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|  Giacomo Leopardi
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|  Canti
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   Giacomo Leopardi
   Canti


   I. ALL’ITALIA


     O patria mia, vedo le mura e gli archi
     E le colonne e i simulacri e l’erme
     Torri degli avi nostri,
     Ma la gloria non vedo,
     Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
     I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
     Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
     Oimè quante ferite,
     Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
     Formosissima donna! Io chiedo al cielo
     E al mondo: dite dite;
     Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
     Che di catene ha carche ambe le braccia;
     Sì che sparte le chiome e senza velo
     Siede in terra negletta e sconsolata,
     Nascondendo la faccia
     Tra le ginocchia, e piange.
     Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
     Le genti a vincer nata
     E nella fausta sorte e nella ria.
     Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
     Mai non potrebbe il pianto
     Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
     Che fosti donna, or sei povera ancella.
     Chi di te parla o scrive,
     Che, rimembrando il tuo passato vanto,
     Non dica: già fu grande, or non è quella?
     Perché, perché? dov’è la forza antica,
     Dove l’armi e il valore e la costanza?
     Chi ti discinse il brando?
     Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
     O qual tanta possanza
     Valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
     Come cadesti o quando
     Da tanta altezza in così basso loco?
     Nessun pugna per te? non ti difende
     Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
     Combatterò, procomberò sol io.
     Dammi, o ciel, che sia foco
     Agl’italici petti il sangue mio.
     Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi
     E di carri e di voci e di timballi:
     In estranie contrade
     Pugnano i tuoi figliuoli.
     Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
     Un fluttuar di fanti e di cavalli,
     E fumo e polve, e luccicar di spade
     Come tra nebbia lampi.
     Né ti conforti? e i tremebondi lumi
     Piegar non soffri al dubitoso evento?
     A che pugna in quei campi
     L’itala gioventude? O numi, o numi:
     Pugnan per altra terra itali acciari.
     Oh misero colui che in guerra è spento,
     Non per li patrii lidi e per la pia
     Consorte e i figli cari,
     Ma da nemici altrui
     Per altra gente, e non può dir morendo:
     Alma terra natia,
     La vita che mi desti ecco ti rendo.
     Oh venturose e care e benedette
     L’antiche età, che a morte
     Per la patria correan le genti a squadre;
     E voi sempre onorate e gloriose,
     O tessaliche strette,
     Dove la Persia e il fato assai men forte
     Fu di poch’alme franche e generose!
     Io credo che le piante e i sassi e l’onda
     E le montagne vostre al passeggere
     Con indistinta voce
     Narrin siccome tutta quella sponda
     Coprìr le invitte schiere
     De’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
     Allor, vile e feroce,
     Serse per l’Ellesponto si fuggia,
     Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
     E sul colle d’Antela, ove morendo
     Si sottrasse da morte il santo stuolo,
     Simonide salia,
     Guardando l’etra e la marina e il suolo.
     E di lacrime sparso ambe le guance,
     E il petto ansante, e vacillante il piede,
     Toglieasi in man la lira:
     Beatissimi voi,
     Ch’offriste il petto alle nemiche lance
     Per amor di costei ch’al Sol vi diede;
     Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
     Nell’armi e ne’ perigli
     Qual tanto amor le giovanette menti,
     Qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
     Come sì lieta, o figli,
     L’ora estrema vi parve, onde ridenti
     Correste al passo lacrimoso e duro?
     Parea ch’a danza e non a morte andasse
     Ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
     Ma v’attendea lo scuro
     Tartaro, e l’onda morta;
     Né le spose vi foro o i figli accanto
     Quando su l’aspro lito
     Senza baci moriste e senza pianto.
     Ma non senza de’ Persi orrida pena
     Ed immortale angoscia.
     Come lion di tori entro una mandra
     Or salta a quello in tergo e sì gli scava
     Con le zanne la schiena,
     Or questo fianco addenta or quella coscia
     Tal fra le Perse torme infuriava
     L’ira de’ greci petti e la virtute.
     Ve’ cavalli supini e cavalieri;
     Vedi intralciare ai vinti
     La fuga i carri e le tende cadute
     E correr fra’ primieri
     Pallido e scapigliato esso tiranno;
     Ve’ come infusi e tinti
     Del barbarico sangue i greci eroi,
     Cagione ai Persi d’infinito affanno,
     A poco a poco vinti dalle piaghe,
     L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva:
     Beatissimi voi
     Mentre nel mondo si favelli o scriva.
     Prima divelte, in mar precipitando,
     Spente nell’imo strideran le stelle,
     Che la memoria e il vostro
     Amor trascorra o scemi.
     La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
     Verran le madri ai parvoli le belle
     Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
     O benedetti, al suolo,
     E bacio questi sassi e queste zolle,
     Che fien lodate e chiare eternamente
     Dall’uno all’altro polo.
     Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle
     Fosse del sangue mio quest’alma terra.
     Che se il fato è diverso, e non consente
     Ch’io per la Grecia i moribondi lumi
     Chiuda prostrato in guerra,
     Così la vereconda
     Fama del vostro vate appo i futuri
     Possa, volendo i numi,
     Tanto durar quanto la vostra duri.



   II. SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE


     Perché le nostre genti
     Pace sotto le bianche ali raccolga,
     Non fien da’ lacci sciolte
     Dell’antico sopor l’itale menti
     S’ai patrii esempi della prisca etade
     Questa terra fatal non si rivolga.
     O Italia, a cor ti stia
     Far ai passati onor; che d’altrettali
     Oggi vedove son le tue contrade,
     Né v’è chi d’onorar ti si convegna.
     Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
     Quella schiera infinita d’immortali,
     E piangi e di te stessa ti disdegna;
     Che senza sdegno omai la doglia è stolta:
     Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,
     E ti punga una volta
     Pensier degli avi nostri e de’ nepoti.
     D’aria e d’ingegno e di parlar diverso
     Per lo toscano suol cercando gia
     L’ospite desioso
     Dove giaccia colui per lo cui verso
     Il meonio cantor non è più solo.
     Ed, oh vergogna! udia
     Che non che il cener freddo e l’ossa nude
     Giaccian esuli ancora
     Dopo il funereo dì sott’altro suolo,
     Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso,
     Firenze, a quello per la cui virtude
     Tutto il mondo t’onora.
     Oh voi pietosi, onde sì tristo e basso
     Obbrobrio laverà nostro paese!
     Bell’opra hai tolta e di ch’amor ti rende,
     Schiera prode e cortese,
     Qualunque petto amor d’Italia accende.
     Amor d’Italia, o cari,
     Amor di questa misera vi sproni,
     Ver cui pietade è morta
     In ogni petto omai, perciò che amari
     Giorni dopo il seren dato n’ha il cielo.
     Spirti v’aggiunga e vostra opra coroni
     Misericordia, o figli,
     E duolo e sdegno di cotanto affanno
     Onde bagna costei le guance e il velo.
     Ma voi di quale ornar parola o canto
     Si debbe, a cui non pur cure o consigli,
     Ma dell’ingegno e della man daranno
     I sensi e le virtudi eterno vanto
     Oprate e mostre nella dolce impresa?
     Quali a voi note invio, sì che nel core,
     Sì che nell’alma accesa
     Nova favilla indurre abbian valore?
     Voi spirerà l’altissimo subbietto,
     Ed acri punte premeravvi al seno.
     Chi dirà l’onda e il turbo
     Del furor vostro e dell’immenso affetto?
     Chi pingerà l’attonito sembiante?
     Chi degli occhi il baleno?
     Qual può voce mortal celeste cosa
     Agguagliar figurando?
     Lunge sia, lunge alma profana. Oh quante
     Lacrime al nobil sasso Italia serba!
     Come cadrà? come dal tempo rosa
     Fia vostra gloria o quando?
     Voi, di ch’il nostro mal si disacerba,
     Sempre vivete, o care arti divine,
     Conforto a nostra sventurata gente,
     Fra l’itale ruine
     Gl’itali pregi a celebrare intente.
     Ecco voglioso anch’io
     Ad onorar nostra dolente madre
     Porto quel che mi lice,
     E mesco all’opra vostra il canto mio,
     Sedendo u’ vostro ferro i marmi avviva.
     O dell’etrusco metro inclito padre,
     Se di cosa terrena,
     Se di costei che tanto alto locasti
     Qualche novella ai vostri lidi arriva,
     io so ben che per te gioia non senti,
     Che saldi men che cera e men ch’arena,
     Verso la fama che di te lasciasti,
     Son bronzi e marmi; e dalle nostre menti
     Se mai cadesti ancor, s’unqua cadrai,
     Cresca, se crescer può, nostra sciaura,
     E in sempiterni guai
     Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.
     Ma non per te; per questa ti rallegri
     Povera patria tua, s’unqua l’esempio
     Degli avi e de’ parenti
     Ponga ne’ figli sonnacchiosi ed egri
     Tanto valor che un tratto alzino il viso.
     Ahi, da che lungo scempio
     Vedi afflitta costei, che sì meschina
     Te salutava allora
     Che di novo salisti al paradiso!
     Oggi ridotta sì che a quel che vedi,
     Fu fortunata allor donna e reina.
     Tal miseria l’accora
     Qual tu forse mirando a te non credi.
     Taccio gli altri nemici e l’altre doglie;
     Ma non la più recente e la più fera,
     Per cui presso alle soglie
     Vide la patria tua l’ultima sera.
     Beato te che il fato
     A viver non dannò fra tanto orrore;
     Che non vedesti in braccio
     L’itala moglie a barbaro soldato;
     Non predar, non guastar cittadi e colti
     L’asta inimica e il peregrin furore;
     Non degl’itali ingegni
     Tratte l’opre divine a miseranda
     Schiavitude oltre l’alpe, e non de’ folti
     Carri impedita la dolente via;
     Non gli aspri cenni ed i superbi regni;
     Non udisti gli oltraggi e la nefanda
     Voce di libertà che ne schernia
     Tra il suon delle catene e de’ flagelli.
     Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto
     Che lasciaron quei felli?
     Qual tempio, quale altare o qual misfatto?
     Perché venimmo a sì perversi tempi?
     Perché il nascer ne desti o perché prima
     Non ne desti il morire,
     Acerbo fato? onde a stranieri ed empi
     Nostra patria vedendo ancella e schiava,
     E da mordace lima
     Roder la sua virtù, di null’aita
     E di nullo conforto
     Lo spietato dolor che la stracciava
     Ammollir ne fu dato in parte alcuna.
     Ahi non il sangue nostro e non la vita
     Avesti, o cara; e morto
     Io non son per la tua cruda fortuna.
     Qui l’ira al cor, qui la pietade abbonda:
     Pugnò, cadde gran parte anche di noi:
     Ma per la moribonda
     Italia no; per li tiranni suoi.
     Padre, se non ti sdegni,
     Mutato sei da quel che fosti in terra.
     Morian per le rutene
     Squallide piagge, ahi d’altra morte degni,
     Gl’itali prodi; e lor fea l’aere e il cielo
     E gli uomini e le belve immensa guerra.
     Cadeano a squadre a squadre
     Semivestiti, maceri e cruenti,
     Ed era letto agli egri corpi il gelo.
     Allor, quando traean l’ultime pene,
     Membrando questa desiata madre,
     Diceano: oh non le nubi e non i venti,
     Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,
     O patria nostra. Ecco da te rimoti,
     Quando più bella a noi l’età sorride,
     A tutto il mondo ignoti,
     Moriam per quella gente che t’uccide.
     Di lor querela il boreal deserto
     E conscie fur le sibilanti selve.
     Così vennero al passo,
     E i negletti cadaveri all’aperto
     Su per quello di neve orrido mare
     Dilaceràr le belve
     E sarà il nome degli egregi e forti
     Pari mai sempre ed uno
     Con quel de’ tardi e vili. Anime care,
     Bench’infinita sia vostra sciagura,
     Datevi pace; e questo vi conforti
     Che conforto nessuno
     Avrete in questa o nell’età futura.
     In seno al vostro smisurato affanno
     Posate, o di costei veraci figli,
     Al cui supremo danno
     Il vostro solo è tal che s’assomigli.
     Di voi già non si lagna
     La patria vostra, ma di chi vi spinse
     A pugnar contra lei,
     Sì ch’ella sempre amaramente piagna
     E il suo col vostro lacrimar confonda.
     Oh di costei ch’ogni altra gloria vinse
     Pietà nascesse in core
     A tal de’ suoi ch’affaticata e lenta
     Di sì buia vorago e sì profonda
     La ritraesse! O glorioso spirto,
     Dimmi: d’Italia tua morto è l’amore?
     Di’: quella fiamma che t’accese, è spenta?
     Di’: né più mai rinverdirà quel mirto
     Ch’alleggiò per gran tempo il nostro male?
     Nostre corone al suol fien tutte sparte?
     Né sorgerà mai tale
     Che ti rassembri in qualsivoglia parte?
     In eterno perimmo? e il nostro scorno
     Non ha verun confine?
     Io mentre viva andrò sclamando intorno,
     Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;
     Mira queste ruine
     E le carte e le tele e i marmi e i templi;
     Pensa qual terra premi; e se destarti
     Non può la luce di cotanti esempli,
     Che stai? levati e parti.
     Non si conviene a sì corrotta usanza
     Questa d’animi eccelsi altrice e scola:
     Se di codardi è stanza,
     Meglio l’è rimaner vedova e sola.



   III. AD ANGELO MAI QUAND’EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE “DELLA REPUBBLICA”


     Italo ardito, a che giammai non posi
     Di svegliar dalle tombe
     I nostri padri? ed a parlar gli meni
     A questo secol morto, al quale incombe
     Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
     Sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente,
     Voce antica de’ nostri,
     Muta sì lunga etade? e perché tanti
     Risorgimenti? In un balen feconde
     Venner le carte; alla stagion presente
     I polverosi chiostri
     Serbaro occulti i generosi e santi
     Detti degli avi. E che valor t’infonde,
     Italo egregio, il fato? O con l’umano
     Valor forse contrasta il fato invano?
     Certo senza de’ numi alto consiglio
     Non è ch’ove più lento
     E grave è il nostro disperato obblio,
     A percoter ne rieda ogni momento
     Novo grido de’ padri. Ancora è pio
     Dunque all’Italia il cielo; anco si cura
     Di noi qualche immortale:
     Ch’essendo questa o nessun’altra poi
     L’ora da ripor mano alla virtude
     Rugginosa dell’itala natura,
     Veggiam che tanto e tale
     È il clamor de’ sepolti, e che gli eroi
     Dimenticati il suol quasi dischiude,
     A ricercar s’a questa età sì tarda
     Anco ti giovi, o patria, esser codarda.
     Di noi serbate, o gloriosi, ancora
     Qualche speranza? in tutto
     Non siam periti? A voi forse il futuro
     Conoscer non si toglie. Io son distrutto
     Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
     M’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno
     È tal che sogno e fola
     Fa parer la speranza. Anime prodi,
     Ai tetti vostri inonorata, immonda
     Plebe successe; al vostro sangue è scherno
     E d’opra e di parola
     Ogni valor; di vostre eterne lodi
     Né rossor più né invidia; ozio circonda
     I monumenti vostri; e di viltade
     Siam fatti esempio alla futura etade.
     Bennato ingegno, or quando altrui non cale
     De’ nostri alti parenti,
     A te ne caglia, a te cui fato aspira
     Benigno sì che per tua man presenti
     Paion que’ giorni allor che dalla dira
     Obblivione antica ergean la chioma,
     Con gli studi sepolti,
     I vetusti divini, a cui natura
     Parlò senza svelarsi, onde i riposi
     Magnanimi allegràr d’Atene e Roma.
     Oh tempi, oh tempi avvolti
     In sonno eterno! Allora anco immatura
     La ruina d’Italia, anco sdegnosi
     Eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo
     Più faville rapia da questo suolo.
     Eran calde le tue ceneri sante,
     Non domito nemico
     Della fortuna, al cui sdegno e dolore
     Fu più l’averno che la terra amico.
     L’averno: e qual non è parte migliore
     Di questa nostra? E le tue dolci corde
     Susurravano ancora
     Dal tocco di tua destra, o sfortunato
     Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
     L’italo canto. E pur men grava e morde
     Il mal che n’addolora
     Del tedio che n’affoga. Oh te beato,
     A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
     Cinse il fastidio; a noi presso la culla
     Immoto siede, e su la tomba, il nulla.
     Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
     Ligure ardita prole,
     Quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti
     Cui strider l’onde all’attuffar del sole
     Parve udir su la sera, agl’infiniti
     Flutti commesso, ritrovasti il raggio
     Del Sol caduto, e il giorno
     Che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;
     E rotto di natura ogni contrasto,
     Ignota immensa terra al tuo viaggio
     Fu gloria, e del ritorno
     Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
     Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
     L’etra sonante e l’alma terra e il mare
     Al fanciullin, che non al saggio, appare.
     Nostri sogni leggiadri ove son giti
     Dell’ignoto ricetto
     D’ignoti abitatori, o del diurno
     Degli astri albergo, e del rimoto letto
     Della giovane Aurora, e del notturno
     Occulto sonno del maggior pianeta?
     Ecco svaniro a un punto,
     E figurato è il mondo in breve carta;
     Ecco tutto è simile, e discoprendo,
     Solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
     Il vero appena è giunto,
     O caro immaginar; da te s’apparta
     Nostra mente in eterno; allo stupendo
     Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
     E il conforto perì de’ nostri affanni.
     Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
     Sole splendeati in vista,
     Cantor vago dell’arme e degli amori,
     Che in età della nostra assai men trista
     Empièr la vita di felici errori:
     Nova speme d’Italia. O torri, o celle,
     O donne, o cavalieri,
     O giardini, o palagi! a voi pensando,
     In mille vane amenità si perde
     La mente mia. Di vanità, di belle
     Fole e strani pensieri
     Si componea l’umana vita: in bando
     Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde
     È spogliato alle cose? Il certo e solo
     Veder che tutto è vano altro che il duolo.
     O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa
     Tua mente allora, il pianto
     A te, non altro, preparava il cielo.
     Oh misero Torquato! il dolce canto
     Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
     Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda,
     Cinta l’odio e l’immondo
     Livor privato e de’ tiranni. Amore,
     Amor, di nostra vita ultimo inganno,
     T’abbandonava. Ombra reale e salda
     Ti parve il nulla, e il mondo
     Inabitata piaggia. Al tardo onore
     Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
     L’ora estrema ti fu. Morte domanda
     Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.
     Torna torna fra noi, sorgi dal muto
     E sconsolato avello,
     Se d’angoscia sei vago, o miserando
     Esemplo di sciagura. Assai da quello
     Che ti parve sì mesto e sì nefando,
     È peggiorato il viver nostro. O caro,
     Chi ti compiangeria,
     Se, fuor che di se stesso, altri non cura?
     Chi stolto non direbbe il tuo mortale
     Affanno anche oggidì se il grande e il raro
     Ha nome di follia;
     Né livor più, ma ben di lui più dura
     La noncuranza avviene ai sommi? o quale,
     Se più de’ carmi, il computar s’ascolta,
     Ti appresterebbe il lauro un’altra volta?
     Da te fino a quest’ora uom non è sorto,
     O sventurato ingegno,
     Pari all’italo nome, altro ch’un solo,
     Solo di sua codarda etate indegno
     Allobrogo feroce, a cui dal polo
     Maschia virtù, non già da questa mia
     Stanca ed arida terra,
     Venne nel petto; onde privato, inerme,
     (Memorando ardimento) in su la scena
     Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia
     Questa misera guerra
     E questo vano campo all’ire inferme
     Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena
     Scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto
     Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.
     Disdegnando e fremendo, immacolata
     Trasse la vita intera,
     E morte lo scampò dal veder peggio.
     Vittorio mio, questa per te non era
     Età né suolo. Altri anni ed altro seggio
     Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
     Paghi viviamo, e scorti
     Da mediocrità: sceso il sapiente
     E salita è la turba a un sol confine,
     Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
     Segui; risveglia i morti,
     Poi che dormono i vivi; arma le spente
     Lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine
     Questo secol di fango o vita agogni
     E sorga ad atti illustri, o si vergogni.



   IV. NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA


     Poi che del patrio nido
     I silenzi lasciando, e le beate
     Larve e l’antico error, celeste dono,
     Ch’abbella agli occhi tuoi quest’ermo lido,
     Te nella polve della vita e il suono
     Tragge il destin; l’obbrobriosa etate
     Che il duro cielo a noi prescrisse impara,
     Sorella mia, che in gravi
     E luttuosi tempi
     L’infelice famiglia all’infelice
     Italia accrescerai. Di forti esempi
     Al tuo sangue provvedi. Aure soavi
     L’empio fato interdice
     All’umana virtude,
     Né pura in gracil petto alma si chiude.
     O miseri o codardi
     Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso
     Tra fortuna e valor dissidio pose
     Il corrotto costume. Ahi troppo tardi,
     E nella sera dell’umane cose,
     Acquista oggi chi nasce il moto e il senso.
     Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda
     Questa sovr’ogni cura,
     Che di fortuna amici
     Non crescano i tuoi figli, e non di vile
     Timor gioco o di speme: onde felici
     Sarete detti nell’età futura:
     Poiché (nefando stile,
     Di schiatta ignava e finta)
     Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.
     Donne, da voi non poco
     La patria aspetta; e non in danno e scorno
     Dell’umana progenie al dolce raggio
     Delle pupille vostre il ferro e il foco
     Domar fu dato. A senno vostro il saggio
     E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno
     Col divo carro accerchia, a voi s’inchina.
     Ragion di nostra etate
     Io chieggo a voi. La santa
     Fiamma di gioventù dunque si spegne
     Per vostra mano? attenuata e franta
     Da voi nostra natura? e le assonnate
     Menti, e le voglie indegne,
     E di nervi e di polpe
     Scemo il valor natio, son vostre colpe?
     Ad atti egregi è sprone
     Amor, chi ben l’estima, e d’alto affetto
     Maestra è la beltà. D’amor digiuna
     Siede l’alma di quello a cui nel petto
     Non si rallegra il cor quando a tenzone
     Scendono i venti, e quando nembi aduna
     L’olimpo, e fiede le montagne il rombo
     Della procella. O spose,
     O verginette, a voi
     Chi de’ perigli è schivo, e quei che indegno
     È della patria e che sue brame e suoi
     Volgari affetti in basso loco pose,
     Odio mova e disdegno;
     Se nel femmineo core
     D’uomini ardea, non di fanciulle, amore.
     Madri d’imbelle prole
     V’incresca esser nomate. I danni e il pianto
     Della virtude a tollerar s’avvezzi
     La stirpe vostra, e quel che pregia e cole
     La vergognosa età, condanni e sprezzi;
     Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto
     Agli avi suoi deggia la terra impari.
     Qual de’ vetusti eroi
     Tra le memorie e il grido
     Crescean di Sparta i figli al greco nome;
     Finché la sposa giovanetta il fido
     Brando cingeva al caro lato, e poi
     Spandea le negre chiome
     Sul corpo esangue e nudo
     Quando e’ reddia nel conservato scudo.
     Virginia, a te la molle
     Gota molcea con le celesti dita
     Beltade onnipossente, e degli alteri
     Disdegni tuoi si sconsolava il folle
     Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri
     Nella stagion ch’ai dolci sogni invita,
     Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe
     Il bianchissimo petto,
     E all’Erebo scendesti
     Volonterosa. A me disfiori e scioglia
     Vecchiezza i membri, o padre; a me s’appresti,
     Dicea, la tomba, anzi che l’empio letto
     Del tiranno m’accoglia.
     E se pur vita e lena
     Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.
     O generosa, ancora
     Che più bello a’ tuoi dì splendesse il sole
     Ch’oggi non fa, pur consolata e paga
     È quella tomba cui di pianto onora
     L’alma terra nativa. Ecco alla vaga
     Tua spoglia intorno la romulea prole
     Di nova ira sfavilla. Ecco di polve
     Lorda il tiranno i crini;
     E libertade avvampa
     Gli obbliviosi petti; e nella doma
     Terra il marte latino arduo s’accampa
     Dal buio polo ai torridi confini.
     Così l’eterna Roma
     In duri ozi sepolta
     Femmineo fato avviva un’altra volta.



   V. A UN VINCITORE NEL PALLONE


     Di gloria il viso e la gioconda voce,
     Garzon bennato, apprendi,
     E quanto al femminile ozio sovrasti
     La sudata virtude. Attendi attendi,
     Magnanimo campion (s’alla veloce
     Piena degli anni il tuo valor contrasti
     La spoglia di tuo nome), attendi e il core
     Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
     Arena e il circo, e te fremendo appella
     Ai fatti illustri il popolar favore;
     Te rigoglioso dell’età novella
     Oggi la patria cara
     Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
     Del barbarico sangue in Maratona
     Non colorò la destra
     Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
     Che stupido mirò l’ardua palestra,
     Né la palma beata e la corona
     D’emula brama il punse. E nell’Alfeo
     Forse le chiome polverose e i fianchi
     Delle cavalle vincitrici asterse
     Tal che le greche insegne e il greco acciaro
     Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
     Nelle pallide torme; onde sonaro
     Di sconsolato grido
     L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.
     Vano dirai quel che disserra e scote
     Della virtù nativa
     Le riposte faville? e che del fioco
     Spirto vital negli egri petti avviva
     Il caduco fervor? Le meste rote
     Da poi che Febo instiga, altro che gioco
     Son l’opre de’ mortali? ed è men vano
     Della menzogna il vero? A noi di lieti
     Inganni e di felici ombre soccorse
     Natura stessa: e là dove l’insano
     Costume ai forti errori esca non porse,
     Negli ozi oscuri e nudi
     Mutò la gente i gloriosi studi.
     Tempo forse verrà ch’alle ruine
     Delle italiche moli
     Insultino gli armenti, e che l’aratro
     Sentano i sette colli; e pochi Soli
     Forse fien volti, e le città latine
     Abiterà la cauta volpe, e l’atro
     Bosco mormorerà fra le alte mura;
     Se la funesta delle patrie cose
     Obblivion dalle perverse menti
     Non isgombrano i fati, e la matura
     Clade non torce dalle abbiette genti
     Il ciel fatto cortese
     Dal rimembrar delle passate imprese.
     Alla patria infelice, o buon garzone,
     Sopravviver ti doglia.
     Chiaro per lei stato saresti allora
     Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,
     Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
     Che nullo di tal madre oggi s’onora:
     Ma per te stesso al polo ergi la mente.
     Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
     Beata allor che ne’ perigli avvolta,
     Se stessa obblia, né delle putri e lente
     Ore il danno misura e il flutto ascolta;
     Beata allor che il piede
     Spinto al varco leteo, più grata riede.



   VI. BRUTO MINORE


     Poi che divelta, nella tracia polve
     Giacque ruina immensa
     L’italica virtute, onde alle valli
     D’Esperia verde, e al tiberino lido,
     Il calpestio de’ barbari cavalli
     Prepara il fato, e dalle selve ignude
     Cui l’Orsa algida preme,
     A spezzar le romane inclite mura
     Chiama i gotici brandi;
     Sudato, e molle di fraterno sangue,
     Bruto per l’atra notte in erma sede,
     Fermo già di morir, gl’inesorandi
     Numi e l’averno accusa,
     E di feroci note
     Invan la sonnolenta aura percote.
     Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
     Dell’inquiete larve
     Son le tue scole, e ti si volge a tergo
     Il pentimento. A voi, marmorei numi,
     (Se numi avete in Flegetonte albergo
     O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
     È la prole infelice
     A cui templi chiedeste, e frodolenta
     Legge al mortale insulta.
     Dunque tanto i celesti odii commove
     La terrena pietà? dunque degli empi
     Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
     Per l’aere il nembo, e quando
     Il tuon rapido spingi,
     Ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi?
     Preme il destino invitto e la ferrata
     Necessità gl’infermi
     Schiavi di morte: e se a cessar non vale
     Gli oltraggi lor, de’ necessarii danni
     Si consola il plebeo. Men duro è il male
     Che riparo non ha? dolor non sente
     Chi di speranza è nudo?
     Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
     Teco il prode guerreggia,
     Di cedere inesperto; e la tiranna
     Tua destra, allor che vincitrice il grava,
     Indomito scrollando si pompeggia,
     Quando nell’alto lato
     L’amaro ferro intride,
     E maligno alle nere ombre sorride.
     Spiace agli Dei chi violento irrompe
     Nel Tartaro. Non fora
     Tanto valor ne’ molli eterni petti.
     Forse i travagli nostri, e forse il cielo
     I casi acerbi e gl’infelici affetti
     Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
     Non fra sciagure e colpe,
     Ma libera ne’ boschi e pura etade
     Natura a noi prescrisse,
     Reina un tempo e Diva. Or poi ch’a terra
     Sparse i regni beati empio costume,
     E il viver macro ad altre leggi addisse;
     Quando gl’infausti giorni
     Virile alma ricusa,
     Riede natura, e il non suo dardo accusa?
     Di colpa ignare e de’ lor proprii danni
     Le fortunate belve
     Serena adduce al non previsto passo
     La tarda età. Ma se spezzar la fronte
     Ne’ rudi tronchi, o da montano sasso
     Dare al vento precipiti le membra,
     Lor suadesse affanno
     Al misero desio nulla contesa
     Legge arcana farebbe
     O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
     Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
     Figli di Prometeo, la vita increbbe;
     A voi le morte ripe,
     Se il fato ignavo pende,
     Soli, o miseri, a voi Giove contende.
     E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
     Candida luna, sorgi,
     E l’inquieta notte e la funesta
     All’ausonio valor campagna esplori.
     Cognati petti il vincitor calpesta,
     Fremono i poggi, dalle somme vette
     Roma antica ruina;
     Tu sì placida sei? Tu la nascente
     Lavinia prole, e gli anni
     Lieti vedesti, e i memorandi allori;
     E tu su l’alpe l’immutato raggio
     Tacita verserai quando ne’ danni
     Del servo italo nome,
     Sotto barbaro piede
     Rintronerà quella solinga sede.
     Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
     E la fera e l’augello,
     Del consueto obblio gravido il petto,
     L’alta ruina ignora e le mutate
     Sorti del mondo: e come prima il tetto
     Rosseggerà del villanello industre,
     Al mattutino canto
     Quel desterà le valli, e per le balze
     Quella l’inferma plebe
     Agiterà delle minori belve.
     Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
     Siam delle cose; e non le tinte glebe,
     Non gli ululati spechi
     Turbò nostra sciagura,
     Né scolorò le stelle umana cura.
     Non io d’Olimpo o di Cocito i sordi
     Regi, o la terra indegna,
     E non la notte moribondo appello;
     Non te, dell’atra morte ultimo raggio,
     Conscia futura età. Sdegnoso avello
     Placàr singulti, ornàr parole e doni
     Di vil caterva? In peggio
     Precipitano i tempi; e mal s’affida
     A putridi nepoti
     L’onor d’egregie menti e la suprema
     De’ miseri vendetta. A me dintorno
     Le penne il bruno augello avido roti;
     Prema la fera, e il nembo
     Tratti l’ignota spoglia;
     E l’aura il nome e la memoria accoglia.



   VII. ALLA PRIMAVERA O DELLE FAVOLE ANTICHE


     Perché i celesti danni
     Ristori il sole, e perché l’aure inferme
     Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
     Delle nubi la grave ombra s’avvalla;
     Credano il petto inerme
     Gli augelli al vento, e la diurna luce
     Novo d’amor desio, nova speranza
     Ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
     Pruine induca alle commosse belve;
     Forse alle stanche e nel dolor sepolte
     Umane menti riede
     La bella età, cui la sciagura e l’atra
     Face del ver consunse
     Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
     Di febo i raggi al misero non sono
     In sempiterno? ed anco,
     Primavera odorata, inspiri e tenti
     Questo gelido cor, questo ch’amara
     Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
     Vivi tu, vivi, o santa
     Natura? vivi e il dissueto orecchio
     Della materna voce il suono accoglie?
     Già di candide ninfe i rivi albergo,
     Placido albergo e specchio
     Furo i liquidi fonti. Arcane danze
     D’immortal piede i ruinosi gioghi
     Scossero e l’ardue selve (oggi romito
     Nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
     Meridiane incerte ed al fiorito
     Margo adducea de’ fiumi
     Le sitibonde agnelle, arguto carme
     Sonar d’agresti Pani
     Udì lungo le ripe; e tremar l’onda
     Vide, e stupì, che non palese al guardo
     La faretrata Diva
     Scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
     Polve tergea della sanguigna caccia
     Il niveo lato e le verginee braccia.
     Vissero i fiori e l’erbe,
     Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
     Aure, le nubi e la titania lampa
     Fur dell’umana gente, allor che ignuda
     Te per le piagge e i colli,
     Ciprigna luce, alla deserta notte
     Con gli occhi intenti il viator seguendo,
     Te compagna alla via, te de’ mortali
     Pensosa immaginò. Che se gl’impuri
     Cittadini consorzi e le fatali
     Ire fuggendo e l’onte,
     Gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime
     Selve remoto accolse,
     Viva fiamma agitar l’esangui vene,
     Spirar le foglie, e palpitar segreta
     Nel doloroso amplesso
     Dafne o la mesta Filli, o di Climene
     Pianger credè la sconsolata prole
     Quel che sommerse in Eridano il sole.
     Né dell’umano affanno,
     Rigide balze, i luttuosi accenti
     Voi negletti ferìr mentre le vostre
     Paurose latebre Eco solinga,
     Non vano error de’ venti,
     Ma di ninfa abitò misero spirto,
     Cui grave amor, cui duro fato escluse
     Delle tenere membra. Ella per grotte,
     Per nudi scogli e desolati alberghi,
     Le non ignote ambasce e l’alte e rotte
     Nostre querele al curvo
     Etra insegnava. E te d’umani eventi
     Disse la fama esperto,
     Musico augel che tra chiomato bosco
     Or vieni il rinascente anno cantando,
     E lamentar nell’alto
     Ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
     Antichi danni e scellerato scorno,
     E d’ira e di pietà pallido il giorno.
     Ma non cognato al nostro
     Il gener tuo; quelle tue varie note
     Dolor non forma, e te di colpa ignudo,
     Men caro assai la bruna valle asconde.
     Ahi ahi, poscia che vote
     Son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono
     Per l’atre nubi e le montagne errando,
     Gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
     In freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
     Il suol nativo, e di sua prole ignaro
     Le meste anime educa;
     Tu le cure infelici e i fati indegni
     Tu de’ mortali ascolta,
     Vaga natura, e la favilla antica
     Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
     E se de’ nostri affanni
     Cosa veruna in ciel, se nell’aprica
     Terra s’alberga o nell’equoreo seno,
     Pietosa no, ma spettatrice almeno.



   VIII. INNO AI PATRIARCHI O DE’ PRINCIPII DEL GENERE UMANO


     E voi de’ figli dolorosi il canto,
     Voi dell’umana prole incliti padri,
     Lodando ridirà; molto all’eterno
     Degli astri agitator più cari, e molto
     Di noi men lacrimabili nell’alma
     Luce prodotti. Immedicati affanni
     Al misero mortal, nascere al pianto,
     E dell’etereo lume assai più dolci
     Sortir l’opaca tomba e il fato estremo,
     Non la pietà, non la diritta impose
     Legge del cielo. E se di vostro antico
     Error che l’uman seme alla tiranna
     Possa de’ morbi e di sciagura offerse,
     Grido antico ragiona, altre più dire
     Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno,
     E demenza maggior l’offeso Olimpo
     N’armaro incontra, e la negletta mano
     Dell’altrice natura; onde la viva
     Fiamma n’increbbe, e detestato il parto
     Fu del grembo materno, e violento
     Emerse il disperato Erebo in terra.
     Tu primo il giorno, e le purpuree faci
     Delle rotanti sfere, e la novella
     Prole de’ campi, o duce antico e padre
     Dell’umana famiglia, e tu l’errante
     Per li giovani prati aura contempli:
     Quando le rupi e le deserte valli
     Precipite l’alpina onda feria
     D’inudito fragor; quando gli ameni
     Futuri seggi di lodate genti
     E di cittadi romorose, ignota
     Pace regnava; e gl’inarati colli
     Solo e muto ascendea l’aprico raggio
     Di febo e l’aurea luna. Oh fortunata,
     Di colpe ignara e di lugubri eventi,
     Erma terrena sede! Oh quanto affanno
     Al gener tuo, padre infelice, e quale
     D’amarissimi casi ordine immenso
     Preparano i destini! Ecco di sangue
     Gli avari colti e di fraterno scempio
     Furor novello incesta, e le nefande
     Ali di morte il divo etere impara.
     Trepido, errante il fratricida, e l’ombre
     Solitarie fuggendo e la secreta
     Nelle profonde selve ira de’ venti,
     Primo i civili tetti, albergo e regno
     Alle macere cure, innalza; e primo
     Il disperato pentimento i ciechi
     Mortali egro, anelante, aduna e stringe
     Ne’ consorti ricetti: onde negata
     L’improba mano al curvo aratro, e vili
     Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
     Scellerate occupò; ne’ corpi inerti
     Domo il vigor natio, languide, ignave
     Giacquer le menti; e servitù le imbelli
     Umane vite, ultimo danno, accolse.
     E tu dall’etra infesto e dal mugghiante
     Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
     Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima
     Dall’aer cieco e da’ natanti poggi
     Segno arrecò d’instaurata spene
     La candida colomba, e delle antiche
     Nubi l’occiduo Sol naufrago uscendo,
     L’atro polo di vaga iri dipinse.
     Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi
     Studi rinnova e le seguaci ambasce
     La riparata gente. Agl’inaccessi
     Regni del mar vendicatore illude
     Profana destra, e la sciagura e il pianto
     A novi liti e nove stelle insegna.
     Or te, padre de’ pii, te giusto e forte,
     E di tuo seme i generosi alunni
     Medita il petto mio. Dirò siccome
     Sedente, oscuro, in sul meriggio all’ombre
     Del riposato albergo, appo le molli
     Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
     Te de’ celesti peregrini occulte
     Beàr l’eteree menti; e quale, o figlio
     Della saggia Rebecca, in su la sera,
     Presso al rustico pozzo e nella dolce
     Di pastori e di lieti ozi frequente
     Aranitica valle, amor ti punse
     Della vezzosa Labanide: invitto
     Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni
     E di servaggio all’odiata soma
     Volenteroso il prode animo addisse.
     Fu certo, fu (né d’error vano e d’ombra
     L’aonio canto e della fama il grido
     Pasce l’avida plebe) amica un tempo
     Al sangue nostro e dilettosa e cara
     Questa misera piaggia, ed aurea corse
     Nostra caduca età. Non che di latte
     Onda rigasse intemerata il fianco
     Delle balze materne, o con le greggi
     Mista la tigre ai consueti ovili
     Né guidasse per gioco i lupi al fonte
     Il pastorel; ma di suo fato ignara
     E degli affanni suoi, vota d’affanno
     Visse l’umana stirpe; alle secrete
     Leggi del cielo e di natura indutto
     Valse l’ameno error, le fraudi, il molle
     Pristino velo; e di sperar contenta
     Nostra placida nave in porto ascese.
     Tal fra le vaste californie selve
     Nasce beata prole, a cui non sugge
     Pallida cura il petto, a cui le membra
     Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
     Nidi l’intima rupe, onde ministra
     L’irrigua valle, inopinato il giorno
     Dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro
     Scellerato ardimento inermi regni
     Della saggia natura! I lidi e gli antri
     E le quiete selve apre l’invitto
     Nostro furor; le violate genti
     Al peregrino affanno, agl’ignorati
     Desiri educa; e la fugace, ignuda
     Felicità per l’imo sole incalza.



   IX. ULTIMO CANTO DI SAFFO


     Placida notte, e verecondo raggio
     Della cadente luna; e tu che spunti
     Fra la tacita selva in su la rupe,
     Nunzio del giorno; oh dilettose e care
     Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
     Sembianze agli occhi miei; già non arride
     Spettacol molle ai disperati affetti.
     Noi l’insueto allor gaudio ravviva
     Quando per l’etra liquido si volve
     E per li campi trepidanti il flutto
     Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
     Grave carro di Giove a noi sul capo,
     Tonando, il tenebroso aere divide.
     Noi per le balze e le profonde valli
     Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
     Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
     Fiume alla dubbia sponda
     Il suono e la vittrice ira dell’onda.
     Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
     Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
     Infinita beltà parte nessuna
     Alla misera Saffo i numi e l’empia
     Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
     Vile, o natura, e grave ospite addetta,
     E dispregiata amante, alle vezzose
     Tue forme il core e le pupille invano
     Supplichevole intendo. A me non ride
     L’aprico margo, e dall’eterea porta
     Il mattutino albor; me non il canto
     De’ colorati augelli, e non de’ faggi
     Il murmure saluta: e dove all’ombra
     Degl’inchinati salici dispiega
     Candido rivo il puro seno, al mio
     Lubrico piè le flessuose linfe
     Disdegnando sottragge,
     E preme in fuga l’odorate spiagge.
     Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
     Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
     Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
     In che peccai bambina, allor che ignara
     Di misfatto è la vita, onde poi scemo
     Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
     Dell’indomita Parca si volvesse
     Il ferrigno mio stame? Incaute voci
     Spande il tuo labbro: i destinati eventi
     Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
     Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
     Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
     De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
     De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
     Alle amene sembianze eterno regno
     Diè nelle genti; e per virili imprese,
     Per dotta lira o canto,
     Virtù non luce in disadorno ammanto.
     Morremo. Il velo indegno a terra sparto
     Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
     E il crudo fallo emenderà del cieco
     Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
     Amore indarno, e lunga fede, e vano
     D’implacato desio furor mi strinse,
     Vivi felice, se felice in terra
     Visse nato mortal. Me non asperse
     Del soave licor del doglio avaro
     Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
     Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
     Giorno di nostra età primo s’invola.
     Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
     Della gelida morte. Ecco di tante
     Sperate palme e dilettosi errori,
     Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
     Han la tenaria Diva,
     E l’atra notte, e la silente riva.



   X. IL PRIMO AMORE


     Tornami a mente il dì che la battaglia
     D’amor sentii la prima volta, e dissi:
     Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
     Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
     Io mirava colei ch’a questo core
     Primiera il varco ed innocente aprissi.
     Ahi come mal mi governasti, amore!
     Perché seco dovea sì dolce affetto
     Recar tanto desio, tanto dolore?
     E non sereno, e non intero e schietto,
     Anzi pien di travaglio e di lamento
     Al cor mi discendea tanto diletto?
     Dimmi, tenero core, or che spavento,
     Che angoscia era la tua fra quel pensiero
     Presso al qual t’era noia ogni contento?
     Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
     Ti si offeriva nella notte, quando
     Tutto queto parea nell’emisfero:
     Tu inquieto, e felice e miserando,
     M’affaticavi in su le piume il fianco,
     Ad ogni or fortemente palpitando.
     E dove io tristo ed affannato e stanco
     Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
     Rotto e deliro il sonno venia manco.
     Oh come viva in mezzo alle tenebre
     Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
     La contemplavan sotto alle palpebre!
     Oh come soavissimi diffusi
     Moti per l’ossa mi serpeano, oh come
     Mille nell’alma instabili, confusi
     Pensieri si volgean! qual tra le chiome
     D’antica selva zefiro scorrendo,
     Un lungo, incerto mormorar ne prome.
     E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
     Che dicevi, o mio cor, che si partia
     Quella per che penando ivi e battendo?
     Il cuocer non più tosto io mi sentia
     Della vampa d’amor, che il venticello
     Che l’aleggiava, volossene via.
     Senza sonno io giacea sul dì novello,
     E i destrier che dovean farmi deserto,
     Battean la zampa sotto al patrio ostello.
     Ed io timido e cheto ed inesperto,
     Ver lo balcone al buio protendea
     L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,
     La voce ad ascoltar, se ne dovea
     Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;
     La voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea.
     Quante volte plebea voce percosse
     Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
     E il core in forse a palpitar si mosse!
     E poi che finalmente mi discese
     La cara voce al core, e de’ cavai
     E delle rote il romorio s’intese;
     Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
     Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
     Strinsi il cor con la mano, e sospirai.
     Poscia traendo i tremuli ginocchi
     Stupidamente per la muta stanza,
     Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?
     Amarissima allor la ricordanza
     Locommisi nel petto, e mi serrava
     Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.
     E lunga doglia il sen mi ricercava,
     Com’è quando a distesa Olimpo piove
     Malinconicamente e i campi lava.
     Ned io ti conoscea, garzon di nove
     E nove Soli, in questo a pianger nato
     Quando facevi, amor, le prime prove.
     Quando in ispregio ogni piacer, né grato
     M’era degli astri il riso, o dell’aurora
     Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.
     Anche di gloria amor taceami allora
     Nel petto, cui scaldar tanto solea,
     Che di beltade amor vi fea dimora.
     Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,
     E quelli m’apparian vani per cui
     Vano ogni altro desir creduto avea.
     Deh come mai da me sì vario fui,
     E tanto amor mi tolse un altro amore?
     Deh quanto, in verità, vani siam nui!
     Solo il mio cor piaceami, e col mio core
     In un perenne ragionar sepolto,
     Alla guardia seder del mio dolore.
     E l’occhio a terra chino o in sé raccolto,
     Di riscontrarsi fuggitivo e vago
     Né in leggiadro soffria né in turpe volto:
     Che la illibata, la candida imago
     Turbare egli temea pinta nel seno,
     Come all’aure si turba onda di lago.
     E quel di non aver goduto appieno
     Pentimento, che l’anima ci grava,
     E il piacer che passò cangia in veleno,
     Per li fuggiti dì mi stimolava
     Tuttora il sen: che la vergogna il duro
     Suo morso in questo cor già non oprava.
     Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
     Che voglia non m’entrò bassa nel petto,
     Ch’arsi di foco intaminato e puro.
     Vive quel foco ancor, vive l’affetto,
     Spira nel pensier mio la bella imago,
     Da cui, se non celeste, altro diletto
     Giammai non ebbi, e sol di lei m’appago.



   XI. IL PASSERO SOLITARIO


     D’in su la vetta della torre antica,
     Passero solitario, alla campagna
     Cantando vai finché non more il giorno;
     Ed erra l’armonia per questa valle.
     Primavera dintorno
     Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
     Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
     Odi greggi belar, muggire armenti;
     Gli altri augelli contenti, a gara insieme
     Per lo libero ciel fan mille giri,
     Pur festeggiando il lor tempo migliore:
     Tu pensoso in disparte il tutto miri;
     Non compagni, non voli,
     Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
     Canti, e così trapassi
     Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
     Oimè, quanto somiglia
     Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
     Della novella età dolce famiglia,
     E te german di giovinezza, amore,
     Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
     Non curo, io non so come; anzi da loro
     Quasi fuggo lontano;
     Quasi romito, e strano
     Al mio loco natio,
     Passo del viver mio la primavera.
     Questo giorno ch’omai cede alla sera,
     Festeggiar si costuma al nostro borgo.
     Odi per lo sereno un suon di squilla,
     Odi spesso un tonar di ferree canne,
     Che rimbomba lontan di villa in villa.
     Tutta vestita a festa
     La gioventù del loco
     Lascia le case, e per le vie si spande;
     E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
     Io solitario in questa
     Rimota parte alla campagna uscendo,
     Ogni diletto e gioco
     Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
     Steso nell’aria aprica
     Mi fere il Sol che tra lontani monti,
     Dopo il giorno sereno,
     Cadendo si dilegua, e par che dica
     Che la beata gioventù vien meno.
     Tu, solingo augellin, venuto a sera
     Del viver che daranno a te le stelle,
     Certo del tuo costume
     Non ti dorrai; che di natura è frutto
     Ogni vostra vaghezza.
     A me, se di vecchiezza
     La detestata soglia
     Evitar non impetro,
     Quando muti questi occhi all’altrui core,
     E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
     Del dì presente più noioso e tetro,
     Che parrà di tal voglia?
     Che di quest’anni miei? che di me stesso?
     Ahi pentirommi, e spesso,
     Ma sconsolato, volgerommi indietro.



   XII. L’INFINITO


     Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
     E questa siepe, che da tanta parte
     Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
     Ma sedendo e mirando, interminati
     Spazi di là da quella, e sovrumani
     Silenzi, e profondissima quiete
     Io nel pensier mi fingo; ove per poco
     Il cor non si spaura. E come il vento
     Odo stormir tra queste piante, io quello
     Infinito silenzio a questa voce
     Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
     E le morte stagioni, e la presente
     E viva, e il suon di lei. Così tra questa
     Immensità s’annega il pensier mio:
     E il naufragar m’è dolce in questo mare.



   XIII. LA SERA DEL DÌ DI FESTA


     Dolce e chiara è la notte e senza vento,
     E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
     Posa la luna, e di lontan rivela
     Serena ogni montagna. O donna mia,
     Già tace ogni sentiero, e pei balconi
     Rara traluce la notturna lampa:
     Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
     Nelle tue chete stanze; e non ti morde
     Cura nessuna; e già non sai né pensi
     Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
     Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
     Appare in vista, a salutar m’affaccio,
     E l’antica natura onnipossente,
     Che mi fece all’affanno. A te la speme
     Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
     Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
     Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
     Prendi riposo; e forse ti rimembra
     In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
     Piacquero a te: non io, non già ch’io speri,
     Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
     Quanto a viver mi resti, e qui per terra
     Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
     In così verde etate! Ahi, per la via
     Odo non lunge il solitario canto
     Dell’artigian, che riede a tarda notte,
     Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
     E fieramente mi si stringe il core,
     A pensar come tutto al mondo passa,
     E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
     Il dì festivo, ed al festivo il giorno
     Volgar succede, e se ne porta il tempo
     Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
     Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
     De’ nostri avi famosi, e il grande impero
     Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
     Che n’andò per la terra e l’oceano?
     Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
     Il mondo, e più di lor non si ragiona.
     Nella mia prima età, quando s’aspetta
     Bramosamente il dì festivo, or poscia
     Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
     Premea le piume; ed alla tarda notte
     Un canto che s’udia per li sentieri
     Lontanando morire a poco a poco,
     Già similmente mi stringeva il core.



   XIV. ALLA LUNA


     O graziosa luna, io mi rammento
     Che, or volge l’anno, sovra questo colle
     Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
     E tu pendevi allor su quella selva
     Siccome or fai, che tutta la rischiari.
     Ma nebuloso e tremulo dal pianto
     Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
     Il tuo volto apparia, che travagliosa
     Era mia vita: ed è, né cangia stile,
     O mia diletta luna. E pur mi giova
     La ricordanza, e il noverar l’etate
     Del mio dolore. Oh come grato occorre
     Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
     La speme e breve ha la memoria il corso,
     Il rimembrar delle passate cose,
     Ancor che triste, e che l’affanno duri!



   XV. IL SOGNO


     Era il mattino, e tra le chiuse imposte
     Per lo balcone insinuava il sole
     Nella mia cieca stanza il primo albore;
     Quando in sul tempo che più leve il sonno
     E più soave le pupille adombra,
     Stettemi allato e riguardommi in viso
     Il simulacro di colei che amore
     Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
     Morta non mi parea, ma trista, e quale
     Degl’infelici è la sembianza. Al capo
     Appressommi la destra, e sospirando,
     Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
     Serbi di noi? Donde, risposi, e come
     Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
     Di te mi dolse e duol: né mi credea
     Che risaper tu lo dovessi; e questo
     Facea più sconsolato il dolor mio.
     Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta?
     Io n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne?
     Sei tu quella di prima? E che ti strugge
     Internamente? Obblivione ingombra
     I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,
     Disse colei. Son morta, e mi vedesti
     L’ultima volta, or son più lune. Immensa
     Doglia m’oppresse a queste voci il petto.
     Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
     Quand’è il viver più dolce, e pria che il core
     Certo si renda com’è tutta indarno
     L’umana speme. A desiar colei
     Che d’ogni affanno il tragge, ha poco andare
     L’egro mortal; ma sconsolata arriva
     La morte ai giovanetti, e duro è il fato
     Di quella speme che sotterra è spenta.
     Vano è saper quel che natura asconde
     Agl’inesperti della vita, e molto
     All’immatura sapienza il cieco
     Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
     Taci, taci, diss’io, che tu mi schianti
     Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
     O mia diletta, ed io son vivo, ed era
     Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
     Cotesta cara e tenerella salma
     Provar dovesse, a me restasse intera
     Questa misera spoglia? Oh quante volte
     In ripensar che più non vivi, e mai
     Non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo,
     Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
     Che morte s’addimanda? Oggi per prova
     Intenderlo potessi, e il capo inerme
     Agli atroci del fato odii sottrarre.
     Giovane son, ma si consuma e perde
     La giovanezza mia come vecchiezza;
     La qual pavento, e pur m’è lunge assai.
     Ma poco da vecchiezza si discorda
     Il fior dell’età mia. Nascemmo al pianto,
     Disse, ambedue; felicità non rise
     Al viver nostro; e dilettossi il cielo
     De’ nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
     Soggiunsi, e di pallor velato il viso
     Per la tua dipartita, e se d’angoscia
     Porto gravido il cor; dimmi: d’amore
     Favilla alcuna, o di pietà, giammai
     Verso il misero amante il cor t’assalse
     Mentre vivesti? Io disperando allora
     E sperando traea le notti e i giorni;
     Oggi nel vano dubitar si stanca
     La mente mia. Che se una volta sola
     Dolor ti strinse di mia negra vita,
     Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
     La rimembranza or che il futuro è tolto
     Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
     O sventurato. Io di pietade avara
     Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
     Che fui misera anch’io. Non far querela
     Di questa infelicissima fanciulla.
     Per le sventure nostre, e per l’amore
     Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
     Nome di giovanezza e la perduta
     Speme dei nostri dì, concedi, o cara,
     Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
     Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
     Di baci la ricopro, e d’affannosa
     Dolcezza palpitando all’anelante
     Seno la stringo, di sudore il volto
     Ferveva e il petto, nelle fauci stava
     La voce, al guardo traballava il giorno.
     Quando colei teneramente affissi
     Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
     Disse, che di beltà son fatta ignuda?
     E tu d’amore, o sfortunato, indarno
     Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
     Nostre misere menti e nostre salme
     Son disgiunte in eterno. A me non vivi
     E mai più non vivrai: già ruppe il fato
     La fe che mi giurasti. Allor d’angoscia
     Gridar volendo, e spasimando, e pregne
     Di sconsolato pianto le pupille,
     Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
     Pur mi restava, e nell’incerto raggio
     Del Sol vederla io mi credeva ancora.



   XVI. LA VITA SOLITARIA


     La mattutina pioggia, allor che l’ale
     Battendo esulta nella chiusa stanza
     La gallinella, ed al balcon s’affaccia
     L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
     I suoi tremuli rai fra le cadenti
     Stille saetta, alla capanna mia
     Dolcemente picchiando, mi risveglia;
     E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
     Degli augelli susurro, e l’aura fresca,
     E le ridenti piagge benedico:
     Poiché voi, cittadine infauste mura,
     Vidi e conobbi assai, là dove segue
     Odio al dolor compagno; e doloroso
     Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
     Benché scarsa pietà pur mi dimostra
     Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
     Verso me più cortese! E tu pur volgi
     Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
     Le sciagure e gli affanni, alla reina
     Felicità servi, o natura. In cielo,
     In terra amico agl’infelici alcuno
     E rifugio non resta altro che il ferro.
     Talor m’assido in solitaria parte,
     Sovra un rialto, al margine d’un lago
     Di taciturne piante incoronato.
     Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
     La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
     Ed erba o foglia non si crolla al vento,
     E non onda incresparsi, e non cicala
     Strider, né batter penna augello in ramo,
     Né farfalla ronzar, né voce o moto
     Da presso né da lunge odi né vedi.
     Tien quelle rive altissima quiete;
     Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
     Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
     Giaccian le membra mie, né spirto o senso
     Più le commova, e lor quiete antica
     Co’ silenzi del loco si confonda.
     Amore, amore, assai lungi volasti
     Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
     Anzi rovente. Con sua fredda mano
     Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
     Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
     Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
     E irrevocabil tempo, allor che s’apre
     Al guardo giovanil questa infelice
     Scena del mondo, e gli sorride in vista
     Di paradiso. Al garzoncello il core
     Di vergine speranza e di desio
     Balza nel petto; e già s’accinge all’opra
     Di questa vita come a danza o gioco
     Il misero mortal. Ma non sì tosto,
     Amor, di te m’accorsi, e il viver mio
     Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
     Non altro convenia che il pianger sempre.
     Pur se talvolta per le piagge apriche,
     Su la tacita aurora o quando al sole
     Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
     Scontro di vaga donzelletta il viso;
     O qualor nella placida quiete
     D’estiva notte, il vagabondo passo
     Di rincontro alle ville soffermando,
     L’erma terra contemplo, e di fanciulla
     Che all’opre di sua man la notte aggiunge
     Odo sonar nelle romite stanze
     L’arguto canto; a palpitar si move
     Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
     Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
     Ogni moto soave al petto mio.
     O cara luna, al cui tranquillo raggio
     Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
     Alla mattina il cacciator, che trova
     L’orme intricate e false, e dai covili
     Error vario lo svia; salve, o benigna
     Delle notti reina. Infesto scende
     Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
     A deserti edifici, in su l’acciaro
     Del pallido ladron ch’a teso orecchio
     Il fragor delle rote e de’ cavalli
     Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi
     Su la tacita via; poscia improvviso
     Col suon dell’armi e con la rauca voce
     E col funereo ceffo il core agghiaccia
     Al passegger, cui semivivo e nudo
     Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
     Per le contrade cittadine il bianco
     Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
     Va radendo le mura e la secreta
     Ombra seguendo, e resta, e si spaura
     Delle ardenti lucerne e degli aperti
     Balconi. Infesto alle malvage menti,
     A me sempre benigno il tuo cospetto
     Sarà per queste piagge, ove non altro
     Che lieti colli e spaziosi campi
     M’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
     Bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso
     Raggio accusar negli abitati lochi,
     Quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando
     Scopriva umani aspetti al guardo mio.
     Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
     Veleggiar tra le nubi, o che serena
     Dominatrice dell’etereo campo,
     Questa flebil riguardi umana sede.
     Me spesso rivedrai solingo e muto
     Errar pe’ boschi e per le verdi rive,
     O seder sovra l’erbe, assai contento
     Se core e lena a sospirar m’avanza.



   XVII. CONSALVO


     Presso alla fin di sua dimora in terra,
     Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
     Del suo destino; or già non più, che a mezzo
     Il quinto lustro, gli pendea sul capo
     Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
     Così giacea nel funeral suo giorno
     Dai più diletti amici abbandonato:
     Ch’amico in terra al lungo andar nessuno
     Resta a colui che della terra è schivo.
     Pur gli era al fianco, da pietà condotta
     A consolare il suo deserto stato,
     Quella che sola e sempre eragli a mente,
     Per divina beltà famosa Elvira;
     Conscia del suo poter, conscia che un guardo
     Suo lieto, un detto d’alcun dolce asperso,
     Ben mille volte ripetuto e mille
     Nel costante pensier, sostegno e cibo
     Esser solea dell’infelice amante:
     Benché nulla d’amor parola udita
     Avess’ella da lui. Sempre in quell’alma
     Era del gran desio stato più forte
     Un sovrano timor. Così l’avea
     Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
     Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
     Alla sua lingua. Poiché certi i segni
     Sentendo di quel dì che l’uom discioglie,
     Lei, già mossa a partir, presa per mano,
     E quella man bianchissinia stringendo,
     Disse: tu parti, e l’ora omai ti sforza:
     Elvira, addio. Non ti vedrò, ch’io creda,
     Un’altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
     Qual maggior grazia mai delle tue cure
     Dar possa il labbro mio. Premio daratti
     Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
     Impallidia la bella, e il petto anelo
     Udendo le si fea: che sempre stringe
     All’uomo il cor dogliosamente, ancora
     Ch’estranio sia, chi si diparte e dice,
     Addio per sempre. E contraddir voleva,
     Dissimulando l’appressar del fato,
     Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
     Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
     Come sai, ripregata a me discende,
     Non temuta, la morte; e lieto apparmi
     Questo feral mio dì. Pesami, è vero,
     Che te perdo per sempre. Oimè per sempre
     Parto da te. Mi si divide il core
     In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
     Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
     Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
     Non vorrai tu donarmi? un bacio solo
     In tutto il viver mio? Grazia ch’ei chiegga
     Non si nega a chi muor. Né già vantarmi
     Potrò del dono, io semispento, a cui
     Straniera man le labbra oggi fra poco
     Eternamente chiuderà. Ciò detto
     Con un sospiro, all’adorata destra
     Le fredde labbra supplicando affisse.
     Stette sospesa e pensierosa in atto
     La bellissima donna; e fiso il guardo,
     Di mille vezzi sfavillante, in quello
     Tenea dell’infelice, ove l’estrema
     Lacrima rilucea. Né dielle il core
     Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
     Rinacerbir col niego; anzi la vinse
     Misericordia dei ben noti ardori.
     E quel volto celeste, e quella bocca,
     Già tanto desiata, e per molt’anni
     Argomento di sogno e di sospiro,
     Dolcemente appressando al volto afflitto
     E scolorato dal mortale affanno,
     Più baci e più, tutta benigna e in vista
     D’alta pietà, su le convulse labbra
     Del trepido, rapito amante impresse.
     Che divenisti allor? quali appariro
     Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
     Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
     Ch’ancor tenea, della diletta Elvira
     Postasi al cor, che gli ultimi battea
     Palpiti della morte e dell’amore,
     Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono
     In su la terra ancor; ben quelle labbra
     Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
     Ahi vision d’estinto, o sogno, o cosa
     Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
     Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
     Non ti fu l’amor mio per alcun tempo;
     Non a te, non altrui; che non si cela
     Vero amore alla terra. Assai palese
     Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,
     Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
     Muto sarebbe l’infinito affetto
     Che governa il cor mio, se non l’avesse
     Fatto ardito il morir. Morrò contento
     Del mio destino omai, né più mi dolgo
     Ch’aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
     Poscia che quella bocca alla mia bocca
     Premer fu dato. Anzi felice estimo
     La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
     Amore e morte. All’una il ciel mi guida
     In sul fior dell’età; nell’altro, assai
     Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
     Solo una volta il lungo amor quieto
     E pago avessi tu, fora la terra
     Fatta quindi per sempre un paradiso
     Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
     L’abborrita vecchiezza, avrei sofferto
     Con riposato cor: che a sostentarla
     Bastato sempre il rimembrar sarebbe
     d’un solo istante, e il dir: felice io fui
     Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto
     Esser beato non consente il cielo
     A natura terrena. Amar tant’oltre
     Non è dato con gioia. E ben per patto
     In poter del carnefice ai flagelli,
     Alle ruote, alle faci ito volando
     Sarei dalle tue braccia; e ben disceso
     Nel paventato sempiterno scempio.
     O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
     Gl’immortali beato, a cui tu schiuda
     Il sorriso d’amor! felice appresso
     Chi per te sparga con la vita il sangue!
     Lice, lice al mortal, non è già sogno
     Come stimai gran tempo, ahi lice in terra
     Provar felicità. Ciò seppi il giorno
     Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
     Questo m’accadde. E non però quel giorno
     Con certo cor giammai, fra tante ambasce,
     Quel fiero giorno biasimar sostenni.
     Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
     Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
     Non l’amerà quant’io l’amai. Non nasce
     Un altrettale amor. Quanto, deh quanto
     Dal misero Consalvo in sì gran tempo
     Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
     Come al nome d’Elvira, in cor gelando,
     Impallidir; come tremar son uso
     All’amaro calcar della tua soglia,
     A quella voce angelica, all’aspetto
     Di quella fronte, io ch’al morir non tremo!
     Ma la lena e la vita or vengon meno
     Agli accenti d’amor. Passato è il tempo,
     Né questo di rimemorar m’è dato.
     Elvira, addio. Con la vital favilla
     La tua diletta immagine si parte
     Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
     Non ti fu quest’affetto, al mio feretro
     Dimani all’annottar manda un sospiro.
     Tacque: né molto andò, che a lui col suono
     Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
     Suo dì felice gli fuggia dal guardo.



   XVIII. ALLA SUA DONNA


     Cara beltà che amore
     Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
     Fuor se nel sonno il core
     Ombra diva mi scuoti,
     O ne’ campi ove splenda
     Più vago il giorno e di natura il riso;
     Forse tu l’innocente
     Secol beasti che dall’oro ha nome,
     Or leve intra la gente
     Anima voli? o te la sorte avara
     Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
     Viva mirarti omai
     Nulla spene m’avanza;
     S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
     Per novo calle a peregrina stanza
     Verrà lo spirto mio. Già sul novello
     Aprir di mia giornata incerta e bruna,
     Te viatrice in questo arido suolo
     Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
     Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
     Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
     Saria, così conforme, assai men bella.
     Fra cotanto dolore
     Quanto all’umana età propose il fato,
     Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
     Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
     Questo viver beato:
     E ben chiaro vegg’io siccome ancora
     Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
     L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
     Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
     E teco la mortal vita saria
     Simile a quella che nel cielo india.
     Per le valli, ove suona
     Del faticoso agricoltore il canto,
     Ed io seggo e mi lagno
     Del giovanile error che m’abbandona;
     E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
     I perduti desiri, e la perduta
     Speme de’ giorni miei; di te pensando,
     A palpitar mi sveglio. E potess’io,
     Nel secol tetro e in questo aer nefando,
     L’alta specie serbar; che dell’imago,
     Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
     Se dell’eterne idee
     L’una sei tu, cui di sensibil forma
     Sdegni l’eterno senno esser vestita,
     E fra caduche spoglie
     Provar gli affanni di funerea vita;
     O s’altra terra ne’ supremi giri
     Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
     E più vaga del Sol prossima stella
     T’irraggia, e più benigno etere spiri;
     Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
     Questo d’ignoto amante inno ricevi.



   XIX. AL CONTE CARLO PEPOLI


     Questo affannoso e travagliato sonno
     Che noi vita nomiam, come sopporti,
     Pepoli mio? di che speranze il core
     Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
     O gioconde o moleste opre dispensi
     L’ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
     Grave retaggio e faticoso? È tutta,
     In ogni umano stato, ozio la vita,
     Se quell’oprar, quel procurar che a degno
     Obbietto non intende, o che all’intento
     Giunger mai non potria, ben si conviene
     Ozioso nomar. La schiera industre
     Cui franger glebe o curar piante e greggi
     Vede l’alba tranquilla e vede il vespro,
     Se oziosa dirai, da che sua vita
     È per campar la vita, e per sé sola
     La vita all’uom non ha pregio nessuno,
     Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
     Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
     Sudar nelle officine, ozio le vegghie
     Son de’ guerrieri e il perigliar nell’armi;
     E il mercatante avaro in ozio vive:
     Che non a sé, non ad altrui, la bella
     Felicità, cui solo agogna e cerca
     La natura mortal, veruno acquista
     Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
     Pure all’aspro desire onde i mortali
     Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
     D’esser beati sospiraro indarno,
     Di medicina in loco apparecchiate
     Nella vita infelice avea natura
     Necessità diverse, a cui non senza
     Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
     Poi che lieto non può, corresse il giorno
     All’umana famiglia; onde agitato
     E confuso il desio, men loco avesse
     Al travagliarne il cor. Così de’ bruti
     La progenie infinita, a cui pur solo,
     Né men vano che a noi, vive nel petto
     Desio d’esser beati; a quello intenta
     Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
     Condur si scopre e men gravoso il tempo,
     Né la lentezza accagionar dell’ore.
     Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano
     Provveder commettiamo, una più grave
     Necessità, cui provveder non puote
     Altri che noi, già senza tedio e pena
     Non adempiam: necessitate, io dico,
     Di consumar la vita: improba, invitta
     Necessità, cui non tesoro accolto,
     Non di greggi dovizia, o pingui campi,
     Non aula puote e non purpureo manto
     Sottrar l’umana prole. Or s’altri, a sdegno
     I vòti anni prendendo, e la superna
     Luce odiando, l’omicida mano,
     I tardi fati a prevenir condotto,
     In se stesso non torce; al duro morso
     Della brama insanabile che invano
     Felicità richiede, esso da tutti
     Lati cercando, mille inefficaci
     Medicine procaccia, onde quell’una
     Cui natura apprestò, mal si compensa.
     Lui delle vesti e delle chiome il culto
     E degli atti e dei passi, e i vani studi
     Di cocchi e di cavalli, e le frequenti
     Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
     Lui giochi e cene e invidiate danze
     Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
     Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
     Nell’imo petto, grave, salda, immota
     Come colonna adamantina, siede
     Noia immortale, incontro a cui non puote
     Vigor di giovanezza, e non la crolla
     Dolce parola di rosato labbro,
     E non lo sguardo tenero, tremante,
     Di due nere pupille, il caro sguardo,
     La più degna del ciel cosa mortale.
     Altri, quasi a fuggir volto la trista
     Umana sorte, in cangiar terre e climi
     L’età spendendo, e mari e poggi errando
     Tutto l’orbe trascorre, ogni confine
     Degli spazi che all’uom negl’infiniti
     Campi del tutto la natura aperse,
     Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside
     Su l’alte prue la negra cura, e sotto
     Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
     Felicità, vive tristezza e regna.
     Havvi chi le crudeli opre di marte
     Si elegge a passar l’ore, e nel fraterno
     Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
     Chi d’altrui danni si conforta, e pensa
     Con far misero altrui far sé men tristo,
     Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
     E chi virtute o sapienza ed arti
     Perseguitando; e chi la propria gente
     Conculcando e l’estrane, o di remoti
     Lidi turbando la quiete antica
     Col mercatar, con l’armi, e con le frodi,
     La destinata sua vita consuma.
     Te più mite desio, cura più dolce
     Regge nel fior di gioventù, nel bello
     April degli anni, altrui giocondo e primo
     Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
     A chi patria non ha. Te punge e move
     Studio de’ carmi e di ritrar parlando
     Il bel che raro e scarso e fuggitivo
     Appar nel mondo, e quel che più benigna
     Di natura e del ciel, fecondamente
     A noi la vaga fantasia produce
     E il nostro proprio error. Ben mille volte
     Fortunato colui che la caduca
     Virtù del caro immaginar non perde
     Per volger d’anni; a cui serbare eterna
     La gioventù del cor diedero i fati;
     Che nella ferma e nella stanca etade,
     Così come solea nell’età verde,
     In suo chiuso pensier natura abbella,
     Morte, deserto avviva. A te conceda
     Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
     La favilla che il petto oggi ti scalda,
     Di poesia canuto amante. Io tutti
     Della prima stagione i dolci inganni
     Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
     Le dilettose immagini, che tanto
     Amai, che sempre infino all’ora estrema
     Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
     Or quando al tutto irrigidito e freddo
     Questo petto sarà, né degli aprichi
     Campi il sereno e solitario riso,
     Né degli augelli mattutini il canto
     Di primavera, né per colli e piagge
     Sotto limpido ciel tacita luna
     Commoverammi il cor; quando mi fia
     Ogni beltate o di natura o d’arte,
     Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
     Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
     Del mio solo conforto allor mendico,
     Altri studi men dolci, in ch’io riponga
     L’ingrato avanzo della ferrea vita,
     Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi
     Destini investigar delle mortali
     E dell’eterne cose; a che prodotta,
     A che d’affanni e di miserie carca
     L’umana stirpe; a quale ultimo intento
     Lei spinga il fato e la natura; a cui
     Tanto nostro dolor diletti o giovi:
     Con quali ordini e leggi a che si volva
     Questo arcano universo; il qual di lode
     Colmano i saggi, io d’ammirar son pago.
     In questo specolar gli ozi traendo
     Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
     Ha suoi diletti il vero. E se del vero
     Ragionando talor, fieno alle genti
     O mal grati i miei detti o non intesi,
     Non mi dorrò, che già del tutto il vago
     Desio di gloria antico in me fia spento:
     Vana Diva non pur, ma di fortuna
     E del fato e d’amor, Diva più cieca.



   XX. IL RISORGIMENTO


     Credei ch’al tutto fossero
     In me, sul fior degli anni,
     Mancati i dolci affanni
     Della mia prima età:
     I dolci affanni, i teneri
     Moti del cor profondo,
     Qualunque cosa al mondo
     Grato il sentir ci fa.
     Quante querele e lacrime
     Sparsi nel novo stato,
     Quando al mio cor gelato
     Prima il dolor mancò!
     Mancàr gli usati palpiti,
     L’amor mi venne meno,
     E irrigidito il seno
     Di sospirar cessò!
     Piansi spogliata, esanime
     Fatta per me la vita
     La terra inaridita,
     Chiusa in eterno gel;
     Deserto il dì; la tacita
     Notte più sola e bruna;
     Spenta per me la luna,
     Spente le stelle in ciel.
     Pur di quel pianto origine
     Era l’antico affetto:
     Nell’intimo del petto
     Ancor viveva il cor.
     Chiedea l’usate immagini
     La stanca fantasia;
     E la tristezza mia
     Era dolore ancor.
     Fra poco in me quell’ultimo
     Dolore anco fu spento,
     E di più far lamento
     Valor non mi restò.
     Giacqui: insensato, attonito,
     Non dimandai conforto:
     Quasi perduto e morto,
     Il cor s’abbandonò.
     Qual fui! quanto dissimile
     Da quel che tanto ardore,
     Che sì beato errore
     Nutrii nell’alma un dì!
     La rondinella vigile,
     Alle finestre intorno
     Cantando al novo giorno,
     Il cor non mi ferì:
     Non all’autunno pallido
     In solitaria villa,
     La vespertina squilla,
     Il fuggitivo Sol.
     Invan brillare il vespero
     Vidi per muto calle,
     Invan sonò la valle
     Del flebile usignol.
     E voi, pupille tenere,
     Sguardi furtivi, erranti,
     Voi de’ gentili amanti
     Primo, immortale amor,
     Ed alla mano offertami
     Candida ignuda mano,
     Foste voi pure invano
     Al duro mio sopor.
     D’ogni dolcezza vedovo,
     Tristo; ma non turbato,
     Ma placido il mio stato,
     Il volto era seren.
     Desiderato il termine
     Avrei del viver mio;
     Ma spento era il desio
     Nello spossato sen.
     Qual dell’età decrepita
     L’avanzo ignudo e vile,
     Io conducea l’aprile
     Degli anni miei così:
     Così quegl’ineffabili
     Giorni, o mio cor, traevi,
     Che sì fugaci e brevi
     Il cielo a noi sortì.
     Chi dalla grave, immemore
     Quiete or mi ridesta?
     Che virtù nova è questa,
     Questa che sento in me?
     Moti soavi, immagini,
     Palpiti, error beato,
     Per sempre a voi negato
     Questo mio cor non è?
     Siete pur voi quell’unica
     Luce de’ giorni miei?
     Gli affetti ch’io perdei
     Nella novella età?
     Se al ciel, s’ai verdi margini,
     Ovunque il guardo mira,
     Tutto un dolor mi spira,
     Tutto un piacer mi dà.
     Meco ritorna a vivere
     La piaggia, il bosco, il monte;
     Parla al mio core il fonte,
     Meco favella il mar.
     Chi mi ridona il piangere
     Dopo cotanto obblio?
     E come al guardo mio
     Cangiato il mondo appar?
     Forse la speme, o povero
     Mio cor, ti volse un riso?
     Ahi della speme il viso
     Io non vedrò mai più.
     Proprii mi diede i palpiti,
     Natura, e i dolci inganni.
     Sopiro in me gli affanni
     L’ingenita virtù;
     Non l’annullàr: non vinsela
     Il fato e la sventura;
     Non con la vista impura
     L’infausta verità.
     Dalle mie vaghe immagini
     So ben ch’ella discorda:
     So che natura è sorda,
     Che miserar non sa.
     Che non del ben sollecita
     Fu, ma dell’esser solo:
     Purché ci serbi al duolo,
     Or d’altro a lei non cal.
     So che pietà fra gli uomini
     Il misero non trova;
     Che lui, fuggendo, a prova
     Schernisce ogni mortal.
     Che ignora il tristo secolo
     Gl’ingegni e le virtudi;
     Che manca ai degni studi
     L’ignuda gloria ancor.
     E voi, pupille tremule,
     Voi, raggio sovrumano,
     So che splendete invano,
     Che in voi non brilla amor.
     Nessuno ignoto ed intimo
     Affetto in voi non brilla:
     Non chiude una favilla
     Quel bianco petto in sé.
     Anzi d’altrui le tenere
     Cure suol porre in gioco;
     E d’un celeste foco
     Disprezzo è la mercè.
     Pur sento in me rivivere
     Gl’inganni aperti e noti;
     E, de’ suoi proprii moti
     Si maraviglia il sen.
     Da te, mio cor, quest’ultimo
     Spirto, e l’ardor natio,
     Ogni conforto mio
     Solo da te mi vien.
     Mancano, il sento, all’anima
     Alta, gentile e pura,
     La sorte, la natura,
     Il mondo e la beltà.
     Ma se tu vivi, o misero,
     Se non concedi al fato,
     Non chiamerò spietato
     Chi lo spirar mi dà.



   XXI. A SILVIA


     Silvia, rimembri ancora
     Quel tempo della tua vita mortale,
     Quando beltà splendea
     Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
     E tu, lieta e pensosa, il limitare
     Di gioventù salivi?
     Sonavan le quiete
     Stanze, e le vie dintorno,
     Al tuo perpetuo canto,
     Allor che all’opre femminili intenta
     Sedevi, assai contenta
     Di quel vago avvenir che in mente avevi.
     Era il maggio odoroso: e tu solevi
     Così menare il giorno.
     Io gli studi leggiadri
     Talor lasciando e le sudate carte,
     Ove il tempo mio primo
     E di me si spendea la miglior parte,
     D’in su i veroni del paterno ostello
     Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
     Ed alla man veloce
     Che percorrea la faticosa tela.
     Mirava il ciel sereno,
     Le vie dorate e gli orti,
     E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
     Lingua mortal non dice
     Quel ch’io sentiva in seno.
     Che pensieri soavi,
     Che speranze, che cori, o Silvia mia!
     Quale allor ci apparia
     La vita umana e il fato!
     Quando sovviemmi di cotanta speme,
     Un affetto mi preme
     Acerbo e sconsolato,
     E tornami a doler di mia sventura.
     O natura, o natura,
     Perché non rendi poi
     Quel che prometti allor? perché di tanto
     Inganni i figli tuoi?
     Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
     Da chiuso morbo combattuta e vinta,
     Perivi, o tenerella. E non vedevi
     Il fior degli anni tuoi;
     Non ti molceva il core
     La dolce lode or delle negre chiome,
     Or degli sguardi innamorati e schivi;
     Né teco le compagne ai dì festivi
     Ragionavan d’amore.
     Anche peria fra poco
     La speranza mia dolce: agli anni miei
     Anche negaro i fati
     La giovanezza. Ahi come,
     Come passata sei,
     Cara compagna dell’età mia nova,
     Mia lacrimata speme!
     Questo è quel mondo? questi
     I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
     Onde cotanto ragionammo insieme?
     Questa la sorte dell’umane genti?
     All’apparir del vero
     Tu, misera, cadesti: e con la mano
     La fredda morte ed una tomba ignuda
     Mostravi di lontano.



   XXII. LE RICORDANZE


     Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
     Tornare ancor per uso a contemplarvi
     Sul paterno giardino scintillanti,
     E ragionar con voi dalle finestre
     Di questo albergo ove abitai fanciullo,
     E delle gioie mie vidi la fine.
     Quante immagini un tempo, e quante fole
     Creommi nel pensier l’aspetto vostro
     E delle luci a voi compagne! allora
     Che, tacito, seduto in verde zolla,
     Delle sere io solea passar gran parte
     Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
     Della rana rimota alla campagna!
     E la lucciola errava appo le siepi
     E in su l’aiuole, susurrando al vento
     I viali odorati, ed i cipressi
     Là nella selva; e sotto al patrio tetto
     Sonavan voci alterne, e le tranquille
     Opre de’ servi. E che pensieri immensi,
     Che dolci sogni mi spirò la vista
     Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
     Che di qua scopro, e che varcare un giorno
     Io mi pensava, arcani mondi, arcana
     Felicità fingendo al viver mio!
     Ignaro del mio fato, e quante volte
     Questa mia vita dolorosa e nuda
     Volentier con la morte avrei cangiato.
     Né mi diceva il cor che l’età verde
     Sarei dannato a consumare in questo
     Natio borgo selvaggio, intra una gente
     Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
     Argomento di riso e di trastullo,
     Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
     Per invidia non già, che non mi tiene
     Maggior di sé, ma perché tale estima
     Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
     A persona giammai non ne fo segno.
     Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
     Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
     Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
     Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
     E sprezzator degli uomini mi rendo,
     Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
     Il caro tempo giovanil; più caro
     Che la fama e l’allor, più che la pura
     Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
     Senza un diletto, inutilmente, in questo
     Soggiorno disumano, intra gli affanni,
     O dell’arida vita unico fiore.
     Viene il vento recando il suon dell’ora
     Dalla torre del borgo. Era conforto
     Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
     Quando fanciullo, nella buia stanza,
     Per assidui terrori io vigilava,
     Sospirando il mattin. Qui non è cosa
     Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
     Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
     Dolce per sé; ma con dolor sottentra
     Il pensier del presente, un van desio
     Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
     Quella loggia colà, volta agli estremi
     Raggi del dì; queste dipinte mura,
     Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
     Su romita campagna, agli ozi miei
     Porser mille diletti allor che al fianco
     M’era, parlando, il mio possente errore
     Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
     Al chiaror delle nevi, intorno a queste
     Ampie finestre sibilando il vento,
     Rimbombaro i sollazzi e le festose
     Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
     Mistero delle cose a noi si mostra
     Pien di dolcezza; indelibata, intera
     Il garzoncel, come inesperto amante,
     La sua vita ingannevole vagheggia,
     E celeste beltà fingendo ammira.
     O speranze, speranze; ameni inganni
     Della mia prima età! sempre, parlando,
     Ritorno a voi; che per andar di tempo,
     Per variar d’affetti e di pensieri,
     Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
     Son la gloria e l’onor; diletti e beni
     Mero desio; non ha la vita un frutto,
     Inutile miseria. E sebben vòti
     Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
     Il mio stato mortal, poco mi toglie
     La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
     A voi ripenso, o mie speranze antiche,
     Ed a quel caro immaginar mio primo;
     Indi riguardo il viver mio sì vile
     E sì dolente, e che la morte è quello
     Che di cotanta speme oggi m’avanza;
     Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
     Consolarmi non so del mio destino.
     E quando pur questa invocata morte
     Sarammi allato, e sarà giunto il fine
     Della sventura mia; quando la terra
     Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
     Fuggirà l’avvenir; di voi per certo
     Risovverrammi; e quell’imago ancora
     Sospirar mi farà, farammi acerbo
     L’esser vissuto indarno, e la dolcezza
     Del dì fatal tempererà d’affanno.
     E già nel primo giovanil tumulto
     Di contenti, d’angosce e di desio,
     Morte chiamai più volte, e lungamente
     Mi sedetti colà su la fontana
     Pensoso di cessar dentro quell’acque
     La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
     Malor, condotto della vita in forse,
     Piansi la bella giovanezza, e il fiore
     De’ miei poveri dì, che sì per tempo
     Cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
     Sul conscio letto, dolorosamente
     Alla fioca lucerna poetando,
     Lamentai co’ silenzi e con la notte
     Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
     In sul languir cantai funereo canto.
     Chi rimembrar vi può senza sospiri,
     O primo entrar di giovinezza, o giorni
     Vezzosi, inenarrabili, allor quando
     Al rapito mortal primieramente
     Sorridon le donzelle; a gara intorno
     Ogni cosa sorride; invidia tace,
     Non desta ancora ovver benigna; e quasi
     (Inusitata maraviglia!) il mondo
     La destra soccorrevole gli porge,
     Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
     Suo venir nella vita, ed inchinando
     Mostra che per signor l’accolga e chiami?
     Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
     Son dileguati. E qual mortale ignaro
     Di sventura esser può, se a lui già scorsa
     Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
     Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
     O Nerina! e di te forse non odo
     Questi luoghi parlar? caduta forse
     Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
     Che qui sola di te la ricordanza
     Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
     Questa Terra natal: quella finestra,
     Ond’eri usata favellarmi, ed onde
     Mesto riluce delle stelle il raggio,
     È deserta. Ove sei, che più non odo
     La tua voce sonar, siccome un giorno,
     Quando soleva ogni lontano accento
     Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
     Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
     Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
     Il passar per la terra oggi è sortito,
     E l’abitar questi odorati colli.
     Ma rapida passasti; e come un sogno
     Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
     La gioia ti splendea, splendea negli occhi
     Quel confidente immaginar, quel lume
     Di gioventù, quando spegneali il fato,
     E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
     L’antico amor. Se a feste anco talvolta,
     Se a radunanze io movo, infra me stesso
     Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
     Tu non ti acconci più, tu più non movi.
     Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
     Van gli amanti recando alle fanciulle,
     Dico: Nerina mia, per te non torna
     Primavera giammai, non torna amore.
     Ogni giorno sereno, ogni fiorita
     Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
     Dico: Nerina or più non gode; i campi,
     L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
     Sospiro mio: passasti: e fia compagna
     D’ogni mio vago immaginar, di tutti
     I miei teneri sensi, i tristi e cari
     Moti del cor, la rimembranza acerba.



   XXIII. CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA


     Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
     Silenziosa luna?
     Sorgi la sera, e vai,
     Contemplando i deserti; indi ti posi.
     Ancor non sei tu paga
     Di riandare i sempiterni calli?
     Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
     Di mirar queste valli?
     Somiglia alla tua vita
     La vita del pastore.
     Sorge in sul primo albore;
     Move la greggia oltre pel campo, e vede
     Greggi, fontane ed erbe;
     Poi stanco si riposa in su la sera:
     Altro mai non ispera.
     Dimmi, o luna: a che vale
     Al pastor la sua vita,
     La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
     Questo vagar mio breve,
     Il tuo corso immortale?
     Vecchierel bianco, infermo,
     Mezzo vestito e scalzo,
     Con gravissimo fascio in su le spalle,
     Per montagna e per valle,
     Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
     Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
     L’ora, e quando poi gela,
     Corre via, corre, anela,
     Varca torrenti e stagni,
     Cade, risorge, e più e più s’affretta,
     Senza posa o ristoro,
     Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
     Colà dove la via
     E dove il tanto affaticar fu volto:
     Abisso orrido, immenso,
     Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
     Vergine luna, tale
     È la vita mortale.
     Nasce l’uomo a fatica,
     Ed è rischio di morte il nascimento.
     Prova pena e tormento
     Per prima cosa; e in sul principio stesso
     La madre e il genitore
     Il prende a consolar dell’esser nato.
     Poi che crescendo viene,
     L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
     Con atti e con parole
     Studiasi fargli core,
     E consolarlo dell’umano stato:
     Altro ufficio più grato
     Non si fa da parenti alla lor prole.
     Ma perché dare al sole,
     Perché reggere in vita
     Chi poi di quella consolar convenga?
     Se la vita è sventura
     Perché da noi si dura?
     Intatta luna, tale
     E` lo stato mortale.
     Ma tu mortal non sei,
     E forse del mio dir poco ti cale.
     Pur tu, solinga, eterna peregrina,
     Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
     Questo viver terreno,
     Il patir nostro, il sospirar, che sia;
     Che sia questo morir, questo supremo
     Scolorar del sembiante,
     E perir dalla terra, e venir meno
     Ad ogni usata, amante compagnia.
     E tu certo comprendi
     Il perché delle cose, e vedi il frutto
     Del mattin, della sera,
     Del tacito, infinito andar del tempo.
     Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
     Rida la primavera,
     A chi giovi l’ardore, e che procacci
     Il verno co’ suoi ghiacci.
     Mille cose sai tu, mille discopri,
     Che son celate al semplice pastore.
     Spesso quand’io ti miro
     Star così muta in sul deserto piano,
     Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
     Ovver con la mia greggia
     Seguirmi viaggiando a mano a mano;
     E quando miro in cielo arder le stelle;
     Dico fra me pensando:
     A che tante facelle?
     Che fa l’aria infinita, e quel profondo
     Infinito seren? che vuol dir questa
     Solitudine immensa? ed io che sono?
     Così meco ragiono: e della stanza
     Smisurata e superba,
     E dell’innumerabile famiglia;
     Poi di tanto adoprar, di tanti moti
     D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
     Girando senza posa,
     Per tornar sempre là donde son mosse;
     Uso alcuno, alcun frutto
     Indovinar non so. Ma tu per certo,
     Giovinetta immortal, conosci il tutto.
     Questo io conosco e sento,
     Che degli eterni giri,
     Che dell’esser mio frale,
     Qualche bene o contento
     Avrà fors’altri; a me la vita è male.
     O greggia mia che posi, oh te beata,
     Che la miseria tua, credo, non sai!
     Quanta invidia ti porto!
     Non sol perché d’affanno
     Quasi libera vai;
     Ch’ogni stento, ogni danno,
     Ogni estremo timor subito scordi;
     Ma più perché giammai tedio non provi.
     Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
     Tu se’ queta e contenta;
     E gran parte dell’anno
     Senza noia consumi in quello stato.
     Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
     E un fastidio m’ingombra
     La mente, ed uno spron quasi mi punge
     Sì che, sedendo, più che mai son lunge
     Da trovar pace o loco.
     E pur nulla non bramo,
     E non ho fino a qui cagion di pianto.
     Quel che tu goda o quanto,
     Non so già dir; ma fortunata sei.
     Ed io godo ancor poco,
     O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
     Se tu parlar sapessi, io chiederei:
     Dimmi: perché giacendo
     A bell’agio, ozioso,
     S’appaga ogni animale;
     Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
     Forse s’avess’io l’ale
     Da volar su le nubi,
     E noverar le stelle ad una ad una,
     O come il tuono errar di giogo in giogo,
     Più felice sarei, dolce mia greggia,
     Più felice sarei, candida luna.
     O forse erra dal vero,
     Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
     Forse in qual forma, in quale
     Stato che sia, dentro covile o cuna,
     È funesto a chi nasce il dì natale.



   XXIV. LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA


     Passata è la tempesta:
     Odo augelli far festa, e la gallina,
     Tornata in su la via,
     Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
     Rompe là da ponente, alla montagna;
     Sgombrasi la campagna,
     E chiaro nella valle il fiume appare.
     Ogni cor si rallegra, in ogni lato
     Risorge il romorio
     Torna il lavoro usato.
     L’artigiano a mirar l’umido cielo,
     Con l’opra in man, cantando,
     Fassi in su l’uscio; a prova
     Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
     Della novella piova;
     E l’erbaiuol rinnova
     Di sentiero in sentiero
     Il grido giornaliero.
     Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
     Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
     Apre terrazzi e logge la famiglia:
     E, dalla via corrente, odi lontano
     Tintinnio di sonagli; il carro stride
     Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
     Si rallegra ogni core.
     Sì dolce, sì gradita
     Quand’è, com’or, la vita?
     Quando con tanto amore
     L’uomo a’ suoi studi intende?
     O torna all’opre? o cosa nova imprende?
     Quando de’ mali suoi men si ricorda?
     Piacer figlio d’affanno;
     Gioia vana, ch’è frutto
     Del passato timore, onde si scosse
     E paventò la morte
     Chi la vita abborria;
     Onde in lungo tormento,
     Fredde, tacite, smorte,
     Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
     Mossi alle nostre offese
     Folgori, nembi e vento.
     O natura cortese,
     Son questi i doni tuoi,
     Questi i diletti sono
     Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
     È diletto fra noi.
     Pene tu spargi a larga mano; il duolo
     Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
     Che per mostro e miracolo talvolta
     Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
     Prole cara agli eterni! assai felice
     Se respirar ti lice
     D’alcun dolor: beata
     Se te d’ogni dolor morte risana.



   XXV. IL SABATO DEL VILLAGGIO


     La donzelletta vien dalla campagna,
     In sul calar del sole,
     Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
     Un mazzolin di rose e di viole,
     Onde, siccome suole,
     Ornare ella si appresta
     Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
     Siede con le vicine
     Su la scala a filar la vecchierella,
     Incontro là dove si perde il giorno;
     E novellando vien del suo buon tempo,
     Quando ai dì della festa ella si ornava,
     Ed ancor sana e snella
     Solea danzar la sera intra di quei
     Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
     Già tutta l’aria imbruna,
     Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
     Giù da’ colli e da’ tetti,
     Al biancheggiar della recente luna.
     Or la squilla dà segno
     Della festa che viene;
     Ed a quel suon diresti
     Che il cor si riconforta.
     I fanciulli gridando
     Su la piazzuola in frotta,
     E qua e là saltando,
     Fanno un lieto romore:
     E intanto riede alla sua parca mensa,
     Fischiando, il zappatore,
     E seco pensa al dì del suo riposo.
     Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
     E tutto l’altro tace,
     Odi il martel picchiare, odi la sega
     Del legnaiuol, che veglia
     Nella chiusa bottega alla lucerna,
     E s’affretta, e s’adopra
     Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
     Questo di sette è il più gradito giorno,
     Pien di speme e di gioia:
     Diman tristezza e noia
     Recheran l’ore, ed al travaglio usato
     Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
     Garzoncello scherzoso,
     Cotesta età fiorita
     È come un giorno d’allegrezza pieno,
     Giorno chiaro, sereno,
     Che precorre alla festa di tua vita.
     Godi, fanciullo mio; stato soave,
     Stagion lieta è cotesta.
     Altro dirti non vo’; ma la tua festa
     Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.



   XXVI. IL PENSIERO DOMINANTE


     Dolcissimo, possente
     Dominator di mia profonda mente;
     Terribile, ma caro
     Dono del ciel; consorte
     Ai lùgubri miei giorni,
     Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
     Di tua natura arcana
     Chi non favella? il suo poter fra noi
     Chi non sentì? Pur sempre
     Che in dir gli effetti suoi
     Le umane lingue il sentir proprio sprona,
     Par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona.
     Come solinga è fatta
     La mente mia d’allora
     Che tu quivi prendesti a far dimora!
     Ratto d’intorno intorno al par del lampo
     Gli altri pensieri miei
     Tutti si dileguàr. Siccome torre
     In solitario campo,
     Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
     Che divenute son, fuor di te solo,
     Tutte l’opre terrene,
     Tutta intera la vita al guardo mio!
     Che intollerabil noia
     Gli ozi, i commerci usati,
     E di vano piacer la vana spene,
     Allato a quella gioia,
     Gioia celeste che da te mi viene!
     Come da’ nudi sassi
     Dello scabro Apennino
     A un campo verde che lontan sorrida
     Volge gli occhi bramoso il pellegrino;
     Tal io dal secco ed aspro
     Mondano conversar vogliosamente,
     Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
     E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.
     Quasi incredibil parmi
     Che la vita infelice e il mondo sciocco
     Già per gran tempo assai
     Senza te sopportai;
     Quasi intender non posso
     Come d’altri desiri,
     Fuor ch’a te somiglianti, altri sospiri.
     Giammai d’allor che in pria
     Questa vita che sia per prova intesi,
     Timor di morte non mi strinse il petto.
     Oggi mi pare un gioco
     Quella che il mondo inetto,
     Talor lodando, ognora abborre e trema,
     Necessitade estrema;
     E se periglio appar, con un sorriso
     Le sue minacce a contemplar m’affiso.
     Sempre i codardi, e l’alme
     Ingenerose, abbiette
     Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
     Subito i sensi miei;
     Move l’alma ogni esempio
     Dell’umana viltà subito a sdegno.
     Di questa età superba,
     Che di vote speranze si nutrica,
     Vaga di ciance, e di virtù nemica;
     Stolta, che l’util chiede,
     E inutile la vita
     Quindi più sempre divenir non vede;
     Maggior mi sento. A scherno
     Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
     A’ bei pensieri infesto,
     E degno tuo disprezzator, calpesto.
     A quello onde tu movi,
     Quale affetto non cede?
     Anzi qual altro affetto
     Se non quell’uno intra i mortali ha sede?
     Avarizia, superbia, odio, disdegno,
     Studio d’onor, di regno,
     Che sono altro che voglie
     Al paragon di lui? Solo un affetto
     Vive tra noi: quest’uno,
     Prepotente signore,
     Dieder l’eterne leggi all’uman core.
     Pregio non ha, non ha ragion la vita
     Se non per lui, per lui ch’all’uomo è tutto;
     Sola discolpa al fato,
     Che noi mortali in terra
     Pose a tanto patir senz’altro frutto;
     Solo per cui talvolta,
     Non alla gente stolta, al cor non vile
     La vita della morte è più gentile.
     Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
     Provar gli umani affanni,
     E sostener molt’anni
     Questa vita mortal, fu non indegno;
     Ed ancor tornerei,
     Così qual son de’ nostri mali esperto,
     Verso un tal segno a incominciare il corso:
     Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
     Giammai finor sì stanco
     Per lo mortal deserto
     Non venni a te, che queste nostre pene
     Vincer non mi paresse un tanto bene.
     Che mondo mai, che nova
     Immensità, che paradiso è quello
     Là dove spesso il tuo stupendo incanto
     Parmi innalzar! dov’io,
     Sott’altra luce che l’usata errando,
     Il mio terreno stato
     E tutto quanto il ver pongo in obblio!
     Tali son, credo, i sogni
     Degl’immortali. Ahi finalmente un sogno
     In molta parte onde s’abbella il vero
     Sei tu, dolce pensiero;
     Sogno e palese error. Ma di natura,
     Infra i leggiadri errori,
     Divina sei; perché sì viva e forte,
     Che incontro al ver tenacemente dura,
     E spesso al ver s’adegua,
     Né si dilegua pria, che in grembo a morte.
     E tu per certo, o mio pensier, tu solo
     Vitale ai giorni miei,
     Cagion diletta d’infiniti affanni,
     Meco sarai per morte a un tempo spento:
     Ch’a vivi segni dentro l’alma io sento
     Che in perpetuo signor dato mi sei.
     Altri gentili inganni
     Soleami il vero aspetto
     Più sempre infievolir. Quanto più torno
     A riveder colei
     Della qual teco ragionando io vivo,
     Cresce quel gran diletto,
     Cresce quel gran delirio, ond’io respiro.
     Angelica beltade!
     Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
     Quasi una finta imago
     Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
     D’ogni altra leggiadria,
     Sola vera beltà parmi che sia.
     Da che ti vidi pria,
     Di qual mia seria cura ultimo obbietto
     Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
     Ch’io di te non pensassi? ai sogni miei
     La tua sovrana imago
     Quante volte mancò? Bella qual sogno,
     Angelica sembianza,
     Nella terrena stanza,
     Nell’alte vie dell’universo intero,
     Che chiedo io mai, che spero
     Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
     Altro più dolce aver che il tuo pensiero?



   XXVII. AMORE E MORTE

   Muor giovane colui ch’al cielo è caro
 Menandro



     Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
     Ingenerò la sorte.
     Cose quaggiù sì belle
     Altre il mondo non ha, non han le stelle.
     Nasce dall’uno il bene,
     Nasce il piacer maggiore
     Che per lo mar dell’essere si trova;
     L’altra ogni gran dolore,
     Ogni gran male annulla.
     Bellissima fanciulla,
     Dolce a veder, non quale
     La si dipinge la codarda gente,
     Gode il fanciullo Amore
     Accompagnar sovente;
     E sorvolano insiem la via mortale,
     Primi conforti d’ogni saggio core.
     Né cor fu mai più saggio
     Che percosso d’amor, né mai più forte
     Sprezzò l’infausta vita,
     Né per altro signore
     Come per questo a perigliar fu pronto:
     Ch’ove tu porgi aita,
     Amor, nasce il coraggio,
     O si ridesta; e sapiente in opre,
     Non in pensiero invan, siccome suole,
     Divien l’umana prole.
     Quando novellamente
     Nasce nel cor profondo
     Un amoroso affetto,
     Languido e stanco insiem con esso in petto
     Un desiderio di morir si sente:
     Come, non so: ma tale
     D’amor vero e possente è il primo effetto.
     Forse gli occhi spaura
     Allor questo deserto: a sé la terra
     Forse il mortale inabitabil fatta
     Vede omai senza quella
     Nova, sola, infinita
     Felicità che il suo pensier figura:
     Ma per cagion di lei grave procella
     Presentendo in suo cor, brama quiete,
     Brama raccorsi in porto
     Dinanzi al fier disio,
     Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.
     Poi, quando tutto avvolge
     La formidabil possa,
     E fulmina nel cor l’invitta cura,
     Quante volte implorata
     Con desiderio intenso,
     Morte, sei tu dall’affannoso amante!
     Quante la sera, e quante,
     Abbandonando all’alba il corpo stanco,
     Sé beato chiamò s’indi giammai
     Non rilevasse il fianco,
     Né tornasse a veder l’amara luce!
     E spesso al suon della funebre squilla,
     Al canto che conduce
     La gente morta al sempiterno obblio,
     Con più sospiri ardenti
     Dall’imo petto invidiò colui
     Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
     Fin la negletta plebe,
     L’uom della villa, ignaro
     D’ogni virtù che da saper deriva,
     Fin la donzella timidetta e schiva,
     Che già di morte al nome
     Sentì rizzar le chiome,
     Osa alla tomba, alle funeree bende
     Fermar lo sguardo di costanza pieno,
     Osa ferro e veleno
     Meditar lungamente,
     E nell’indotta mente
     La gentilezza del morir comprende.
     Tanto alla morte inclina
     D’amor la disciplina. Anco sovente,
     A tal venuto il gran travaglio interno
     Che sostener nol può forza mortale,
     O cede il corpo frale
     Ai terribili moti, e in questa forma
     Pel fraterno poter Morte prevale;
     O così sprona Amor là nel profondo,
     Che da se stessi il villanello ignaro,
     La tenera donzella
     Con la man violenta
     Pongon le membra giovanili in terra.
     Ride ai lor casi il mondo,
     A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.
     Ai fervidi, ai felici,
     Agli animosi ingegni
     L’uno o l’altro di voi conceda il fato,
     Dolci signori, amici
     All’umana famiglia,
     Al cui poter nessun poter somiglia
     Nell’immenso universo, e non l’avanza,
     Se non quella del fato, altra possanza.
     E tu, cui già dal cominciar degli anni
     Sempre onorata invoco,
     Bella Morte, pietosa
     Tu sola al mondo dei terreni affanni,
     Se celebrata mai
     Fosti da me, s’al tuo divino stato
     L’onte del volgo ingrato
     Ricompensar tentai,
     Non tardar più, t’inchina
     A disusati preghi,
     Chiudi alla luce omai
     Questi occhi tristi, o dell’età reina.
     Me certo troverai, qual si sia l’ora
     Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
     Erta la fronte, armato,
     E renitente al fato,
     La man che flagellando si colora
     Nel mio sangue innocente
     Non ricolmar di lode,
     Non benedir, com’usa
     Per antica viltà l’umana gente;
     Ogni vana speranza onde consola
     Se coi fanciulli il mondo,
     Ogni conforto stolto
     Gittar da me; null’altro in alcun tempo
     Sperar, se non te sola;
     Solo aspettar sereno
     Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto
     Nel tuo virgineo seno.



   XXVIII. A SE STESSO


     Or poserai per sempre,
     Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
     Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
     In noi di cari inganni,
     Non che la speme, il desiderio è spento.
     Posa per sempre. Assai
     Palpitasti. Non val cosa nessuna
     I moti tuoi, né di sospiri è degna
     La terra. Amaro e noia
     La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
     T’acqueta omai. Dispera
     L’ultima volta. Al gener nostro il fato
     Non donò che il morire. Omai disprezza
     Te, la natura, il brutto
     Poter che, ascoso, a comun danno impera,
     E l’infinita vanità del tutto.



   XXIX. ASPASIA


     Torna dinanzi al mio pensier talora
     Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
     Per abitati lochi a me lampeggia
     In altri volti; o per deserti campi,
     Al dì sereno, alle tacenti stelle,
     Da soave armonia quasi ridesta,
     Nell’alma a sgomentarsi ancor vicina
     Quella superba vision risorge.
     Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
     Mia delizia ed erinni! E mai non sento
     Mover profumo di fiorita piaggia,
     Né di fiori olezzar vie cittadine,
     Ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno
     Che ne’ vezzosi appartamenti accolta,
     Tutti odorati de’ novelli fiori
     Di primavera, del color vestita
     Della bruna viola, a me si offerse
     L’angelica tua forma, inchino il fianco
     Sovra nitide pelli, e circonfusa
     D’arcana voluttà; quando tu, dotta
     Allettatrice, fervidi sonanti
     Baci scoccavi nelle curve labbra
     De’ tuoi bambini, il niveo collo intanto
     Porgendo, e lor di tue cagioni ignari
     Con la man leggiadrissima stringevi
     Al seno ascoso e disiato. Apparve
     Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
     Divino al pensier mio. Così nel fianco
     Non punto inerme a viva forza impresse
     Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
     Ululando portai finch’a quel giorno
     Si fu due volte ricondotto il sole.
     Raggio divino al mio pensiero apparve,
     Donna, la tua beltà. Simile effetto
     Fan la bellezza e i musicali accordi,
     Ch’alto mistero d’ignorati Elisi
     Paion sovente rivelar. Vagheggia
     Il piagato mortal quindi la figlia
     Della sua mente, l’amorosa idea,
     Che gran parte d’Olimpo in sé racchiude,
     Tutta al volto ai costumi alla favella
     Pari alla donna che il rapito amante
     Vagheggiare ed amar confuso estima.
     Or questa egli non già, ma quella, ancora
     Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
     Alfin l’errore e gli scambiati oggetti
     Conoscendo, s’adira; e spesso incolpa
     La donna a torto. A quella eccelsa imago
     Sorge di rado il femminile ingegno;
     E ciò che inspira ai generosi amanti
     La sua stessa beltà, donna non pensa,
     Né comprender potria. Non cape in quelle
     Anguste fronti ugual concetto. E male
     Al vivo sfolgorar di quegli sguardi
     Spera l’uomo ingannato, e mal richiede
     Sensi profondi, sconosciuti, e molto
     Più che virili, in chi dell’uomo al tutto
     Da natura è minor. Che se più molli
     E più tenui le membra, essa la mente
     Men capace e men forte anco riceve.
     Né tu finor giammai quel che tu stessa
     Inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
     Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
     Che smisurato amor, che affanni intensi,
     Che indicibili moti e che deliri
     Movesti in me; né verrà tempo alcuno
     Che tu l’intenda. In simil guisa ignora
     Esecutor di musici concenti
     Quel ch’ei con mano o con la voce adopra
     In chi l’ascolta. Or quell’Aspasia è morta
     Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
     Della mia vita un dì: se non se quanto,
     Pur come cara larva, ad ora ad ora
     Tornar costuma e disparir. Tu vivi,
     Bella non solo ancor, ma bella tanto,
     Al parer mio, che tutte l’altre avanzi.
     Pur quell’ardor che da te nacque è spento:
     Perch’io te non amai, ma quella Diva
     Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.
     Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque
     Sua celeste beltà, ch’io, per insino
     Già dal principio conoscente e chiaro
     Dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi,
     Pur ne’ tuoi contemplando i suoi begli occhi,
     Cupido ti seguii finch’ella visse,
     Ingannato non già, ma dal piacere
     Di quella dolce somiglianza un lungo
     Servaggio ed aspro a tollerar condotto.
     Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola
     Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
     L’altero capo, a cui spontaneo porsi
     L’indomito mio cor. Narra che prima,
     E spero ultima certo, il ciglio mio
     Supplichevol vedesti, a te dinanzi
     Me timido, tremante (ardo in ridirlo
     Di sdegno e di rossor), me di me privo,
     Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
     Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi
     Fastidi impallidir, brillare in volto
     Ad un segno cortese, ad ogni sguardo
     Mutar forma e color. Cadde l’incanto,
     E spezzato con esso, a terra sparso
     Il giogo: onde m’allegro. E sebben pieni
     Di tedio, alfin dopo il servire e dopo
     Un lungo vaneggiar, contento abbraccio
     Senno con libertà. Che se d’affetti
     Orba la vita, e di gentili errori,
     È notte senza stelle a mezzo il verno,
     Già del fato mortale a me bastante
     E conforto e vendetta è che su l’erba
     Qui neghittoso immobile giacendo,
     Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.



   XXX. SOPRA UN BASSORILIEVO ANTICO SEPOLCRALE, DOVE UNA GIOVANE MORTA È RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE, ACCOMIATANDOSI DAI SUOI


     Dove vai? chi ti chiama
     Lunge dai cari tuoi,
     Bellissima donzella?
     Sola, peregrinando, il patrio tetto
     Sì per tempo abbandoni? a queste soglie
     Tornerai tu? farai tu lieti un giorno
     Questi ch’oggi ti son piangendo intorno?
     Asciutto il ciglio ed animosa in atto,
     Ma pur mesta sei tu. Grata la via
     O dispiacevol sia, tristo il ricetto
     A cui movi o giocondo,
     Da quel tuo grave aspetto
     Mal s’indovina. Ahi ahi, né già potria
     Fermare io stesso in me, né forse al mondo
     S’intese ancor, se in disfavore al cielo,
     Se cara esser nomata,
     Se misera tu debbi o fortunata.
     Morte ti chiama; al cominciar del giorno
     L’ultimo istante. Al nido onde ti parti,
     Non tornerai. L’aspetto
     De’ tuoi dolci parenti
     Lasci per sempre. Il loco
     A cui movi, è sotterra:
     Ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno.
     Forse beata sei; ma pur chi mira,
     Seco pensando, al tuo destin, sospira.
     Mai non veder la luce
     Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo
     Che reina bellezza si dispiega
     Nelle membra e nel volto,
     Ed incomincia il mondo
     Verso lei di lontano ad atterrarsi;
     In sul fiorir d’ogni speranza, e molto
     Prima che incontro alla festosa fronte
     I lùgubri suoi lampi il ver baleni;
     Come vapore in nuvoletta accolto
     Sotto forme fugaci all’orizzonte,
     Dileguarsi così quasi non sorta,
     E cangiar con gli oscuri
     Silenzi della tomba i dì futuri,
     Questo se all’intelletto
     Appar felice, invade
     D’alta pietade ai più costanti il petto.
     Madre temuta e pianta
     Dal nascer già dell’animal famiglia,
     Natura, illaudabil maraviglia,
     Che per uccider partorisci e nutri,
     Se danno è del mortale
     Immaturo perir, come il consenti
     In quei capi innocenti?
     Se ben, perché funesta,
     Perché sovra ogni male,
     A chi si parte, a chi rimane in vita,
     Inconsolabil fai tal dipartita?
     Misera ovunque miri,
     Misera onde si volga, ove ricorra,
     Questa sensibil prole!
     Piacqueti che delusa
     Fosse ancor dalla vita
     La speme giovanil; piena d’affanni
     L’onda degli anni; ai mali unico schermo
     La morte; e questa inevitabil segno,
     Questa, immutata legge
     Ponesti all’uman corso. Ahi perché dopo
     Le travagliose strade, almen la meta
     Non ci prescriver lieta? anzi colei
     Che per certo futura
     Portiam sempre, vivendo, innanzi all’alma,
     Colei che i nostri danni
     Ebber solo conforto,
     Velar di neri panni,
     Cinger d’ombra sì trista,
     E spaventoso in vista
     Più d’ogni flutto dimostrarci il porto?
     Già se sventura è questo
     Morir che tu destini
     A tutti noi che senza colpa, ignari,
     Né volontari al vivere abbandoni,
     Certo ha chi more invidiabil sorte
     A colui che la morte
     Sente de’ cari suoi. Che se nel vero,
     Com’io per fermo estimo,
     Il vivere è sventura,
     Grazia il morir, chi però mai potrebbe,
     Quel che pur si dovrebbe,
     Desiar de’ suoi cari il giorno estremo,
     Per dover egli scemo
     Rimaner di se stesso,
     Veder d’in su la soglia levar via
     La diletta persona
     Con chi passato avrà molt’anni insieme,
     E dire a quella addio senz’altra speme
     Di riscontrarla ancora
     Per la mondana via;
     Poi solitario abbandonato in terra,
     Guardando attorno, all’ore ai lochi usati
     Rimemorar la scorsa compagnia?
     Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre
     Di strappar dalle braccia
     All’amico l’amico,
     Al fratello il fratello,
     La prole al genitore,
     All’amante l’amore: e l’uno estinto,
     L’altro in vita serbar? Come potesti
     Far necessario in noi
     Tanto dolor, che sopravviva amando
     Al mortale il mortal? Ma da natura
     Altro negli atti suoi
     Che nostro male o nostro ben si cura.



   XXXI. SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA


     Tal fosti: or qui sotterra
     Polve e scheletro sei. Su l’ossa e il fango
     Immobilmente collocato invano,
     Muto, mirando dell’etadi il volo,
     Sta, di memoria solo
     E di dolor custode, il simulacro
     Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo,
     Che tremar fe’, se, come or sembra, immoto
     In altrui s’affisò; quel labbro, ond’alto
     Par, come d’urna piena,
     Traboccare il piacer; quel collo, cinto
     Già di desio; quell’amorosa mano,
     Che spesso, ove fu porta,
     Sentì gelida far la man che strinse;
     E il seno, onde la gente
     Visibilmente di pallor si tinse,
     Furo alcun tempo: or fango
     Ed ossa sei: la vista
     Vituperosa e trista un sasso asconde.
     Così riduce il fato
     Qual sembianza fra noi parve più viva
     Immagine del ciel. Misterio eterno
     Dell’esser nostro. Oggi d’eccelsi, immensi
     Pensieri e sensi inenarrabil fonte,
     Beltà grandeggia, e pare,
     Quale splendor vibrato
     Da natura immortal su queste arene,
     Di sovrumani fati,
     Di fortunati regni e d’aurei mondi
     Segno e sicura spene
     Dare al mortale stato:
     Diman, per lieve forza,
     Sozzo a vedere, abominoso, abbietto
     Divien quel che fu dianzi
     Quasi angelico aspetto,
     E dalle menti insieme
     Quel che da lui moveva
     Ammirabil concetto, si dilegua.
     Desiderii infiniti
     E visioni altere
     Crea nel vago pensiere,
     Per natural virtù, dotto concento;
     Onde per mar delizioso, arcano
     Erra lo spirto umano,
     Quasi come a diporto
     Ardito notator per l’Oceano:
     Ma se un discorde accento
     Fere l’orecchio, in nulla
     Torna quel paradiso in un momento.
     Natura umana, or come,
     Se frale in tutto e vile,
     Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?
     Se in parte anco gentile,
     Come i più degni tuoi moti e pensieri
     Son così di leggeri
     Da sì basse cagioni e desti e spenti?



   XXXII. PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI

   Il sempre sospirar nulla rileva.
 Petrarca



     Errai, candido Gino; assai gran tempo,
     E di gran lunga errai. Misera e vana
     Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
     La stagion ch’or si volge. Intolleranda
     Parve, e fu, la mia lingua alla beata
     Prole mortal, se dir si dee mortale
     L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,
     Dall’Eden odorato in cui soggiorna,
     Rise l’alta progenie, e me negletto
     Disse, o mal venturoso, e di piaceri
     O incapace o inesperto, il proprio fato
     Creder comune, e del mio mal consorte
     L’umana specie. Alfin per entro il fumo
     De’ sigari onorato, al romorio
     De’ crepitanti pasticcini, al grido
     Militar, di gelati e di bevande
     Ordinator, fra le percosse tazze
     E i branditi cucchiai, viva rifulse
     Agli occhi miei la giornaliera luce
     Delle gazzette. Riconobbi e vidi
     La pubblica letizia, e le dolcezze
     Del destino mortal. Vidi l’eccelso
     Stato e il valor delle terrene cose,
     E tutto fiori il corso umano, e vidi
     Come nulla quaggiù dispiace e dura.
     Né men conobbi ancor gli studi e l’opre
     Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
     Saver del secol mio. Né vidi meno
     Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo,
     E da Boston a Goa, correr dell’alma
     Felicità su l’orme a gara ansando
     Regni, imperi e ducati; e già tenerla
     O per le chiome fluttuanti, o certo
     Per l’estremo del boa. Così vedendo,
     E meditando sovra i larghi fogli
     Profondamente, del mio grave, antico
     Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
     Auro secolo omai volgono, o Gino,
     I fusi delle Parche. Ogni giornale,
     Gener vario di lingue e di colonne,
     Da tutti i lidi lo promette al mondo
     Concordemente. Universale amore,
     Ferrate vie, moltiplici commerci,
     Vapor, tipi e choléra i più divisi
     Popoli e climi stringeranno insieme:
     Né maraviglia fia se pino o quercia
     Suderà latte e mele, o s’anco al suono
     D’un walser danzerà. Tanto la possa
     Infin qui de’ lambicchi e delle storte,
     E le macchine al cielo emulatrici
     Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
     Che seguirà; poiché di meglio in meglio
     Senza fin vola e volerà mai sempre
     Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
     Ghiande non ciberà certo la terra
     Però, se fame non la sforza: il duro
     Ferro non deporrà. Ben molte volte
     Argento ed or disprezzerà, contenta
     A polizze di cambio. E già dal caro
     Sangue de’ suoi non asterrà la mano
     La generosa stirpe: anzi coverte
     Fien di stragi l’Europa e l’altra riva
     Dell’atlantico mar, fresca nutrice
     Di pura civiltà, sempre che spinga
     Contrarie in campo le fraterne schiere
     Di pepe o di cannella o d’altro aroma
     Fatal cagione, o di melate canne,
     O cagion qual si sia ch’ad auro torni.
     Valor vero e virtù, modestia e fede
     E di giustizia amor, sempre in qualunque
     Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
     Da’ comuni negozi, ovvero in tutto
     Sfortunati saranno, afflitti e vinti;
     Perché diè lor natura, in ogni tempo
     Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
     Con mediocrità, regneran sempre,
     A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
     Quanto più vogli o cumulate o sparse,
     Abuserà chiunque avralle, e sotto
     Qualunque nome. Questa legge in pria
     Scrisser natura e il fato in adamante;
     E co’ fulmini suoi Volta né Davy
     Lei non cancellerà, non Anglia tutta
     Con le macchine sue, né con un Gange
     Di politici scritti il secol novo.
     Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
     Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
     In arme tutti congiurati i mondi
     Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
     Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
     Il debole, cultor de’ ricchi e servo
     Il digiuno mendico, in ogni forma
     Di comun reggimento, o presso o lungi
     Sien l’eclittica o i poli, eternamente
     Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
     E la face del dì non vengon meno.
     Queste lievi reliquie e questi segni
     Delle passate età, forza è che impressi
     Porti quella che sorge età dell’oro:
     Perché mille discordi e repugnanti
     L’umana compagnia principii e parti
     Ha per natura; e por quegli odii in pace
     Non valser gl’intelletti e le possanze
     Degli uomini giammai, dal dì che nacque
     L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque
     Saggio sia né possente, al secol nostro
     Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
     Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
     Fia la mortal felicità. Più molli
     Di giorno in giorno diverran le vesti
     O di lana o di seta. I rozzi panni
     Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
     Chiuderanno in coton la scabra pelle,
     E di castoro copriran le schiene.
     Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
     Certamente a veder, tappeti e coltri,
     Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
     Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
     Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
     E nove forme di paiuoli, e nove
     Pentole ammirerà l’arsa cucina.
     Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
     Da Londra a Liverpool, rapido tanto
     Sarà, quant’altri immaginar non osa,
     Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie
     Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
     Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso
     Dovea, già son molt’anni. Illuminate
     Meglio ch’or son, benché sicure al pari,
     Nottetempo saran le vie men trite
     Delle città sovrane, e talor forse
     Di suddita città le vie maggiori.
     Tali dolcezze e sì beata sorte
     Alla prole vegnente il ciel destina.
     Fortunati color che mentre io scrivo
     Miagolanti in su le braccia accoglie
     La levatrice! a cui veder s’aspetta
     Quei sospirati dì, quando per lunghi
     Studi fia noto, e imprenderà col latte
     Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
     Quanto peso di sal, quanto di carni,
     E quante moggia di farina inghiotta
     Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
     In ciascun anno partoriti e morti
     Scriva il vecchio prior: quando, per opra
     Di possente vapore, a milioni
     Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
     E credo anco del mar gl’immensi tratti,
     Come d’aeree gru stuol che repente
     Alle late campagne il giorno involi,
     Copriran le gazzette, anima e vita
     Dell’universo, e di savere a questa
     Ed alle età venture unica fonte!
     Quale un fanciullo, con assidua cura,
     Di fogliolini e di fuscelli, in forma
     O di tempio o di torre o di palazzo,
     Un edificio innalza; e come prima
     Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
     Perché gli stessi a lui fuscelli e fogli
     Per novo lavorio son di mestieri;
     Così natura ogni opra sua, quantunque
     D’alto artificio a contemplar, non prima
     Vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
     Le parti sciolte dispensando altrove.
     E indarno a preservar se stesso ed altro
     Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
     Eternamente, il mortal seme accorre
     Mille virtudi oprando in mille guise
     Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
     La natura crudel, fanciullo invitto,
     Il suo capriccio adempie, e senza posa
     Distruggendo e formando si trastulla.
     Indi varia, infinita una famiglia
     Di mali immedicabili e di pene
     Preme il fragil mortale, a perir fatto
     Irreparabilmente: indi una forza
     Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
     E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
     Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
     Essa indefatigata; insin ch’ei giace
     Alfin dall’empia madre oppresso e spento.
     Queste, o spirto gentil, miserie estreme
     Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
     Ch’han principio d’allor che il labbro infante
     Preme il tenero sen che vita instilla;
     Emendar, mi cred’io, non può la lieta
     Nonadecima età più che potesse
     La decima o la nona, e non potranno
     Più di questa giammai l’età future.
     Però, se nominar lice talvolta
     Con proprio nome il ver, non altro in somma
     Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
     E non pur ne’ civili ordini e modi,
     Ma della vita in tutte l’altre parti,
     Per essenza insanabile, e per legge
     Universal, che terra e cielo abbraccia,
     Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
     Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
     Spirti del secol mio: che, non potendo
     Felice in terra far persona alcuna,
     L’uomo obbliando, a ricercar si diero
     Una comun felicitade; e quella
     Trovata agevolmente, essi di molti
     Tristi e miseri tutti, un popol fanno
     Lieto e felice: e tal portento, ancora
     Da pamphlets, da riviste e da gazzette
     Non dichiarato, il civil gregge ammira.
     Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
     Dell’età ch’or si volge! E che sicuro
     Filosofar, che sapienza, o Gino,
     In più sublimi ancora e più riposti
     Subbietti insegna ai secoli futuri
     Il mio secolo e tuo! Con che costanza
     Quel che ieri schernì, prosteso adora
     Oggi, e domani abbatterà, per girne
     Raccozzando i rottami, e per riporlo
     Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente!
     Quanto estimar si dee, che fede inspira
     Del secol che si volge, anzi dell’anno,
     Il concorde sentir! con quanta cura
     Convienci a quel dell’anno, al qual difforme
     Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro
     Comparando, fuggir che mai d’un punto
     Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
     Se al moderno si opponga il tempo antico,
     Filosofando il saper nostro è scorso!
     Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco
     Di poetar maestro, anzi di tutte
     Scienze ed arti e facoltadi umane,
     E menti che fur mai, sono e saranno,
     Dottore, emendator, lascia, mi disse,
     I propri affetti tuoi. Di lor non cura
     Questa virile età, volta ai severi
     Economici studi, e intenta il ciglio
     Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
     Esplorar che ti val? Materia al canto
     Non cercar dentro te. Canta i bisogni
     Del secol nostro, e la matura speme.
     Memorande sentenze! ond’io solenni
     Le risa alzai quando sonava il nome
     Della speranza al mio profano orecchio
     Quasi comica voce, o come un suono
     Di lingua che dal latte si scompagni.
     Or torno addietro, ed al passato un corso
     Contrario imprendo, per non dubbi esempi
     Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi,
     Non contraddir, non repugnar, se lode
     Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
     Adulando ubbidir: così per breve
     Ed agiato cammin vassi alle stelle.
     Ond’io, degli astri desioso, al canto
     Del secolo i bisogni omai non penso
     Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
     Provveggono i mercati e le officine
     Già largamente; ma la speme io certo
     Dirò, la speme, onde visibil pegno
     Già concedon gli Dei; già, della nova
     Felicità principio, ostenta il labbro
     De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo.
     O salve, o segno salutare, o prima
     Luce della famosa età che sorge.
     Mira dinanzi a te come s’allegra
     La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
     Delle donzelle, e per conviti e feste
     Qual de’ barbati eroi fama già vola.
     Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
     Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli
     Italia crescerà, crescerà tutta
     Dalle foci del Tago all’Ellesponto
     Europa, e il mondo poserà sicuro.
     E tu comincia a salutar col riso
     Gl’ispidi genitori, o prole infante,
     Eletta agli aurei dì: né ti spauri
     L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
     Ridi, o tenera prole: a te serbato
     È di cotanto favellare il frutto;
     Veder gioia regnar, cittadi e ville,
     Vecchiezza e gioventù del par contente,
     E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.



   XXXIII. IL TRAMONTO DELLA LUNA


     Quale in notte solinga,
     Sovra campagne inargentate ed acque,
     Là ‘ve zefiro aleggia,
     E mille vaghi aspetti
     E ingannevoli obbietti
     Fingon l’ombre lontane
     Infra l’onde tranquille
     E rami e siepi e collinette e ville;
     Giunta al confin del cielo,
     Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
     Nell’infinito seno
     Scende la luna; e si scolora il mondo;
     Spariscon l’ombre, ed una
     Oscurità la valle e il monte imbruna;
     Orba la notte resta,
     E cantando, con mesta melodia,
     L’estremo albor della fuggente luce,
     Che dianzi gli fu duce,
     Saluta il carrettier dalla sua via;
     Tal si dilegua, e tale
     Lascia l’età mortale
     La giovinezza. In fuga
     Van l’ombre e le sembianze
     Dei dilettosi inganni; e vengon meno
     Le lontane speranze,
     Ove s’appoggia la mortal natura.
     Abbandonata, oscura
     Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
     Cerca il confuso viatore invano
     Del cammin lungo che avanzar si sente
     Meta o ragione; e vede
     Che a sé l’umana sede,
     Esso a lei veramente è fatto estrano.
     Troppo felice e lieta
     Nostra misera sorte
     Parve lassù, se il giovanile stato,
     Dove ogni ben di mille pene è frutto,
     Durasse tutto della vita il corso.
     Troppo mite decreto
     Quel che sentenzia ogni animale a morte,
     S’anco mezza la via
     Lor non si desse in pria
     Della terribil morte assai più dura.
     D’intelletti immortali
     Degno trovato, estremo
     Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
     La vecchiezza, ove fosse
     Incolume il desio, la speme estinta,
     Secche le fonti del piacer, le pene
     Maggiori sempre, e non più dato il bene.
     Voi, collinette e piagge,
     Caduto lo splendor che all’occidente
     Inargentava della notte il velo,
     Orfane ancor gran tempo
     Non resterete; che dall’altra parte
     Tosto vedrete il cielo
     Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
     Alla qual poscia seguitando il sole,
     E folgorando intorno
     Con sue fiamme possenti,
     Di lucidi torrenti
     Inonderà con voi gli eterei campi.
     Ma la vita mortal, poi che la bella
     Giovinezza sparì, non si colora
     D’altra luce giammai, né d’altra aurora.
     Vedova è insino al fine; ed alla notte
     Che l’altre etadi oscura,
     Segno poser gli Dei la sepoltura.



   XXXIV. LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

   E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
 Giovanni, III, 19



     Qui su l’arida schiena
     Del formidabil monte
     Sterminator Vesevo,
     La qual null’altro allegra arbor né fiore,
     Tuoi cespi solitari intorno spargi,
     Odorata ginestra,
     Contenta dei deserti. Anco ti vidi
     De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
     Che cingon la cittade
     La qual fu donna de’ mortali un tempo,
     E del perduto impero
     Par che col grave e taciturno aspetto
     Faccian fede e ricordo al passeggero.
     Or ti riveggo in questo suol, di tristi
     Lochi e dal mondo abbandonati amante,
     E d’afflitte fortune ognor compagna.
     Questi campi cosparsi
     Di ceneri infeconde, e ricoperti
     Dell’impietrata lava,
     Che sotto i passi al peregrin risona;
     Dove s’annida e si contorce al sole
     La serpe, e dove al noto
     Cavernoso covil torna il coniglio;
     Fur liete ville e colti,
     E biondeggiàr di spiche, e risonaro
     Di muggito d’armenti;
     Fur giardini e palagi,
     Agli ozi de’ potenti
     Gradito ospizio; e fur città famose
     Che coi torrenti suoi l’altero monte
     Dall’ignea bocca fulminando oppresse
     Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
     Una ruina involve,
     Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
     I danni altrui commiserando, al cielo
     Di dolcissimo odor mandi un profumo,
     Che il deserto consola. A queste piagge
     Venga colui che d’esaltar con lode
     Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
     È il gener nostro in cura
     All’amante natura. E la possanza
     Qui con giusta misura
     Anco estimar potrà dell’uman seme,
     Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
     Con lieve moto in un momento annulla
     In parte, e può con moti
     Poco men lievi ancor subitamente
     Annichilare in tutto.
     Dipinte in queste rive
     Son dell’umana gente
     Le magnifiche sorti e progressive .
     Qui mira e qui ti specchia,
     Secol superbo e sciocco,
     Che il calle insino allora
     Dal risorto pensier segnato innanti
     Abbandonasti, e volti addietro i passi,
     Del ritornar ti vanti,
     E procedere il chiami.
     Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
     Di cui lor sorte rea padre ti fece,
     Vanno adulando, ancora
     Ch’a ludibrio talora
     T’abbian fra sé. Non io
     Con tal vergogna scenderò sotterra;
     Ma il disprezzo piuttosto che si serra
     Di te nel petto mio,
     Mostrato avrò quanto si possa aperto:
     Ben ch’io sappia che obblio
     Preme chi troppo all’età propria increbbe.
     Di questo mal, che teco
     Mi fia comune, assai finor mi rido.
     Libertà vai sognando, e servo a un tempo
     Vuoi di novo il pensiero,
     Sol per cui risorgemmo
     Della barbarie in parte, e per cui solo
     Si cresce in civiltà, che sola in meglio
     Guida i pubblici fati.
     Così ti spiacque il vero
     Dell’aspra sorte e del depresso loco
     Che natura ci diè. Per questo il tergo
     Vigliaccamente rivolgesti al lume
     Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli
     Vil chi lui segue, e solo
     Magnanimo colui
     Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
     Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
     Uom di povero stato e membra inferme
     Che sia dell’alma generoso ed alto,
     Non chiama sé né stima
     Ricco d’or né gagliardo,
     E di splendida vita o di valente
     Persona infra la gente
     Non fa risibil mostra;
     Ma sé di forza e di tesor mendico
     Lascia parer senza vergogna, e noma
     Parlando, apertamente, e di sue cose
     Fa stima al vero uguale.
     Magnanimo animale
     Non credo io già, ma stolto,
     Quel che nato a perir, nutrito in pene,
     Dice, a goder son fatto,
     E di fetido orgoglio
     Empie le carte, eccelsi fati e nove
     Felicità, quali il ciel tutto ignora,
     Non pur quest’orbe, promettendo in terra
     A popoli che un’onda
     Di mar commosso, un fiato
     D’aura maligna, un sotterraneo crollo
     Distrugge sì, che avanza
     A gran pena di lor la rimembranza.
     Nobil natura è quella
     Che a sollevar s’ardisce
     Gli occhi mortali incontra
     Al comun fato, e che con franca lingua,
     Nulla al ver detraendo,
     Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
     E il basso stato e frale;
     Quella che grande e forte
     Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
     Fraterne, ancor più gravi
     D’ogni altro danno, accresce
     Alle miserie sue, l’uomo incolpando
     Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
     Che veramente è rea, che de’ mortali
     Madre è di parto e di voler matrigna.
     Costei chiama inimica; e incontro a questa
     Congiunta esser pensando,
     Siccome è il vero, ed ordinata in pria
     L’umana compagnia,
     Tutti fra sé confederati estima
     Gli uomini, e tutti abbraccia
     Con vero amor, porgendo
     Valida e pronta ed aspettando aita
     Negli alterni perigli e nelle angosce
     Della guerra comune. Ed alle offese
     Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
     Al vicino ed inciampo,
     Stolto crede così qual fora in campo
     Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
     Incalzar degli assalti,
     Gl’inimici obbliando, acerbe gare
     Imprender con gli amici,
     E sparger fuga e fulminar col brando
     Infra i propri guerrieri.
     Così fatti pensieri
     Quando fien, come fur, palesi al volgo,
     E quell’orror che primo
     Contra l’empia natura
     Strinse i mortali in social catena,
     Fia ricondotto in parte
     Da verace saper, l’onesto e il retto
     Conversar cittadino,
     E giustizia e pietade, altra radice
     Avranno allor che non superbe fole,
     Ove fondata probità del volgo
     Così star suole in piede
     Quale star può quel ch’ha in error la sede.
     Sovente in queste rive,
     Che, desolate, a bruno
     Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
     Seggo la notte; e su la mesta landa
     In purissimo azzurro
     Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
     Cui di lontan fa specchio
     Il mare, e tutto di scintille in giro
     Per lo vòto seren brillare il mondo.
     E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
     Ch’a lor sembrano un punto,
     E sono immense, in guisa
     Che un punto a petto a lor son terra e mare
     Veracemente; a cui
     L’uomo non pur, ma questo
     Globo ove l’uomo è nulla,
     Sconosciuto è del tutto; e quando miro
     Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
     Nodi quasi di stelle,
     Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
     E non la terra sol, ma tutte in uno,
     Del numero infinite e della mole,
     Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
     O sono ignote, o così paion come
     Essi alla terra, un punto
     Di luce nebulosa; al pensier mio
     Che sembri allora, o prole
     Dell’uomo? E rimembrando
     Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
     Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
     Che te signora e fine
     Credi tu data al Tutto, e quante volte
     Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
     Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
     Per tua cagion, dell’universe cose
     Scender gli autori, e conversar sovente
     Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
     Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
     Fin la presente età, che in conoscenza
     Ed in civil costume
     Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
     Mortal prole infelice, o qual pensiero
     Verso te finalmente il cor m’assale?
     Non so se il riso o la pietà prevale.
     Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
     Cui là nel tardo autunno
     Maturità senz’altra forza atterra,
     D’un popol di formiche i dolci alberghi,
     Cavati in molle gleba
     Con gran lavoro, e l’opre
     E le ricchezze che adunate a prova
     Con lungo affaticar l’assidua gente
     Avea provvidamente al tempo estivo,
     Schiaccia, diserta e copre
     In un punto; così d’alto piombando,
     Dall’utero tonante
     Scagliata al ciel profondo,
     Di ceneri e di pomici e di sassi
     Notte e ruina, infusa
     Di bollenti ruscelli
     O pel montano fianco
     Furiosa tra l’erba
     Di liquefatti massi
     E di metalli e d’infocata arena
     Scendendo immensa piena,
     Le cittadi che il mar là su l’estremo
     Lido aspergea, confuse
     E infranse e ricoperse
     In pochi istanti: onde su quelle or pasce
     La capra, e città nove
     Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
     Son le sepolte, e le prostrate mura
     L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
     Non ha natura al seme
     Dell’uom più stima o cura
     Che alla formica: e se più rara in quello
     Che nell’altra è la strage,
     Non avvien ciò d’altronde
     Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
     Ben mille ed ottocento
     Anni varcàr poi che spariro, oppressi
     Dall’ignea forza, i popolati seggi,
     E il villanello intento
     Ai vigneti, che a stento in questi campi
     Nutre la morta zolla e incenerita,
     Ancor leva lo sguardo
     Sospettoso alla vetta
     Fatal, che nulla mai fatta più mite
     Ancor siede tremenda, ancor minaccia
     A lui strage ed ai figli ed agli averi
     Lor poverelli. E spesso
     Il meschino in sul tetto
     Dell’ostel villereccio, alla vagante
     Aura giacendo tutta notte insonne,
     E balzando più volte, esplora il corso
     Del temuto bollor, che si riversa
     Dall’inesausto grembo
     Su l’arenoso dorso, a cui riluce
     Di Capri la marina
     E di Napoli il porto e Mergellina.
     E se appressar lo vede, o se nel cupo
     Del domestico pozzo ode mai l’acqua
     Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
     Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
     Di lor cose rapir posson, fuggendo,
     Vede lontan l’usato
     Suo nido, e il picciol campo,
     Che gli fu dalla fame unico schermo,
     Preda al flutto rovente,
     Che crepitando giunge, e inesorato
     Durabilmente sovra quei si spiega.
     Torna al celeste raggio
     Dopo l’antica obblivion l’estinta
     Pompei, come sepolto
     Scheletro, cui di terra
     Avarizia o pietà rende all’aperto;
     E dal deserto foro
     Diritto infra le file
     Dei mozzi colonnati il peregrino
     Lunge contempla il bipartito giogo
     E la cresta fumante,
     Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
     E nell’orror della secreta notte
     Per li vacui teatri,
     Per li templi deformi e per le rotte
     Case, ove i parti il pipistrello asconde,
     Come sinistra face
     Che per vòti palagi atra s’aggiri,
     Corre il baglior della funerea lava,
     Che di lontan per l’ombre
     Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
     Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
     Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
     Dopo gli avi i nepoti,
     Sta natura ognor verde, anzi procede
     Per sì lungo cammino
     Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
     Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
     E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
     E tu, lenta ginestra,
     Che di selve odorate
     Queste campagne dispogliate adorni,
     Anche tu presto alla crudel possanza
     Soccomberai del sotterraneo foco,
     Che ritornando al loco
     Già noto, stenderà l’avaro lembo
     Su tue molli foreste. E piegherai
     Sotto il fascio mortal non renitente
     Il tuo capo innocente:
     Ma non piegato insino allora indarno
     Codardamente supplicando innanzi
     Al futuro oppressor; ma non eretto
     Con forsennato orgoglio inver le stelle,
     Né sul deserto, dove
     E la sede e i natali
     Non per voler ma per fortuna avesti;
     Ma più saggia, ma tanto
     Meno inferma dell’uom, quanto le frali
     Tue stirpi non credesti
     O dal fato o da te fatte immortali.



   XXXV. IMITAZIONE


     Lungi dal proprio ramo,
     Povera foglia frale,
     Dove vai tu? – Dal faggio
     Là dov’io nacqui, mi divise il vento.
     Esso, tornando, a volo
     Dal bosco alla campagna,
     Dalla valle mi porta alla montagna.
     Seco perpetuamente
     Vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro.
     Vo dove ogni altra cosa,
     Dove naturalmente
     Va la foglia di rosa,
     E la foglia d’alloro.



   XXXVI. SCHERZO


     Quando fanciullo io venni
     A pormi con le Muse in disciplina,
     L’una di quelle mi pigliò per mano;
     E poi tutto quel giorno
     La mi condusse intorno
     A veder l’officina.
     Mostrommi a parte a parte
     Gli strumenti dell’arte,
     E i servigi diversi
     A che ciascun di loro
     S’adopra nel lavoro
     Delle prose e de’ versi.
     Io mirava, e chiedea:
     Musa, la lima ov’è? Disse la Dea:
     La lima è consumata; or facciam senza.
     Ed io, ma di rifarla
     Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?
     Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.



   XXXVII. FRAMMENTO


   Alceta


     Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno
     Di questa notte, che mi torna a mente
     In riveder la luna. Io me ne stava
     Alla finestra che risponde al prato,
     Guardando in alto: ed ecco all’improvviso
     Distaccasi la luna; e mi parea
     Che quanto nel cader s’approssimava,
     Tanto crescesse al guardo; infin che venne
     A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
     Grande quanto una secchia, e di scintille
     Vomitava una nebbia, che stridea
     Sì forte come quando un carbon vivo
     Nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
     La luna, come ho detto, in mezzo al prato
     Si spegneva annerando a poco a poco,
     E ne fumavan l’erbe intorno intorno.
     Allor mirando in ciel, vidi rimaso
     Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,
     Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa,
     Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro.


   Melisso

     E ben hai che temer, che agevol cosa
     Fora cader la luna in sul tuo campo.


   Alceta

     Chi sa? non veggiam noi spesso di state
     Cader le stelle?


   Melisso

     Egli ci ha tante stelle,
     Che picciol danno è cader l’una o l’altra
     Di loro, e mille rimaner. Ma sola
     Ha questa luna in ciel, che da nessuno
     Cader fu vista mai se non in sogno.




   XXXVIII. FRAMMENTO


     Io qui vagando al limitare intorno,
     Invan la pioggia invoco e la tempesta,
     Acciò che la ritenga al mio soggiorno.
     Pure il vento muggìa nella foresta,
     E muggìa tra le nubi il tuono errante,
     Pria che l’aurora in ciel fosse ridesta.
     O care nubi, o cielo, o terra, o piante,
     Parte la donna mia: pietà, se trova
     Pietà nel mondo un infelice amante.
     O turbine, or ti sveglia, or fate prova
     Di sommergermi, o nembi, insino a tanto
     Che il sole ad altre terre il dì rinnova.
     S’apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto
     Posan l’erbe e le frondi, e m’abbarbaglia
     Le luci il crudo Sol pregne di pianto.



   XXXIX. FRAMMENTO


     Spento il diurno raggio in occidente,
     E queto il fumo delle ville, e queta
     De’ cani era la voce e della gente;
     Quand’ella, volta all’amorosa meta,
     Si ritrovò nel mezzo ad una landa
     Quanto foss’altra mai vezzosa e lieta.
     Spandeva il suo chiaror per ogni banda
     La sorella del sole, e fea d’argento
     Gli arbori ch’a quel loco eran ghirlanda.
     I ramoscelli ivan cantando al vento,
     E in un con l’usignol che sempre piagne
     Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.
     Limpido il mar da lungi, e le campagne
     E le foreste, e tutte ad una ad una
     Le cime si scoprian delle montagne.
     In queta ombra giacea la valle bruna,
     E i collicelli intorno rivestia
     Del suo candor la rugiadosa luna.
     Sola tenea la taciturna via
     La donna, e il vento che gli odori spande,
     Molle passar sul volto si sentia.
     Se lieta fosse, è van che tu dimande:
     Piacer prendea di quella vista, e il bene
     Che il cor le prometteva era più grande.
     Come fuggiste, o belle ore serene!
     Dilettevol quaggiù null’altro dura,
     Né si ferma giammai, se non la spene.
     Ecco turbar la notte, e farsi oscura
     La sembianza del ciel, ch’era sì bella,
     E il piacere in colei farsi paura.
     Un nugol torbo, padre di procella,
     Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,
     Che più non si scopria luna né stella.
     Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,
     E salir su per l’aria a poco a poco,
     E far sovra il suo capo a quella ammanto.
     Veniva il poco lume ognor più fioco;
     E intanto al bosco si destava il vento,
     Al bosco là del dilettoso loco.
     E si fea più gagliardo ogni momento,
     Tal che a forza era desto e svolazzava
     Tra le frondi ogni augel per lo spavento.
     E la nube, crescendo, in giù calava
     Ver la marina sì, che l’un suo lembo
     Toccava i monti, e l’altro il mar toccava.
     Già tutto a cieca oscuritade in grembo,
     S’incominciava udir fremer la pioggia,
     E il suon cresceva all’appressar del nembo.
     Dentro le nubi in paurosa foggia
     Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;
     E n’era il terren tristo, e l’aria roggia.
     Discior sentia la misera i ginocchi;
     E già muggiva il tuon simile al metro
     Di torrente che d’alto in giù trabocchi.
     Talvolta ella ristava, e l’aer tetro
     Guardava sbigottita, e poi correa,
     Sì che i panni e le chiome ivano addietro.
     E il duro vento col petto rompea,
     Che gocce fredde giù per l’aria nera
     In sul volto soffiando le spingea.
     E il tuon veniale incontro come fera,
     Rugghiando orribilmente e senza posa;
     E cresceva la pioggia e la bufera.
     E d’ogn’intorno era terribil cosa
     Il volar polve e frondi e rami e sassi,
     E il suon che immaginar l’alma non osa.
     Ella dal lampo affaticati e lassi
     Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,
     Gìa pur tra il nembo accelerando i passi.
     Ma nella vista ancor l’era il baleno
     Ardendo sì, ch’alfin dallo spavento
     Fermò l’andare, e il cor le venne meno.
     E si rivolse indietro. E in quel momento
     Si spense il lampo, e tornò buio l’etra,
     Ed acchetossi il tuono, e stette il vento.
     Taceva il tutto; ed ella era di pietra.



   XL. FRAMMENTO DAL GRECO DI SIMONIDE


     Ogni mondano evento
     È di Giove in poter, di Giove, o figlio,
     Che giusta suo talento
     Ogni cosa dispone.
     Ma di lunga stagione
     Nostro cieco pensier s’affanna e cura,
     Benché l’umana etate,
     Come destina il ciel nostra ventura,
     Di giorno in giorno dura.
     La bella speme tutti ci nutrica
     Di sembianze beate,
     Onde ciascuno indarno s’affatica:
     Altri l’aurora amica,
     Altri l’etade aspetta;
     E nullo in terra vive
     Cui nell’anno avvenir facili e pii
     Con Pluto gli altri iddii
     La mente non prometta.
     Ecco pria che la speme in porto arrive,
     Qual da vecchiezza è giunto
     E qual da morbi al bruno Lete addutto;
     Questo il rigido Marte, e quello il flutto
     Del pelago rapisce; altri consunto
     Da negre cure, o tristo nodo al collo
     Circondando, sotterra si rifugge.
     Così di mille mali
     I miseri mortali
     Volgo fiero e diverso agita e strugge.
     Ma per sentenza mia,
     Uom saggio e sciolto dal comune errore,
     Patir non sosterria,
     Né porrebbe al dolore
     Ed al mal proprio suo cotanto amore.



   XLI. FRAMMENTO DELLO STESSO


     Umana cosa picciol tempo dura,
     E certissimo detto
     Disse il veglio di Chio,
     Conforme ebber natura
     Le foglie e l’uman seme.
     Ma questa voce in petto
     Raccolgon pochi. All’inquieta speme,
     Figlia di giovin core,
     Tutti prestiam ricetto.
     Mentre è vermiglio il fiore
     Di nostra etade acerba,
     L’alma vota e superba
     Cento dolci pensieri educa invano,
     Né morte aspetta né vecchiezza; e nulla
     Cura di morbi ha l’uom gagliardo e sano.
     Ma stolto è chi non vede
     La giovanezza come ha ratte l’ale,
     E siccome alla culla
     Poco il rogo è lontano.
     Tu presso a porre il piede
     In sul varco fatale
     Della plutonia sede,
     Ai presenti diletti
     La breve età commetti.