   – E poi, dove andremo?
   – Cercheremo di guadagnare la costa e di là qualche stabilimento della compagnia della Baia di Hudson. Orsù, all’opera, Koninson, non perdiamo tempo o il freddo ben presto ci ucciderà.
   – Cosa si deve fare? Io sono pronto a tutto.
   – Costruirci il ricovero.
   – E dove?
   – A fianco dei magazzini onde essere sempre vicini alle scialuppe.
   – Disponete di me; mi sento assai forte in questo momento,
   – Tu preparerai i materiali e io costruirò. Vieni, amico mio, che forse abbiamo tardato anche troppo.
   Si diressero verso i magazzini che erano poco lontani e che occupavano la cima di una collinetta da cui si dominava un gran tratto di paese e si fermarono dinanzi ad un «iceberg» che pareva solido quanto una rupe.
   – Ci proteggerà dai venti del nord – disse il tenente, dopo averlo osservato attentamente per assicurarsi della sua stabilità.
   Si levò dalla cinta il coltello e tracciò nel ghiaccio, fra i magazzini e l’«iceberg», un circolo del diametro di cinque metri che poi approfondì a colpi di scure formando un canale destinato, in seguito, a raccogliere l’umidità scendente dalle pareti della capanna.
   – Ora, – disse rivolgendosi a Koninson – tagliami dei blocchi di ghiaccio.
   Il fiociniere non se lo fece dire due volte e manovrando abilmente la scure in breve tempo preparò un grande numero di grossi pezzi di ghiaccio, che il tenente dispose in bell’ordine intorno al canaletto, cementandoli con neve.
   Sopra quel primo strato il tenente ne sovrappose un secondo, lasciando verso sud un’apertura piuttosto stretta, indi un terzo, un quarto e via via, sempre restringendoli in maniera da formare una specie di cupola la cui elevazione non superava i tre metri.
   Una famiglia d’eschimesi non avrebbe domandato di più e si sarebbe fermata lì, ma il tenente era più esigente e non voleva correre i pericoli ai quali si espongono spesso gli abitanti di quelle gelide regioni, cioè all’acciecamento prodotto dal fumo ed al congelamento per mancanza di circolazione d’aria.
   Aiutato dal fiociniere, che si mostrava entusiasta per quella costruzione la cui forma rammentava un mezzo uovo, ma di dimensioni colossali, si arrampicò sulla cupola e apertovi un buco, costruì, servendosi sempre di blocchi di ghiaccio, un tubo alto un buon metro, per dare sfogo al fumo; poi aprì verso est, verso ovest e verso nord tre altre aperture, per combattere efficacemente il congelamento ed anche l’umidità, due nemici pericolosissimi in quei climi. Da ultimo tappezzò il suolo della capanna con pelliccie e con tela da vele, lasciando però in mezzo, proprio sotto il tubo che doveva servire da camino, uno spazio libero.
   – Che te ne pare, mio bravo fiociniere? – disse il tenente quando ebbe finito.
   – Io dico che staremo benone in questo nido – rispose Koninson – Bisognerà però chiudere le finestre.
   – Basterà un pezzo di pelle.
   – Spero che non geleremo.
   – Se non gelano gli eschimesi che vivono otto mesi dell’anno nelle loro capanne di ghiaccio, non so perchè dovremo gelar noi.
   – Ma quando accenderemo il fuoco, le pareti non si scioglieranno?
   – Non avere questo timore, Koninson. La fiamma è lontana e i blocchi di ghiaccio che ci hanno servito per la costruzione sono grossi. E poi credi tu che non s’ingrosseranno di più? Alla prima nevicata raddoppieranno e alla seconda triplicheranno il loro volume.
   – Purchè la cupola non ceda.
   – La sbarazzeremo del soverchio peso.
   – E siete persuaso che si starà bene qui dentro?
   – Ne sono convinto, Koninson, e aggiungo che prenderemo amore alla nostra casa e che ci dispiacerà l’abbandonarla quando ci metteremo in cammino per il sud.
   – Permettetemi di dubitarne, tenente! – disse Koninson. – Non so chi potrà essere quell’uomo che prenderà affezione ad una casa di ghiaccio.
   – Gli eschimesi, per esempio, preferiscono le loro capanne gelate ai nostri palazzi d’Europa.
   – Voi scherzate, tenente.
   – Parlo seriamente, Koninson, e ti so dire che un eschimese condotto a Londra pochi anni fa, dove era trattato come un principe, dopo qualche tempo chiese di tornarsene in mezzo ai suoi ghiacci, dicendo che a tutti i palazzi della capitale inglese preferiva la sua capanna di ghiaccio, e a tutte le barche del Tamigi il suo piccolo canotto di pelle.
   – Si direbbe una frottola se non uscisse dalle vostre labbra. Come mai si può desiderare questo deserto di ghiaccio dove tutto manca e dove si corre ad ogni momento il pericolo di venire inghiottiti dal mare?
   – Questione di abitudine e d’amore al natio paese, Koninson. Forse che tu lasceresti la nebbiosa Danimarca per i bei paesi dal dolce clima?
   – Chissà? Forse, signor Hostrup; ma potrei un bel giorno desiderare di rivedere le sponde del mio paese.
   – Sono convinto che presto o tardi questo desiderio verrebbe. Ma facciamo punto ed occupiamoci delle nostre provvigioni.
   – Spero che ci basteranno per finire questo dannato inverno.
   – Ne avremo anche troppe, Koninson.
   Lasciarono la capanna e si diressero verso i magazzini che erano a pochi passi di distanza. La galleria che avevano scavata per entrare, era in parte diroccata a causa delle ultime pressioni, ma i due balenieri non esitarono a cacciarsi in mezzo alla neve e ai massi di ghiaccio che in parte la ostruivano.
   Quando furono entro i magazzini, a colpi di scure aprirono un vano affinchè entrasse un pò di luce, poi si misero a fare l’inventario di ciò che possedevano.
   Il defunto capitano Weimar aveva accumulate tante provvigioni da bastare per parecchie settimane all’intero equipaggio del «Danebrog» e specialmente alcuni attrezzi che diventavano di un valore inestimabile.
   Il tenente, aiutato dal suo bravo compagno, che rimuoveva ogni cosa con grande ardore, contò sei casse contenenti non meno di duecento chilogrammi di biscotto, due barili di carne secca ridotta in pemmican col sistema indiano, un barile di farina, due di lardo, una non piccola quantità di cioccolata, parecchie scatole di tè, un centinaio di chilogrammi di pesce secco e un barilotto di acquavite, nonchè alcune bottiglie di succo di limone per combattere i disastrosi effetti dello scorbuto. Scoprì altresì una piccola provvista di patate, due pentole di ferro della massima importanza per loro, una cassa con vesti di pelle di foca e alcune grosse coperte di lana e una provvista abbondante di polvere e di palle con tre fucili, una. vecchia pistola e alcuni coltelli.
   Mancava assolutamente il legname e il carbone, cose necessarie per resistere ai grandi freddi dell’inverno polare, ma c’erano dodici barili di spermaceto di balena e alcuni d’olio e parecchio canape. Per di più possedevano due baleniere e un canotto, che dovevano fornire una provvista di legna non piccola.
   – Abbiamo più di quanto ci occorre! – disse il tenente quand’ebbe finito l’inventario. – Passeremo l’inverno senza incomodi e senza sofferenze.
   – Una cosa ci manca, signor Hostrup.
   – Quale, mio bravo fiociniere?
   – Una stufa da porre nella nostra capanna.
   – Non occorre.
   Koninson lo guardò con sorpresa.
   – Forse che nella nostra capanna farà caldo quando all’esterno avremo 40° sotto lo zero?
   – Non dico questo ma surrogheremo la stufa con qualche cosa di meglio. Hai visto delle stufe nelle capanne degli eschimesi?
   – No, tenente, e mi sono sempre meravigliato.
   – Ma avrai veduto ardere giorno e notte una gran lampada.
   – Sì, me ne ricordo.
   – Ebbene, anche noi accenderemo una gran lampada in mezzo alla nostra capanna e vedrai che ci darà sufficiente calore.
   – Se dite ciò, deve essere vero. Ed ora cosa facciamo?
   – Porteremo alcune provviste nella nostra casupola per non essere obbligati ad aprire ogni giorno i nostri magazzini.
   – Li chiuderemo dunque?
   – E per bene, Koninson. Non dimenticare che al polo nord vi sono degli orsi bianchi sempre in lotta colla fame. Se si spingono fin qui e scoprono le nostre provviste, faranno un gran vuoto in sole poche ore. Orsù, al lavoro, fiociniere.
   Si caricarono entrambi di diverse provvigioni, delle armi, delle pentole e di alcune coperte ed uscirono per recarsi alla capanna.
   Erano appena usciti dalla galleria, quando il tenente si arrestò bruscamente guardando verso nord.
   – Cosa vedete? – chiese Koninson, che si era affrettato a sbarazzarsi del carico per afferrare il fucile. – Degli orsi forse?
   – No, guarda laggiù.
   Koninson volse lo sguardo nella direzione indicata e scorse una nube nerissima che si staccava vivamente sul fondo stellato del cielo e il cui lembo superiore descriveva una specie di arco.
   – Una tempesta che si approssima, forse? – chiese.
   – No, è l’aurora boreale che sta per sorgere! – rispose il tenente. – Guarda, ecco che la nube si allarga e con grande rapidità.
   Infatti la nube prendeva grandi proporzioni come se fosse stata spinta da un formidabile vento, e al centro a poco a poco diventava più chiara, quasi trasparente, attraversata di quando in quando da rossastri bagliori.
   D’improvviso successe un cambiamento magnifico, sorprendente. Parve che la nube volasse in mille scheggie, come se nel suo seno fosse saltato un magazzino di polveri e qua e là guizzarono per l’orizzonte colonne di fuoco d’una tinta superba, cangiando i ghiacci in altrettanti massi infuocati.
   – Stupendo! – esclamò Koninson, che pure aveva osservato moltissime volte quel meraviglioso fenomeno.
   – Aspetta un pò, fiociniere! – disse il tenente, che non staccava gli occhi dall’orizzonte settentrionale.
   Le colonne di fuoco continuavano ad innalzarsi ed abbassarsi con le contrazioni dei serpenti, cambiando di frequente tinta che variava dal bianco trasparente al giallo e al rosso ardente e formando delle nebulosità abbaglianti. Poi, a poco a poco, s’innalzò un arco immenso, brillante, il quale sollevando tutti quegli sprazzi di luce variopinta balzò da est ad ovest per poi ritornare, con altro brusco e più rapido salto, ad est.
   Il fenomeno era allora nel suo pieno splendore. I raggi che si alzavano sul grand’arco, gli uni sottilissimi e gli altri grossi, rossi alla base, verdastri nel mezzo e biancastri all’estremità, si spingevano sino alla testa dell’Orsa Maggiore, formando una specie di cupola di una bellezza incomparabile.
   I campi di ghiaccio, gli «icebergs», gli «hummocks», le piramidi, i coni, le colonne parevano tutti in fiamme e riflettendo quei vigorosi bagliori illuminavano la regione polare fino agli estremi confini.
   Ben presto però l’immenso arco fu visto ondeggiare come se fosse stato scosso da un impetuosissimo colpo di vento, formando immense pieghe in senso orizzontale e ben presto sull’orizzonte più non si vide che un ammasso di luce la cui intensità era tale che i due naufraghi furono costretti a difendersi gli occhi colle mani.
   – Si direbbe che tutto il polo è in fiamme! – disse Koninson, che non parlava più di rientrare nella capanna. – È uno spettacolo che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza bene.
   – È vero, fiociniere! – rispose il tenente. – Pare di assistere sempre ad un fenomeno nuovo.
   – Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva?
   – Hum, è un po’ difficile saperlo, mio caro fiociniere, poichè gli scienziati non sono ancora d’accordo, su ciò. Pare che sia causato da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l’ipotesi migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l’estrema siccità dell’aria che s’oppone alla sua dispersione.
   – È vero, signor Hostrup, che l’aurora altera le bussole?
   – Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo.
   – E sono sempre uguali queste aurore?
   – Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi.
   – Questi fenomeni sono però molto frequenti.
   – Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della spedizione d’Islanda per studiare i fenomeni della regione polare, nell’osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni 1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e il 25 gennaio.
   – Speriamo di vederne molte anche noi.
   – Ne vedremo, Koninson.
   Intanto l’aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire.
   Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a distendersi sui campi di ghiaccio e sull’orizzonte, poco prima infuocato, non rimasero a brillare che gli astri.


   XVII. SEPOLTI SOTTO LE NEVI

   Nei giorni seguenti i due balenieri si adoperarono per rendere più comoda la loro abitazione nella quale prevedevano di dover passare delle lunghe giornate senza poter uscire.
   Vi trasportarono un certo numero di provvigioni sufficienti per nutrirli qualche settimana senz’essere obbligati ad aprire i magazzini che erano stati ben chiusi, per metterli al riparo dagli assalti degli orsi bianchi; vi adattarono nel mezzo una gran lampada che doveva servire da stufa e da camino, costituita da un pentolone di ghisa munito di un grosso lucignolo; coprirono per bene il pavimento dopo aver battuta la neve e vi collocarono due piccoli letti formati di pelli di foca e di coperte di lana, e da ultimo vi trasportarono due barili d’olio di balena che dovevano servire all’illuminazione è al riscaldamento.
   Per meglio proteggere la loro dimora dai gelati venti del nord, eressero quasi tutto all’intorno una muraglia di ghiaccio alta una decina di piedi, facendovi anche delle feritoie per difendersi dagli orsi, nel caso che questi fossero così audaci da venir a ronzare in quei pressi.
   Il 10 gennaio, stanchi sì ma soddisfatti dei loro lavori, prendevano possesso della loro casupola entro la quale potevano sfidare, senza tema di soffrir troppo, i freddi intensi del polo artico.
   Era tempo. Lo stesso giorno, la calma che fino allora li aveva favoriti e la temperatura cangiarono bruscamente.
   Una bufera di neve si scatenò con inaudita violenza facendo scendere quasi improvvisamente il termometro a oltre 40° sotto lo zero, accompagnata da rombi minacciosi che annunziavano prossime pressioni.
   Sei giorni interi l’uragano imperversò, spazzando i campi di ghiaccio ed atterrando non pochi «icebergs» e moltissimi «hummocks», durante il qual tempo i due balenieri non ardirono porre il naso fuori della loro dimora; poi sopravvennero le pressioni. Il grande banco, stretto d’ogni parte dai ghiacci che continuavano ad accumularsi ai suoi confini, si mise in movimento da nord a sud, da est ad ovest. Seguirono scricchiolii, muggiti, boati, detonazioni indescrivibili, con non poco timore da parte dei due balenieri che temevano assai per i loro magazzini e anche per la loro capanna, le cui pareti più volte oscillarono pericolosamente come se fossero per crollare.
   Il 20 vi fu un pò di calma, ed i due balenieri ne approfittarono per sgranchirsi le gambe, ma dovettero prima lavorare un paio d’ore per aprirsi il passo attraverso le nevi che avevano quasi interamente coperta l’abitazione,
   – Un’altra nevicata e saremo sepolti! – disse Koninson, salendo sul campo di ghiaccio che aveva raddoppiato lo spessore.
   – Vedi nulla di nuovo? – disse il tenente che lo seguiva.
   – Sì, un gran numero di ghiacci rovesciati ed enormi spaccature. Ma… tò, cos’è che si muove laggiù?
   – Un animale forse?
   – Fulmini… un elefante!
   – Un elefante qui, con questo freddo? Sei matto, fiociniere?
   – Allora è un orso colossale. Un fucile, signor Hostrup, un fucile!
   Il tenente ritornò rapidamente nella capanna e prese le due carabine. Salito sul campo, guardò nella direzione che il fiociniere gli indicava.
   A trecentocinquanta passi, presso un grandissimo «iceberg», la cui cima pareva che toccasse le nubi, egli vide, non senza una certa emozione, un colossale animale dal mantello bianco con una lunga coda che spazzava la neve.
   Koninson non aveva esagerato. Quell’animale era grande quanto un vero elefante, quantunque non avesse nè la tromba, nè le zanne.
   – Da dove esce quell’animalaccio? – si chiese il tenente che involontariamente retrocesse. – Non ho mai veduto una cosa simile.
   – Che sia un orso di nuovo genere? – domandò Koninson che malgrado la sua straordinaria audacia era diventato pallido e tremava non poco.
   – No, non è possibile. Piuttosto lo credo un «rhystine stelleri».
   – Che bestia è mai questa? Io non ne ho mai incontrata una nelle mie caccie.
   – È un colossale mammifero marino, la cui razza si è spenta da qualche secolo e forse più. L’esploratore Behring ha narrato che quando naufragò sull’isola che oggi porta il suo nome, verso il 1741, trovò una grande quantità di questi «rhystine stelleri». Perchè non potrebbe esistere ancora qualche campione?
   – Erano pericolosi?
   – No, a quanto lasciò scritto Behring.
   – Allora possiamo arrischiare due colpi di carabina.
   – Lo credo, Koninson, tanto più che non mi dispiacerebbe un bell’arrosto di carne fresca.
   – Avanti allora e non manchiamo al colpo.
   I due balenieri, tenendosi celati dietro alcuni massi di ghiaccio, s’avvicinarono all’animale che non pareva disposto a fuggire. Giunti a duecento passi puntarono le armi, e dopo aver mirato attentamente fecero fuoco.
   I colpi di fucile furono tosto seguiti da due rumorosi scoppi di risa che gli uguali non avevano mai echeggiato in quelle alte latitudini. E vi era infatti da ridere e molto fragorosamente!
   Le detonazioni non erano ancora cessate, che un cambiamento inatteso erasi manifestato. Il grande «iceberg» che pareva toccasse le nubi colla sua vetta, come per incanto era diventato un semplice a «hummock» e il preteso «rhystine stelleri» dalle forme gigantesche una misera… volpe, la quale, più che mai spaventata e ben contenta di non essere stata colta dalle palle, fuggiva con incredibile celerità attraverso i ghiacci.
   – Ma che razza di scherzo è mai questo! – esclamò Koninson, che rideva al punto da slogarsi le mascelle.
   – Uno scherzo che dovevamo indovinare prima – rispose il tenente che non rideva meno.
   – Una semplice rifrazione adunque?
   – Sì, la rifrazione, un miraggio qualunque, che lo scoppio delle nostre armi, agitando violentemente gli strati atmosferici, è bastato a distruggere.
   – Un fenomeno frequente in queste regioni?
   – Molto frequente, fiociniere. Andiamo innanzi, ma badiamo di non scambiare un canaletto per un fiume e un buco per un baratro.
   Messi di buon umore da quello scherzo, ripresero il cammino dirigendosi verso nord colla speranza di fare qualche più fortunato colpo di fucile.
   Percorsero due chilometri camminando con precauzione e tastando il ghiaccio perchè non si aprisse improvvisamente sotto i loro piedi, ma non incontrarono che «icebergs», che le ultime pressioni avevano inclinati capricciosamente, ma non distrutti. Di animali nessuna traccia: orsi, foche, trichechi, volpi, mancavano assolutamente sul campo di ghiaccio. Perfino gli uccelli erano scomparsi e non si udiva alcun grido in nessuna direzione.
   Il tenente e il fiociniere, un pò sconcertati, ritornarono alla loro dimora, inquieti assai a causa di certi brutti nuvoloni che si alzavano rapidamente da nord e che promettevano un’altra abbondante nevicata e un maggior abbassamento di temperatura. E le loro inquietudini non errarono. Erano appena al riparo, che un vento furioso cominciò a soffiare sul campo spingendo innanzi a sè i nembi di ghiacciuoli sottili come aghi che, cadendo, producevano un rumore quasi metallico, mentre nelle alte regioni turbinavano fiocchi di neve di una grossezza inverosimile.
   Koninson turò ermeticamente tutte le finestre della capanna ed alimentò la gran lampada per mantenere nell’interno un certo calore. Dopo un magro pasto e una fumata, si avvolsero nelle coperte mentre al di fuori l’uragano continuava a ruggire, ammonticchiando qua e là enormi ammassi di neve.
   La notte fu cattiva. Più volte il tenente si svegliò e porse ascolto ai ruggiti del vento ed agli scricchiolii del campo di ghiaccio che talvolta pareva fosse diventato il fondo d’una caldaia in ebollizione e più volte, a rischio di compromettere il suo naso, tentò, ma invano, di guardare ciò che accadeva all’esterno.
   Riaddormentatosi per la decima volta, dopo un tempo che stimò non troppo lungo si risvegliò con un certo malessere che non sapeva spiegare.
   Respirava con fatica e attorno al capo gli pareva di avere un cerchio di ferro che sempre più si stringesse.
   Si guardò intorno. La lampada, che poco prima ardeva benissimo, era moribonda, quantunque fosse piena d’olio. Pareva anzi che si dovesse spegnere da un istante all’altro.
   Guardò Koninson e lo vide agitarsi e respirare affannosamente.
   – Cosa sta per succedere? – mormorò con qualche ansietà.
   Tese l’orecchio. Non udiva più gli scricchiolii dei ghiacci; solamente gli pareva che in distanza rombassero delle detonazioni molto sorde.
   – Koninson! Koninson! – gridò.
   Il fiociniere agitò le braccia, sbadigliò a lungo mostrando le mascelle solidamente armate di aguzzi denti e apri gli occhi.
   – Tenente! – rispose.
   – Provi qualche cosa tu?
   – Si, signor Hostrup. Mi pare che il mio capo giri e che i miei polmoni funzionino molto male. Tò! Che cos’ha la lampada che pare voglia spegnersi? Eppure io l’ho riempita per bene.
   – Mi assale un dubbio, Koninson.
   – E quale mai?
   – Che noi siamo sepolti.
   – Sepolti! E come? Che il campo di ghiaccio ci abbia inghiottiti senza stritolare la capanna? Sarebbe un bel caso, signor Hostrup.
   – Ma poco allegro, fiociniere. Fortunatamente credo che non siamo sotto il banco ma sopra.
   – Ed allora chi ci avrebbe sepolti?
   – La neve.
   – Infatti, signor Hostrup, mi pare che l’aria cominci a mancare. La lampada che si spegne, i nostri polmoni che si affaticano e le nostre teste che girano, sono segni belli e buoni per farci credere che non c’inganniamo.
   – Proviamo ad uscire, finchè ci rimane qualche altra boccata d’aria.
   Koninson, che non si trovava bene fra quell’aria viziata, levò la pelle che chiudeva l’entrata e si trovò dinanzi ad una massa di neve che pareva dovesse elevarsi quanta era alta la capanna. Si provò i rasparla, ma non ne venne a capo: il freddo intenso l’aveva ridotta in solidissimo ghiaccio.
   – Hum! – esclamò. – La faccenda diventa seria, signor Hostrup. Siamo come murati e molto bene, a quanto pare.
   – Eppure bisogna uscire, Koninson, e senza perder tempo.
   – Proviamo ad aprire il buco che serviva d’uscita al fumo.
   – Proviamo, fiociniere. Sta saldo che io mi arrampico su di te.
   Koninson si piantò presso la lampada, colle gambe aperte e la testa curva e il tenente gli saltò agilmente sulle spalle. Strappò il pezzo di pelle che chiudeva l’apertura per impedire alla neve di entrare e di spegnere la lampada, ma si trovò in presenza di un blocco di ghiaccio che resistette a tutti i suoi sforzi.
   – Siamo proprio sepolti! – disse con ira.
   – E dunque, cosa facciamo? Sento che l’aria diminuisce rapidamente.
   – Non ci resta altro che aprire una galleria.
   – Ne avremo il tempo?
   – Te lo dirò più tardi. Affrettiamoci, mio povero amico, che gli istanti sono preziosi.
   Saltò a terra, afferrò un solido coltellaccio, e intaccò febbrilmente la neve che ostruiva l’uscita, mentre Koninson si poneva a lavorare ai suoi fianchi armato d’una scure.
   La neve, a causa del freddo eccessivo, aveva acquistato una durezza estrema, ma non poteva resistere ai colpi disperati dei balenieri, si staccava in larghi pezzi che venivano subito gettati nell’interno della capanna. Ma l’aria veniva sempre meno ed era da prevedersi che sarebbe completamente mancata prima del termine del lavoro.
   Già la lampada non mandava più che una fioca luce e i polmoni dei balenieri funzionavano furiosamente senza riuscire ad empirsi. Koninson, specialmente, di quando in quando provava dei capogiri e si sentiva mancare le forze.
   Avevano scavato quasi un metro di ghiaccio, quando il povero giovane che impallidiva sempre più si arrestò, lasciando cadere la scure.
   – Signor tenente! – mormorò con voce semispenta. – Io… io… non ne posso più…
   – Coraggio, Koninson! – balbettò Hostrup che consumava i suoi ultimi resti di forza, menando coltellate furiose contro la crosta di ghiaccio.
   Il fiociniere tentò di rimettersi al lavoro, ma gli fu impossibile e si accasciò rantolando.
   In quell’istante la lampada si spense e una profonda oscurità regnò nella capanna.
   Il tenente emise un urlo di rabbia.
   – Bisognerà… morire… qui dentro!.. – rantolò, stringendo i pugni.
   Aveva perduta ormai ogni speranza e all’estremo di forze stava per cadere a fianco del fiociniere, quando un pensiero gli balenò nel cervello.
   Fece appello alla sua energia, si precipitò verso un angolo della capanna, afferrò il primo fucile che trovò sotto mano, l’armò rapidamente e puntandolo in alto fece fuoco.
   Alla detonazione formidabile che fece tremare le pareti staccando larghe croste di ghiaccio, Koninson si rizzò sulle ginocchia balbettando:
   – Signor… Hostrup!…
   Il tenente non rispose. Ritto in mezzo alla capanna, col capo in aria, gli occhi fissi sulla volta, colla bocca sbarrata, pareva che attendesse qualche cosa.
   Un leggero fischio si fece udire e subito dopo i due poveri balenieri, che poco prima si credevano perduti, respirarono dapprima stentatamente e poi a pieni polmoni. Koninson gettò un formidabile «oh!» di soddisfazione, mentre il tenente, malgrado il freddo, si tergeva il sudore che gli bagnava la fronte.
   – Avete aperto un foro con una palla? – chiese Koninson, accendendo la lampada.
   – Sì, fiociniere, e, come vedi, è stata una eccellente idea.
   – E venuta proprio a tempo, signor Hostrup. Mille grazie! Ah come respiro!
   – Respira più che puoi, poichè il buco potrebbe turarsi da un momento all’altro.
   – Scaricheremo ancora i fucili.
   – Purchè non ci crolli addosso la capanna. Credo che faremo bene ad aprirci una galleria e sbarazzarci del ghiaccio e della neve che ci seppelliscono.
   – Mano alla scure, adunque, signor Hostrup. Ora mi sento forte come un gigante.
   Non perdettero tempo; dopo due ore di accanito lavoro raggiungevano la superficie del campo, sul quale si erano stesi oltre tre metri di neve, che il freddo intenso aveva convertito in solidissimo ghiaccio.


   XVIII. IL RITORNO ALLA COSTA

   Il lungo inverno polare passava lentamente con tutto il suo orrido corteo di furiosi uragani, di freddi intensi, di nevicate spaventevoli e di folti nebbioni.
   I due balenieri, quasi sempre chiusi nella loro meschina, stretta, umida e fredda capanna di ghiaccio che la lampada non bastava a riscaldare, passavano dei tristi giorni sospirando la primavera che pareva non volesse decidersi a venire innanzi. La noia e lo scoraggiamento, prodotti dall’immobilità quasi assoluta, dall’isolamento e dai grandi freddi che si succedevano scendendo talvolta perfino a 56° sotto lo zero, ben spesso li invadevano e penavano assai a combatterli.
   Quando il campo di ghiaccio non sussultava e il tempo si manteneva in calma, ne approfittavano per fare delle lunghe escursioni, ma ciò accadeva ben di rado, poichè venti furiosi soffiavano quasi sempre da nord, spingendo innanzi nembi di ghiacciuoli che ferivano dolorosamente e nembi di neve che assideravano.
   Qualche altra volta sfidavano le intemperie per ammirare gli strani fenomeni che accadevano, o le splendide aurore boreali che lanciavano per il firmamento fasci di luce gialla, turchina, azzurrognola, scherzanti in mezzo a linee di fuoco, o la luna che spuntava sull’orizzonte contornata da quattro od otto satelliti o palle di fuoco che apparivano improvvisamente, aventi un rapido moto orizzontale alquanto oscillante e che, dopo aver scherzato fra i ghiacci, scoppiavano senza lasciare alcuna traccia, o i miraggi sorprendenti che tramutavano i ghiacci in campagne ridenti coperte di betulle e di verdi erbe, o le colonne di fumo che s’alzavano alte alte e che erano prodotte da tronchi d’alberi fossilizzati, trascinati dalle correnti, chissà mai da quali lontane regioni, e che s’incendiavano pel continuo confricamento degli «icebergs», degli «streams», dei «polks» e degli «hummocks» che s’accumulavano combattendo furiosamente fra loro attorno al grande banco.
   Ma per lo più se ne stavano chiusi nel loro tugurio per non esporsi ai pericoli causati dalle pressioni che di quando in quando mettevano sottosopra il banco con ululati da far fremere, o dal freddo feroce che li minacciava ad ogni momento di congelamento, pericolo assai grave, poichè produce la perdita assoluta del membro che ne viene colpito e qualche volta cagiona anche la morte.
   Fortunatamente l’inverno, quantunque sembrasse eterno a quei due disgraziati balenieri, passava. Passò gennaio, poi febbraio, poi marzo, indi venne aprile, il quale portò un gran cambiamento.
   Il freddo a poco a poco divenne meno intenso e si fermò sui 15° sotto lo zero; gli uragani che sconvolgevano i campi di neve e che minacciavano ogni giorno di seppellire la capanna di ghiaccio, divennero più radi e meno violenti; le dense nebbie che ostinatamente coprivano l’orizzonte settentrionale e che talvolta diventavano così nere da non lasciar vedere al di là della punta del naso, s’alzarono e si dileguarono e in loro vece apparve dapprima una luce biancastra che ogni giorno più si elevava, e finalmente s’alzò il sole, il quale lanciò i suoi raggi dorati attraverso l’immensa distesa di ghiacci che scintillarono superbamente.
   Gli uccelli, che si erano rifugiati nei climi più dolci, ritornarono ben presto in grandi stormi: i borgomastri («larus glaucus») prima, indi le urie nere («dovekies»), poi i piccoli «plectrophanes nivales», le oche, i kittivakes, i rotgees, i loomeries, i boats-waires, i mollys, gli snowbuttings e dietro a questi tutte le altre specie d’uccelli che al principiare della primavera lasciano le terre della Baia d’Hudson per emigrare nelle terre artiche spingendosi forse fin là dove l’uomo, malgrado tanti secoli d’eroici sforzi e tante preziose esistenze sacrificate, non ha peranco posto piede, cioè al polo.
   Ma anche gli animali cominciavano a comparire con grande contentezza dei due balenieri che sentivano il bisogno di nutrirsi di carne fresca per tener lontano lo scorbuto che li minacciava. Numerose volpi, giunte da sud, saltellavano in mezzo ai ghiacci; qualche orso bianco, ma ancora assai diffidente, si era mostrato in distanza, dondolando meccanicamente e senza posa il capo, e più lontano anche delle foche e dei trichechi avevano fatto la loro comparsa ed erano stati veduti riscaldarsi ai primi raggi del sole primaverile.
   Il momento della partenza si avvicinava. La più elementare prudenza consigliava ai due balenieri di andarsene verso sud, di abbandonare quel campo di ghiaccio che non avrebbe resistito per molto tempo al calore solare.
   Fu il 16 aprile che il tenente, che da qualche giorno visitava attentamente le baleniere riparate nel magazzino e colle quali contava di fabbricare una buona slitta, decise di por mano ai lavori.
   – Non bisogna perdere tempo, mio caro Koninson – disse egli. – La costa americana non è molto distante e solamente là noi possiamo trovare la nostra salvezza.
   – Non domando che di andarmene, signor Hostrup! – rispose il fiociniere. – Se rimango un’altra settimana in questa dannata capanna, mi si arrugginiranno le gambe al punto da non poter più servirmene. E sarà lunga la via che dovremo percorrere?
   – Un centocinquanta o duecento miglia.
   – Ci impiegheremo del tempo.
   – Non tanto quanto sembrerebbe, mio bravo fiociniere.
   – Per caso, avete trovato dei cani da attaccare alla slitta?
   – No, ma qualche cosa di meglio e di più rapido. Il fiociniere lo guardò con stupore, chiedendosi se il freddo e i patimenti gli avessero sconvolto il cervello.
   – Non meravigliarti! – disse il tenente sorridendo, e forse comprendendo il pensiero che attraversava la mente del fiociniere. – Guarda verso il sud: cosa vedi?
   – Una superficie brillante che pare non finisca mai.
   – Sì, ma una superficie che le grandi nevicate e i grandi freddi hanno sufficientemente levigata. Ebbene, amico mio, noi alzeremo una vela sulla nostra slitta e appena il vento del nord soffierà, partiremo colla velocità di un battello a vapore, anzi d’un treno.
   – Stupenda idea, signor Hostrup. E dire che non mi era mai passata per la mente! Al lavoro! Al lavoro! Mi sento ora capace di costruire dieci slitte.
   Si recarono ai magazzini e colla scure fecero a pezzi la grande baleniera del cui legname, abbastanza curvo, contavano di servirsi.
   L’impresa non fu tanto facile, essendo sprovvisti degli utensili necessari, ma finalmente riuscirono a costruire un solido apparecchio che, se non era precisamente una slitta, di poco le si scostava. Il difficile fu l’adattamento dei pattini di ferro, non possedendo che poche lamine di metallo strappate alle imbarcazioni, poco larghe e per di più un pò avariate.
   Ma colla pazienza, riscaldandole sulla gran lampada e battendole e ribattendole col rovescio delle scuri, anche i pattini furono ottenuti e collocati a posto.
   – Speriamo che resistano! – disse Koninson, piantando l’ultimo chiodo.
   – E perchè si dovrebbero rompere?
   – Il metallo era molto vecchio e molto arrugginito, signor Hostrup.
   – E se tu non lo sai, fiociniere, ti dirò che il ferro arrugginito naturalmente, e così pure l’acciaio, è sempre migliore di quello appena fuso. Un celebre coltellinaio di Londra ha fatto degli esperimenti in proposito, che diedero dei risultati sorprendenti.
   – Io non l’ho mai saputo.
   – Così è, Koninson. Questo coltellinaio, che si chiamava Weiss, seppellì dei vecchi rasoi e delle vecchie lame di ferro, dopo tre anni le ritirò coperte d’un spesso strato di ruggine che pareva trasudato dall’interno e, lavoratele, ottenne delle lame d’una qualità superiore, e tali da vincere quelle famose di Toledo.
   – Allora non temo più per i nostri pattini.
   L’indomani i due balenieri riprendevano il lavoro per ultimare la slitta. Costruirono, servendosi sempre del legname fornito dalle imbarcazioni, delle casse per i viveri e per le munizioni, issarono sul dinanzi del veicolo un pennone che assicurarono saldamente e che fornirono d’una vela quadra, e finalmente fabbricarono una specie di timone munito all’estremità d’un grosso gancio di ferro che doveva servire per la direzione e, in caso di bisogno, per le fermate improvvise.
   Il 18 l’occuparono nel fabbricarsi degli occhiali, oggetti indispensabili in quelle regioni, quando il sole si riflette sui campi di ghiaccio. Infatti quella luce acciecante è pericolosa e cagiona spesso delle oftalmie che conducono alla cecità e delle quali non vanno esenti neanche gli eschimesi che pure nascono e vivono in quei climi.
   Quegli occhiali richiesero parecchio tempo e molta pazienza, ma finalmente i due balenieri ne vennero a capo. S’intende che non erano formati con lenti, impossibili ad ottenersi, per quanto desiderio avessero il tenente e il suo compagno, ma poco dissimili da quelli usati dagli indiani delle terre della Baia di Hudson.
   Sarebbero stati necessari dei rami di cedro rosso che essendo assai pieghevoli vengono adoperati dagli indiani nella fabbricazione di questi oggetti, ma non avendone a loro disposizione, i balenieri si servirono di un grosso filo di ferro rinvenuto in un canotto. Curvatolo in maniera da formare un ovale assai allungato, lo coprirono con una sottile pelle di foca, praticandovi, al posto degli occhi, due sottili tagli orizzontali. Ciò era bastante per vedere senza incorrere nel pericolo di rimanere acciecati o di buscarsi qualche seria malattia.
   La mattina del 20, tutto era pronto per la partenza. La slitta colla sua vela semi-tesa, col suo albero ben assicurato, il suo timone a posto, i viveri sufficienti per tre settimane e le munizioni rinchiuse nelle casse, non aspettava che di essere manovrata per slanciarsi attraverso il campo di ghiaccio.
   Uno splendido sole brillava sull’orizzonte inondando quella deserta regione d’una luce abbagliante, e un fresco vento soffiava da nord.
   I due balenieri, chiusi per bene i magazzini nei quali lasciavano ancora una discreta quantità di provvigioni e dato un addio alla capanna che li aveva ricoverati durante il lungo inverno polare, si affrettarono a dirigersi verso la slitta, ansiosi di toccare la costa americana. Stavano per porvi il piede, quando entrambi si fermarono come se a tutti e due fosse istantaneamente venuto lo stesso pensiero.
   I loro occhi si portarono sul gran banco di ghiaccio risplendente di luce e si fermarono là dove circa quattro mesi prima, in una notte d’orrore, per effetto delle pressioni, il valoroso «Danebrog» sventrato, stritolato, era colato a fondo; là dove i loro sfortunati camerati erano stati inghiottiti in quella tremenda notte.
   – Riposate in pace! – disse il tenente con voce solenne e triste, scoprendosi il capo. – Riposate in pace voi infelici che non rivedrete giammai le lontane sponde della vostra patria, nè avrete sulle vostre tombe il conforto di un fiore sparso da mano amica, nè una lagrima versata dai vostri cari. Addio, capitano Weimar, addio, miei poveri camerati: noi non vi dimenticheremo.
   – Riposate in pace! – ripetè Koninson che era profondamente commosso. – I ghiacci del polo vi siano leggeri.
   – Ed ora partiamo! – disse il tenente.
   Balzarono nella slitta che pareva impaziente di allontanarsi da quei funebri luoghi e issarono la vela, che subito si gonfiò sotto i soffi del vento settentrionale.
   Il veicolo per un istante rimase immobile come fosse inchiodato al banco, poi cominciò a scivolare un pò indecisamente, indi si slanciò attraverso la liscia superficie colla velocità di un treno diretto, sollevando attorno a sè una nube di nevischio e di ghiacciuoli e lasciandosi dietro due striscie fiammeggianti che in pochi istanti si prolungarono indefinitamente.
   Il tenente e Koninson, quasi soffocati dalla rapida e gelida corrente d’aria, flagellati da una vera grandine di ghiacciuoli sottili come aghi, solidamente aggrappati alle traverse del celere veicolo, si sforzavano di guardare innanzi per tema di trovarsi improvvisamente sull’orlo di qualche spaccatura o di urtare contro qualche sporgenza.
   – Apri bene gli occhi, – ripeteva Hostrup al fiociniere – e sii pronto a lasciar cadere la vela.
   – Non temete, – rispondeva con voce soffocata il bravo giovanotto, che non abbandonava la prua del veicolo dove maggiore era la pioggia dei ghiacciuoli, taluno dei quali gli lacerava il viso – guardo sempre.
   E la slitta scivolava, scivolava sempre più senza scosse, senza sbandamenti, senza deviare d’un solo centimetro sotto la robusta mano del tenente che non abbandonava il timone, lasciandosi a destra e a sinistra «icebergs» e «hummocks» e mettendo in fuga volpi, lupi e uccelli.
   Ben presto la sua velocità divenne tale che il tenente cominciò ad avere delle inquietudini. Oramai filava come un vero uccello, percorrendo non meno di cinquanta chilometri all’ora.
   Guai se si fosse trovata dinanzi ad un ostacolo o dinanzi ad una spaccatura del ghiaccio; l’urto l’avrebbe mandata in mille pezzi e i due uomini che la montavano non se la sarebbero cavata senza ossa rotte.
   A mezzogiorno il tenente stimò la distanza percorsa a centosessanta miglia, ma la costa americana non era ancora in vista, quantunque non dovesse essere molto lontana.
   – Fermiamoci! – disse al fiociniere. – Ammaina la vela.
   Koninson obbedì. La slitta, trasportata dallo slancio, percorse un buon miglio ancora, poi si fermò di fianco ad un alto masso di ghiaccio.
   Accesero la lampada che avevano portato seco loro, si prepararono un modesto desinare che in un baleno divorarono, indi rimontarono nel veicolo che riprese la corsa ma con minor velocità, essendo il vento un po’ scemato.
   Alle 4 pomeridiane, dopo essersi più volte fermati per girare dei crepacci che erano stati scorti a tempo e per trascinare la slitta attraverso a ghiacci sollevati dalle pressioni, Koninson segnalava un’alta costa che, quantunque fosse tutta coperta di neve, non pareva una catena di «icebergs», e un pò più tardi, ad una grande distanza, mezze avvolte fra un fitto nebbione, scopriva delle vette che sembravano montagne.
   – Signor Hostrup! – esclamò con voce commossa.
   – È la costa americana! – disse il tenente, non meno commosso.
   – Così presto?
   – Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo.
   Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell’America settentrionale.


   XIX. CACCIA AI BUOI MUSCHIATI

   A quale punto della costa americana erano giunti i due audaci balenieri? Era impossibile saperlo, ma secondo i loro calcoli dovevano trovarsi fra l’Yucon, grande fiume che sbocca verso l’ovest, e il Makenzie, altro grande fiume che sbocca all’est. Del resto nè il tenente nè il fiociniere per il momento si preoccupavano di ciò; a loro bastava di essere giunti a quella costa tanto sospirata e che per loro era la salvezza.
   Forse molto cammino dovevano ancora percorrere e forse molti pericoli dovevano ancora affrontare, ma che importava? L’America era lì, a pochi passi di distanza, e non chiedevano di più. In seguito avrebbero pensato a raggiungere qualche tribù di eschimesi o d’indiani o meglio ancora qualcuno degli stabilimenti che la Compagnia della Baia d’Hudson fondò in gran numero in quella regione, per il commercio delle pelliccie.
   Ansiosi di porre i piedi su quella terra così miracolosamente e quasi senza fatica raggiunta, non perdettero un solo istante e, attaccatisi alla slitta con una lunga correggia, si spinsero risolutamente innanzi.
   Disgraziatamente il cammino non era più facile. Il ghiaccio, sconvolto e sollevato dagli urti degli «icebergs», dei «palks» e degli «streams», presentava per ogni dove larghi crepacci o punte aguzze e scricchiolava in modo inquietante come se fosse sempre lì lì per aprirsi. La slitta, non trovando modo di scivolare su quel terreno irregolare e malfermo, ora si sprofondava ed ora si rovesciava facendo andare in bestia il fiociniere il quale sudava, quantunque il termometro segnasse ancora 12° sotto lo zero.
   Non fu che alle 8 che i due balenieri stanchi, colle vesti lacerate dalle punte dei ghiacci e le scarpe assai malandate, poterono raggiungere la cima della sponda americana.
   I loro sguardi percorsero ansiosamente il paese che si stendeva a loro dinanzi, colla speranza di scoprire qualche capanna o qualche colonna di fumo che segnalasse la presenza di una creatura umana, ma invano.
   La regione era assolutamente deserta e desolata. Una pianura coperta di ghiacci e di nevi, frastagliata da piccoli laghetti gelati e da crepacci profondi, s’apriva dinanzi a loro, chiusa verso sud da alcune montagne che sembravano dirupate e molto difficili a scalarsi e le cui vette sparivano dentro una fitta nebbia.
   Qualche meschina pianticella, dei miseri salici artici non più alti di venti centimetri, qualche macchia di licheni detti di «roccia trippa» e un pò di muschio apparivano qua e là sulla bianca distesa di neve, ma nessuno di quei «settlements» che s’incontrano talvolta in mezzo a quei deserti delle terre d’Hudson, nessun villaggio di eschimesi, nessuna capanna e nessun animale.
   – Era brutto il nostro banco di ghiaccio, ma questa costa non mi sembra migliore! – disse Koninson.
   – Credevi forse di riposare in un soffice letto stasera? – chiese il tenente ridendo.
   – No, ma credevo di vedere qualche volto umano.
   – Ne vedremo e fra non molto forse.
   – Ma più a sud.
   – E perchè più a sud? Forse che gli eschimesi hanno paura del freddo per spingersi fin qui? Essi salgono molto più a nord e mi ricordo che alcuni furono trovati così lontani dalle terre abitabili da ignorare l’esistenza di altri popoli. James Ross, per esempio, che nel 1818 intraprese una campagna polare, trovò una tribù di questi strani individui al 78° di latitudine, in un lembo di terra da tutti ignorato e che da secoli e secoli vivevano credendo di essere i soli rappresentanti della razza umana. Vedi bene che non hanno paura di spingersi verso nord.
   – E chi li aveva condotti là?
   – Chi può saperlo? Forse in un’epoca assai lontana una piccola tribù era emigrata fino a quella elevata latitudine.
   – Ditemi, signor Hostrup, da dove si crede che siano venuti gli eschimesi?
   – Dirlo sarebbe molto difficile, ma si suppone, e con ragione, che siano venuti dall’Asia.
   – Infatti mi sembra la via più breve e la più facile, esistendo fra i due continenti il lungo arcipelago delle isole Aleutine. Ed è molto tempo che questo popolo si conosce?
   – Si conosceva prima ancora che Cristoforo Colombo scoprisse l’America.
   – Eh? – fè Koninson, al colmo della sorpresa.
   – Sì, fiociniere, ciò che dico è vero; ma non intendo con ciò scemare il grande merito spettante al celebre navigatore italiano, poichè se si sapeva che esistevano verso nord delle terre abitate, non si sapeva che all’occidente dell’Europa esistesse l’America.
   – E chi furono i primi navigatori ad avere relazioni con quei figli delle nebbie e dei ghiacci?
   – Gli Scandinavi, che fino dal secolo IX si spinsero verso nord fondando colonie nell’Islanda e nella Groenlandia.
   – Avevano dell’audacia, i nostri vecchi!
   – Infatti ne ebbero molta, poichè non si accontentarono di sbarcare in Groenlandia, ma si spinsero più oltre verso l’occidente sbarcando su di una costa che pare fosse l’attuale Labrador e dove fondarono ricche e numerose colonie.
   – Fino nel Labrador? Ma se oggi è un vero deserto di ghiaccio, appena abitabile dagli eschimesi!
   – Oggi sì, ma pare che in quei tempi godesse un clima abbastanza mite, tanto è vero che vi cresceva la vite e appunto per questo chiamarono quella terra Vinlandia, ossia «terra del vino».
   – E come scomparvero quelle colonie?
   – Non lo si sa. Nei primi anni della scoperta della Vinlandia molti Scandinavi s’imbarcarono per quel paese e anche molti Islandesi, fondando su diversi punti della costa grandi stabilimenti e mandando in Europa molti vascelli carichi di pelliccie; poi, a poco a poco le relazioni coll’Islanda e coi paesi scandinavi si rallentarono, finchè cessarono totalmente, forse a causa dei ghiacci che sempre più scendevano verso sud, forse per altre cause che restarono per sempre ignote. Il fatto è che tutte quelle colonie, un tempo così fiorenti, disparvero senza lasciar traccie. Anzi, taluni opinano che la Vinlandia non fosse il Labrador, ma l’isola di Terra Nuova; così incerte sono le memorie lasciate da quegli intrepidi naviganti e coloni.
   – Che siano stati tutti uccisi dagli eschimesi?
   – Non si sa, Koninson. Fors’anche dalla fame causata dal crescente freddo apportato dai ghiacci che distrusse i loro raccolti, forse da guerre civili, forse da qualche epidemia e, potrebbe anche darsi, dagli eschimesi.
   – E non potrebbero essersi invece fusi cogli eschimesi?
   – È possibile; anzi, molti scienziati sono del tuo parere, poichè è stato più volte osservato che talune tribù eschimesi sotto i loro strati di olio e di pittura hanno la pelle bianca. Ma lasciamo lì gli eschimesi e pensiamo ad accamparci. Domani, se il tempo, lo permetterà, ci dirigeremo verso quella catena di monti che chiudono l’orizzonte meridionale.
   – E poi? – chiese Koninson.
   – Poi continueremo ad avanzare verso sud finchè incontreremo il Porcupine. Quando saremo là, penseremo a raggiungere il fiume Makenzie e quindi il lago del Grand’Orso.
   – Perchè andremo fino a quel lago?
   – Perchè là appunto si trova un forte della Compagnia della Baia d’Hudson.
   – Allora ci andremo. Le nostre gambe sono buone malgrado la lunga prigionia subita in quella dannata capanna. Ora accampiamoci e mettiamo sotto i denti qualche cosa, poichè mi sento una fame diabolica.
   Staccarono la vela dalla slitta, rizzarono una specie di tenda sostenuta dall’albero e dal pennoncino e coprirono il suolo colle pelli che avevano portato con loro per ripararsi dal freddo e combattere l’umidità.
   Koninson, accesa la lampada, fece bollire un pò di pesce secco mescolandovi dei fagiuoli, gli ultimi che ancora possedeva, e quando tutto fu pronto invitò il tenente al magro desco. Dopo una fumata, turarono per bene la tenda e si coricarono cercando di addormentarsi.
   Avevano appena chiuso gli occhi che udirono, a breve distanza, un lungo urlo che aveva un non so che di lugubre.
   – Che razza di bestia si avvicina? – chiese Koninson, allungando la destra verso il suo fucile.
   – Mi pare che fosse l’urlo d’un lupo! – disse il tenente, punto spaventato.
   – Brutta compagnia, signor Hostrup. Forse che quei famelici animali si spingono fin sulle rive dell’oceano artico?
   – Nella buona stagione s’incontrano anche su queste coste. Probabilmente hanno fiutato l’odore del nostro pasto e si sono affrettati a dirigersi a questa volta. Metti fuori il capo e guarda.
   Koninson alzò la tela e strisciò all’aperto portando con sè il fucile.
   Un grande lupo dal mantello grigio urlava verso alcuni grossi animali assai villosi, che per le loro forme somigliavano ai buoi e che passavano ad un chilometro di distanza dirigendosi verso la catena di monti.
   – Signor Hostrup, uscite, uscite! – esclamò egli. – Vedo dei buoi.
   – Dei buoi? – disse il tenente. – Sei pazzo, giovanotto mio?
   – No, no, affrettatevi che se ne vanno.
   Il tenente uscì e dovette proprio convincersi che Koninson non aveva del tutto torto.
   – Sono buoi muschiati – disse, dopo aver attentamente guardato i ruminanti che galoppavano rapidamente verso sud. – E sono molti.
   – Una ventina per lo meno – aggiunse Koninson. – Sono buoni da mangiare?
   – Sì, fiociniere.
   – Che appartengano a qualche tribù di eschimesi?
   – No, non vivono che allo stato selvaggio e s’incontrano di rado, poichè la loro razza va a poco a poco scomparendo.
   – Se li inseguissimo?
   – Sarebbe fatica sprecata, poichè corrono e molto più rapidamente di noi.
   – Ma volete lasciarli andare? – insistette il fiociniere che si era fitto in capo di regalarsi, per l’indomani, delle succolente bistecche
   – Per ora sì, ma domani cercheremo di sorprenderli in qualche vallata e vedrai che qualcuno cadrà sotto le nostre palle. Oggi è inutile spaventarli.
   Il fiociniere dovette a malincuore arrendersi. D’altronde i buoi muschiati, che forse avevano fiutato qualche pericolo sia da parte dei due balenieri che dei lupi, si erano affrettati ad allontanarsi, ed in breve sparvero in mezzo alle colline di neve.
   Il tenente e il suo compagno ritornarono sotto la tenda e si riaddormentarono, ma furono ancora risvegliati, e parecchie volte, dalle urla dei lupi, di cui alcuni vennero a ronzare non solo attorno alla slitta, ma anche attorno alla tenda.
   All’indomani, un pò prima delle 6, erano tutti e due in piedi, pronti a mettersi in caccia.
   La giornata era splendida. Al disopra dei monti di ghiaccio che chiudevano l’orizzonte settentrionale, brillava un superbo sole il quale aveva portato la temperatura a soli 9° sotto lo zero.
   Per l’aria, vere nuvole di uccelli passavano e ripassavano mandando allegre grida, e sui campi di neve della terra americana si vedevano galoppare in tutti i sensi gran numero di volpi bianche occupate a cacciare i piccoli sorci di neve che cominciavano a lasciare le loro tane.
   La grossa selvaggina non mancava. In lontananza, fra gli «icebergs» e gli «hummocks», dei lunghi corpi nerastri si avvoltolavano in mezzo alle nevi, godendosi i tiepidi raggi di sole che li inondavano; erano foche e trichechi che, forato il ghiaccio, venivano a «respirare una boccata d’aria» come diceva Koninson.
   – Partiamo! – disse il tenente, dopo essersi riempite le tasche di palle e di polvere ed essersi caricato del fucile e di una scure. – I buoi muschiati non devono essere molto lontani.
   – E la slitta la lasceremo qui? – chiese Koninson.
   – Partiremo domani per il sud. Oggi ci dedicheremo alla caccia.
   – Non chiedo di meglio. Avanti, signor Hostrup; io ho un vivissimo desiderio di far conoscenza coi buoi muschiati.
   Chiusero alla meglio la tenda affinchè durante la loro assenza i lupi non facessero man bassa sui viveri, inforcarono gli occhiali per difendere gli occhi dal riflesso delle nevi percosse dai raggi solari e si misero animosamente in cammino, dirigendosi verso la catena di montagne, le cui valli non potevano essere lontane più di quattro o cinque miglia.
   Sul principio la marcia non fu difficile, quantunque la neve, cominciando a sciogliersi, rendesse il cammino faticoso; ma ben presto divenne aspra a causa del terreno che diventava sempre più malagevole, ora interrotto da larghi crepacci dai quali saliva una fitta nebbia che tosto si disperdeva, ora da profondi letti di neve che cedeva subito sotto i piedi, ed ora da certe collinette brulle i cui fianchi, coperti di ghiaccio, mal si prestavano per le ascensioni.
   Soffermandosi però di quando in quando per riprendere lena, verso le 10 del mattino i due cacciatori giungevano all’entrata di una stretta ma molto profonda e tortuosa vallata, interrotta qua e là da alte roccie sui cui fianchi germogliavano stentatamente alcuni campioni della famiglia delle sassifraghe, pochi salici artici e licheni di roccia.
   Il tenente, che di quando in quando si arrestava per guardare la neve, scoprì numerose traccie di buoi muschiati che si perdevano in fondo alla valle.
   – Siamo vicini alla grossa selvaggina – disse a Koninson. – Prepara il fucile e bada di non mancare il colpo, poichè i buoi muschiati hanno delle solide corna.
   – Assalgono i cacciatori? – chiese il fiociniere.
   – Qualche volta sì, e allora diventano pericolosi; più d’un eschimese è stato sventrato come un «toreador» spagnuolo, se non peggio. Avanti e silenzio.
   Armarono i fucili e s’addentrarono nella valle cercando di evitare gli stagni e i piccoli corsi d’acqua per non fare rumore calpestando il ghiaccio che li copriva e cercando pure di mantenersi nascosti più che era possibile, allo scopo di non allarmare subito la selvaggina che forse pascolava a breve distanza.
   Avevano percorso in quella guisa oltre mezzo miglio, quando udirono dietro alcune roccie dei sonori muggiti.
   – Adagio, Koninson! – mormorò il tenente trattenendo il compagno che stava per slanciarsi innanzi. – Giriamo pian piano le roccie.
   Si gettarono a terra e, strisciando a mò di serpenti, avanzarono lentamente finchè giunsero a una piccola rupe, dietro la quale potevano vedere e sparare senza correre pericolo.
   La scalarono e guardarono dall’altra parte: i buoi muschiati, che la sera innanzi avevano attraversata la pianura inseguiti dai lupi, stavano loro dinanzi, a meno di duecento passi.


   XX. ATTRAVERSO LE MONTAGNE

   Erano tredici, meno grandi dei bufali e dei buoi comuni, ma d’aspetto ferocissimo, col loro lunghissimo pelo color bruno scuro che scendeva quasi fino a terra, gli occhi selvaggi e le lunghe corna minacciosamente allargate all’infuori.
   Formavano una specie di cerchio attorno a due buoi che avevano forme più massicce, corna molto più lunghe e statura molto più elevata, senza dubbio due maschi, e che si guardavano ferocemente come se fossero lì lì per precipitarsi l’uno contro l’altro.
   – Facciamo fuoco? – chiese Koninson, che tormentava il grilletto del suo fucile.
   – Non ancora, – rispose il tenente.
   – Perchè, signor Hostrup? Se ci scappano?
   – Non ci scapperanno, fiociniere. Hanno ben altro da fare ora.
   – E cosa mai?
   – Se non m’inganno, stiamo per assistere ad un duello fra quei due maschi, cosa che succede di frequente fra questi intrattabili ruminanti.
   – E perchè mai?
   – Per disputarsi le femmine. Sta zitto e guarda.
   I due maschi infatti stavano per impegnare una di quelle lotte che quasi sempre finiscono colla morte di uno degli avversari e qualche volta di tutti e due.
   Avevano abbassato i solidi cranii, mostrando le corna che sembravano assai aguzze e d’una durezza a tutta prova e dimenavano le brevi code con crescente rapidità, indizio certo della grande irritazione che li animava. Le femmine, dal canto loro, si erano affrettate a ritirarsi da una parte, onde lasciare maggior campo ai due campioni.
   Ad un tratto, i due combattenti mandarono un muggito lungo, sonoro, che si ripercosse stranamente per la stretta valle, e si scagliarono l’un contro l’altro con rabbia estrema e colla testa bassa.
   L’urto fu terribile: entrambi non ressero all’incontro e caddero l’un sull’altro; ma tosto si rialzarono con un’agilità che non si sarebbe supposta in quei corpi, tornando a caricarsi con maggior furore e avventandosi tremende cornate che laceravano la pelle e producevano profonde ferite dalle quali il sangue sgorgava a rivi.
   Per un buon quarto d’ora combatterono con varia fortuna mescendo i muggiti ai cupi colpi delle lunghe corna, poi uno, il più piccolo, cadde dibattendosi fra le convulsioni della morte. Dal ventre squarciato per un lungo tratto, assieme ad una vera pioggia di sangue, uscivano gli intestini.
   Il vincitore però non si arrestò, e quantunque pur lui ridotto a mal partito, colla fronte quasi interamente scoperta dalla quale pendevano brani di pelle sanguinolenta, un occhio levato e il petto sfondato, si scagliò un’ultima volta sul vinto, percuotendolo rabbiosamente cogli zoccoli e colle corna.
   – Ah brigante! – mormorò Koninson, che non poteva più star fermo. – Ora ti accomodo io.
   Stava per puntare il fucile, quando la banda tutta d’un tratto fece un rapido voltafaccia slanciandosi attraverso la valle, seguita, dopo una breve esitazione, anche dal vincitore.
   Il tenente e Koninson balzarono sulla roccia che li aveva fino allora nascosti e fecero fuoco dietro ai fuggiaschi che non si arrestarono, quantunque uno fosse stato veduto fare uno scarto e vacillare.
   – Inseguiamoli! – gridò il fiociniere.
   – È inutile, – disse il tenente. – Non vedi come trottano? Ci vorrebbero dei cavalli per raggiungerli.
   – Ma in qualche luogo si fermeranno.
   – Sì, ma dove e quando? Sono capaci di attraversare la catena di monti e di slanciarsi verso le pianure del sud.
   – Quegli animali si arrampicano anche sui monti?
   – Sì e come le capre.
   – Ma ditemi, signor Hostrup, perchè si chiamano buoi muschiati?
   – Perchè la loro carne è impregnata di muschio.
   – Sicchè noi mangeremo delle bistecche…
   – Muschiate e molto muschiate, mio caro fiociniere.
   – Bah! Purchè sia carne fresca, non domando altro.
   – Non ne mangerai molta, te l’assicuro.
   – Ma se gli eschimesi la mangiano…
   – Gli eschimesi vi sono abituati e poi, sai bene che hanno dei ventricoli capaci di tollerare qualunque cibo nauseante, come pesci corrotti, olio di foca e di balena, ecc. Orsù, andiamo a tagliare qualche pezzo di carne e poi torniamo alla tenda.
   Si diressero verso il bue che aveva terminato di agitarsi e a colpi di scure gli aprirono il ventre, staccandogli sei o sette costole. Koninson però non si accontentò e si impadronì anche della lingua che doveva essere eccellente.
   Raccolte le armi, si misero in cammino e verso le 6 pomeridiane giungevano alla tenda attorno alla quale trovarono numerose traccie di lupi, segno evidente che avevano tentato di entrarvi, ma senza riuscirvi.
   La lampada fu accesa e la pentola messa a bollire con un bel pezzo di carne che non pesava meno di due chilogrammi; ma i due balenieri per quanto si sforzassero e per quanta voglia avessero di porre sotto i denti un pò di quel manzo, fecero poco onore al pasto. Carne e brodo erano impregnati di muschio in siffatto modo, che un vero affamato avrebbe esitato lunga pezza.
   – Al diavolo i buoi e il loro muschio! – esclamò Koninson, – Non valeva la pena di fare tanta strada per guadagnarci questo pasto,
   – Te l’avevo detto – disse il tenente. – Ma ci hanno guadagnato le nostre gambe che avevano bisogno di una bella passeggiata per prepararsi alla gran marcia.
   – Quando partiremo?
   – Domani, se il tempo lo permetterà.
   – Allora buona notte, signor Hostrup.
   Richiusero la tenda, tirando per maggior precauzione la slitta dinanzi all’entrata e s’avvolsero nelle loro coperte dopo aver però caricato le armi onde essere pronti a qualsiasi assalto.
   Il mattino del 23 il tenente dava il segnale della partenza. Egli aveva fretta di allontanarsi da quelle spiaggie che non offrivano alcuna risorsa e che, stante la vicinanza della catena di montagne, le cui cime dovevano essere ricche di ghiacciai pronti a spezzarsi ai primi calori, potevano diventare pericolosissime.
   Piegata la tenda e insaccati i viveri, i due intrepidi balenieri si recarono sulla spiaggia a dare un ultimo sguardo a quel mare gelato nelle cui profondità dormivano i loro disgraziati compagni e che forse non dovevano mai più rivedere.
   I campi di ghiaccio erano ancora là, colle nevi che il sole non era ancora riuscito a intaccare e colle loro montagne dalle cime bizzarramente frastagliate, ma non presentavano più quella superficie compatta che avrebbe sfidato le mine e lo sperone delle corazzate dei due mondi. Qua e là, immensi crepacci si erano aperti ed in fondo a questi si vedeva il mare alzarsi ed abbassarsi e poi tornare a montare, quasi fosse stanco di quella lunga ed opprimente prigionia.
   Ogni qual tratto, un «iceberg» mal solido, o scosso dai continui urti di ghiacci minori, capitombolava con un fragore immenso che si ripercuoteva a grandi distanze in quell’atmosfera limpida e secca, o s’apriva improvvisamente, con uno scricchiolìo che si perdeva in lontananza, un largo crepaccio dentro il quale si rovesciavano confusamente colonne, cupole e piramidi che tosto scomparivano sotto lo spumeggiante oceano. Altre volte invece, una vera montagna di ghiaccio, sfondando col proprio peso il banco, scompariva e poi riappariva con un salto immenso lanciando, in mezzo ai ghiacci che l’attorniavano, degli enormi sprazzi di acqua che correvano in tutte le direzioni, formando qua e là dei torrenti e dei laghetti ove calavano subito a bagnarsi, gettando strida gioconde, bande di uccelli marini.
   – È pur sempre bello questo strano spettacolo che solamente qui si può ammirare – disse il tenente.
   – Bello sì, ma io vorrei esserne ben lontano – disse Koninson. – Vivessi mille anni mi ricorderò sempre di questa disgraziata campagna.
   – Non parliamone, amico mio, e partiamo.
   – Avete ragione, signor Hostrup. È meglio lasciar dormire i tristi ricordi e mettere la prua verso sud. Animo, Koninson, se vuoi salvare la pelle.
   Il fiociniere e il tenente, dato un ultimo sguardo all’oceano polare, si attaccarono alla slitta a cui avevano legato delle corde e si misero animosamente in marcia cercando di mantenere una via, più che era possibile, retta.
   La grossa crosta di ghiaccio che ancora copriva la terra, si prestava assai allo scivolamento del veicolo, ma le frequenti screpolature, manifestatesi qua e là, e di cui talune raggiungevano qualche metro di larghezza, i frequenti incontri di strati di neve non ancor ben solidificata o in via di scioglimento, entro i quali i due balenieri sprofondavano fino alle anche, e talvolta anche più, rallentavano e rendevano penoso il cammino. Ma la tenacia del tenente e la robustezza di Koninson la vinsero sugli ostacoli, ed a mezzogiorno la slitta si trovava già nella valle che menava direttamente ai monti. Colà si trovava ancora il bue muschiato ucciso il giorno innanzi, ma ridotto ormai uno scheletro dai denti degli affamati lupi.
   Fecero una breve fermata onde mangiare un boccone, indi ripresero il faticoso cammino, reso ancor più difficile dal notevole innalzarsi del terreno e dall’incontro di enormi lastre di ghiaccio staccatesi senza dubbio da qualche vicino ghiacciaio e scivolate fin là.
   La valle era deserta e selvaggia. A destra e a sinistra, bizzarre roccie di natura granitica, come lo sono tutte quelle che si incontrano in quelle gelate regioni, rivestite di neve e di ghiaccio, s’alzavano capricciosamente frastagliate e per lo più coi fianchi così ripidi da rendere impossibile una scalata. Qua e là gran numero di massi enormi coprivano il terreno e disposti in così strana guisa che parevano scagliati da qualche improvviso scoppio di uria poderosa mina ed in mezzo a quelli, piccole piante, magri licheni, mezzi divorati dai buoi muschiati o dalle renne, ranuncoli, sassifraghe e graminacee.
   Non un animale, non un uccello si scorgevano in quella brutta valle e regnava un silenzio profondo, triste, che faceva una strana impressione.
   – Che brutto luogo! – disse Koninson. – Si direbbe che stiamo per attraversare un cimitero. Ma dove si sono cacciati i lupi e i buoi muschiati?
   – Non lo so meglio di te – rispose il tenente. – Ma, se devo dirti il vero, non mi trovo bene in questa valle.
   – E perchè? Temete qualche cosa?
   – Forse, Koninson; ma andiamo innanzi.
   Continuarono ad avanzare, salendo sempre e raddoppiando gli sforzi, senza incontrare nè un lupo, nè una volpe, animali questi che si vedono dappertutto in quelle lontane regioni. Il tenente, man mano che procedeva, diventava più inquieto; l’assenza di quegli animali, anzichè tranquillizzarlo, lo rendeva pensieroso.
   Erano già giunti a due soli chilometri da un’alta montagna, i cui fianchi, coperti da immensi ghiacci tramandavano, sotto i riflessi del sole, una luce acciecante, quando il tenente si arrestò improvvisamente afferrando le braccia di Koninson.
   – Ascolta! – disse.
   Lassù, verso la montagna, si udiva uno strano rumore; pareva che si staccasse o si fendessse del ghiaccio e che poi scivolasse producendo dei lunghi fischi.
   – Cosa succede? – chiese Koninson.
   – Non v’è più dubbio, ci troviamo dinanzi ad un grande ghiacciaio – rispose il tenente.
   – E così?
   – Questi scricchiolii e queste sorde detonazioni indicano la imminente caduta dei ghiacci. Stiamo in guardia, Koninson.
   – Volete che pieghiamo verso est?
   – Credo che sarà meglio per noi.
   Piegarono a destra e si cacciarono dietro una lunga linea di roccie che potevano ripararli. Era tempo!
   Tutt’a un tratto, sulla montagna che giganteggiava dinanzi a loro, s’udirono spaventevoli detonazioni seguite da lunghi fischi e dall’alto si videro scivolare con straordinaria rapidità degli immensi blocchi di ghiaccio i quali, rovesciando e polverizzando gli innumerevoli «hummoks» formati dalla neve, si scagliavano attraverso alla valle come altrettanti treni diretti, alcuni filando verso nord in direzione del mare ed altri spaccandosi contro le roccie che nell’urto perdevano tutto il loro rivestimento invernale.
   A quella prima discesa ne tenne dietro una seconda, poi una terza, una quarta, una quinta ad intervalli di pochi minuti, empiendo l’aria di mille fragori e la valle di massi di ghiaccio.
   I due balenieri, riparati dalle roccie che si dirigevano verso est senza interruzioni, camminavano rapidamente per tema che altri ghiacci, passando sopra ai caduti, non finissero col sorpassare la linea che li proteggeva e che non era molto alta.
   Di quando in quando, dei massi di ghiaccio, rimbalzando a grande altezza, cadevano al di là delle roccie ed uno per poco non sfracellò la testa a Koninson.
   – Presto, presto, – ripeteva il tenente, facendo sforzi sovrumani, – o prima di domani nessuno di noi sarà vivo.
   – Dannata regione! – borbottava Koninson, che malgrado il freddo cominciava a sudare. – In mare i ghiacci stritolano le navi e in terra mirano le costole degli uomini!
   Spronati dal continuo capitombolare dei massi e dalle detonazioni che crescevano d’intensità annunciando altre e più pericolose cadute, verso le otto della sera, affranti, affamati, giungevano dinanzi ad una seconda montagna più bassa, meno irta e i cui fianchi non offrivano alla vista alcun ghiacciaio.
   – Alt! – disse il tenente. – Accampiamoci qui.
   – Saremo sicuri?
   – Lo credo, Koninson; però dormiremo con un solo occhio.


   XXI. TRASCINATI DAI GHIACCI

   Tutta la notte i ghiacciai della montagna furono in continuo movimento empiendo l’aria di interminabili fragori e scagliando nella sottoposta valle immense quantità di massi di cui taluni del peso di migliaia di tonnellate.
   Il tenente e Koninson, quantunque al sicuro, più volte lasciarono la tenda e si spinsero verso la valle che ormai era interamente coperta, presentando un indescrivibile caos di valanghe, di «icebergs» rovesciati e di massi che, di quando in quando, urtati, spinti da altri ghiacci e da altri ammassi di neve, si agitavano e rimbalzavano come se fossero esseri viventi.
   Alle 6 del mattino, dopo una magra colazione, i due balenieri che vedevano i loro viveri scemare rapidamente e sapevano di aver dinanzi una grande estensione di terra, prima di giungere ai luoghi abitati, piegata la tenda e attaccatisi alla slitta, si rimettevano in cammino onde intraprendere la traversata della catena dei monti.
   Il caso li aveva guidati in un buon passaggio, formato da una specie di strettissima valle che s’arrampicava fra due colline e che pareva si prolungasse fino alla cima.
   Per di più quel passaggio pareva che non offrisse ostacoli, poichè si vedeva salire senza roccie e senza accumulamento di nevi, le quali cose avrebbero reso difficilissima la via alla slitta che, quantunque di molto alleggerita, pesava ancora un centinaio e più di chilogrammi.
   Aiutandosi coi bastoni forniti dai pennoni della vela, i balenieri, riunendo tutte le loro forze, si cacciarono nella stretta valle che poteva anche chiamarsi una semplice spaccatura e cominciarono a salire tenendo però sempre gli occhi volti verso le cime delle due vicine colline dalle quali poteva, da un istante all’altro, cadere qualche valanga e seppellirli.
   La slitta, quantunque avesse sotto di sè un buon strato di solido ghiaccio che la faceva scivolare abbastanza bene, diventava pesante a causa del pendio che cresceva sempre più, ma i due marinai, che avevano fretta di uscire da quel pericoloso passo, non si arrestarono e incoraggiandosi vicendevolmente colla voce e coll’esempio, continuavano a salire, aggrappandosi alle pareti rocciose quando si sentivano trascinare indietro e piantando profondamete i bastoni nella neve.
   Dopo aver fiancheggiato dei profondi abissi da cui saliva una densa nebbia sotto la quale si udivano ululare i lupi, dopo aver arrischiato venti volte di fiaccarsi il collo, dopo aver sollevato, con uno sforzo sovrumano, più di una volta la loro slitta per superare certe creste ove nessuna mano di uomo aveva aperto un passaggio, verso le dieci del mattino giunsero dinanzi ad una specie di caverna che occuparono per prendere un pò di riposo.
   Mentre Koninson, che non poteva star fermo, s’ingegnava ad accomodare la slitta che in quei trabalzi aveva sofferto non poco, il tenente fece un’ampia provvista di lichene di roccia con cui contava di regalarsi una eccellente zuppa.
   Fu in quella raccolta che egli scoprì una strana pianticella che prima d’allora non aveva mai vista e della quale non aveva mai udito parlare.
   – Vieni, Koninson, – disse. – Ho messo la mano su una rarità che i botanici ancora ignorano.
   – Roba da mangiare? – chiese il fiociniere, che pensava al pranzo.
   – No, ma sono contento di averla scoperta.
   Il fiociniere raggiunse il tenente che gli mostrò un bizzarro fiore, piantato in mezzo alla neve e cresciuto fra i gelati soffi del vento settentrionale, formato di tre sole foglie del diametro di circa tre pollici coperte di microscopici cristalli di neve e d’una stella, i cui petali, lunghi quanto le foglie e larghi un mezzo pollice, mostravano dei piccoli punti lucenti come diamanti e della grossezza di capi di spilli.
   – È meraviglioso! – disse il fiociniere. – Un fiore che nasce in mezzo ai ghiacci!
   – Ne hai visto di simili?
   – Mai, signor Hostrup, eppure ho viaggiato assai nelle regioni polari. Tò! E cos’è quella roba rossa che vedo laggiù, presso quel masso di ghiaccio?
   – Un’altra pianta meravigliosa forse?
   – Non credo, signor Hostrup. Io la direi…
   – Neve rossa, vuoi dire.
   – Precisamente.
   – E lo è infatti.
   – Come? Forse che c’è anche della neve rossa?
   – Altri viaggiatori artici l’hanno veduta più a nord.
   Si diressero verso quello strato rosso che non occupava però più di tre o quattro metri quadrati e si convinsero che era proprio neve colorata di rosso.
   – Ma come diventa di questo colore? – chiese Koninson, meravigliato. – Forse per la presenza di vegetali coloranti microscopici?
   – Lo si è creduto, Koninson: ma il viaggiatore Scoresby, che l’ha studiata, non è di questo parere. Secondo lui, il principio colorante deriverebbe da migliaia di piccoli infusorii che si muoverebbero con rapidità vertiginosa.
   – Che abbia differente sapore della bianca?
   – Non credo; del resto puoi…
   – Zitto, signor tenente!
   – Cosa c’è ancora?
   – Udite!
   Il tenente tese gli orecchi e fra i cupi rimbombi dei ghiacci scivolanti dalla montagna, udì delle urla acute che rapidamente sì avanzavano.
   – Bah! Sono lupi! – disse.
   – Ma mi sembrano molti.
   – Abbiamo i nostri fucili, ragazzo mio.
   – Non ci assaliranno?
   – Forse, ma noi li respingeremo. Entriamo nella caverna e prepariamo la zuppa.
   Trascinarono con loro la slitta onde porre in salvo le provvigioni che ancora restavano e raggiunsero il ricovero, dentro il quale potevano difendersi contro l’attacco delle voraci bestie.
   Koninson accese la lampada, il tenente sciolse sulla fiamma un pò di neve e mise nella marmitta il lichene raccolto che ben presto cominciò a bollire, spandendo all’intorno un profumo appetitoso.
   Quando fu ridotto in una specie di pasta gommosa e nerastra, il tenente invitò il fiociniere ad assaggiarla.
   – Il colore non è rassicurante! – disse Koninson. – Ma il profumo è promettente.
   E l’assaggiò una, due, tre volte.
   – Eccellente! – esclamò. – Rammenta il sapore del manioca. E come si chiama dagli eschimesi, questa zuppa?
   – Trippa di roccia.
   – Evviva la trippa, adunque!
   La marmitta, vigorosamente assalita, fu ben presto vuotata. I due balenieri stavano per porre sotto i denti alcuni biscotti onde completare il pasto, quando un enorme lupo, dagli occhi scintillanti e dal pelo lungo e arruffato, fece il suo ingresso nella caverna emettendo un lugubre ululato.
   – Troppo ardito, mio caro! – disse il tenente afferrando il fucile.
   All’ululato del lupo fecero eco altri ululati che venivano dal di fuori.
   – Diavolo! – esclamò Koninson, prendendo l’altro fucile. – Abbiamo una banda dinanzi alla grotta.
   – Hanno fame quelle brutte bestie e forse calcolano di sfamarsi colle nostre polpe.
   – È ciò che vedremo.
   Il lupo, punto spaventato, non si muoveva e pareva invitasse i compagni a seguirlo; ma il tenente con un colpo di fucile lo abbattè.
   Alla detonazione e all’urlo di dolore emesso dal colpito, gli altri lupi invece di fuggire s’affacciarono all’entrata della caverna, mostrando minacciosamente i loro acuti denti e dardeggiando sui due balenieri sguardi ardenti.
   Koninson fece fuoco in mezzo al gruppo e fece cadere il più ardito. La banda intera si precipitò sul morto e lo fece a brani contendendoselo ferocemente.
   – Ah! – esclamò il fiociniere. – Il proverbio questa volta riceve una solenne smentita.
   – È vero! – disse il tenente. – Ora non si dirà più che lupo non mangia lupo. Orsù, mano alla scure e carichiamo quelle canaglie…
   Gettando alte grida, si slanciarono in mezzo ai lupi i quali s’affrettarono a battere in ritirata arrestandosi però a breve distanza.
   – Pare che non abbiano voglia di lasciarci, signor Hostrup.
   – Ma noi partiremo lo stesso. Ho fretta di raggiungere la cima del colle.
   – In marcia, adunque.
   Caricarono i fucili, s’attaccarono alle corde della slitta e usciti dalla caverna, ripresero la faticosa ascensione. I lupi si misero a seguirli ad una distanza di trenta o quaranta passi, destando tutti gli echi delle montagne coi loro interminabili ululati.
   Per due ore, tirando e spingendo rabbiosamente la slitta che pareva diventasse sempre più pesante, seguirono quella specie di passaggio ma, giunti ad una certa altezza, si trovarono dinanzi ad una parete di ghiaccio che chiudeva la via e così elevata da non potersi superare.
   Dovettero deviare ed arrampicarsi sui fianchi della montagna più vicina, che erano i meno aspri, ma che tuttavia presentavano delle pendenze che talvolta parevano inaccessibili, lambendo certi burroni che solamente a guardarci dentro venivano le vertigini.
   I loro sforzi sovrumani però trionfarono di tutti quegli ostacoli e, verso le otto della sera, rattrappiti dalle immense fatiche e dal freddo che lassù si faceva sentire assai vivo, giunsero finalmente sul versante opposto della montagna dove si fermarono, spaziando gli sguardi sul panorama che si stendeva dinanzi a loro, per un tratto di moltissime leghe.
   Proprio sotto di loro la montagna scendeva rapida, affatto liscia, coperta da enormi lastre di ghiaccio sovrapposte a strati altissimi, senza abissi, senza valli, senza alberi. Più oltre, una pianura scintillante si apriva a perdita d’occhio, smarrendo verso sud, senza alture, senza capanne, senza boschi, senza un essere animato.
   A destra ed a sinistra, sulle due vicine montagne, due grandi ghiacciai, due veri fiumi di ghiaccio in movimento, scendevano verso la pianura vomitando di quando in quando degli «icebergs» del peso di parecchie centinaia di tonnellate, che il sole imporporava splendidamente.
   Una fitta nebbia, che il vento sbatteva a destra ed a sinistra e che talora lacerava, s’alzava dal fondo di profondi abissi, dentro i quali s’udivano muggire degli impetuosi torrenti.
   – Dove siamo noi? – chiese Koninson.
   – Sul fianco di una montagna – disse il tenente.
   – Lo vedo bene, signor Hostrup, ma io vorrei sapere in qual luogo: se vicini o lontani dalle terre abitate.
   – Vicini no di certo. Bisognerà giungere al Porcupine prima d’incontrare qualche tribù d’indiani.
   – È molto lontano questo fiume?
   – So che scorre verso sud, attraverso a questa immensa pianura, ma a quale distanza precisamente non lo so.
   – A qualche migliaio di chilometri no di certo.
   – No, ma a più di duecento sì.
   – Allora lo raggiungeremo.
   – Ne sono certo. Dove sono andati i lupi?
   – Pare che si siano stancati di seguirci, signor Hostrup. Certamente hanno capito che la nostra carne non era troppo buona per i loro denti.
   – Meglio così. Dormiremo più tranquilli.
   – Contate di rizzare la tenda qui?
   – E perchè no? Scendere è impossibile per le nostre gambe che non stanno più ritte e il luogo non mi sembra cattivo.
   – Sarà solido il ghiaccio?
   – Lo credo poichè non scorgo nessuna spaccatura, nè odo alcuno scricchiolìo.
   – Allora accampiamoci. Staremo un pò troppo freschi, ma ci siamo ormai abituati.
   Assicurarono la slitta perchè qualche colpo di vento non la facesse scivolare su quella ripida china, rizzarono la tenda appoggiandola ad un grossissimo masso di ghiaccio, una specie di «hummok» che pareva fosse rotolato dalla cima della montagna, ma che sembrava irremovibile, e si cacciarono sotto.
   La notte non doveva essere tranquilla sui fianchi di quella montagna, e con quei due ghiacciai vicini che non stavano un solo istante zitti. Parecchie volte, agitati da strani presentimenti e spaventati dalle detonazioni dei ghiacci che diventavano più intense, i balenieri uscirono per vedere se correvano qualche pericolo.
   Verso la mezzanotte però, affranti dalle fatiche e da quella quasi continua veglia, s’addormentarono profondamente.
   Non erano trascorse tre ore, quando il tenente fu improvvisamente destato da un formidabile boato che fece tremare il ghiaccio su cui posava la tenda.
   Aprì gli occhi e attraverso il tessuto scorse un vivo bagliore che pareva cagionato da un grande incendio.
   – Guarda! – esclamò. – Si direbbe che la montagna brucia.
   Alzò un lembo della tenda e strisciò all’aperto.
   Una superba aurora boreale, forse l’ultima della stagione invernale splendeva sull’orizzonte settentrionale lanciando attraverso la volta celeste immensi fasci di luce rossastra, i quali tingevano del colore del fuoco tutte le montagne, i ghiacciai e la gran pianura.
   Ma questo non era tutto. Si sarebbe detto che quella luce avesse avuto anche il calore del fuoco, poichè tutti i ghiacci delle montagne si fendevano in mille guise come se sotto di loro la terra si sconvolgesse e precipitavano a migliaia nella sottoposta pianura in un disordine spaventevole, sibilando, fischiando, tuonando e tutto abbattendo sul loro cammino.
   Il tenente balzò in piedi, ma si sentì subito atterrare. Anche i fianchi della montagna su cui si trovava erano in movimento, e quelle grandi lastre di ghiaccio, che poche ore prima parevano inchiavardate e sicurissime, si fendevano in tutti i versi e scivolavano giù per le chine.
   – Siamo perduti! – esclamò involontariamente. – Koninson! Koninson! All’erta!
   Il fiociniere si slanciò fuori della tenda, ancora mezzo addormentato.
   – Cosa succede? – chiese.
   La sua voce si perdette fra le detonazioni dei ghiacci.
   Si precipitò verso il tenente che, impotente e ormai rassegnato, aveva incrociato le braccia sul petto aspettando la morte che pareva ormai certa.
   – Fuggiamo, signore! – esclamò.
   – Dove?
   – Alla grotta.
   – È impossibile, la via è interrotta.
   – Allora siamo perduti.
   – Chissà! Speriamo in Dio.
   – Signor tenente…
   Il fiociniere non proseguì. Una scossa violenta l’aveva atterrato assieme al tenente e alla tenda.
   Quasi subito udirono una detonazione paragonabile solo allo scoppio d’una mina di cinquecento chilogrammi di polvere e si sentirono trascinare verso il basso, dapprima lentamente e poi con una rapidità vertiginosa.
   Un lastrone di ghiaccio di dimensioni enormi e del peso di parecchie migliaia di tonnellate, su cui si trovavano i due balenieri, si era staccato e scendeva la montagna più rapido di un treno diretto, seco trascinando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, fiancheggiato e seguito da un vero esercito di massi di ghiaccio che rimbalzavano in tutte le direzioni.
   I due balenieri, mezzo soffocati dalla rapidità della discesa, storditi dalle migliaia di ghiacciuoli che li percuotevano incessantemente, assordati dai fragori che produceva il lastrone nella sua corsa e che talora erano fischi stridenti e tal’altra ruggiti che sembravano emessi da fiere in furore, tentavano di mantenersi presso la slitta, ma brusche scosse, di quando in quando, li separavano violentemente lanciandoli a destra o a sinistra, innanzi e indietro a rischio di cadere in mezzo a tutto quel rovinio di massi che non avrebbe mancato di schiacciarli.
   Dopo un minuto, che ai due disgraziati parve lungo quanto un secolo, il ghiaccione toccò il piano. Si raddrizzò con un colpo tremendo che lo fece crepitare e fendere in più luoghi, indi continuò la corsa attraverso la pianura con un rullìo paragonabile a quello di una nave in un giorno di tempesta.
   Ad un tratto avvenne un potente urto. Il lastrone aveva cozzato contro una rupe che s’alzava di pochi metri sulla superficie del suolo, ma che presentava una resistenza incalcolabile.
   Il ghiaccione si rialzò come un cavallo che si inalbera sotto una violenta speronata, e ricadde spaccandosi in venti e più parti.
   I due balenieri, scaraventati innanzi da quei due urti, caddero in mezzo alla neve ove rimasero immobili come se fossero stati uccisi sul colpo.


   XXII. IL PORCUPINE

   Passarono alcuni minuti, poi in mezzo alla neve e ai frammenti di ghiaccio che si erano accumulati in grande quantità attorno al lastrone infranto, apparve una testa, quella di Koninson.
   Il buon fiociniere girò all’intorno due occhi spaventati cercando ansiosamente il suo compagno che non si vedeva ormai più, indi radunando le forze si fece un pò di largo respingendo a destra e a sinistra i ghiacciuoli che lo rinserravano e gridò replicatamente, con un tono che faceva supporre come nulla di guasto ci fosse nei polmoni:
   – Signor Hostrup!
   – Sei vivo? – chiese una voce soffocata, che usciva di sotto una massa di neve.
   – Dove siete, mio tenente?
   – Qui sotto ma sto per liberarmi.
   – Salvo?
   – Pare che nulla vi sia di rotto. Aiutami se puoi.
   Il fiociniere, lavorando vigorosamente colle braccia e colle gambe, ingrandì il buco in cui si trovava e, continuando il faticoso esercizio, pervenne a raggiungere il cumulo di neve che si agitava dall’alto in basso sotto i violenti sforzi del tenente.
   – Un pò di pazienza, signor Hostrup, – disse. – Per bacco! Mi par di essere un uccello preso col vischio. Largo! Largo!
   Si mise a spazzare la neve colle mani e dopo qualche minuto scorse un braccio che cercava di uscire. L’afferrò e tirò bruscamente a sè, facendo crollare l’intero cumulo e mettendo allo scoperto il tenente.
   – Grazie, Koninson, – disse il liberato, dopo aver respirato una gran boccata d’aria. – Che capitombolo!
   – E che viaggio, signor Hostrup! Posso dire di aver viaggiato colla rapidità d’un treno diretto anche in un luogo dove forse non si aprirà mai una linea ferroviaria.
   – Bella consolazione, Koninson. Per poco, questo viaggetto ci costava la pelle. Ma dov’è andata a finire la nostra slitta?
   – Non sarà lontana.
   – Cerchiamola, ragazzo mio, poichè la perdita di essa sarebbe per noi una morte certa.
   Unendo le parole ai fatti, si cacciò in mezzo ai ghiacciuoli e alla neve, mentre il fiociniere faceva altrettanto, ma prendendo una direzione opposta.
   La fortuna, che li aveva protetti durante la pericolosissima discesa, anche questa volta si mostrò loro benigna, poichè rinvennero ben presto il veicolo che il colpo aveva lanciato fra due grossissimi pezzi di ghiaccio. Nella caduta non pareva avesse sofferto; solamente le casse e i barili avevano spezzato i legami ed erano caduti all’ingiro. Presso la slitta rinvennero pure le loro armi e un pò più lontano la tenda, ancora in ottimo stato.
   – Non speravo tanto! – disse il tenente. – Bisogna proprio dire che la Provvidenza non ci abbandona.
   – Speriamo che ci conduca a salvamento, signor Hostrup.
   – Ne sono certo.
   – Ed ora cosa facciamo?
   – Usciremo di qui e prenderemo la via del sud. Vedo che la pianura è perfettamente liscia e sento un buon vento venire dalle montagne. Spiegheremo la vela.
   Rimisero sulla slitta tutte le casse e i barili; indi, dato mano alle scuri, si scavarono una via attraverso i rottami del ghiaccione, girando attorno alla gran rupe che aveva causato l’urto.
   Dopo un’ora uscivano finalmente nella pianura che pareva si prestasse assai ad un rapido viaggio, essendo coperta di un solido strato di neve, liscio come la superficie d’un lago tranquillo.
   La vela fu subito issata, il timone messo a posto e i due balenieri «s’imbarcarono», come diceva Koninson, dirigendosi verso sud con una rapidità superiore ai quindici nodi all’ora.
   A mezzogiorno, dopo un viaggio che non poteva essere nè migliore nè più tranquillo, e dopo aver percorso un tratto di circa centoventi chilometri, fecero una fermata presso un gruppo di alti pioppi, le cui cime s’incurvavano graziosamente.
   Koninson, felice di aver trovato finalmente della legna, a colpi di scure fece cadere il più piccolo ed accese un fuoco capace di arrostire un bue intero.
   – Ah, se ci fosse un bel pezzo di carne fresca, quale festa! – esclamò egli levando un pò di «pemmican» ed alcuni biscotti da una cassa.
   – Ne avremo, Koninson.
   – Quando?
   – Appena saremo giunti al Porcupine. Là i pesci abbondano e le trote vi sono grossissime.
   – Allora.... ah!
   – Cos’hai?
   – Non avete udito un gemito, voi?
   – Un gemito? Diventi pazzo, ragazzo mio?
   – Con questo freddo? Udite! Udite!
   Il tenente, con sua grande meraviglia, questa volta udì un gemito che pareva emesso da gola umana, ed a brevissima distanza.
   – Che vi sia qualche eschimese ferito? – chiese Koninson.
   – Ma dove?
   – In mezzo agli alberi.
   – No, io credo invece che stia per venire l’arrosto che tu desideri. Guarda lassù, su quel grande pioppo.
   Koninson guardò nella direzione indicata e vide svolazzare un grande uccello le cui ali superavano, prese insieme, un metro e mezzo di estensione.
   – Un’aquila? – esclamò.
   – Ma che aquila! È una stupenda «nyceta nivea».
   – E credete che sia stato quell’uccello a mandare quei gemiti umani?
   – Proprio lui.
   – Si mangia?
   – È carne non disprezzabile.
   Koninson balzò sul fucile e lo puntò, ma il tenente gli abbassò l’arma.
   – Non aver fretta! – gli disse. – Vedrai che si avvicinerà a noi.
   – Ma come mai quell’uccello, che somiglia ad un gufo, si trova qui, in questa regione così fredda?
   – Le «nycete» frequentano i luoghi caldi e i freddi. S’incontrano presso le rive dell’oceano artico e anche sulle rive del golfo del Messico.
   – E di che cosa vivono, in questi deserti di neve?
   – Di uccelli finchè ce ne sono e, quando questi sono emigrati, danno la caccia ai piccoli animali. Si nascondono sovente nelle vicinanze delle tane delle lepri, degli ermellini e persino delle volpi e, quando le vittime escono, piombano loro addosso con rapidità fulminea, dilaniandole a colpi di becco e d’artiglio.
   – Sono uccelli coraggiosi.
   – Sì, e tanto da affrontare i cani e qualche volta da avventarsi contro i cacciatori.
   – Signor tenente, vedo che l’uccello non viene da noi; andiamo noi da lui.
   – Andiamo, Koninson.
   Raccolsero i fucili e si diressero verso il pioppo sulla cui cima la «nyceta» continuava a svolazzare gettando di quando in quando un forte «rik-rik» che poteva, fino ad un certo punto, sembrare un gemito umano.
   Quando giunsero a breve distanza, l’uccello si abbassò, poi partì con grande rapidità producendo, colle larghe ali, un forte rumore e si precipitò al suolo come se fosse stato ucciso o ferito.
   – Olà! – esclamò Koninson. – Cosa vuol dire ciò?
   Si precipitò verso la «nyceta» che sembrava morta, ma quando le fu vicino, essa si alzò nuovamente, spiccò un’altra volata e ricadde trecento metri più innanzi.
   – Che sia ferita? – chiese il fiociniere, la cui sorpresa cresceva.
   – No! – disse il tenente – Noi abbiamo da fare con una femmina, la quale ricorre a questa astuzia per allontanarci dal suo nido,
   – Allora mangeremo anche delle uova. Che pasto, signor Hostrup
   Questa volta non si lasciò più ingannare dal povero uccello. Appena fu per riprendere il volo, il fiociniere puntò il fucile e, con una palla ben aggiustata, lo fece cadere, ma per sempre.
   – Il bell’arrosto! – esclamò.
   Ed infatti era un bell’arrosto. Quell’uccello, dalle penne bianche solcate da un certo numero di macchie brune trasversali e longitudinali, dal becco robusto e ricurvo, era lungo quasi due piedi e non pesava meno di dieci chilogrammi. Era il vitto assicurato per un paio di giorni, per i poveri naufraghi; ma Koninson chiedeva qualche cosa di più.
   Impadronitosi dell’uccello, si affrettò a raggiungere la macchia di pioppi e, dopo aver cercato qua e là, scoprì il nido, una specie di cavo tappezzato di pochi fili d’erba acquatica e di penne candide e lunghe che la femmina si era coraggiosamente strappate dal petto, e contenente otto grosse uova.
   – Che giornata fortunata! – esclamò allegramente il bravo fiociniere. – Presto, signor Hostrup, ritorniamo presso il fuoco e mettiamoci al lavoro. Le mie mandibole sono impazienti.
   Due ore dopo, seduti dinanzi al fuoco, divoravano ferocemente più di mezzo uccello, dopo aver trangugiato le uova a mò d’antipasto. Il tenente, per compiere l’opera, diede la stura ad una bottiglia di «gin», l’ultima che ancora possedevano e che avevano religiosamente conservata per le grandi occasioni.
   Verso le 4 pomeridiane, approfittando d’un fresco vento che veniva da nord-nord-ovest, spiegavano la vela e riprendevano la corsa verso sud, ma non rapidamente come il mattino a causa della neve che, essendosi in parte sciolta sotto i raggi solari, opponeva una certa resistenza ai pattini della slitta.
   Parecchie volte dovettero discendere e trascinare il veicolo per qualche tratto onde sorpassare certi strati di neve eccessivamente molle, anzi quasi disciolta. Nondimeno verso le 9 della sera avevano percorso altri quaranta o cinquanta chilometri.
   Il tenente stava per ammainare la vela volendo accamparsi, quando Koninson gli additò una costruzione piantata sulle rive di un laghetto ancora gelato.
   – Forse ci sono degli abitanti là sotto! – disse il fiociniere. – Non mi rincrescerebbe di vedere un volto umano per quanto possa essere brutto.
   – Ho poca speranza – rispose il tenente, – Tuttavia dirigiamoci laggiù.
   La slitta riprese la corsa e dopo venti minuti si arrestava presso l’abitazione segnalata.
   I due balenieri balzarono a terra, si armarono dei fucili per precauzione, e si diressero a quella volta.
   Era una capanna semplicissima, formata da sette od otto pali sostenenti un tetto di ramoscelli e di pezzi di corteccia, assicurata con strisce di pelle. La neve, accumulandosi sopra, l’aveva in parte sfondata, ma poteva ancora servire di ricovero.
   – È un’abitazione estiva dei Co-yuconi.
   – Abbandonata da molto tempo senza dubbio – osservò Koninson.
   – Dall’anno scorso, molto probabilmente.
   – Tò! Cosa sono quegli oggetti ammonticchiati in quell’angolo?
   – Ossa di animali.
   – Forse che i Co-yuconi le raccolgono per venderle?
   – No, Koninson, – disse il tenente ridendo. – Li ammucchiano nelle loro capanne perchè credono che, gettandoli via, debbano succedere delle disgrazie; che le caccie diventino infruttifere; che le trappole lascino scappare la selvaggina; che il freddo distrugga gli animali; ecc. Anche quando si tagliano le unghie, i capelli e la barba, raccolgono il tutto entro sacchetti di pelle che sospendono agli alberi del loro territorio, e ciò per lo stesso motivo.
   – Strane superstizioni, signor Hostrup. Ma guardate laggiù, presso la riva del laghetto, non vedete qualche cosa?
   – Sì, dei pali piantati sul ghiaccio o meglio nell’acqua – disse il tenente.
   – Che cosa saranno?
   – Mio caro Koninson, credo che faremo bene a recarci laggiù.
   – Che sperate di trovare?
   – So che gli abitanti di queste regioni prima che l’inverno cominci, piantano nei fiumi e nei laghi dei pali a cui sospendono delle trappole per i pesci.
   – Che ci sia sotto qualche rete?
   – Se non sarà una rete, troveremo qualche cosa di simile. Andiamo, Koninson.
   Lasciarono la piccola capanna e si diressero verso il laghetto. Il tenente non si era ingannato, poichè attraverso il ghiaccio distinsero una forma nerastra stretta fra due pali e che pareva un gran paniere.
   Con pochi colpi di scure spezzarono il ghiaccio e sotto vi scorsero una specie di imbuto di vimini terminante in un recipiente pure di vimini, dentro il quale nuotavano parecchi grossi pesci.
   Koninson cacciò dentro le mani, e in pochi minuti ritirò due trote, tre lucci, due bei pesci che il tenente riconobbe per «gadus lota», ed infine un pesce molto grosso, tutto nero, che gli indigeni chiamano «nalina», ma, la cui carne di qualità mediocre serve per lo più a nutrire i cani delle slitte.
   – Abbiamo dei viveri per quattro o cinque giorni! – disse il fiociniere tutto contento. – Ringrazio di cuore quel co-yucone che ha avuto la buona idea di collocare qui l’imbuto. Se lo troverò, gli regalerò uno dei nostri coltelli.
   Fecero ritorno alla capanna sotto cui allegramente pranzarono colle due trote; indi, dopo poche chiacchiere, si avvolsero nelle loro coperte, sicuri di non venire disturbati da nessuno.
   Alle 4 del mattino, approfittando del freddo della notte che aveva indurito lo strato di neve, tornarono a spiegare la vela e ripresero la corsa con una celerità di dieci o dodici chilometri all’ora.
   Verso le 7 del mattino Koninson segnalò verso sud un bosco che pareva prolungarsi indefinitamente verso est e verso ovest, formato da pioppi e da abeti neri.
   – Dobbiamo essere vicini al Porcupine! – disse il tenente. – Apri bene gli occhi, fiociniere.
   Manovrò in modo da entrare sotto il bosco senza urtare contro gli alberi, e lasciò che la slitta continuasse a scivolare verso il sud.
   Mezz’ora dopo Koninson con un rapido movimento faceva cadere la vela. Era tempo; duecento passi più innanzi, fra due rive coperte di salici, si estendeva un largo fiume che doveva essere il Porcupine.


   XXIII. L’ORSO BIANCO

   Il Porcupine, chiamato anche Ratto, è un bel corso d’acqua comunicante col fiume Makenzie, che scorre da ovest ad est, quasi parallelamente alla costa, da cui però dista oltre duecento miglia. Nella stagione estiva molti canotti lo percorrono mettendo in comunicazione il forte Yucon colla stazione di La Pierre e coi forti che si trovano sulle rive del Makenzie; ma, quando comincia a gelare, la navigazione viene interamente sospesa e le tribù indiane che popolano le rive e che si chiamano «figlie del Ratto», si ritirano o verso sud o verso nord, dedicandosi alla caccia che talvolta è più produttiva della pesca.
   Quando il tenente e Koninson, lasciata la slitta, discesero la sponda, non scorsero anima viva, nè alcuna abitazione. Il fiume, completamente gelato, non aveva attirato ancora alcuno di quei valenti canottieri e pescatori che s’incontrano così spesso nella buona stagione.
   Però, percorrendo la riva per qualche tratto, trovarono qua e là numerose traccie del soggiorno degli indiani. Infatti ai piedi d’una roccia rinvennero delle vecchie reti state abbandonate perchè inservibili; più oltre una capanna semi-arsa, un remo ancora piantato nel ghiaccio e finalmente anche un canotto lungo otto piedi, costruito con lunghe liste di corteccia di betulla cucite insieme con sottili radici d’abete e calafatato di resina. Un fianco, però, era stato sfondato, forse dall’urto dei ghiacci, sicchè non poteva più servire.
   – Diamine, mi pare che questi signori indiani si facciano molto desiderare! – disse Koninson. – Molte traccie abbiamo trovato, ma non un volto umano abbiamo veduto dalle rive dell’Oceano a questo fiume.
   – Eppure parecchie tribù vivono in questa desolata regione – rispose il tenente.
   – Ma dove sono?
   – Non lo so, ma vi sono e qualcuno ne incontreremo.
   – E verremo bene accolti?
   – Non ho mai udito dire che gli indiani di queste terre siano cattivi.
   – Però so che parecchie volte hanno dato addosso ai bianchi.
   – È vero, Koninson, ma per difendere la loro indipendenza. Aggiungerò anzi, che hanno dimostrato di essere assai coraggiosi e di non aver paura dei forti meglio armati.
   – Quale tribù sperate d’incontrare?
   – Quella che si chiama «figlia del Ratto», che vive sulle sponde di questo fiume. È possibile, però, che in sua vece ne incontriamo qualche altra, poichè nessuna ha dimora stabile e tutte vanno qua e là cercando i territori che offrono maggiore selvaggina.
   – E come si chiamano questi altri indiani?
   – Vi sono i Co-yuconi, i più numerosi dell’Alaska e che abitano le rive del fiume Yukon; i Koctck-a-Kutkin o indiani delle bassure; gli An-Kutkin e i Tatanckok-Kutkin appartenenti alla famiglia dei Malemuti, che abitano il basso corso dell’Yukon, e i Tanana, che hanno il loro centro al confluente dell’Yukon col fiume Tanana, dove si erge un grosso villaggio chiamato Nuclu-kayette.
   Altre tribù minori occupano il territorio che si estende fra i fiumi suddetti e il Makenzie, appartenenti quasi tutte alla gran tribù dei «figli del Ratto».
   – Ed ora che noi siamo qui giunti, dove ci dirigeremo, signor Hostrup? Verso ovest o verso est?
   – Sarei dell’opinione di seguire il Porcupine fino al Makenzie e di raggiungere il forte Speranza.
   – Allora andiamo al forte Speranza.
   – Ti avverto che la via sarà lunga.
   – Non mi spavento, signor Hostrup.
   – Oggi accamperemo qui e cercheremo di rinnovare le nostre provviste. Io spezzerò il ghiaccio e mi metterò a pescare; tu batterai i boschi.
   – Non chiedo di meglio.
   Tornarono alla slitta, mangiarono un boccone e si separarono: Koninson si cacciò sotto il bosco col fucile e il tenente discese la riva armato di scure per aprire un buco nel ghiaccio.
   Il fiociniere per qualche tratto costeggiò il Porcupine colla speranza di abbattere qualche capo di selvaggina acquatica, avendo notato qua e là delle traccie di lontre ma nulla scorgendo, si addentrò nel bosco camminando con prudenza e cercando di non far scricchiolare la neve.
   In lontananza si udivano le lugubri urla di una muta di lupi, forse occupata a cacciare qualche grosso capo di selvaggina, qualche alce senza dubbio, sicchè si diresse da quella parte, niente affatto atterrito dai denti di quei feroci ma non coraggiosi carnivori.
   Dopo aver superato una piccola altura sulla quale erano già spuntati in gran numero i papaveri dai petali bianchi e dai petali d’oro, primi fiori della buona stagione, un certo numero di sassifraghe stellate e di ranuncoli gialli, ridiscese verso il fiume avendo udite le urla dirigersi da quella parte e quindi allontanarsi in direzione sud.
   Aveva raggiunta una macchia di piante sui cui rami spuntavano certe coccole rosse delle quali sono amanti gli orsi bianchi, quando scorse a terra delle larghe tracce che indicavano il passaggio di un grosso animale.
   – Oh! Oh! – esclamò egli, arrestandosi di botto. – Queste non sono nè tracce di alci, nè di lupi e tanto meno di volpi.
   Si curvò e le esaminò attentamente, poi si sollevò rapidamente gettando uno sguardo inquieto sotto gli alberi e intorno ai cespugli che crescevano in gran numero presso la riva del fiume.
   – Per di qui è passato un orso, e senza alcun dubbio un orso bianco – mormorò. – Devo tornare o tirare innanzi?
   Esitò un momento, sapendo quanto fosse forte e terribile l’avversario che poteva da un istante all’altro incontrare, ma la speranza di tornare all’accampamento con un sì bell’animale lo decise a continuare la caccia seguendo appunto quelle orme.
   Rinnovò per maggior precauzione la carica del fucile introducendovi due palle, si assicurò se il coltello scorreva facilmente nella guaina di pelle, poi si slanciò risolutamente innanzi, ma con gli occhi bene aperti e gli orecchi ben tesi.
   Percorse un quattro o cinquecento metri fermandosi di frequente per ascoltare, poi si gettò precipitosamente dietro a un grosso albero.
   In mezzo ad un cespuglio, lontano un tiro di freccia, aveva veduto agitarsi una massa biancastra che era subito scomparsa, forse perchè stava scendendo il pendio della riva.
   Stette alcuni minuti immobile cercando di distinguere meglio il carnivoro, poi udì, non senza provare un certo tremito, una specie di nitrito simile a quello che emette un mulo.
   – È un orso bianco! – esclamò il fiociniere, abbandonando con precauzione il nascondiglio. – Animo, mio caro Koninson, se sei venuto fin qui non devi tornare al campo a mani vuote.
   Sapendo quanto gli orsi bianchi siano diffidenti e difficili a lasciarsi accostare se non sono affamati, si gettò sottovento onde l’animale non lo fiutasse e guadagnò la riva del fiume sempre tenendosi celato dietro i tronchi degli alberi e le irregolarità del terreno.
   Giunto là, s’alzò sulle ginocchia tenendo in mano il fucile e guardò.
   A trenta soli passi di distanza egli scorse l’orso bianco occupato a divorare le coccole rosse dei cespugli e le tenere gemme di alcuni minuscoli salici d’acqua che crescevano stentatamente fra la neve.
   Senza dubbio non si era ancora accorto della presenza del cacciatore, poichè non dimostrava alcuna inquietudine, anzi lentamente gli si avvicinava.
   Koninson imbracciò il fucile e mirò lungamente la testa del mostro, non ignorando che, se lo avesse colpito in qualunque altra parte del corpo, non lo avrebbe atterrato.
   Alcuni istanti dopo la detonazione del fucile si fece udire scuotendo fortemente gli strati dell’aria. Quando il fumo si dissipò, il fiociniere, con suo grande terrore, vide l’orso che saliva la riva di galoppo, aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli.
   Nessuna macchia di sangue si scorgeva sulla bianca pelliccia, segno chiaro che la palla si era perduta altrove.
   Mancava il tempo di ricaricare l’arma e anche di fuggire, poichè l’orso non era più che a pochi passi.
   Il fiociniere in quel terribile frangente non si perdette d’animo. Afferrò il fucile per la canna e quando si vide l’animale dinanzi, lo percosse replicatamente sul muso.
   Disgraziatamente l’arma gli sfuggì di mano mentre vibrava un terzo colpo e si trovò inerme.
   Impegnare una lotta corpo a corpo col coltello era cosa troppo pericolosa con simile avversario, la cui forza è veramente straordinaria, se non eguale, certo di poco inferiore a quella del terribile orso grigio delle Montagne Rocciose. Non restava che fuggire a tutte gambe.
   Koninson si appigliò a questo partito, e si diede a precipitosa fuga attraverso la foresta, mandando alte grida per attirare l’attenzione del tenente che non doveva essere molto lontano.
   Superò, correndo disperatamente, la piccola altura procurando di tenersi presso gli alberi onde, in caso disperato, salvarsi sui rami; poi si lasciò scivolare o meglio rotolare fino al basso, dove incontrò il tenente che si era affrettato ad accorrere col fucile e una scure.
   – Cos’hai? – gli chiese questi, precipitandosi verso di lui. – Che ti è accaduto? Chi ti insegue?
   – Fuggite! Fuggite! – esclamò Koninson rimettendosi in piedi. – Ho un orso bianco alle spalle.
   – Un orso! E dov’è?
   – L’ho incontrato presso le rive del fiume e si era messo a inseguirmi, dopo essere sfuggito al mio colpo di fucile.
   – Se si mostra avrà una buona accoglienza, ragazzo mio. Ma dov’è il tuo moschetto?
   – Mi è sfuggito di mano mentre mi difendevo.
   – Bisogna andarlo a riprendere, o quell’animale te lo rovinerà tutto. Orsù, prendi la scure e andiamo a vedere.
   – Badate, tenente, che abbiamo da fare con un orso affamato, il quale si getterà su di noi.
   – Siamo in due e possiamo tenergli testa. Hai nulla di rotto?
   – Sono intatto.
   – Allora silenzio e avanti.
   Il tenente, che ci teneva assai ad abbattere il carnivoro per rinnovare le provviste già molto scarse, salì intrepidamente l’altura a rapidi passi, fiancheggiato da Koninson, il quale trovandosi male armato tentennava, e giunto sulla cima gettò uno sguardo sul versante opposto, in direzione del fiume, ma. non vide nulla, nè udì il ben noto nitrito del pericoloso avversario.
   – Dove si sarà nascosto? – si chiese.
   – Forse dietro a quelle macchie – rispose il fiociniere, indicando i cespugli che crescevano sulle sponde del Porcupine.
   – Non ti ha inseguito?
   – Non lo so, poichè non ardii voltarmi indietro.
   – Scendiamo, amico mio.
   Tenendosi dietro ai tronchi degli alberi e cercando di produrre meno rumore che fosse possibile, per sorprenderlo e sparargli addosso prima che potesse fuggire, raggiunsero i cespugli e precisamente il luogo ove era avvenuta la lotta.
   Guardarono attorno alle piante, sulla riva e nel fiume, ma l’orso bianco non c’era e, quello che era più sorprendente, non c’era nemmeno il fucile perduto dal fiociniere.
   – Tò! – esclamò il tenente al colmo della sorpresa. – Che abbia mangiato il moschetto? Eppure non è una bistecca.
   Si misero a frugare nelle macchie colla più grande attenzione, visitarono i crepacci, girarono i tronchi degli alberi per un bel tratto di bosco, ma sempre nulla: il fucile era proprio scomparso.
   – Che ne dici? – chiese Hostrup, che si grattava furiosamente la testa.
   – Io dico che questa sparizione ha del soprannaturale, – rispose Koninson.
   – Che l’orso abbia portato con sè l’arma?
   – E per che farne?
   – Non lo so davvero, Koninson.
   – Che sia venuto qui qualche indiano?
   – Non è possibile, poichè non vedo sulla neve che le tue traccie e quelle dell’orso.
   – E allora?
   – Che sia un orso ammaestrato?
   – Ma non vi sono serragli nei dintorni, che io sappia, signor Hostrup.
   – Ma vi possono essere degli indiani.
   – E voi credete…
   – Io non credo nulla, ma dico che quell’orso può appartenere a qualche banda d’indiani.
   – E voi supponete che il birbante abbia portato il mio fucile ai suoi padroni?
   – Così deve essere.
   – Cosa dobbiamo fare?
   – Inseguire il ladro.
   – Ben detto, signor Hostrup.
   – Ecco qui le traccie che ha lasciato sulla neve. Ha disceso la riva, ed ha attraversato il fiume dirigendosi senza dubbio verso sud. Forse dietro a quella foresta sorge un accampamento di indiani.
   – Allora andiamo, ma… e la nostra slitta?
   – La ritroveremo nel ritorno.
   – Ma i lupi la saccheggeranno.
   – Faranno un ben magro bottino, amico Koninson. Orsù, in cammino.
   Discesero la riva, attraversarono il fiume che in quel luogo misurava circa duecento metri di larghezza e risalirono l’opposto pendio entrando in un’altra foresta, sotto la quale scorrazzavano diversi lupi bianchi di dimensioni non comuni.
   Le traccie dell’orso furono ben presto ritrovate ed assieme ad esse l’impronta del calcio del fucile.
   – Si direbbe che quel birbante adopera la mia arma come un bastone – disse Koninson.
   – Deve essere un gran burlone! – rispose il tenente.
   – Ora che ci penso, che sappia anche adoperare il fucile? Non vorrei che ce lo scaricasse contro a tradimento.
   – Mi hai detto che non hai avuto tempo di ricaricarlo, quindi questo pericolo non esiste. Affrettiamo il passo e apriamo ben bene gli occhi.
   Si rimisero in cammino sempre seguendo le traccie del carnivoro ma, percorsi duecento metri, tutti e due tornarono a fermarsi in preda ad una certa inquietudine. Da una fitta macchia di pini e di abeti neri, usciva una grande cortina di fumo che strisciava lentamente sul campo gelato prolungandosi infinitamente, e in distanza si udivano delle voci umane.
   – Un accampamento? – chiese Koninson.
   – Senza dubbio! – rispose il tenente.
   – Andiamo innanzi?
   – Sì, ma con prudenza. Se sono indigeni potremmo venire scambiati per nemici e accolti molto male.
   – Vedete? – esclamò Koninson, – le traccie dell’orso si dirigono verso quell’accampamento.
   – Lo dicevo io, che quel burlone doveva essere ammaestrato. Gettiamoci dietro questi alberi e procediamo cauti.
   Stavano per eseguire quella prudente tattica, quando delle urla selvaggie scoppiarono alle loro spalle. Si volsero rapidamente l’uno puntando il fucile e l’altro impugnando la scure. Alcuni uomini, che si erano forse tenuti nascosti dietro i tronchi degli alberi o i mucchi di neve, correvano loro addosso agitando certe fiocine e certi ramponi di forma particolare ed alcuni vecchi fucili.
   Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa:
   – Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!


   XXIV. CACCIA E TRADIMENTO

   Quegli indiani Tanana, la cui tribù abita ordinariamente l’alto corso dell’Yucon dove ha un grosso villaggio chiamato Nu-clukayette, erano una quindicina e, a prima vista, non tali da ispirare troppa fiducia e simpatia.
   Avevano i lineamenti brutti, angolosi, gli occhi foschi, il viso dipinto a vivaci colori, i capelli lunghi, sciolti, adorni di penne e di pezzi di argilla sorretti da strisce di garza e un bastoncino passato fra le cartilagini del naso che dava loro un aspetto tutt’altro che gradevole.
   Le loro vesti consistevano in corte giubbe di pelli d’orso o d’ermellino o di lupo, calzoni di pelle di foca adorni di frangie e di perle comperate senza dubbio dai commercianti ambulanti, e grandi scarpe da neve formate da una specie di rete terminante in punta sul dinanzi e arrotondata di dietro.
   Dopo la corsa fatta, che aveva per scopo di provare se gli stranieri avevano il «cuore forte» – com’è loro costume – si erano fermati in atteggiamento pacifico.
   Il tenente, che aveva rapidamente puntato il fucile contro di loro pronto a far fuoco, dopo le parole del capo lo aveva abbassato tenendosi però in guardia, non fidandosi interamente di quegli indiani che ordinariamente vedono di cattivo occhio i bianchi stabiliti sulle loro terre.
   – Se vieni come amico, nulla hai da temere! – disse poi, rivolgendosi al capo che aspettava una risposta.
   – Mio fratello è russo? – chiese questi.
   – No, appartengo ad una tribù che è molto lontana da qui, verso il sole che tramonta.
   – Allora sei mio amico! – rispose il capo.
   Gettò a terra il vecchio fucile che teneva in mano, s’avvicinò al tenente e accostando il proprio naso a quello di lui glielo strofinò energicamente.
   Dopo questo segno di amicizia riprese:
   – Se mio fratello non teme l’ospitalità dei Tanana, mi segua: avrà una tenda, della carne e del fuoco.
   – Ti seguo.
   La banda gettò le armi sulle spalle e si addentrò nella grande macchia seguita dai due naufraghi.
   – Possiamo fidarci? – chiese Koninson.
   – Sì, ma fino ad un certo punto! – rispose il tenente. – Ad ogni modo abbiamo anche noi delle armi.
   Dopo dieci minuti di cammino, giungevano in una vasta radura in mezzo alla quale si rizzavano sei grandi tende di pelle di renna, di forma conica, sostenute da pertiche e sormontate da strani emblemi rappresentanti teste di orsi e teste di lupi.
   Alcune donne ancor più brutte degli uomini, più orribilmente dipinte, infagottate in pelli di orso e di foca e adorne, specialmente al naso, di conchiglie di «ki-a-qua» (dentalium), mossero incontro ai nuovi venuti: ma ad un gesto dei guerrieri si affrettarono a ritirarsi.
   Il capo condusse gli ospiti dinanzi ad una piccola tenda mezzo sdruscita e che pareva si reggesse per un miracolo di equilibrio e li invitò ad entrare, promettendo di raggiungerli fra pochi istanti. Koninson per il primo vi mise dentro la testa, ma la ritirò subito sternutando sonoramente.
   – Ma questo è un porcile – disse. – Sfido chiunque a sopportare l’orribile puzza che regna lì dentro.
   – Bah! Non bisogna essere schizzinosi, ragazzo mio! – rispose il tenente. – Credevi forse di trovare un palazzo? Animo, entriamo.
   Facendo uno sforzo, si cacciarono sotto la tenda dove si arrestarono mezzo asfissiati da un insopportabile odore di carne corrotta.
   Nel mezzo ardeva una strana lampada scavata in una pietra ollare, la quale spandeva all’intorno un luce rossastra e fetente. Negli angoli, ammonticchiate alla rinfusa, si vedevano diverse pelli di animali non ancora completamente seccate, poi interiori che finivano di marcire, pesci corrotti, dei sacchetti che parevano contenere carne secca e infine un gran numero di fiocine di ogni forma e dimensione, nonchè certi coltellacci d’una forma particolare montati in corno di narvalo o in un dente di morsa.
   – Questo deve essere il magazzino della tribù e anche l’arsenale – disse il tenente.
   – Che pulizia, signor Hostrup! Noi morremo asfissiati se non ci affrettiamo a uscire.
   – Se vivono i Tanana in queste brutte tende, possiamo viverci anche noi.
   – Ma forse le altre sono migliori.
   – Probabilmente saranno peggiori.
   – E l’orso? Tò, me lo ero scordato.
   – Quando verrà il capo sapremo qualche cosa. Ah! Eccolo che ritorna!
   Infatti il Tanana si avvicinava accompagnato da un guerriero il quale portava un grosso pesce, che pareva fosse stato allora allora levato dai carboni.
   – Mio fratello accetti il regalo che gli offre il capo – disse il Tanana entrando.
   – Sii il benvenuto, – rispose il tenente – e ricevi i nostri ringraziamenti.
   Il guerriero depose su di una pelle il pesce, poi uscì mentre il capo si sedeva per terra colle gambe incrociate. I due naufraghi non si fecero pregare a far onore al pasto e lavorarono così bene di denti che ben presto del pesce non rimasero che le pinne.
   Il Tanana, quando vide che avevano terminato, estrasse dal suo sacchetto che portava appeso alla cintura la pipa, la caricò flemmaticamente, l’accese, aspirò due boccate, poi la passò agli ospiti che fecero altrettanto.
   Terminata quella funzione che presso tutti gli Indiani dell’America settentrionale è della più alta importanza, poichè viene considerata come una dichiarazione di amicizia, il Tanana, che fino allora non aveva pronunciato sillaba, disse:
   – Mio fratello il viso pallido è contento dei suoi fratelli dal viso rosso?
   – Sì e ti ringrazio della cortese ospitalità accordatami.
   – Allora mi dirà perchè viaggia in queste terre che non sono le sue.
   – Siamo qui perchè la tempesta ci ha gettati, malgrado tutta la nostra buona volontà per non approdarvi.
   – Ah! I miei fratelli sono stati disgraziati adunque? Montavano forse una di quelle grandi barche che vengono così da lontano?
   – L’hai detto.
   – Ed ora dove vanno?
   – Cerchiamo di raggiungere un qualche forte o della Compagnia inglese o di quella russa.
   – Ma i forti sono molto lontani.
   – Ma le nostre gambe sono buone.
   – E non possedete un attiraglio?
   – Una slitta, ma senza cani per trascinarla.
   – E dov’è questa slitta? – chiese il Tanana, i cui occhi mandarono un lampo.
   – L’abbiamo lasciata a due ore di cammino di qui, sulla riva del Porcupine.
   – Mio fratello possederà dell’«acqua di fuoco»?
   – Dell’acquavite, vuoi dire? No, l’abbiamo consumata tutta.
   – Possederà della polvere da sparo.
   – Sì, ma non molta.
   – Doveva portarne un pò a suo fratello Tanana.
   – Basta appena per noi due.
   Il capo non dissimulò un gesto di dispetto che al tenente non sfuggì.
   – Ma perchè ha lasciato la sua slitta? – chiese il Tanana.
   – Per inseguire un orso bianco che ci aveva rubato un fucile. È tuo quell’orso?
   – No.
   – Sarà di qualche tuo guerriero. Io so che è entrato nel tuo campo e io conto sulla tua generosità per riavere l’arma.
   Il Tanana lo guardò per qualche istante senza rispondere, poi disse:
   – Tu l’avrai, ma ad un patto.
   – Parla.
   – Che tu venga quest’oggi con me nella foresta a cacciare l’alce. I volti pallidi sono tutti bravi cacciatori e tu e il tuo compagno mi sarete di grande aiuto.
   – Accetto.
   II capo si alzò, uscì dalla tenda e poco dopo ritornava portando il fucile che Koninson s’affrettò a prendere, mandando una esclamazione di gioia.
   – Ora mettiamoci in cammino! – disse il Tanana. – Le alci sono state già scoperte dai miei uomini e forse a quest’ora sono strette da ogni parte. Affrettiamoci, poichè conto di partire questa notte con tutta la mia tribù.
   – E per dove? – chiese il tenente.
   – Verso il sole che si leva, nel paese dei Malemuti – rispose il Tanana con un enigmatico sorriso. – Odi le grida dei cacciatori?
   In lontananza si erano improvvisamente udite delle alte grida seguite dall’abbaiare di numerosissimi cani.
   – Andiamo! – disse il tenente.
   Il Tanana uscì seguito dai due marinai, disse qualche parola ad alcuni guerrieri che lo attendevano fuori della tenda, poi si addentrò nel bosco.
   – Che vi pare di questo selvaggio? – chiese Koninson al tenente. – Mi ha un certo viso che non mi rassicura completamente.
   – Hai ragione, mio degno fiociniere, ma staremo in guardia e ci guarderemo ben bene alle spalle.
   Le grida e gli abbaiamenti si avvicinavano rapidamente e ben presto attraverso gli alberi si videro correre parecchi cacciatori preceduti da grossi cani, poco dissimili per altezza e per forme dai lupi.
   – Dove sono queste alci? – chiese Hostrup al capo.
   – Dinanzi a noi – rispose il Tanana.
   – Sono molti i cacciatori?
   – Una quarantina sparsi sulla nostra destra e sulla nostra sinistra.
   Camminarono per altri venti minuti sempre più inoltrandosi nella foresta e sempre preceduti dai cacciatori che continuavano a mandare urla selvagge, poi il Tanana si arrestò.
   Dinanzi a loro, a tre o quattrocento metri, stavano riunite venti o venticinque alci, superbi animali, grandi quanto un cavallo giovane, colle teste adorne di corna robustissime. Correvano or qua or là in preda ad un vivo spavento, cercando di fuggire fra gli spazi lasciati dai cacciatori, ma senza arrischiarsi, poichè subito ritornavano galoppando disordinatamente
   II tenente e il fiociniere puntarono le armi mirando ognuno un’alce, ma il Tanana con un gesto li trattenne.
   – Siamo a buon tiro – disse Hostrup.
   – Non è ancor giunto il momento – rispose il capo. – Aspetta che entrino nel recinto e poi farai fuoco a volontà.
   – In quale recinto?
   – Guarda laggiù.
   Il tenente guardò nella direzione indicata e non senza sorpresa vide, attraverso gli alberi, un grandioso recinto fabbricato con rami assicurati ai tronchi mediante strisce di pelle, il quale si restringeva a mò di collo di bottiglia.
   – È così che noi cacciamo – disse il Tanana. – Le alci hanno paura ad entrare, ma noi le costringeremo.
   – E non spezzeranno il recinto?
   – È semplice, ma molto solido. Attenzione e guardatevi dalle corna, poichè talvolta le alci, rese furiose, si gettano sui cacciatori a testa bassa.
   I suoi uomini si erano a poco a poco riuniti formando un semicerchio assai vasto il quale si univa colle due estremità del recinto. Ad un cenno del capo impugnarono le fiocine e si spinsero coraggiosamente innanzi raddoppiando le grida e aizzando i cani.
   Le alci si misero a caracollare confusamente mostrando delle intenzioni tutt’altro che pacifiche, ma quando si videro assalite dai cani e minacciate assai da vicino dai cacciatori, non esitarono più a fuggire e non trovando dinanzi che l’apertura del recinto vi si spinsero dentro.
   II capo, i due naufraghi e tutti gli altri le seguirono e si appostarono dietro a certi mucchi di neve muniti di una feritoia, che erano stati precedentemente costruiti.
   – Fuoco a volontà! – comandò il capo.
   Tosto da ogni parte partirono detonazioni ed alcuni alci, colpite mortalmente, caddero dibattendosi disperatamente. Le altre fecero di gran galoppo il giro del recinto cercando una uscita che ormai non esisteva più, essendo stata subito chiusa quella che poc’anzi c’era, poi si scagliarono contro i rami d’albero tentando di spezzarli a colpi di corna, ma invano poichè, come aveva detto il capo, erano solidissimi e ben legati.
   Vista l’inutilità dei loro sforzi, si rivolsero contro i cacciatori, ma una nuova scarica, che ne gettò a terra altre quattro o cinque, le costrinse a riprendere la fuga.
   Riunitesi in fondo al recinto, le povere bestie parvero consigliarsi, poi ritornarono verso i cacciatori a testa bassa mostrando minacciosamente le loro robuste corna. Alcune colpite dalle palle caddero, ma le altre passarono come un uragano fra cumulo e cumulo, si gettarono furiosamente contro il recinto che in quel luogo presentava una solidità molto dubbia, ne rovesciarono un tratto e fuggirono nel bosco allontanandosi verso est con tale rapidità, da par perdere ogni speranza di raggiungerle.
   Il tenente e il fiociniere fecero atto di inseguirle, ma il capo Tanana li arrestò.
   – È inutile – disse. – Abbiamo carne quanta ci basta per vivere un bel pezzo.
   Ed infatti aveva ragione. Nove alci giacevano a terra immobili e due altre si dibattevano negli ultimi aneliti.
   Mentre alcuni cacciatori uscivano traendosi dietro i cani per condurre colà le slitte, gli altri s’affrettarono a finire le ferite; poi, dato mano ai coltelli, si misero a scuoiare e a tagliare con tanta abilità e prestezza che due ore dopo la non facile operazione era finita.
   Al tramonto, quell’ammasso di carne ancor palpitante veniva caricato sulle slitte e portato all’accampamento dove erano stati accesi dei grandi fuochi.
   Il capo offrì ai due marinai una lauta ed abbondante cena, poi li ricondusse nella loro tenda che in quel frattempo era stata completamente vuotata.
   – Quando parti? – gli chiese il tenente, prima di coricarsi.
   – Domani all’alba – rispose il Tanana con un sottile sorriso. – Dormi in pace sotto la buona guardia dei miei guerrieri e all’alba riceverai i miei saluti e una provvista di carne da bastarti per un mese.
   – A domani, adunque! – risposero i due naufraghi. E si sdraiarono con accanto le armi.


   XXV. IL MAKENZIE

   Dormivano da tre o quattro ore, quando Koninson fu improvvisamente destato da un lontano abbaiare che rapidamente diventava fioco perdendosi verso occidente.
   Rammentandosi delle parole dette il giorno innanzi dal Tanana e dei sospetti manifestati dal tenente, si alzò in preda ad una certa inquietudine temendo che quei poco rassicuranti selvaggi avessero approfittato della notte per giuocare qualche brutto tiro.
   Cercò il fedele fucile e mandò un sospirone di soddisfazione nel sentirselo ancora vicino, poi stette in ascolto. Agli abbaiamenti poco prima uditi, era succeduto un profondo silenzio che veniva rotto solamente dallo stormire degli alti pioppi e dei pini. Non una parola, non un passo che indicasse la presenza dei guerrieri incaricati di vegliare sull’accampamento, non quel russare che indica la vicinanza di uomini che dormono.
   – Hum! – esclamò. – Spira una cert’aria che non mi rassicura affatto.
   Strisciò verso l’apertura, alzò la tenda e guardò. Dapprima nulla vide essendo l’oscurità profonda; ma poi s’accorse che quel tratto di terreno, poco prima occupato dalle tende dei Tanana, era completamente libero.
   – I bricconi sono fuggiti! – esclamò. – Signor Hostrup, aprite gli occhi!
   – È spuntato il sole? – chiese il tenente sbadigliando.
   – Non ancora, ma vi dò un’altra nuova che vi sveglierà completamente. I nostri cari Tanana se ne sono fuggiti defraudandoci della nostra porzione di carne, a quanto pare, poichè non vedo vicino a me nessuna bistecca.
   – Dovevamo aspettarci qualche bricconata da quei messeri, mio caro fiociniere. Speriamo che tutto il male sia questo.
   – Forse che avete timore di qualche cosa di peggio?
   – Questa fuga precipitosa, le parole del capo, quell’insistenza nel chiederci se avevamo della polvere da regalare, se eravamo soli e dove avevamo lasciato la nostra slitta…
   – Corpo d’una balena! – esclamò Koninson. – Sospettate forse…
   – Che abbiano fatto una visita alla nostra slitta – terminò il tenente.
   – Se fosse vero, guai a loro!
   – Bah! Sarà un pò difficile il raggiungerli, tanto più che si dirigono verso est.
   – Verso est? Io ho udito gli abbaiamenti dei loro cani verso ovest, signor Hostrup.
   – Verso ovest! Sei propri sicuro?
   – Sicurissimo.
   – Allora gatta ci cova. Io temo di aver avuto da fare con uno scaltro briccone, e non sono più sorpreso se ci ha giocato questo brutto tiro. Affrettiamoci a raggiungere il fiume; ho fretta di arrivare alla slitta.
   – Ma vi giuro fin d’ora, signor Hostrup, che se quel birbante ci ha derubati io lo inseguirò e lo raggiungerò per quanto lontano fugga.
   – Se saremo capaci di raggiungerlo. I Tanana avevano dei cani attaccati alle loro slitte e chissà mai dove saranno a quest’ora.
   Si posero in marcia senza prendersi il disturbo di portare con loro la tenda essendo tutta bucata e si diressero verso il Porcupine. Alcuni lupi che ronzavano sotto il bosco, si provarono a seguirli gettando lugubri urla, ma un colpo di fucile, che atterrò il più feroce, li costrinse a ritornare più che in fretta sotto gli alberi.
   Due ore dopo i due balenieri giungevano sulla riva del fiume. Stavano per scenderla, quando Koninson incespicò in un oggetto che cadde con rumore rimbalzando e correndo sulla superficie gelata.
   – Bestia o cosa? – chiese egli curvandosi innanzi ed firmando precipitosamente il fucile.
   – Mi è sembrato un barilotto – disse il tenente. – Uhm! Brutto segno!
   In quell’istante sulla riva opposta si videro alcune ombre muoversi rapidamente, poi sparire sotto un gruppo di cespugli.
   – Chi vive? – gridò il fiociniere imbracciando il fucile.
   Nessuno rispose, ma poco dopo udì un acuto stridio che rapidamente si allontanava verso ovest e un po’ più tardi dei lontani latrati.
   – Temo che siano i Tanana – disse il tenente che ascoltava attentamente.
   – Corriamo alla slitta, signor Hostrup – suggerì il fiociniere. – Forse arriveremo in tempo per far pagar caro il tradimento.
   Si slanciarono giù dalla sponda attraversarono correndo il fiume e rimontarono la riva opposta guadagnando una piccola altura da cui potevano dominare il paese circostante per un gran fratto. Alla loro destra avevano il bosco battuto il giorno innanzi; alla sinistra una pianura sull’orlo della quale scorsero una massa confusa che doveva essere la slitta. Nè da una parte nè dall’altra videro alcun uomo; però in distanza si udiva ancora l’acuto stridio che doveva essere prodotto dallo scivolio di una slitta tutta a gran galoppo. Lasciarono l’altura e si diressero verso la slitta la quale rizzava ancora il lungo albero a cui si vedeva sospesa e imbrogliata la vela. Quando furono vicini scorsero a terra casse e barili, aperte le une, sfondati gli altri, e parecchi altri oggetti che facevano parte dell’equipaggiamento.
   – Ah, miserabili! – esclamò Koninson. – Ci hanno derubati!
   E pur troppo era vero. I Tanana, approfittando senza dubbio del sonno dei due balenieri, si erano recati colà ed avevano tutto saccheggiato. Viveri, accette, provvista di polvere e di palle, vesti di ricambio, tutto era stato portato via. Non restava che la sola slitta, ma fortunatamente in buono stato e ancora provveduta della sua vela che forse i Tanana non avevano toccata per mancanza di tempo.
   – Hanno fatto bene a fuggire così presto – disse il tenente, che perdeva un pò della sua calma abituale. – Se li avessi colti sul fatto, qualcuno l’avrebbe pagata cara, questa bricconata. Mio caro Koninson, siamo stati corbellati come due ragazzi.
   – Ma li ritroveremo forse un giorno, signor Hostrup – rispose il fiociniere tendendo minacciosamente il pugno verso l’ovest. – Anche noi andiamo da quella parte e chissà!…
   – Buon per noi che ci hanno lasciata la vela.
   – Ma non ci hanno lasciato nemmeno un granello di polvere, e voi sapete che in questo dannato paese non si vive se non si adopera il fucile. Non so il perchè non si sia mai pensato ad aprire delle trattorie.
   – Perchè gli orsi mangerebbero la dispensa e anche i trattori, amico Koninson. Orsù, quante cariche ti rimangono?
   – Una sessantina e niente di più!
   – Io ne ho altrettanto. Bah! Con centoventi colpi di fucile possiamo andare fino sulle rive del Makenzie e anche più lontano.
   – Ma non abbiamo intanto un briciolo di pane da mettere sotto i denti e non vedo nessun animale intorno a noi.
   – Per ora stringerai la cinghia dei tuoi calzoni, poi vedremo. Aiutami a spiegare la vela e rimettiamoci in viaggio, giacchè qui più nulla abbiamo da fare.
   Ad oriente cominciava a biancheggiare quando si rimisero in viaggio, favoriti da un vento abbastanza forte che soffiava da sud-sud-est. La slitta, vigorosamente cacciata innanzi dalla grande vela che era così gonfia da temere che scoppiasse, si rimise a scivolare sulla pianura con un lungo stridio e con una velocità che fu stimata non inferiore ai nove nodi all’ora.
   Il tenente, che stava a timone, la spinse al di là del bosco lasciando alla sua destra il fiume che accennava a piegare verso sud, poi la lanciò dritta dinanzi a sè, sapendo bene che in qualunque punto avrebbe incontrato sul suo passaggio il Makenzie, il quale taglia quella desolata regione fino alle rive dell’oceano artico.
   Il paese era sempre piano e disabitato. Solamente a nord, alcune catene di monti, assai lontane, apparivano semi-nascoste fra un fitto nebbione e verso sud dei grandi boschi di pini e di abeti costeggianti il corso del Porcupine.
   Di quando in quando da quegli alberi uscivano correndo torme di lupi affamati, i quali si davano a inseguire la slitta colla speranza di raggiungerla, ma ben presto desistevano riconoscendo l’inutilità dei loro sforzi; talvolta invece delle renne dalle corna ramose apparivano fra i cespugli e, dopo aver guardato quello strano veicolo che doveva sembrare ai loro occhi un immenso uccello, fuggivano spaventate senza lasciar tempo al fiociniere di prendere il fucile.
   Dei Tanana nessuna traccia, quantunque i due balenieri si guardassero ben bene d’attorno e porgessero attento ascolto ai rumori del largo.
   A mezzogiorno, dopo aver percorso molte miglia sotto un sole che cominciava già a diventare caldo ed a sciogliere i ghiacci, Koninson additò al tenente una specie di battello sospeso ad alcuni piuoli alti un paio di metri da terra e che si trovava sull’orlo della foresta.
   – Cos’è quella roba là? – chiese. – Indica la presenza di qualche tribù di indiani, o la vicinanza di qualche villaggio abbandonato?
   – Nè l’uno, nè l’altro – rispose il tenente. – Se non m’inganno, quella è una tomba.
   – Che non ci potrà certamente giovare.
   – Anzi, troveremo qualche cosa che farà per noi. Ammaina la vela e andiamo a vedere.
   Il fiociniere s’affrettò ad ubbidire e la slitta, trasportata dal proprio slancio, andò a fermarsi a poca distanza da quella strana tomba.
   Il tenente e il fiociniere vi si diressero e la esaminarono con curiosità. Consisteva in un vero canotto indiano di corteccia di betulla e armatura di salice, lungo circa otto piedi, solido e leggero ad un tempo. Era sospeso a circa due metri da terra con alcuni piuoli e sotto di esso la neve appariva smossa di recente e vi si vedeva un certo rigonfiamento come se nascondesse qualche cosa.
   – Il morto è nel canotto? – chiese Koninson.
   – No, giace sepolto sotto la neve. Il canotto conterrà invece le armi, le scarpe, le reti e le lenze appartenenti all’estinto.
   – E dei viveri?
   – Forse, ghiottone. Sali nel canotto e guarda dentro.
   Il fiociniere si alzò sui piuoli e salito nella leggera imbarcazione gettò giù due fiocine di corno di narvalo diligentemente aguzzate, un paio di scarpe assai malandate, alcune reti e una lenza di pelle di foca lunga una trentina di metri.
   – Non valeva la pena di venire fin qui – diss’egli di assai cattivo umore. – Ci avessero messo almeno qualche sacchetto di quell’eccellente «pemmican» che sanno fare gli indiani di questa regione!
   – Sanno bene che i morti non mangiano, ragazzo mio, – disse il tenente.
   – Ma perchè mettono sulle tombe le armi e le reti?
   – Perchè se ne servano nell’altra vita.
   – Ah! Credono che i morti risuscitino.
   – Tutti gli indiani ne sono convinti. Ora scendi e cerchiamo di procurarci la colazione. Tò! Ecco dei lupi che urlano nel bosco. La loro carne è pessima, ma chi non ha di meglio può accontentarsi.
   – Voi v’ingannate, signor Hostrup, poichè ho qualche cosa di più appetitoso da offrirvi. Guardate in alto.
   Il tenente alzò il capo e vide un grossissimo uccello il quale volava pesantemente come se facesse molta fatica a mantenersi in aria. Imbracciò rapidamente il fucile, mirò alcuni istanti con molta attenzione, poi premette lentamente il grilletto.
   Il grosso volatile colpito dall’infallibile palla del cacciatore, rotolò due volte su sè stesso mandando una nota che parve emessa da una tromba, poi piombò a terra con sordo rumore rimanendo immobile.
   – È un cigno – disse Koninson precipitandovisi sopra.
   – Trenta libbre di carne eccellente! – rispose il tenente.
   – Ma come mai questo uccello si trova qui?
   – In estate i cigni vengono a visitare questa regione. La presenza di questo uccello indica che lo sgelo dei fiumi non è molto lontano.
   – Brutta nuova per chi non ha che una slitta a vela.
   – Bah! Fra poco non avremo più bisogno di questo veicolo, poichè il Makenzie non deve essere molto lontano.
   Koninson si affrettò a spennare il volatile il cui peso, come aveva detto il tenente, superava le trenta libbre, poi ne mise un grosso pezzo al fuoco che in quel frattempo era stato acceso con legna morta raccolta nella vicina foresta.
   Calmata la fame, i due naufraghi tornarono a imbarcarsi, e la slitta, favorita ancora da un buon vento, ripartì costeggiando sempre la foresta.
   L’indomani, dopo una ventina di miglia, il terreno che fino allora si era mostrato molto favorevole cominciò a cambiare.
   La gran pianura era spesso interrotta da ondulazioni, da salite, da larghi crepacci e da ruscelletti, le cui rive assai più alte dei corsi d’acqua facevano trabalzare disordinatamente il veicolo, minacciando spesso di mandarlo in pezzi.
   Anche un largo fiume che il tenente suppose fosse il Peel, uno degli affluenti al Porcupine, e che sbocca a breve distanza dal Makenzie, venne ad interrompere la corsa.
   I due naufraghi furono costretti a calare la slitta dalla riva e attraversare il ghiaccio per poi issarla sulla sponda opposta.
   In quella traversata poco mancò che affondassero nel fiume poichè il ghiaccio, corroso dall’azione delle acque e dal sole, più volte crepitò e tremò sotto il peso della slitta.
   II 14 maggio il vento improvvisamente mancò e così pure per altri tre giorni durante i quali il sole, che rapidamente diventava caldo, sciolse gran parte dello strato di neve rendendo così la marcia della slitta assai penosa.
   Il 18 dovettero rinunciare a partire di giorno, quantunque il vento fosse propizio, anzi molto forte. La neve, eccessivamente rammollita, non permetteva più lo scivolamento.
   La gran pianura, percossa da una vera pioggia di raggi caldissimi, presentava un sublime spettacolo. Pareva che un immenso incendio la divorasse, estendosi fino agli estremi limiti dell’orizzonte. La neve, i massi di ghiaccio, gli «hummoks», si fondevano a vista d’occhio e fitte masse di vapori ondeggiavano in tutti i versi, sbattute dagli impetuosi soffi del vento meridionale.
   Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte.
   – Corpo di una balenottera! – esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. – Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri.
   – Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta – disse il tenente.
   – E quando partiremo?
   – Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest’acqua e questa neve geleranno.
   Il tenente non si era ingannato.
   Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull’orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò.
   I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte.
   Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo.
   Ad un tratto l’orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est.
   – Abbiamo qualche branco d’alci dinanzi a noi? – chiese egli prendendo il fucile.
   – Lo spero – rispose il tenente, prendendo la sua arma.
   Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi.
   Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s’alzò in piedi e si issò sull’albero. Un grido gli sfuggì tosto:
   – Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi!
   – È il Makenzie! – esclamò il tenente.
   In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all’ora.
   In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.


   XXVI. GLI ORSI DELLE TERRE NUDE

   Il Makenzie, scoperto solamente verso il finire del XVIII secolo, e precisamente nel 1789, da un inglese che gli diede il proprio nome, è uno dei più grandi ma nello stesso tempo dei meno conosciuti fiumi che solcano quell’immensa estensione di tetre semideserte e quasi sempre gelate, appartenenti alla Compagnia della Baia di Hudson.
   Il preciso suo corso ancora oggi si ignora, ma secondo taluni sarebbe di circa 3200 chilometri. Alimentato dal Lago dello Schiavo, poi dal Lago del Grand’Orso, a cui è unito da un fiume che chiamasi pure Grand’Orso, quindi dal Porcupine, scorre con grandi serpeggiamenti attraverso a quelle terre e va a scaricarsi presso i 69° 14’ di latitudine nord e i 129° 12’ di longitudine ovest nell’Oceano artico, per una larga imboccatura ostruita in parte da un gruppo d’isole deserte fra cui le più notevoli sono quella della Balena, ove si fermò Makenzie, e quella di Garry, visitata dal capitano Franklin nel 1825.
   La Compagnia della Baia di Hudson, che traffica cogli Indiani, ha sulle rive di questo grande fiume alcuni piccoli forti abitati da pochi cacciatori, separati gli uni dagli altri da grandi distanze.
   All’infuori di questi posti, il paese bagnato è quasi deserto, poichè anche le tribù indiane vi sono poche e senza stabile dimora.
   Malgrado quel repentino capitombolo da una sponda alta più di una quindicina di piedi, nelle acque del fiume, che forse da sole poche ore si erano liberate dalla crosta di ghiaccio, i due balenieri non si perdettero d’animo. Con un vigoroso colpo di tallone ritornarono subito a galla e si aggrapparono alla slitta la quale nel precipitare non aveva riportato che la rottura dell’albero, tagliato in due dall’urto di un grosso ghiaccio.
   La prima cosa che fecero fu di tentare di guadagnar la riva; ma, almeno per il momento, furono costretti ad abbandonare l’idea, poichè enormi lastroni di ghiaccio, che il fiume trascinava tumultuosamente nella sua rapida corsa, li circondavano da ogni lato minacciando di schiacciarli o di tagliarli a mezzo.
   – Passiamo a prua – disse il tenente. – Eviteremo almeno gli urti.
   Tenendosi stretti alle traverse della slitta, si portarono entrambi sul dinanzi, cercando di tenersi più che potevano fuori dell’acqua per non gelare completamente.
   – Hai nulla di guasto? – chiese poi il tenente.
   – Non mi pare – rispose Koninson. – Ma, se rimaniamo qui una sola mezz’ora, mi guasterò tutto. Corpo d’una pipa rotta! Sono ben fredde queste acque.
   – Le tue munizioni?
   – Le ho bene assicurate e vedete che anche il fucile non l’ho abbandonato.
   – Ora pensiamo a guadagnare la riva.
   – Ma questi dannati ghiacci ci stritoleranno se abbandoniamo la slitta, e poi le mie vesti sono diventate così pesanti che non sarò capace di nuotare per dieci metri.
   – Si tratta di spingere la slitta verso la riva. Attenzione, Koninson!
   Una gran lastra di ghiaccio, un vero «stream» lungo una cinquantina di metri, muoveva dritto sulla slitta frantumando con mille scricchiolìi tutti i ghiacci minori.
   – Ci schiaccerà! – disse Koninson, battendo i denti per il freddo.
   – Prima romperà la slitta! – rispose il tenente. – Non perderti d’animo, amico mio, e tieni fermo finchè raggiungiamo la riva.
   – Vi confesso che non ne posso più. Queste acque sono diabolicamente fredde e sento che a poco a poco i miei muscoli si irrigidiscono.
   – Attenzione, Koninson.
   Il lastrone non era che a pochi passi. Frantumò con un potente urto due piccoli ghiacci, poi si precipitò come un ariete sulla slitta. Si udì un lungo scricchiolìo, le traverse si spezzarono, le corde si ruppero, lasciando cadere i pochi oggetti che i naufraghi avevano salvato dalle rapaci mani dei Tanana, quindi tutto l’apparecchio si disciolse andandosene alla deriva.
   Il tenente e Koninson furono travolti dalla corrente, ma ben presto, lottando con disperata energia, riuscirono ad aggrapparsi ad un banco di ghiaccio issandovisi sopra.
   – Ah, mio tenente! – mormorò il povero fiociniere che non si reggeva più. – Mi pare che il mio cuore sia diventato un blocco di ghiaccio.
   – Coraggio, amico. La corrente ci spinge verso la riva destra e fra pochi istanti toccheremo terra.
   Koninson non rispose. Quasi completamente assiderato si era raggomitolato su sè stesso, ormai incapace di fare il più piccolo movimento.
   Fortunatamente il banco urtò contro i ghiacci della riva e si incastrò fortemente dentro un largo crepaccio. Il tenente, a cui quel bagno prolungato in quelle acque così gelate non aveva completamente tolte le forze, si caricò del compagno e raggiunse la sponda arrestandosi a pochi passi da un boschetto di betulle.
   Senza occuparsi di sè stesso, in pochi istanti spogliò il fiociniere, poi raccolse un pò di neve e si mise a strofinarlo vigorosamente per rimettergli in circolazione il sangue.
   Dopo alcuni minuti lo vide muoversi e infine riaprire gli occhi.
   – Vedo che hai la pelle dura e sono contento! – gli disse, sorridendo. – Orsù, ragazzo mio, spicca quattro salti finchè io corro al boschetto a procurare della legna.
   – Grazie, signor Hostrup, ma se tardate a spogliarvi delle vesti, gelerete.
   – Bah! La mia pelle sfida quella degli orsi bianchi; d’altronde non impiegherò che pochi minuti ad accendere un buon fuoco.
   Impugnò la scure che aveva avuto tempo di salvare nel momento che la slitta capitombolava nel fiume, e si allontanò correndo, raccogliendo qua e là i rami morti e quelli che tagliava. Fatta un’ampia provvista ritornò presso Koninson, il quale stava facendo una ginnastica indiavolata per non tornare a gelare.
   L’esca e l’acciarino, conservati dentro un astuccio impermeabile, procurarono un bel fuoco attorno al quale i due balenieri si assisero, riscaldandosi le membra ed asciugandosi le vesti.
   – Ditemi, signor Hostrup, – disse il fiociniere che aveva ricuperato le forze e la favella – dove supponete che noi siamo?
   – Sulle rive del Makenzie, ma in quale punto preciso non te lo saprei dire.
   – Siamo molto lontani dal forte che cercate?
   – Te lo dirò quando avremo raggiunto la riviera del Grand’Orso, che si scarica in questo fiume.
   – A sud o a nord da noi?
   – A nord no di certo, poichè ci siamo costantemente tenuti a nord del Porcupine e questo fiume sbocca nel Makenzie quasi di fronte alla riviera del Grand’Orso.
   – Allora marceremo verso sud seguendo il fiume.
   – È necessario, e quando avremo raggiunto la riviera piegheremo ad est finchè troveremo il forte Speranza, il quale, se la memoria non mi tradisce, deve trovarsi a circa mezza via fra il Makenzie e il lago del Grand’Orso o del Musquàsa-ky-e-gum, come lo chiamano gli indiani.
   – Auff! Mi ci vorrà una settimana a pronunciare siffatto nome. Questo sforzo di lingua lo lascio a voi ed agli indiani. Ma ditemi, signor Hostrup, a cosa servono i forti piantati fra quelle deserte regioni?
   – A scopo di commercio.
   – E con chi commerciano?
   – Cogli indiani, i quali si recano di quando in quando ai forti a vendere le pelli degli orsi, di foche, di martore, di volpi, di linci, di lupi, di castori, di ratti muschiati e di lontre, contro, armi, liquori, reti, ecc. Anzi, ti dirò che tanto la Compagnia Russa che quella della Baia di Hudson, proprietarie dei forti, fanno ottimi affari.
   – Ma dove sono questi indiani, che non ne abbiamo veduto che trenta o quaranta?
   – Sono disseminati qua e là, ma tutti sanno dove si trovano i forti.
   – Ne troveremo degli altri, dunque?
   – Sì, poichè il territorio su cui ci troviamo, e che appartiene alla Compagnia della Baia di Hudson, è più popolato di quello appartenente alla Russia. Nei pressi del Makenzie e del lago del Grand’Orso si trovano numerose tribù di Jannoit della famiglia degli Eschimesi, di indiani Loschi, così chiamati perchè sono realmente loschi, di Fianchi di Cane o Liu-tcan che sono tutti balbuzienti, di Denè, di Diendije, di Fine e di Chippewyans, i quali poi per lungo tempo furono creduti forniti di coda a causa delle loro vesti che di dietro terminano in una lunga punta.
   – Speriamo di trovare anche abbondante selvaggina, poichè non abbiamo un solo pezzetto di carne da porre sotto i denti.
   – Ne troveremo, Koninson, anzi mi metterò oggi stesso in cerca di qualche capo di selvaggina. Puoi reggerti?
   – No, tenente, ho le gambe che si rifiutano di star ritte.
   – Andrò io solo a battere il paese, e se incontro un orso puoi star certo che stasera faremo un lauto pranzo.
   Indossò le vesti che si erano asciugate dinanzi a quella grande fiammata, rinnovò la carica del fucile con polvere asciutta, poi, dopo aver raccomandato al fiociniere di fare altrettanto col secondo fucile, per tenersi pronto a qualunque evento, s’allontanò lentamente inoltrandosi, nel paese, un pò verso sud.
   Camminava da due ore costeggiando un bosco di betulle e di pini che pareva seguisse la riva del Makenzie, quando si trovò sul limite di una palude il cui fango era tenacissimo. Dopo aver errato un pò a destra e un pò a sinistra, s’avventurò su una lingua di terra che si addentrava in quella palude, fiancheggiata da altissimi abeti neri e da folti boschetti di salici, nella speranza di incontrare qualcuna di quelle stupende lontre la cui pelliccia si paga quasi a peso d’oro.
   Ad un tratto i suoi orecchi furono colpiti da una specie di grugnito, che veniva dal mezzo d’un gruppo di piante.
   – In guardia! – mormorò, armando il fucile. – Qui ci sono delle bistecche.
   Si gettò a terra per non farsi scoprire e si trascinò carponi e senza produrre rumore, verso il luogo d’onde venivano i grugniti.
   Quando giunse in mezzo ai salici vide dinanzi a sè, a circa duecento metri, un orso di statura piuttosto piccola, somigliante agli orsi bruni d’Europa, che si avvoltolava nel fango assieme ad un orsacchiotto grosso quanto un cane di statura media.
   – Oh! – esclamò egli sorpreso. – Che razza di animale è mai questo? Non può essere che un orso detto delle Terre Nude, accennato da John Richardson, il compagno dell’infelice Franklin. Stiamo in guardia, poichè si dice che sia ferocissimo.
   L’orsa, poichè doveva essere una femmina, d’improvviso si alzò guardando verso il gruppo di piante. Senza dubbio aveva fiutato la presenza del cacciatore e si mostrava inquieta se non per sè stessa, certamente per l’orsacchiotto che non era in grado di difendersi.
   Il tenente, che non voleva perdere una sì bella occasione, si alzò pure in piedi e puntato rapidamente i fucile fece fuoco attraverso il fogliame.
   L’orsa mandò un urlo terribile, poi si diede a fuggire attraverso la palude cacciando dinanzi a sè l’orsacchiotto, che mandava lamentevoli grugniti.
   Il tenente saltò nella palude risoluto a inseguirli, ma fatti pochi passi fu costretto a fermarsi poichè tanta era la tenacità di quel fango da non lasciargli alzare i piedi. Anzi s’accorse che minacciava di sprofondare.
   Scaricò una seconda volta il fucile, ma con nessun frutto, poichè l’orsa che forse aveva trovato del terreno più solido, continuò a fuggire scomparendo in mezzo alle piante, sempre accompagnata dal piccino.
   Uscì dalla palude dopo aver ricaricata l’arma e si slanciò sotto il bosco dirigendosi verso sud, colla speranza di raggiungere la belva che forse era stata gravemente colpita.
   Percorse tre o quattro chilometri quasi sempre correndo, ma quando si fermò s’accorse di essersi allontanato assai dalla palude. Stava per tornare sui propri passi e riguadagnare l’accampamento, quando gli pervenne un lontano muggito che pareva prodotto dal rompersi d’un grosso fiume.
   – Che sia il Makenzie? – si chiese. – Ciò non può essere, poichè il fragore viene da sud, mentre il fiume deve scorrere alla mia destra. Il sole è ancora alto e Koninson non diventerà inquieto se tardo a ritornare.
   Proseguì il cammino verso sud, inoltrandosi in un nuovo bosco di salici, di abeti e di betulle, e dopo una mezz’ora di trovava sulla riva di un largo corso d’acqua che veniva da est.
   – È il Makenzie, o la riviera del Grand’Orso? – si chiese egli, salendo su di un’alta rupe dalla quale poteva dominare un gran tratto di paese. – Sarà senza dubbio il Makenzie; poichè la riviera deve trovarsi molto più a sud. Ad ogni modo mi accerterò seguendone le rive.
   Stava per mettersi in cammino quando, girando gli occhi ai piedi della rupe, scorse sulla sponda una tenda semi-atterrata e presso questa quattro lunghi oggetti che potevano fino ad un certo punto sembrare uomini giganteschi avvolti in pelliccie.
   – Cosa saranno quegli oggetti là? – si domandò. – Andiamo un pò a vedere.
   Scese verso la riva seguendo un sentieruzzo appena praticabile e si avvicinò a quegli strani oggetti che subito riconobbe. Erano quattro canotti eschimesi, di quelli che si chiamavano «kajacks», leggerissimi assai, essendo costruiti con pelli di foca ricucite sopra uno scheletro di ossa di balena o di legno molto sottile, lunghi tre metri, larghi non più di settanta centimetri, un pò rialzati a prua e bassi a poppa e con un’apertura nella quale si caccia il battelliere. Osservandoli attentamente li trovò in ottimo stato e dentro rinvenne alcune pagaie a doppia pala.
   – Scoperta magnifica! – disse il tenente. – Se gli eschimesi, con questi canotti, ardiscono sfidare le tempeste e i ghiacci dell’Oceano artico o dei grandi laghi, noi potremo senza tema sfidare la corrente del Makenzie. Se Dio continua a proteggerci fra poche settimane potrò riposare le mie stanche membra al forte Speranza.
   Si avvicinò alla tenda sollevando un lembo, ma tosto si ritrasse facendo un gesto di orrore. Colà uno scheletro, perfettamente denudato dalle sue carni, giaceva in mezzo a pochi pezzi di pelliccia che un tempo dovevano averlo ricoperto.
   – Il disgraziato sarà morto di fame e i lupi avranno banchettato colle sue carni – disse il tenente. – E quanti ne muoiono in questa regione dei grandi freddi! Orsù, ritorniamo che Koninson sarà inquieto.
   Risalì la rupe e si rimise in cammino costeggiando il fiume che accennava a volgersi verso nord. Dopo due buone ore si convinse che percorreva la riva sinistra del Makenzie e non già del Grand’Orso, poichè il fiume, dopo un brusco gomito, si dirigeva verso nord.
   Si riposò pochi minuti su di un rialzo di terreno, indi proseguì la via a lenti passi volgendo sguardi a destra e a sinistra, sperando di scoprire qualche capo di selvaggina.
   Già cominciava a distinguere il fumo che si alzava dall’accampamento, quando nello sbucare da un gruppo di pini si trovò improvvisamente dinanzi all’orsa e al suo orsacchiotto che stavano uscendo dalla palude.
   Imbracciò rapidamente il fucile e fece fuoco. L’orsacchiotto, che stava dinanzi di pochi passi, colpito nella testa, rotolò due volte su di sè stesso, poi rimase immobile.
   Là madre, furente, si alzò sulle zampe posteriori, cacciò un urlo di rabbia e di dolore, e si slanciò verso il cacciatore il quale, non avendo tempo di ricaricare l’arma e non osando venire ad un combattimento a corpo a corpo, si slanciò verso l’accampamento gridando:
   – A me, Koninson!… A me!…
   Il fiociniere, messo in guardia dalla detonazione, si era già alzato col fucile in mano. Vedendo l’orsa inseguire il tenente, si slanciò innanzi e fece fuoco. La belva, ferita dalla palla, si arrestò di botto, poi tornò sui propri passi zoppicando; si fermò un momento presso il cadavere dell’orsacchiotto come per assicurarsi se era morto, e finalmente si cacciò nella palude scomparendo in mezzo alle macchie di salici.


   XXVII. SUL MAKENZIE

   Due ore dopo i due balenieri seduti ad un gran fuoco banchettavano allegramente colle carni dell’orsacchiotto che furono ad unanimità dichiarate eccellenti, più delicate di quelle dei porcellini da latte. La povera madre non si era più fatta vedere e pareva che ormai avesse abbandonato ogni progetto di vendetta; sicchè, dopo il pasto, poterono discorrere tranquillamente sul nuovo viaggio che stavano per intraprendere sul Makenzie e che molto probabilmente doveva essere l’ultimo, essendo lontani solamente poche giornate dal forte Speranza.
   – Se tutto procede bene e non facciamo cattivi incontri, fra una settimana potremo riposare su di un buon letto – diceva il tenente, dopo aver narrato la fortunata scoperta dei «kajacks».
   – Io conto di essere ormai fra le mura del forte – disse Koninson. – Sul fiume non troveremo ostacoli di certo.
   – Non bisogna correre troppo, ragazzo mio. Ci troviamo in un certo paese che può giuocarci ancora dei brutti tiri. Gli indiani o gli eschimesi, gli orsi e la fame possono metterci in gravi imbarazzi.
   – Io ho fiducia nella nostra buona stella che, dalle sponde dellArtico, ci condusse fin qui, signor Hostrup.
   – Piuttosto quando saremo giunti al forte, cosa faremo?
   – S’incaricherà quel comandante di farci condurre negli stabilimenti dell’est. Nella buona stagione le comunicazioni sono frequenti tra forte e forte e, quando saremo giunti nel Canada, daremo un addio all’America e torneremo in patria.
   – Come desidero di rivedere la mia Danimarca, signor Hostrup! – disse Koninson sospirando. – I nostri parenti ci crederanno a quest’ora morti fra i ghiacci del polo.
   – La cosa è certa.
   – E di tanti che erano con noi, non ritornano che due! Povero capitano e poveri compagni!
   – Lascia le cose tristi, mio buon Koninson, – disse il tenente che pure era diventato commosso. – Non è il momento di evocare la dolorosa storia del naufragio. Orsù, pensiamo a riposare, che domani dobbiamo partire per tempo.
   – E non correremo alcun pericolo? L’orsa non si è più fatta vedere, ma potrebbe ritornare e approfittare del nostro sonno per divorarci il cranio.
   – Hai ragione, quantunque le belve non osino avvicinarsi egli accampamenti difesi da un fuoco. Coricati; il primo quarto li guardia lo farò io.
   Il fiociniere, che si sentiva ancora spossato, non se lo fece dire due volte e si sdraiò coi piedi volti verso il fuoco, mentre il tenente si sedeva pochi passi più lontano col fucile fra le ginocchia.
   Il primo quarto passò senza incidenti, ma durante il secondo l’orsa si mostrò sull’orlo della palude e si spinse fino a poche centinaia di passi dall’accampamento mandando urla disperate. Il fuoco però, che veniva continuamente alimentato, la tenne lontana e verso le prime ore del mattino la povera madre ritornava in mezzo ai salici allontanandosi verso est.
   Alle 7 i due balenieri, caricatisi delle loro armi e della carne dell’orsacchiotto, si misero in cammino seguendo la riva del Makenzie e tre ore dopo giungevano dinanzi alla tenda scoperta il giorno precedente.
   Il tenente visitò accuratamente i «kajacks» e, trovatili in ottimo stato, ne gettò due sul fiume.
   – In barca, – comandò poi – e facciamo molta attenzione ai ghiacci, poichè basta un solo urto per sfondare le costole di questi leggerissimi canotti.
   Si cacciarono dentro, presero le pagaie a doppia pala e si spinsero al largo evitando con somma cura le lastre di ghiaccio che la corrente ancora trascinava, e in quantità rilevante.
   Da principio le loro mosse furono faticose, ma ben presto le loro braccia ritrovarono l’antico vigore e i due leggieri canotti, spinti energicamente innanzi, risalirono il fiume con notevole velocità, rimbalzando agilmente sulla corrente.
   Le due rive offrivano di quando in quando delle pittoresche vedute, ma erano affatto deserte. Quella di sinistra, alta assai, in taluni punti tagliata quasi a picco, era selvaggia, con rupi gigantesche dai cui crepacci saltavano nel fiume torrentelli spumeggianti, con gole profonde e affatto spoglie d’ogni vegetazione, con piccoli ghiacciai, che lasciavano scivolare grandi ammassi di ghiaccio, i quali s’inabissavano con cupo fragore rimontando poscia a galla; quella di destra invece scendeva dolcemente mostrando boschi di pini altissimi e di abeti e di betulle e macchie di salici nani in mezzo alle quali si vedevano saltellare numerosi topi campagnuoli dal mantello giallastro o bruno.
   Qualche lupo si mostrava qua e là, ma fuggiva ratto, e anche qualche lince si spingeva fin sulle rive a guardare con gli occhi sanguigni i due piccoli canotti che filavano in mezzo ai ghiacci galleggianti.
   I due naufraghi avevano già percorso una dozzina di miglia, quando improvvisamente giunse ai loro orecchi una specie di nitrito molto acuto che pareva emesso da un mulo.
   Si fermarono entrambi, guardandosi in faccia con inquietudine.
   – Se non m’inganno questo è il grido dell’orso bianco – disse Koninson.
   – Non ti sei ingannato, ragazzo mio, – rispose il tenente.
   – Fortunatamente abbiamo i canotti.
   – Se all’orso saltasse il brutto ticchio di darci la caccia, i nostri canotti a nulla gioverebbero. Sono nuotatori formidabili, quei carnivori dal bianco mantello, e non perdono contro un canotto.
   – Infatti sovente ho veduto qualcuno di questi mostri nuotare ad una trentina di miglia dalle coste. Mi sorprende però di trovarli qui, su questo fiume.
   – E perchè, Koninson?
   – Mi hanno detto che gli orsi bianchi non si allontanano molto dalle rive dell’Oceano.
   – È vero, ma talvolta si addentrano nelle terre seguendo il corso dei fiumi e non di rado se ne uccisero ad una distanza di centosessanta e anche duecento miglia dalle coste marine.
   II nitrito si fece udire più vicino. Koninson e il tenente guardarono verso la riva sinistra e videro scendere, attraverso la spaccatura di una roccia, un grosso orso bianco, il quale si arrestò sedendosi sulle zampe posteriori.
   – Mi pare che non abbia delle buone intenzioni – disse Koninson. – Il birbante deve essere affamato e conta di satollarsi colle nostre carni. Eh, mio caro, sono troppo coriacee per il tuo ventricolo.
   – Stiamo in guardia, poichè mi ha l’aria di non lasciarci passare. Appoggiamo verso la riva destra.
   – Se si potesse piantargli due palle nel cranio?
   – È impossibile avere il polso fermo in questi canotti. Orsù, prendiamo il largo.
   L’orso non assaliva. Si accontentava di seguirli con due occhi che manifestavano un’ardente bramosia, agitando il capo da destra a sinistra, con quel moto che è particolare a tutti gli orsi, a qualunque razza appartengano.
   I due canotti erano già giunti presso la riva che in quel luogo disgraziatamente non offriva approdi essendo tagliata quasi a picco, quando l’orso si decise a muoversi. Fece alcuni passi innanzi e indietro, come se cercasse un buon punto, poi si gettò nel fiume con un sordo tonfo, sollevando una colonna d’acqua.
   – Presto, fuggiamo o siamo perduti! – gridò il tenente. – Attento ai ghiacci, Koninson, poichè se il tuo canotto si spezza l’orso non ti risparmierà.
   Fecero forza di remi e risalirono la corrente sperando di giungere in qualche punto della sponda che permettesse di approdare e di affrontare sul terreno solido il nemico che nel liquido elemento aveva dalla sua tutti i vantaggi possibili.
   Ma ben presto s’accorsero con vivo terrore, che quella gara con quell’abile nuotatore era impossibile. Infatti il feroce animale, che forse una gran fame animava, veniva innanzi con una velocità incredibile battendo furiosamente le sue larghe zampe e mostrando una larga bocca che, di quando in quando, richiudeva con colpi secchi da mettere i brividi. Certi momenti si slanciava quasi interamente fuori dell’acqua spiccando dei lunghi salti, come se trovasse un terreno solido, guadagnando in un colpo solo tre o quattro metri.
   La buona stella però, che fino allora aveva protetto i naufraghi, anche questa volta non li abbandonò. Infatti ad una svolta del fiume scorsero alcun isolotti che potevano offrire un rifugio o almeno un luogo propizio per affrontare l’animale.
   – Presto, Koninson! – disse il tenente che remava disperatamente. – Dirigiamoci laggiù e prendiamo subito terra.
   Con un ultimo sforzo si avvicinarono agli isolotti e si arenarono dinanzi al primo. Abbandonati precipitosamente i canotti, si slanciarono a terra portando con loro i fucili e la scure.
   L’orso non era lontano che trenta passi e raddoppiava gli sforzi temendo che l’agognata preda fosse per sfuggirgli. Vedendo i due uomini prendere terra e puntare i fucili, armi che senza dubbio non gli erano nuove, subito si tuffò.
   – Fugge forse? – chiese Koninson, che contava di regalarsi uno zampone d’orso per pranzo.
   – Non lo credo – rispose il tenente, tenendo il fucile sempre puntato. – Simili animali non abbandonano così facilmente una preda, quando sono affamati. Cercherà di avvicinarsi tenendosi sott’acqua per poi gettarsi contro di noi all’improvviso.
   – Bah! Avrà l’accoglienza che si merita.
   – Eccolo, Koninson! Mira giusto!
   Infatti l’orso era repentinamente riapparso a pochi passi dall’isolotto. Con un solo balzo si slanciò sulla riva tentando di risalirla.
   – Fuoco! – gridò il tenente.
   Le due detonazioni dei fucili si fusero in una sola. La belva, ferita, mandò un lungo nitrito che parve anzi un vero urlo e tornò a sommergersi, lasciando alla superficie un cerchio di sangue che rapidamente si allargava.
   – È morto! – gridò Koninson slanciandosi innanzi.
   – Non ti fidare! – disse il tenente. – Sta in guardia!
   L’avvertimento giungeva troppo tardi. Koninson si era già immerso nella corrente fino alle ginocchia, quando si sentì violentemente atterrare. L’orso, che spiava il nemico tenendosi sott’acqua, repentinamente si rialzò e urtò violentemente il fiociniere che non resse al colpo.
   – Aiuto, signor Hostrup! – gridò il disgraziato, tentando, ma invano, di rimettersi in gambe.
   – Non temere, ragazzo! – tuonò il tenente.
   L’orso, con una agilità che si sarebbe creduta impossibile in quel corpo tutt’altro che ben formato, stava per gettarsi sul fiociniere per dilaniarlo coi potenti artigli, ma il tenente gli si gettò coraggiosamente dinanzi.
   S’udì un colpo secco, seguito da un sordo grugnito. La belva, colpita mortalmente alla testa, si rovesciò nel fiume perdendo un torrente di sangue misto a brani di cervella, e sparve in mezzo ai gorghi.
   – Grazie, mio tenente! – disse Koninson con voce commossa. – Non dimenticherò mai questo colpo maestro.
   – Mi ringrazierai a pericolo finito! – rispose Hostrup, raccogliendo prontamente il fucile e disponendosi a caricarlo.
   – Come? Non è morto dunque?
   – Non è lui che ci darà ancora da fare, ma i suoi compagni. Guarda, mio povero amico, guarda sulla riva che ci sta di fronte.
   Koninson guardò nella direzione indicata e non potè trattenere un gesto di spavento.
   Da una collinetta che scendeva dolcemente nel fiume, tre forme biancastre scivolavano rapidamente sulla neve mandando dei grugniti punto rassicuranti. Erano tre altri orsi bianchi i quali, forse attirati dalle urla del compagno e dalle detonazioni, accorrevano a prendere parte alla lotta.
   – Corpo d’una balena! – esclamò il fiociniere impallidendo. – Ma questo è il paese degli orsi! Ci assaliranno?
   – Se son affamati come quello che abbiamo ucciso, non si accontenteranno di guardarci – rispose il tenente che cominciava a diventare inquieto.
   – Si potrebbe tentare la fuga?
   – Se la loro intenzione è quella di assalirci, l’acqua non li arresterà. Qui si tratta di mirare giusto e di picchiare sodo. Carica il tuo fucile e stiamo attenti.
   I tre orsi erano allora giunti sulla riva del fiume, ma non parevano avere molta fretta. Andavano innanzi e indietro lentamente, guardando i due uomini più con curiosità che con ferocia, senza decidersi a entrare nel fiume.
   Finalmente uno, il più grosso, s’immerse e nuotò in direzione degli isolotti, ma procedendo cautamente. Koninson e il tenente lo mirarono e gli scaricarono contro i fucili.
   La lezione parve sufficiente, poichè il carnivoro s’arrestò un momento, poi raggiunse i compagni zoppicando e perdendo sangue.
   Si fermarono ancora alcuni minuti sulla riva, indi s’allontanarono per la stessa via di prima, scomparendo dietro le rocce.
   – Buon viaggio! – gridò il fiociniere.
   – E tarda guarigione all’ammalato! – aggiunse il tenente. – Che il diavolo si porti questi affamati abitanti delle regioni artiche!
   – Fortunatamente che non erano di cattivo umore, quei signori dalla bianca pelliccia. E quello che abbiamo ucciso, dove è andato a finire?
   – La corrente l’ha portato chi sa mai dove, Koninson.
   – Che disgrazia che tanta carne sia andata perduta!
   – Bah! Ne troveremo dell’altra.
   – Ma le munizioni scarseggiano, signor Hostrup. Non ho più di quaranta colpi.
   – Ti basteranno per giungere al forte. Orsù, imbarchiamoci e proseguiamo il viaggio.
   Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d’isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce.
   Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli.
   A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo «fiord» che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d’orsacchiotto, poi ripartirono.
   Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi.
   – Approdiamo – disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. – Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte.
   – Non faremo cattivi incontri, spero.
   – No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno.
   Presero terra all’estremità dell’isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena.
   Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto.
   Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza.
   Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all’infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l’isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra.
   Si alzò rapidamente e s’avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte.
   – Che animale è mai questo? – si chiese egli. – Un orso no di certo.
   Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano.
   – Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d’Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi.
   – Signor Hostrup! – disse in quell’istante il fiociniere che si era svegliato. – C’è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese?
   – È ciò che io sto chiedendomi – rispose il tenente.
   – Sono persone o animali?
   – Persone senza dubbio.
   – Forse siamo giunti al forte senza accorgercene?
   – Io credo che sia ancora molto lontano.
   – Provate a chiamare.
   – Olà, chi ride? – gridò il tenente.
   Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone.
   – Senza dubbio ci sono degli Indiani – disse il fiociniere raggiungendo il tenente. – Ci saranno amici o nemici?
   – In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento.
   – Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione?
   – Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l’inglese o almeno il russo.
   – Proviamoci.
   – Olà, chi siete e da dove venite? – chiese egli in inglese.
   – Co-yuconi, – rispose una voce forte e distinta.
   – Corpo d’un vascello sventrato! – esclamò Koninson, facendo un salto. – Io conosco questa voce!
   – È quella…
   – Del capo Tanana che ci ha derubati.
   – Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.


   XXVIII. FRA I TANANA E I LUPI

   La nebbia a poco a poco si alzava.
   Il sole, che appena sceso sotto l’orizzonte subito riappariva, cominciava già a lanciare fasci di luce attraverso le masse di vapore, facendo scintillare vivamente i ghiacci che il fiume trascinava nel suo corso. Ancora pochi minuti e la riva sulla quale dovevano trovarsi i Co-yuconi sarebbe stata interamente visibile.
   Le voci si continuavano a udire. Pareva che gli indiani si divertissero, poichè gli scrosci di risa non cessavano, anzi diventavano più sonori e più allegri. Però, nel momento in cui un gran fascio di luce, attraversando uno strappo manifestatesi nel nebbione, scendeva sull’isolotto, le voci improvvisamente cessarono, poi si riudirono a qualche distanza per quindi spegnersi completamente.
   – Se ne sono andati – disse Koninson, facendo un gesto di dispetto.
   – Ma forse il loro accampamento non è lontano – rispose il tenente.
   – E contate di recarvi colà?
   – Senza dubbio, fiociniere, poichè ci saranno di non poca utilità. Ecco che il nebbione si alza rapidamente; possiamo imbarcarci, ora che i ghiacci sono visibili.
   – Sono pronto a seguirvi, signor Hostrup.
   Rimisero in acqua i canotti, s’imbarcarono e in pochi minuti si trovarono sulla sponda opposta riparati dentro un piccolo seno formato da due alte rocce.
   – Vedi nessuno? – disse il tenente, armando per precauzione il fucile.
   – Nessuno, nè odo alcuna voce – rispose il fiociniere,
   – Allora possiamo sbarcare.
   – Una parola prima, signor Hostrup. Se gli indiani ci fanno un’accoglienza ostile, bisognerà venire alle mani e non so come la finirà. Noi siamo due, e loro sono in molti, forse.
   – Hanno troppo paura dei bianchi per alzare le mani contro di noi. Eppoi il forte Speranza è vicino e non ardiranno farci qualche brutto tiro.
   – Ma perchè volete avvicinarli?
   – Non l’hai ancora compreso? È per farci condurre al forte dietro qualche compenso.
   – Vi prevengo che la mia borsa è rimasta sul «Danebrog».
   – Abbiamo i nostri fucili, armi molto preziose in questa regione.
   – Allora andiamo, signor Hostrup.
   In fondo al piccolo seno, fra due rupi, s’apriva a uno stretto sentieruzzo per il quale senza dubbio gli indiani erano discesi. I due balenieri, abbandonati i canotti dopo di averli ben assicurati ad uno scoglio, s’arrampicarono su per quello scabroso passaggio e raggiunsero la cima di una rupe dalla quale si poteva dominare un vasto tratto di paese.
   Dinanzi a loro si estendeva una vastissima pianura, chiusa verso sud, ma a molte leghe di distanza, da una grande catena di montagne che probabilmente si staccava dalla grande catena delle Montagne Rocciose che forma l’ossatura principale dell’America del Nord. Qua e là, specialmente lungo il corso del fiume, apparivano boschi di pini, di abeti, di betulle e di altissimi pioppi.
   Il luogotenente, che guardava attentamente verso est, non tardò a scorgere un gruppo di tende che si appoggiava ad un bosco e dalle cui cime coniche uscivano delle nuvolette di fumo
   – Ecco l’accampamento – disse il fiociniere.
   – Ma mi sembra molto grande, signor Hostrup. Quali indiani saranno?
   – Forse dei Denè o dei Loschi, oppure dei Chippewyans.
   – E il forte, lo vedete in nessun luogo?
   – È molto lontano, fiociniere, forse qualche centinaio e anche più di chilometri. Forza alle gambe e avanti.
   Si gettarono in spalla i fucili e partirono di buon passo, fiancheggiando un bosco che seguiva il corso del fiume ed entro il quale si udivano numerosi ululati di lupi. La neve che ancora copriva la pianura, essendosi gelata durante la notte, rendeva la marcia facile. In meno di un’ora giunsero a poche centinaia di passi dall’accampamento composto di una quindicina di tende.
   L’abbaiare di numerosissimi cani, che avevano fiutato le vicinanza di stranieri, fecero uscire dieci o dodici uomini, i quali avanzarono senza diffidenza verso i due naufraghi.
   Erano tutti di statura piuttosto inferiore alla media, dalla pelle olivastra e lucente, forse perchè unta di recente con grasso, cogli occhi un pò obliqui e i capelli neri, grossi e lunghi. Portavano vesti di pelle di foca e di orso, munite di cappucci orlati di pelle di volpe, ed avevano lunghi stivali cuciti con nervi di animali. Le loro armi consistevano in certe fiocine di denti di narvalo munite d’una punta di rame, e in archi.
   – Sono eschimesi – disse il tenente che li aveva subito riconosciuti.
   – Possiamo fidarci? – chiese Koninson.
   – Godono fama di essere molto ospitali, ma assai vendicativi. Credo che non avremo da temere.
   Un eschimese, che doveva essere certamente un capo, a giudicarlo dalle vesti che erano più ricche di quelle degli altri, s’avvicinò ai naufraghi e, dopo averli salutati in inglese, strofinò energicamente il proprio naso contro il loro in segno di amicizia.
   – I bianchi nulla hanno da temere dalle tribù degli Innoit! – disse poscia. – Siano i benvenuti nella mia tenda.
   – Siamo pronti a seguirti, – rispose il tenente – e non avrai a pentirti di averci ospitati.
   – I bianchi si recano al forte Speranza?
   – Sì, ma noi non conosciamo la via venendo dalle lontane regioni dell’ovest.
   – Kumiath la insegnerà! – rispose il capo. – Seguitemi nella mia tenda.
   Il capo li condusse nell’accampamento dove vennero circondati da una trentina di eschimesi fra uomini e donne accorsi da tutte le parti ai furiosi abbaiamenti dei cani. Il tenente e il fiociniere notarono che fra i curiosi si trovavano anche alcuni individui che per la loro statura più elevata, per le loro vesti e per i loro lineamenti parevano appartenere ad un’altra razza. Non vi fecero però molto caso e seguirono il capo il quale, dopo averli fatti passare attraverso un vero labirinto di bastoni sostenenti gran numero di pezzi di carne messi a seccare, li condusse in una piccola tenda dove, in mezzo a mucchi di pelli, marcivano, fra odori pestilenziali, ma che sembravano invece apprezzati dagli eschimesi che si cibano volentieri di carni corrotte, salmoni, lucci, trote, gadus, coreganus ed altri pesci del Makenzie.
   Benchè non si trovassero troppo bene fra quei miasmi, si accomodarono su una gran pelle d’orso distesa per terra e fecero come meglio poterono onore al cavallo marino conservato in olio di balena e ad una grossa trota, un pò troppo passata, offerta loro dal capo. Per tema di fare un affronto all’eschimese, furono anche costretti a sorbire una certa quantità di olio di morsa che fu loro gentilmente offerto, con quante smorfie ognuno lo può immaginare.
   Terminato quel diabolico pasto, sontuoso per un eschimese gran bevitore d’olio e mangiatore di carne cruda, corrotta o malamente affumicata sulla fiamma di una lampada, ma quanto mai disgustoso per un europeo, il capo intavolò una conversazione narrando che da soli pochi giorni aveva lasciato il forte Speranza, dove aveva fatto moltissimi scambi di pelli contro tabacco, conterie, armi, ecc., e che ora stava per raggiungere le sponde dell’oceano a cacciarvi la balena.
   – Dista molto il forte? – chiese il tenente, quando il capo ebbe finito.
   – Tre giorni di marcia e niente di più! – rispose l’eschimese. – Basta seguire questo bosco che si stende lungo le rive del Makenzie per non smarrire la via.
   – Ci sono altre tribù che si dirigono al forte?
   – Sì, una che è venuta dalle lontane regioni dell’ovest, come voi e che si è accampata nel bosco.
   – Appartiene alla vostra razza?
   – No.
   – È molto numerosa?
   – Lo è diventata in questi giorni. Conta almeno quattrocento uomini.
   – Il suo nome?
   – Il suo nome è… Tò, ecco alcuni dei suoi uomini, senza dubbio qui giunti per vedere gli uomini bianchi e che…
   Non aveva ancora finito che il fiociniere, alzatesi di colpo, si precipitava fuori urtando furiosamente contro un grosso attruppamento di persone radunatesi dinanzi alla tenda. Il suo robusto pugno piombò con secco rumore su di un uomo il quale stramazzò a terra mandando un urlo di dolore.
   Gli eschimesi si divisero precipitosamente, lasciando alle prese i due avversari che lottavano con pari accanimento.
   Il tenente, che non sapeva ancora di che si trattasse, accorse in aiuto di Koninson, il quale ad ogni pugno che lasciava cadere gridava:
   – Questo per la polvere! Questo per le palle! E questo per la carne che ci hai rubato!
   Solo allora si accorse che l’avversario era un indiano, anzi il capo Tanana che li aveva indegnamente traditi e derubati sulle rive del Porcupine.
   Stava per piombare anche lui sul traditore, quando questi sgusciando con una agilità sorprendente fra le mani del fiociniere, riuscì a rimettersi in piedi.
   – Ti ucciderò! – gridò minaccioso.
   Poi fuggì a rompicollo verso la foresta dove si trovava il suo accampamento. Il tenente, che aveva perduta la sua flemma abituale, stava già per armare il fucile e inviargli una palla nel dorso, ma il capo eschimese gli abbassò l’arma dicendogli:
   – Sii prudente! Essi sono molti e molto vendicativi.
   – Ma quell’uomo ci ha derubati, dopo aver chiesto il nostro aiuto per rifornirsi di viveri – disse il tenente.
   – Meriterebbe la morte, ma tu qui sei straniero e non hai che un compagno, mentre i Tanana sono numerosi. Vieni nella mia tenda e cercheremo di accomodare ogni cosa.
   – È troppo tardi! – disse il fiociniere. – Si tratta ora di far parlare i fucili.
   E non s’ingannava. Dalla foresta uscivano allora due o trecento guerrieri, mandando grida assordanti. I più erano armati di fiocine e di coltelli, ma taluni portavano dei fucili, assai vecchi, ma non del tutto in cattivo stato.
   – Che uragano sta per scoppiare? – si chiese Koninson che si preparava però a vendere cara la vita. – Non so come la finirà, se quei pagani si gettano tutti uniti contro di noi.
   – Fuggite! – disse l’eschimese che aggrottava la fronte e che era diventato pensieroso. – I Tanana sono valorosi e non si arresteranno dinanzi ai vostri fucili.
   – Ma dove fuggire? – chiese il tenente. – I nostri canotti sono lontani e saremo raggiunti prima di trovarli.
   – Dietro la mia tenda ho una slitta tirata da una muta di robusti cani. Montatela e fuggite verso il forte.
   – Ma si vendicheranno contro di te, mio buon eschimese.
   – I Tanana non ardiranno alzare le mani contro di me – rispose con fierezza l’eschimese. – Questa è la terra degli Eschimantik (mangiatori di pesce crudo), come loro ci chiamano, e sanno che una offesa fatta alla mia tribù la pagherebbero cara, poichè i miei compatrioti non la lascerebbero impunita. Presto fuggite, o sarà troppo tardi.
   Il tenente si levò l’orologio e lo diede al bravo eschimese dicendogli:
   – Conservalo in memoria della tua buona azione. Ed ora alziamo i tacchi.
   Si slanciò dietro la tenda seguito da Koninson, ma si arrestò subito mandando una sonora imprecazione. Sette od otto Tanana, che si erano avvicinati tenendosi nascosti dietro le tende degli eschimesi, sbarravano la via. Alla loro testa, armato d’un vecchio fucile, si trovava il capo, il cui naso schiacciato dal potente pugno del fiociniere, mandava ancora sangue.
   – Ah, brigante! – gridò il tenente.
   – Non si passa di qui – disse il capo con tono minaccioso.
   – E cosa pretenderesti tu?
   – Che tu mi consegni il tuo compagno perchè io vendichi l’affronto fattomi.
   – Bene, prendi questo, giacchè lo vuoi.
   Il tenente puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il Tanana, colpito alla fronte, stramazzò al suolo fulminato, mentre i suoi guerrieri fuggivano disordinatamente gettando urla di rabbia e di vendetta.
   – Presto, Koninson, salviamoci! – disse il tenente.
   – Andiamo, signore, e filiamo dritti al forte.
   La slitta era pronta. Dodici robusti cani, somiglianti ai lupi, dalle gambe nervose, erano attaccati due a due, pronti a partire al primo segnale.
   I due naufraghi balzarono nel veicolo e si slanciarono attraverso la pianura trascinati in una rapidissima corsa.
   Dalla parte dell’accampamento scoppiarono alcune fucilate, le cui palle attraversarono gli strati d’aria sibilando; poi si videro i Tanana dirigersi correndo verso il bosco mandando clamori assordanti.
   – Tò! Fuggono forse? – chiese Koninson al tenente che animava i cani colla voce e colla correggia.
   – Ne dubito, fiociniere.
   – Che ci diano la caccia?
   – Lo temo, ma i nostri cani corrono come il vento e abbiamo già un notevole vantaggio.
   – Terranno duro questi corridori?
   – Per parecchie ore e senza rallentare. Basta che la neve non ceda sotto il peso della slitta.
   – Vedo che la pianura è tutta bianca. Ma oh! La matassa s’imbroglia!
   – Che cosa vedi?
   – Delle slitte che escono dal bosco.
   – Sono i Tanana che ci danno la caccia. Quante sono?
   – Ne ho contate sette e, se non corrono più di noi, certo non rimangono indietro.
   II tenente volse un rapido sguardo verso il bosco e vide infatti sette slitte correre con fantastica rapidità sulla nevosa pianura, trascinate da lunghe file di cani. Quattordici uomini le montavano e i più erano armati di fucili.
   – Diamine! Sono proprio decisi a vendicare il loro capo, – disse. – Bah! Avranno pane per i loro denti, se riescono a raggiungerci. Tu sorveglia i loro movimenti, mentre io cerco di far correre i nostri cani.
   – E gli eschimesi? Mi spiacerebbe che quei buoni diavoli la pagassero per noi.
   – Il capo mi sembrò quieto; è segno che non avrà nulla da temere. S’avvicinano?
   – Vorrei ingannarmi, signor Hostrup, ma mi pare che guadagnino su di noi.
   – Avanti, miei piccini! – gridò il tenente, sferzando i piccoli trottatori. – Se vi comportate bene, avrete doppia razione di carne stasera.
   – Non ne abbiamo un pezzettino grande come un soldo.
   – Ne troveremo al forte. Se continuiamo a correre così, vi giungeremo in poche ore. Guadagnano i Tanana?
   – Sì, signor Hostrup. Non sono che a un chilometro da noi.
   – Quante cariche ci restano?
   – Una cinquantina.
   – Ci bastano per abbatterli tutti quattordici! – disse il tenente con voce tranquilla. – Avanti, miei piccini, lesto il passo e tu, bianco, fatti più sotto. Là, così va bene.
   Un colpo di fucile echeggiò al largo, ma la palla non giunse fino ai fuggiaschi.
   – Troppo lontano, mio caro! – disse Koninson ridendo. – Quando sarete a tiro lo darò io il segnale e vi garantisco, brutti pagani, che lo assaggierete, il mio piombo.
   Altri due colpi di fucile rimbombarono, ma non con miglior effetto. I Tanana compresero che non era ancor giunto il momento di far parlare la polvere e raddoppiarono le grida e le scudisciate per far correre di più i loro cani, i quali parevano più robusti e più veloci di quelli regalati dall’eschimese.
   Ben presto non furono che a seicento metri di distanza.
   Koninson, che non li perdeva di vista un sol momento, stava per puntare il fucile quando vide le sette slitte fare un rapido voltafaccia e fuggire precipitosamente verso l’accampamento, di cui si scorgevano appena appena le tende.
   – Tò! – esclamò il fiociniere al colmo della sorpresa. – Battono in ritirata!
   – Come? I Tanana fuggono?
   – Sì signor Hostrup. Che abbiano avuto paura dei nostri fucili?
   – Io non lo credo.
   – E allora? Che siamo vicini al forte?
   – Dinanzi a noi non vedo che un bosco e anche molto lontano.
   – Che ci minacci qualche pericolo?
   – Lo temo, Koninson, anzi ne sono certo.
   – E da che io arguite?
   – I nostri cani da qualche minuto corrono più rapidi e mi sembrano inquieti.
   Infatti il tenente non si ingannava. Le povere bestie non parevano più tranquille e divoravano la via con crescente rapidità, senz’essere eccitate. Avevano cessato i loro allegri abbaiamenti, il loro pelo era diventato irto e volgevano frequentemente la testa verso i padroni, come se invocassero la loro protezione.
   – Hum! – mormorò Koninson. – C’è qualche cosa di grave in aria.
   – O meglio in terra. Guarda laggiù, guarda!
   Koninson guardò nella direzione indicata e vide una linea oscura estendersi dinanzi ad un bosco e poi slanciarsi attraverso la pianura con fantastica rapidità. Quantunque dotato di una buona dose di coraggio, impallidì.
   – I lupi! – esclamò.
   – Che giungono a centinaia – aggiunse il tenente.
   – Ecco perchè i Tanana sono fuggiti. Sfuggire al palo di tortura degli Indiani per cadere sotto i denti dei lupi, mi sembra che sia un pò dura. Vi confesso, signor Hostrup, che comincio ad aver paura.
   – Calma e sangue freddo, fiociniere. Se possiamo giungere a quel bosco che chiude l’orizzonte, siamo salvi.
   – Contate di trovare colà dei difensori?
   – No, ma troveremo degli alberi sui quali potremo trovare un comodo rifugio. Prepara le armi e lascia a me la cura di guidare i cani.
   I lupi arrivavano di gran corsa mandando delle urla brevi, come strozzate e mostrando le loro potenti mascelle armate di acuti e bianchissimi denti. Erano almeno duecento e parevano molto affamati e perciò decisi a tutto.
   Giunti presso la slitta, che continuava a filare colla velocità di una freccia, formarono un ampio semicerchio. Non assalivano ancora, forse tenuti in rispetto dalla presenza dei due uomini, ma le loro urla parevano volessero dire: Vi mangeremo! Vi mangeremo!
   – Devo aprire il fuoco? – chiese Koninson con un leggero tremito.
   – No, finchè si accontentano di seguirci – rispose il tenente che era tutto intento a far correre i cani, nella cui rapidità stava la salvezza di tutti. – Aspetta che ci assalgano.
   Per un paio di miglia i lupi, quantunque la fame attanagliasse il loro stomaco, continuarono a seguire e a fiancheggiare la slitta, ma poi il loro semicerchio si restrinse e uno di loro, più ardito o più affamato degli altri, si precipitò addosso ai cani che si gettarono violentemente da una parte. Pronto come il lampo Koninson fece fuoco e l’aggressore cadde stecchito nella neve. Alcuni carnivori, spaventati dalla detonazione, si sbandarono, ma gli altri raggiunsero la slitta.
   Pochi minuti dopo un altro lupo tentò l’assalto, ma ebbe egual sorte del primo. La slitta si trovava allora a due soli chilometri dal bosco e filava con una velocità vertiginosa. Tre o quattro altri l’assalirono per di dietro tentando di balzarvi dentro.
   – Aiuto, signor Hostrup! – gridò Koninson. – Io non basto più.
   Il tenente abbandonò la correggia affidandosi all’istinto dei cani e afferrò il fucile. Era tempo, poichè i feroci carnivori avanzavano sempre più, pronti ad un assalto generale.
   Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così, mentre i cani li trascinavano verso il bosco.
   I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli nomini i quali si difendevano disperatamente.
   Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione.
   – Non ho più polvere!
   – Maledizione! – urlò il tenente. – E questo è il mio ultimo colpo!
   I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era ormai sicura, si precipitarono confusamente all’assalto della slitta, circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo l’orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi, scavezzando gambe, schiacciando musi.
   Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che era lontano soli trecento passi.
   Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente, balzarono in mezzo all’orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati.
   – Signore, – disse un di loro volgendosi verso il tenente che non si reggeva più – non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del forte Speranza.


   CONCLUSIONE

   Le tribolazioni dei naufraghi del «Danebrog» erano terminate.
   Ormai erano salvi e più nulla avevano da temere.
   Nel forte Speranza che era lontano pochi chilometri dal luogo ove era avvenuto l’inseguimento, i due naufraghi ebbero la più cordiale ospitalità e le più affettuose cure da parte di quei bravi cacciatori e del loro comandante.
   La loro meravigliosa odissea destò gran meraviglia, e più e più volte, dinanzi ad un bel fuoco e fra un bicchiere di «gin» o di «wiscky», dovettero ripeterla.
   Per tre settimane, largamente nutriti, vissero colà; poi, giunta la buona stagione, ben equipaggiati e ben forniti di denaro, partirono per gli stabilimenti dall’est in compagnia di una esperta guida. Di tappa in tappa raggiunsero il Canada, e a Quebec s’imbarcarono per New York e quindi per l’Europa.
   Ventisette giorni dopo sbarcavano finalmente in Aalborg, loro città natìa, dove riabbracciarono i loro parenti e amici che li avevano già pianti come morti.
   Ma la vita tranquilla e la terraferma non avevano attrattive per quei due lupi di mare. Ben presto la nostalgia dell’oceano li invase e, all’apertura della nuova campagna di pesca, s’imbarcarono a bordo di un’altra nave baleniera alla caccia dei giganti del mare.
   Nonostante le terribili prove subite essi conservano ancora una strana affezione per quei mari gelidi del polo artico, sotto i cui ghiacci, nel seno delle onde, dormono il sonno eterno il capitano Weimar e i suoi sventurati compagni!