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|  Giovanni Pascoli
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|  Nuovi poemetti (1909)
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   Giovanni Pascoli
   NUOVI POEMETTI


   AI MIEI SCOLARI DI MATERA MASSA LIVORNO MESSINA PISA BOLOGNA

   A voi che mi conoscete. A voi, ai quali non avrò sempre mostrato molto ingegno e assai dottrina, ma animo onesto uguale sincero, sì, sempre. A voi, ai quali non credo aver dato mai esempi di prosunzione e di ambizione, di malevolenza e di maldicenza. A voi, infine, ai quali io devo molto più che non diedi.
   Perché vi devo l’abitudine di supporre sempre avanti me che scrivo, come ho avanti me che parlo, anime giovanili, che è dovere e religione non abbassare, raffreddare, violare.
   Così voi mi avete beneficato.
   Così io sono lieto d’aver unito alla divina poesia l’esercizio umano che più con la poesia si accorda: la scuola
   Bologna, 24 giugno 1909.
   Giovanni Pascoli


   LA FIORITA


   IL PITTIERE

 //-- I --// 

     Oh! tutti i giorni e tante volte al giorno
     s’erano visti! L’uno era in orecchi
     sempre che udisse spittinire intorno.


     E s’ei tornava a casa con due stecchi
     o due vincigli, l’altro lo seguiva
     da ramo a ramo. Erano amici vecchi.


     Ma oggi, tutto maraviglia viva
     nel petto rosso, l’uno alzava a scatti
     la coda al dorso di color d’uliva.


     Parea dicesse: – O dunque fa di fatti!? —
     Ora alïava in terra tra lo sfagno,
     ora volava in cima a gli albigatti.


     Con gli occhi tondi aperti sul compagno
     molleggiava sul cesto e su l’ontano.
     L’altro sedeva al calcio d’un castagno,


     con una vetta e un coltelluccio in mano…


 //-- II --// 

     Pareva savio, un altro! Il suo coltello
     fece alla vetta torno torno un segno
     uguale, netto, e un piccolo tassello.


     Ed egli poi con arte e con ingegno
     torse la buccia tra i due pugni, e trasse
     fuor della buccia umido e bianco il legno.


     Tagliò del legno quanto gli tappasse
     quel cannoncello, ma non tutto e troppo.
     Scese il pittiere su le stipe basse.


     Provò se il fiato non avesse intoppo,
     soffiando un poco, e si drizzò contento.
     Frullò il pittiere sur un alto pioppo.


     Poi, nella selva, coi capelli al vento,
     lungo il ruscello, il fanciulletto Dore
     col flauto verde annunzïò l’avvento


     dei fiori brevi e dell’eterno amore.


 //-- III  --// 

     O primo fiore! o bianca primavera!
     Hai gli orli rossi, come li ha l’aurora,
     e il sole biondo è nella tua raggiera!


     Dore sonava. All’uccellino allora
     sovvenne il nido. Alzò, partendo, il canto
     che là, negli alti monti ove dimora,


     canta alle solitudini soltanto.



   IL SOLITARIO

 //-- I --// 

     Stette sul botro, stette su lo scoglio,
     dritto, sonando il flauto di corteccia:
     l’acqua rispose con un suo gorgoglio.


     Intese la diana boschereccia
     il vecchio bosco, e la vitalba volle
     togliersi i bianchi bioccoli alla treccia.


     E passò l’acqua e risalì sul colle:
     per tutti i poggi il sufolo selvaggio
     schiudeva i bocci, apriva le corolle.


     Pioppi ed ontani pendere, al passaggio,
     facean dai rami ciondoli e nappine;
     chiedea l’avorno, s’era giunto maggio.


     Mettea, chi fiori non potea, le spine;
     mettea le gemme l’albero più brullo:
     piovea la quercia, vergognando alfine,


     le vecchie foglie a’ piedi del fanciullo.


 //-- II --// 

     E il bel fanciullo nella lieta ascesa
     passò, col fresco flauto tra le dita,
     presso macèe che furono una chiesa.


     Pur v’è qualcosa della scorsa vita,
     poiché vi canta all’apparir del nuovo
     giorno ed al vespro il passero eremita.


     Vi canta ai biacchi, che lì hanno il covo,
     ai grilli, alle lucertole che destre
     vengono a guizzi di tra il cardo e il rovo.


     Dore intonò col sufolo silvestre
     la sua fanfara del ritorno; e il suono
     sparse per tutto un vago odor cilestre:


     per tutto un casto odore, un odor buono,
     dov’era già il sagrato, dove pare
     fosse la croce, dove, ignoti, sono


     sepolti i morti sotto il morto altare.


 //-- III --// 

     Viole caste, pallide viole!
     Il fiore va, ma lascia un seme e il miele.
     Aprite, o fiori, all’ape che vi vuole!


     Il solitario udiva. Ecco, e fedele
     alla rovina, prese alcun fuscello,
     radiche e scorze, crini e ragnatele;
     e fece il nido, oh! rozzo assai, ma bello.



   LA RONDINE

 //-- I --// 

     E fu tra i campi e stie’ su l’altipiano
     Dore, sonando. Ed ecco che un susino
     bianco sbocciò sul verzicar del grano.


     Come un sol fiore gli sbocciò vicino
     un pesco, e un altro. I peschi del filare
     parvero cirri d’umido mattino;


     d’un bel mattino a nuvilette chiare
     rosate in cima, che dall’Alpi d’oro
     guàtino ancora palpitando il mare.


     Usciano le api. Ed or s’udiva un coro
     basso, un brusìo degli alberi fioriti,
     un gran sussurro, un favellar sonoro.


     Dicean del verno, si facean gl’inviti
     di primavera. Per le viti sole
     era ancor presto, e ne piangean, le viti,


     a grandi stille, in cui fioriva il sole.


 //-- II --// 

     Nell’aia, sotto un prugno, sur un mucchio
     di piote, egli chiamò le rondinelle,
     Dore, col flauto di castagno in succhio.


     Le voci fuori ne traea più belle
     e più lontane. Ed ecco che su l’aia
     vide due rondini alïare snelle.


     Svolar le vide sotto la grondaia,
     e poi sparire; e ritornar più tante,
     tornare in quattro, in otto, in dieci, a paia.


     E stava sotto il prugno tremolante
     di bianchi fiori, tra il girar veloce
     di tante nere rondinelle sante.


     (Avean Gesù pur consolato in croce!)
     Forse mancava a casa lor qualcosa:
     parlavan alto, tutte ad una voce…


     E su la soglia ecco che venne Rosa.


 //-- III --// 

     Torna la rondine! È fiorito il prugno!
     Il prugno è in fiore, in succhio è già il castagno
     Quale, di marzo, quale è in fior, di giugno.


     Rosa tenea nel gomito il cavagno
     pieno di ghiomi. Stette fissa al grido
     del buon ritorno. Ognuna, il suo compagno!


     L’albero ha il fiore e la rondine il nido.



   LA CINCIALLEGRA

 //-- I --// 

     E poi cantò la cinciallegra, e Rigo
     tornò. T’avea sognata sul mattino,
     t’avea sognata tra un odor di spigo,


     sognata, o Rosa, in un candor di lino,
     candor di fiori prima della foglia,
     senza una foglia, o candido armellino!


     Avevi i piedi ignudi su la soglia,
     tremavi come un armellino in fiore,
     che trema tutto al vento che lo spoglia.


     Era rimasto a Rigo, quel tremore;
     nel cuore suo, che per due cuori accanto
     avea battuto un attimo… o quante ore?


     Gli era rimasta una dolcezza, un pianto
     per lei come pel bimbo che non parla!
     Or pregherebbe come avanti un santo…


     E vide Rosa, e non ardì guardarla.


 //-- II --// 

     Cantava a lei, ch’era a ronzar nell’orto,
     la cinciallegra, e l’era Rigo a mente,
     quando lo vide, lieto insieme e smorto.


     «Rigo!» E lasciò cadere la semente
     che aveva in grembo; e vide sé, smarrita,
     tutt’arruffata, con le vesti scente…


     Si ravviò con le veloci dita:
     pareano i segni che si fanno in chiesa.
     Sfiorò d’un tratto fronte spalle vita.


     Come pareva anche più bella, accesa
     in viso, sfatto il nodo biondo, un piede
     ignudo fuor della gonnella tesa!


     «Oh! quant’è mai che non vi si rivede!»
     «Il babbo è indietro con le sue faccende:
     gli legherò due viti o tre, se crede…»


     Poi mormorò: «Ben rende chi ben prende».


 //-- III --// 

     Squittian nel sole sopra la fanciulla,
     chiedeano a lui le rondinelle nere,
     chiedeano: – Ed ora non le dici nulla? —


     Ma Rigo, no; perché volea vedere.
     – Sei tu che vieni a me tutte le aurore?
     Sei tu che torni a me tutte le sere?


     Fa, quando s’apre, un fiore più rumore… —



   IL TORCICOLLO

 //-- I --// 

     E dicea – Cincin… pota Cincin… pota —
     la cinciallegra; e un canto uscì dal prato
     d’erba lupina: un’altra voce nota.


     Potava il babbo; lasciò star pennato
     forbici e torchi, e poi seguì, fischiando
     anch’esso un po’, l’altro messaggio alato.


     Prese la vanga (questo era il comando
     dell’altro uccello) dalla punta d’oro;
     andò la bricia a tirar su, con Nando.


     Poi spicciolò nel campo il suo tesoro
     di chicchi d’oro; e gli dicea, Fa piano!,
     quell’incessante piagnisteo canoro.


     Dicea: – Bada! Il granturco non è grano:
     ben altra rappa nascerà da un chicco! —
     Quasi parea glieli contasse in mano,


     dicendo: – A uno a uno! Non sei ricco! —


 //-- II --// 

     Poi l’ammoniva ch’era giunta l’ora
     di seminar la canipa. Ma poca!
     E tristo a lungo ripetea, Lavora!


     Ei t’ubbidiva, o poverella fioca
     canipaiola: e seminò ben fitto,
     dicendo: «Non mai vince, chi non gioca.


     Il più del seme ai passeri lo gitto
     per certo! È il meno che doventa tela».
     Però d’intorno non s’udiva un zitto.


     Ma il torcicollo a cui nulla si cela,
     avanti o dietro, e che giammai non erra,
     cantava pur la lunga sua querela.


     Ei li vedeva, i figli della terra,
     color di terra, che tendean, gl’ingordi!
     Forse pensava: – E l’uomo muove guerra,


     per via di loro, ai torcicolli e a’ tordi! —


 //-- III --// 

     Ma l’uomo fece un uomo d’una cappa
     e d’un cappello. «E’ vi darà buon conto!»
     diceva: e se n’andò con la sua zappa.


     Scesero allora i passeri. Il tramonto
     era dorato. Erano cento e cento…
     – Oh! il poveruomo! Ha l’ali, al volo è pronto;


     ma è confitto, e lo patulla il vento! —



   IL CUCULO

 //-- I --// 

     Rigo, mentr’era buona ancor la luna,
     potava. Aveva, a raccattar le brocche,
     la bionda Rosa e la Viola bruna.


     Allegre. Oh! d’un viticcio tra le ciocche
     ridean mezz’ora! e poi dicean, ridenti,
     col fascio in capo: «Siamo o no due sciocche?»


     Rigo seguiva il loro andar con lenti
     sguardi, col tralcio che torceva in mano,
     ed un vinchietto tremolo tra i denti.


     Ché s’affrettava. Era già alto il grano,
     avean le gemme l’uva in bocca. – O vigna! —
     pensava: – il cucco già non è lontano! —


     Pensava: – Il ben nel presto non alligna. —
     Ma sì, potava, poi torceva a modo
     il capo buono, quel che fa la pigna;


     e lo legava con vie più d’un nodo.


 //-- II --// 

     Sì: presto e bene. E già finiva il tutto,
     quasi; e non s’era inteso il doppio accento
     del cucco: – Un giorno molle, un giorno asciutto; —


     non s’era inteso annoverar tra il vento
     dolce le viti ancora da potare,
     cuculïando il contadino lento.


     Era all’ultima vite del filare
     Rigo, e le donne all’ultimo fastello;
     e venne il canto da di là del mare.


     Con la sua mucca risalìa bel bello
     la mamma, e il babbo la scontrava in via.
     Dore si ritrovò col suo fratello.


     «L’ultimo nodo!» Rigo gridò: «Via!»
     Rosa premeva il fascio coi ginocchi…
     C’erano tutti, in pace e compagnia,


     col sol morente, che splendea, negli occhi.


 //-- III --// 

     Avea finito. E stettero alcun poco.
     E teste bianche e teste bionde e nere
     splendean sotto le nuvole di fuoco.


     Udiano le due voci delle sere
     di primavera, limpide e sonore,
     così lontano che parean non vere,


     così vicine che parean del cuore.



   LA CAPINERA

 //-- I --// 

     Su l’alba Rigo udì cantar gli uccelli.
     Parlavan, ora che nessun li udiva,
     tra loro, de’ lor piccoli castelli:


     castelli in aria; in vetta a un melo, in riva
     a un botro, appeso a un trave, dentro un muro
     nel buco d’un castagno o d’un’oliva.


     Il cinguettìo, così tra lume e scuro,
     cessò d’un tratto. Era comparso il sole.
     Sparì ciascuno nel bel giorno puro.


     E Rigo in cuore preparò parole
     da dire a lei, ridire, da vicino..
     Oh! era tempo! E tutto può chi vuole.


     Via via le rimutava in suo cammino,
     per via le fece belle a poco a poco…
     Rosa stendeva sopra un biancospino


     l’accia filata nell’inverno al fuoco.


 //-- II --// 

     E’ parlò d’altro, e disse in fine: «O Rosa…»
     Rosa aspettava. «Tutte l’altre vanno
     a nozze; e voi non vi farete sposa?»


     «Mia madre non è quella d’or un anno.
     Come faceva! come lavorava!
     Ma ora fa le scale con l’affanno.


     Viola è sempre piccola, ed è brava
     ma per le bestie. Ora, chi fa mangiare?
     chi cuce un po’? chi tesse un po’? chi lava?


     Da fare, in una casa, non appare,
     ma c’è n’è tanto. E i bimbi? se sapeste!
     Dore è piccino, a me mi sembra un mare.


     Ora chi li rammenda e li riveste?
     Ché tutti i giorni manca lor qualcosa.
     Tutti i giorni! Non dico poi le feste…»


     A lui così tu rispondesti, o Rosa.


 //-- III --// 

     E quando venne l’ora del ritorno,
     Rosa era allegra, e Rigo, no, non era.
     Andava cupo sul morir del giorno.


     E chiedeva alcunché la capinera
     alto cantando con la voce chiara;
     oh! non a lui! Ché nella rosea sera


     le rispondeva un’altra voce cara.



   LA LODOLA

 //-- I --// 

     Cantar gli uccelli Rigo udì su l’alba.
     Parlavan piano di bambagia e piume
     e fili e peli e pappi di vitalba.


     Dei lor lettini essi garrian tra lume
     e scuro. E venne il sole. E frullò via
     ciascuno, al bosco, al prato, al campo, al fiume.


     – Casa mia! – pensò Rigo – una badia
     tu sei davvero, con un fraticello
     romito e solo, o trista casa mia!


     E ci sarebbe pure tanto bello,
     se lei vedessi tutte le mattine
     girare in pianellette ed in guarnello… —


     Così pensava, e, passo passo, alfine,
     vide i cipressi neri della Pieve…
     Rosa piegava una sua tela fine


     che avea tessuta i giorni della neve.


 //-- II --// 

     Aveva i pésti, aveva pianto. «O Rosa!
     Rosa, avete le guance scolorate,
     avete pianto, Rosa. Per che cosa?


     Voi fate troppo, autunno verno estate.
     Rosa, se non lavate, voi stendete!
     Rosa, se non tessete, voi filate!


     Per voi non c’è momento di quïete.
     Tutto tenete lindo netto asciutto,
     lustrate ogni solaio, ogni parete.


     Parete un uccelletto, biondo, sdutto,
     snello, che cala becca salta frulla
     in un minuto. E sola fate il tutto!


     E siete sempre piccola fanciulla…»
     «Povera mamma, è lei che non ha posa!
     Senza mia madre non saprei far nulla».


     A lui così tu rispondesti, o Rosa.


 //-- III --// 

     E’ ritornò più tristo, a capo chino.
     Ed ecco, in mezzo al grande ciel sereno,
     la lodoletta, uguale ad un puntino,


     cantava; e poi, come venisse meno
     dalla dolcezza, si gittò nel piano:
     s’abbandonò sul nido suo terreno,


     s’abbandonò sul nido suo tra il grano.



   L’USIGNOLO

 //-- I --// 

     Su l’alba udì, ma piano, come fosse
     un gran segreto, bisbigliar di bianche
     ova e celesti con goccine rosse,


     calde nel musco, sopra i pappi, ed anche
     tra foglie secche… Prima ancor di giorno
     volò ciascuno alle compagne stanche.


     Ma tutto il giorno andava Rigo attorno
     senza far nulla. Non guardò nell’orto
     spighe di lilla e ciondoli d’avorno.


     Violacciocche, e’ vi guardava torto
     quando lo chiamavate con l’odore!
     Ma verso sera egli là era, smorto…


     E vide Rosa: aveva in grembo un fiore,
     non facea nulla, ed era sola e muta.
     S’udia lontano il sufolo di Dore.


     Guardava in aria, a nulla. Era seduta.


 //-- II --// 

     Rigo le prese le due mani. «O Rosa,
     ti voglio bene. Io t’amo e mi vergogno
     di dirlo a te, di dirlo a te… mia sposa!


     Non ho coraggio, Rosa, ed ho bisogno
     che tu m’incuori. Il cuore trema: senti?
     E non m’attento di parlar, che in sogno.


     Anche tu sembra allora che ti attenti.
     Se mostro un po’ di chiuder gli occhi e taccio,
     tu entri in casa senza aprir battenti.


     Tu vai, tu vieni… Oh! io non ti discaccio!»
     Ecco e d’un braccio cinse a lei la vita,
     ed essa gli si abbandonò sul braccio.


     «Tu sei l’anima mia, sei la mia vita.
     Battere, il cuore, senza il tuo, non osa
     più. Respiriamo con la bocca unita!


     Apriti, alfine, o mio bocciòl di rosa!»


 //-- III --// 

     Allor s’aprì la prima stella in cielo;
     e dalla terra tacita e sorpresa
     si levò un trillo come un lungo stelo.


     Un’altra, un altro. Ad ogni stella accesa,
     un nuovo canto. Un canto senza posa
     correva ardendo lungo la distesa


     del cielo azzurro. – È l’usignolo, o Rosa! —




   IL NAUFRAGO – IL PRIGIONIERO


   IL NAUFRAGO

 //-- I --// 

     Il mare, al buio, fu cattivo. Urlava
     sotto gli schiocchi della folgore! Ora
     qua e là brilla in rosa la sua bava.


     Intorno a mucchi d’alga ora si dora
     la bava sua lungi da lui. S’effonde
     l’alito salso alla novella aurora.


     Vengono e vanno in un sussurro l’onde.
     Sembra che l’una dopo l’altra salga
     per veder meglio. E chiede una, risponde


     l’altra, spiando tra quei mucchi d’alga…


 //-- II  --// 

     – Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla.
     Dorme? Non so. Sì: non si muove. E il mare
     perennemente avanti lui si culla.


     Noi gli occhi aperti ti baciamo ignare.
     Che guardi? Il vento ti spezzò la nave?
     Il vento vano che, sì, è, né pare?


     E tu chi sei? Noi, quasi miti schiave,
     moviamo insieme, noi moriamo insieme
     costì con un rammarichìo soave…


     Siamo onde, onda che canta, onda che geme…


 //-- III  --// 

     Tu guardi triste. E dunque tua forse era
     la voce che parea maledicesse
     nell’alta notte in mezzo alla bufera!


     Noi siamo onde superbe, onde sommesse.
     Onde, e non più. L’acqua del mare è tanta!
     Siamo in un attimo, e non mai le stesse.


     Ora io son quella che già là s’è franta.
     E io già quella ch’ora là si frange.
     L’onda che geme ora è lassù, che canta;


     l’onda che ride, ai piedi tuoi già piange.


 //-- IV  --// 

     Noi siamo quello che sei tu: non siamo.
     L’ombre del moto siamo. E ci son onde
     anche tra voi, figli del rosso Adamo?


     Non sono. È il vento ch’agita, confonde,
     mesce, alza, abbassa; è il vento che ci schiaccia
     contro gli scogli e rotola alle sponde.


     Pace! Pace! È tornata la bonaccia.
     Pace! È tornata la serenità.
     Tu dormi, e par che in sogno apra le braccia.


     Onde! Onde! Onda che viene, onda che va…



   LA MORTE DEL PAPA

 //-- I --// 

     «Oh! nonna! il Papa» uno gridò «sta male!»
     un seggiolaio che da Montebono
     salìa lungo Corsonna: «è sul giornale».


     Andava all’Alpe, dove più non sono
     che greggi erranti, e dove non si sente,
     fuor che di foglie al vento, altro frastuono;


     o il solitario scroscio del torrente
     dopo un’acquata, o il conversar tranquillo,
     presso le bianche nuvole, di gente,


     che non si vede, intorno cui lo squillo
     de’ campanacci va per le pratina
     odorate di menta e di serpillo.


     La vecchietta filava. A lei vicina
     una sua pecorella da guadagno
     strappava ciuffi d’erba pannocchina.


     Essa filava all’ombra d’un castagno
     centenario, e parlava alla sua recchia.
     Infilato nel braccio era il cavagno.


     E tra ch’ell’era dura un po’ d’orecchia,
     e che il cielo echeggiava di cicale,
     aspre dal sole, a mezzodì; la vecchia


     «Chi?» disse. «Il Papa». «Il Papa, che?» «Sta male».


 //-- II --// 

     Alzò le braccia col cavagno e il fuso,
     al cielo azzurro, e mormorò: «Madonna
     del Carmine!» La recchia levò il muso.


     «Siete d’età,» l’uomo riprese: «eh nonna?
     Ma voi siete altra tiglia! A voi fa prode
     l’aria di monte e l’acqua di Corsonna».


     Ma la vecchina non sentì la lode.
     Smerlucciò tra i castagni, quasi intorno
     fosse, a qualch’ombra, l’angiolo custode.


     Ell’era nata lo stesso anno e giorno!
     E da vent’anni le diceva il cuore
     che farebbero insieme anche il ritorno.


     «O dunque c’è la diceria, che muore?»
     «Più troppo!» Dunque non vedrebbe il rosso
     delle fragole e il nero delle more!


     «Addio ‘n salute!» «Addio». «L’uno pel fosso,
     e l’altra prese per uno sgaruglio.
     Avea le gambe flosce, il fiato grosso.


     Tornava a casa. O Vergine di luglio!
     o bianca nuviletta del Carmelo!
     La recchia dietro lei qualche cespuglio


     brucava, e poi stradava con un belo.


 //-- III --// 

     «Ta ta, Nina, ta ta». Come gagliardi
     eran quei tre castagni suoi! Che mèsse!
     che cimi! E la chioccetta era nei cardi!


     Il suo figliolo quando vi cogliesse,
     nella sera che accecano il metato,
     sì, penserebbe a farle dir due mésse.


     Buttar due lire uguanno non fa stato.
     Uguanno è annata, se non è lo strino
     che c’entri prima ch’abbiano animato.


     La vecchietta era giunta al casalino;
     ma non l’antico suo paiòl di rame
     appese alla catena del camino.


     Era avvilita, e non le facea fame!
     Mise un lenzuolo bianco al sacconcello,
     ma prima un poco ne rumò lo strame.


     Poi si portò su l’uscio uno sgabello.
     Sedé movendo ad or ad or la bocca.
     Aspettò che venisse il suo gemello.


     Sgranava qualche rappa nella cocca
     del pannello, e chiamava Curre! Curre!
     Poi, rinfilata nel pensier la rócca,


     filava in mezzo alle montagne azzurre.


 //-- IV --// 

     Dan dan… dan dan… Passava un carbonaio
     col suo muletto. «O Chiozza, se vedete
     il Ciampa, il mi’ figliolo di Renaio,


     ditegli, se non è per le faggete,
     che non l’ho visto da non so mai quanto,
     e che cammini. E ditel anco al prete.


     Venga di quella via con l’olio santo».
     «Servirò. Ma che avete? O che vi sente?»
     «O Chiozza, è l’ora che par poco il tanto!»


     «Che dite, nonna?» «Anzi non par più niente!»
     «Coraggio!» «Più che vecchi, non si campa.
     Da Roma il Papa ha da venire…» «O gente!»


     «E voi sapete leggere?» «La stampa».
     «Che scrivono?» «Che muore». «Ecco, tra poco
     andrò con lui. Se lo vedete, il Ciampa,


     il mi’ figliolo…» Ella parlava fioco,
     l’altro ripiva. Le montagne in faccia
     brillavano d’un grande orlo di fuoco.


     Dan dan… Sul petto ella piegò le braccia.
     Dovean sonare Avemarie dintorno.
     Dan dan… dan dan… Era finita l’accia,


     e pieno il fuso, e terminato il giorno.


 //-- V --// 

     Il giorno dopo il Ciampa (era ai vincigli
     poco lontano) entrò senza picchiare
     col più piccino dei suoi sottofigli.


     La trovò che sfaceva col cucchiare
     nel laveggino nero una brancata
     di farina, in ginocchio al focolare.


     «Ch’ha detto il Chiozza, ch’érite malata?»
     «Oh! Gigi! Ahimè che tremo ho fatto! Provo
     se mi fa bono un po’ di farinata».


     «Più bono, o mamma, vi farebbe un ovo».
     «Con l’ova abbiamo da comprare il sale».
     «O dunque, mamma, cosa c’è di novo?»


     «Forse, figliolo, c’è più ben che male».
     «Dio v’ascolti». «O codesto rapacchiotto?»
     «È il Gigino del mi’ pover Natale».


     «Dio lo riposi. E in quanti sono?» «In otto».
     «Polenta vi ci vuole ora e coraggio!»
     «Su dunque, Nini: porgigli il ricotto».


     Nelle sue frasche e’ lo tenea, di faggio,
     verdi, col cimo in dentro e fuori il calcio:
     un fardelletto bello come un maggio,


     legato con un torchiettin di salcio.


 //-- VI --// 

     Ella guardò, mestando. «O che gli porti,
     Nini, alla nonna? O che tu l’hai saputo
     ch’io vado in pace, a ritrovare i morti?


     Che glielo faccio a babbo, omo, un saluto?
     Che gli dico del bimbo? Eh! gli vuol detto
     ch’è savio, che dà retta, ch’è d’aiuto;


     ch’ha il grembialino, ch’ha il rastellinetto,
     che va colle sue genti alle faccende,
     anco alla ruspa dopo fatto appietto;


     e ch’abbada alle pecore, e contende
     se vanno al danno, e poi che fa in Corsonna
     le vetrici e le monda e le rivende.


     Va colassù, va colassù la nonna,
     con uno che ci sa; che può, se vuole,
     anco portarla avanti alla Madonna.


     Da lui si farà dire le parole
     per benedire i figli de’ suoi figli
     coi lor figlioli e colle lor figliole;


     perché Dio vi protegga e vi consigli,
     e abbiate ogni anno lo stabbiato e il frutto,
     e lana e legna, e le fronde e i vincigli,


     e la polenta d’ogni giorno, e tutto.»


 //-- VII --// 

     La fronte e gli occhi si spazzò col dosso
     della mano. S’alzò. Prese in un godo
     del soppianello due cucchiai di bosso.


     Prese anche il suo ch’era attaccato al chiodo.
     Staccò il laveggio, a stento, dall’uncino:
     riempì tre pianette: il tutto a modo.


     Poi prese il fior di latte: anche, a modino,
     aprì le frasche, e giù, per non lo sfare,
     lo sbacchiò sopra un borracciòl di lino.


     E mangiarono avanti il focolare
     in pace e amore, con di tanto in tanto
     quattro parole, a cucchiaiate rare.


     Il bimbo in terra era seduto accanto
     alla bisnonna, e spesso dalle dita
     di lei pigliava un suo bocconcin santo.


     L’uscio era aperto. I fior di margherita
     non aprivano ancora le corolle
     di su le crepe della soglia erbita.


     Brillava al sole ogni albero, ogni colle;
     ma la casuccia si godeva ancora
     l’ombra sua propria, piccola, ancor molle


     della guazza caduta in su l’aurora.


 //-- VIII --// 

     «Sentite, Gigi. La recchietta voglio
     che la meniate ora con voi nel branco.
     È avvezza a qualche filo di trifoglio…


     Un po’ di tela c’è tavìa nel banco.
     Ho due lenzuola nove; anco un rotello,
     da tanto tempo, ch’ha riperso il bianco.


     Ci troverete qualche buon guarnello,
     persino una sottana con la gala,
     che mi son fatte, là per là, bel bello.


     Faccio per dire che non son cicala
     ch’ha un sol vestito, e quando è liso, muore.
     Ma poi, sentite: penso a quella scala…


     Ditelo, Gigi, con le vostre nuore,
     che quell’andare su la scala in chiesa,
     così legata, m’è una spina al cuore!


     Almeno almeno, senza vostra spesa,
     vuo’ per amor di Dio che mi mettiate
     quella camicia nova ch’è lì stesa.


     Io l’ho cucita, al sole della state;
     io l’ho sbiancata, al lume della luna;
     io l’ho tessuta, per le gran nevate;


     filata, presso qualche vostra cuna».


 //-- IX --// 

     Il bimbo era lì fuori. Ella più presso
     si fece al vecchio. «A Dio non si nasconde
     quello che al prete, ed anche a voi confesso.


     Ho fatto a volte un carico di fronde
     in quel del Maso». «Un carichello!» «Ho colte
     nel suo, prima dell’alba, le sue gronde».


     «Altro che gronde, il pover Maso!» «A volte,
     per due fagioli, m’allungavo all’orto.
     Menavo a bere le mie bestie sciolte…»


     «Ma il pover Maso…» «Il pover Maso è morto!
     Fatemi dir due messe, una per Maso,
     una per me…» «Si fanno dire accòrto».


     Erano usciti. «Siete persuaso?»
     «Sì». «La recchietta vuol menata a mano
     su le prime». «Si sa». «Fatene caso».


     «Addio, madre». «Addio Gigi… State sano.
     Addio, Nina. O che beli? Io mi contento
     d’ire con lui che sta così lontano!»


     Ai monti sparsi d’un vapor d’argento
     ella accennava con la mano arsita,
     e foglie secche, mosse un po’ dal vento,


     parean in aria le sue cinque dita.


 //-- X --// 

     Quel giorno un tuono rimbombò che scosse
     l’alta montagna, e, terminato il tuono,
     invïò l’acqua a gocce rade e grosse.


     Ed un’acquata venne giù col suono
     d’un gran passaggio con un grande struscio.
     A sera il tempo era tornato al buono.


     Il cielo aveva l’iridi del guscio
     di madreperla. Stava lì tranquilla
     nel suo lettino, con aperto l’uscio,


     la vecchina, se udisse ora la squilla
     del sagrestano, si vedesse alfine
     venir l’ombrella color bianco e lilla,


     salir di qua di là tante stelline,
     salir cantando, con in mano un cero,
     una fila di donne e di bambine.


     E già scuriva. E sì, vedeva, in vero,
     splender ora più fitte ora più rare
     le luccioline avanti l’uscio nero.


     Quante candele c’erano al sogliare!
     Udiva, sì, cantare; ma lontane
     erano ancora, colaggiù; cantare


     cantare le ranelle con le rane.


 //-- XI --// 

     E levò gli occhi, e ravvisò la strada,
     nel cielo azzurro, tra le stelle ardenti
     bianca ma quasi molle di rugiada,


     la tacita sul sonno delle genti
     strada di Roma. Un tratto ne lucea
     nel breve spazio in mezzo ai due battenti:


     un sentieròlo con una macea,
     lassù nel cielo: un pallido biancore
     presso le stelle di Cassiopea.


     Al capo della via, forse a quell’ore
     prendea con le due mani il pastorale,
     e si levava su forse il pastore.


     Forse veniva tra un sussurro d’ale
     d’angeli per l’azzurro cielo, e un coro
     d’anime nel silenzio siderale.


     E passando cantavano, V’adoro
     ogni momento… sopra gli alti monti.
     Ed egli aveva la sua mitria d’oro.


     Splendean le selve, risplendean le fonti,
     al suo passaggio, d’un baglior fugace
     che ancor passava su le bianche fronti


     d’uomini e donne addormentati in pace.


 //-- XII --// 

     Per quella via… Ma quella era la via
     dell’Universo, l’alta sui burroni
     dell’Infinito ignota Galaxia:


     e prima d’essa Cani Idre Leoni,
     raggianti nelle tenebre celesti,
     gelide: stelle, costellazïoni:


     Soli: sciami di Soli, anzi, con mesti
     pianeti ognuno, dove il fuoco primo
     par che si spenga e che l’amor si desti;


     dove marcisce il puro fuoco in limo
     di vita, impuro, su cui vola forse
     l’uomo con l’ali, o sguazza il fauno simo.


     Le costellazïoni indi trascorse,
     dalla fulgida Lira alla Carena,
     dalla fulgida Croce alle grandi Orse;


     ecco la fitta polvere, la rena
     ogni cui grano è Mondo che sfavilla
     nella sua solitudine serena;


     dove pare un pulviscolo, una stilla,
     il nostro cielo dalla volta immensa…
     se pur là c’è la notte, una pupilla


     nell’ombra, uno che veglia, uno che pensa!


 //-- XIII --// 

     E la vecchietta, dietro il suo pensiero,
     guardando il cielo, ora vedea sé stessa,
     non così vecchia, su per un sentiero.


     Andava col su’ omo, era ben messa,
     incignava quel giorno anzi un guarnello:
     andava a su per ascoltar la messa.


     Lo conosceva quel vïotterello:
     era pieno di fragole e di more.
     Quasi quasi n’empiva il suo pannello.


     Ma poi ben altro le diceva il cuore,
     perché sentiva scampanare a festa:
     era la festa delle Quarant’ore.


     Ella saliva i poggi lesta lesta,
     cantarellando, fresca come brina;
     ma in fondo al cuore era tra lieta e mesta.


     E si trovava povera bambina:
     frignava, dicea Pappa, dicea Bombo:
     un’altra voce ripetea: Cammina!


     Tremava in aria più vicino il rombo
     del doppio. Lesta, ché non è lontano!
     Sì, ma le sue gambette erano un piombo.


     Allor sua mamma la pigliò per mano.


 //-- XIV --// 

     Una sua nuora, lì con la sua rócca,
     c’era a vegliarla. Ad or ad or lo sputo
     dava alle dita e due prilli alla cocca.


     Svagellava, la nonna. Ogni minuto
     parea l’ultimo. All’ultimo ecco a stento
     aperse gli occhi. Essa lo avea veduto!


     Il Papa! Era per l’Alpe, era tra il vento
     gelido, anch’esso, era piccino e stanco,
     sfinito morto, ma parea contento.


     Come accaldato! Aveva corso in branco
     co’ suoi compagni: aveva il capo in fiamma.
     Ora sudava freddo; e con un bianco


     lino la fronte gli tergea sua mamma.



   ZI MEO


     Guardava ognuno, per un po’, la vigna
     tua lì rimpetto, nell’uscir di chiesa.
     Oh! c’era sempre qualche bella pigna!


     «Non ha finito!» E in dir così, sospesa
     con l’acquasanta ancora avea la mano:
     l’altra reggeva una candela accesa.


     «Tutti vizzati buoni: colombano
     e capobugio». E discendean le soglie,
     a due a due, salmodïando piano.


     O tra la lieve nebbia che si scioglie,
     sole d’ottobre! o come lunghe aurore
     giornate pure! o rosseggiar di foglie


     presso a cadere! o limpide ultime ore!
     Un pesco, tra le viti sciolte, rosso
     era così come quand’era in fiore:


     si ricordava! In faccia a lui, sul fosso,
     grandi castagni con i cardi a ciocche
     in tutti i rami; e i cardi avean già mosso.


     Erano a bocca aperta, e dalle bocche
     già si vedea la bella buccia bionda.
     Oh! il bel tempo del fuoco e delle rócche!


     quando le genti siedono alla tonda
     avanti al fuoco, e quelle donne, quale
     fa le mondine e quale poi le monda:


     quando l’annata sia pur ita male,
     ma il fuoco scalda! ma rallegra il vino!
     e il vino è poco? Meno è, più vale.


     Andavano pensando a San Martino,
     sotto i castagni, e c’eri, su la bara,
     coi panni buoni, tu, mio buon vicino!


     Dal Rio mandava la sua voce chiara
     interrogando, l’usignol dei Morti,
     ch’è il pettirosso, e più l’alzava a gara.


     Usignol della nebbia, che i nostri orti
     visiti quando non c’è più che bruchi,
     tu che ci lodi il verno che ci porti;


     e ti fai cuore, e vieni e vai, t’imbuchi
     t’infraschi, e cerchi e fai sentire un canto
     appena trovi sanguini o sambuchi:


     un uomo noi portiamo al camposanto
     che, come te, dimestico e silvano,
     godea del poco e non sapea del tanto.


     I figli avea nell’oltremar lontano,
     e quasi solo vivucchiava in pace
     contento del suo vino e del suo grano.


     Covava il fuoco avendo nelle brace
     poche castagne, e già vecchietto stanco
     pensava all’aspra giovinezza audace;


     allor che in vetta all’alto pioppo bianco
     non scendea; no: gli dava l’onda e in aria
     prendeva a volo l’altro pioppo a fianco:


     alla sua giovinezza aspra di paria,
     allor che dentro il suo metato in monte
     dovea passar la notte solitaria;


     ma, per il fumo, tenea fuor la fronte
     e la lasciava al vento ed al nevischio
     sino al primo baglior dell’orizzonte:


     ché allora a casa discendea tra il fischio
     del tramontano, la crinella in collo,
     zeppa di fronde, ed ogni passo un rischio.


     Era di ceppa vecchia egli rampollo!
     Seguiva il cenno della madre austera
     imperïosa sotto il suo corollo!


     Che vita, allora! il pane allor non c’era
     che per le Pasque! Ora godeva il verno
     egli che non godé la primavera.


     In vece qui con un saluto eterno
     noi ti lasciamo. Addio, Zi Meo! Le zolle
     che abbiam gettate sul tuo cuor fraterno!


     E questa croce sul terreno molle
     non reggerà! Verranno poi le acquate.
     Poi, bianco il monte e sarà bianco il colle.


     Poi, torneranno i figli nell’estate
     a prender l’aria. Addio, Zi Meo! La vita
     è così fatta. Andiamo, dunque. – Andate


     alla vendemmia non ancor finita! —



   NANNETTO


     Su qualche tetto erano forse al sole
     o in qualche prato, simili a vedere
     a bianche pietre, in tanto verde, sole.


     Io le cercava, una di queste sere,
     guardando certe novità dell’orto
     suo: peri nani con enormi pere.


     Andavo su e giù come a diporto
     col babbo suo, mentre cercavo intorno
     le due colombe del fanciullo morto.


     Le avea portate da Zurigo un giorno
     e qui lasciate per tenergli il posto
     nella sua casa fino al suo ritorno;


     per aspettarlo fino al nuovo agosto;
     no, per restare anch’esso tra i suoi monti
     e veder tutto, dentro lor nascosto:


     girare i boschi, bere ai puri fonti
     della sua terra, e te godere ancora,
     sole, che così bello oggi tramonti,


     e, dopo ancor l’Avemaria, quest’ora
     chiara e la sera che s’addorme e pare
     sognar, sui monti, d’essere l’aurora.


     A lui parrebbe d’esserci, e di fare
     qualcosa anch’esso e d’aiutare un poco
     i suoi compagni e lor sorelle care:


     roncare insieme, ma così per gioco,
     tirar la piena stridula carretta,
     mettere al mucchio dell’erbacce il fuoco;


     a un primo lampo, a un primo tuono, in fretta
     correre tutti ad ammucchiare il fieno;
     condurre a mano la vacca soletta;


     e per la strada, sotto un ciel sereno
     come ora, con qualcuno che s’arresta,
     parlar di forivia, del più, del meno;


     andare ad ogni sagra, ad ogni festa
     de’ suoi villaggi, semplice e fedele,
     con lo straniero berrettino in testa;


     e contemplare il nuovo San Michele,
     venuto insin d’America ad Albiano,
     tra quel vapor d’incenso e di candele.


     Oh! ci sarebbe, pur così lontano!
     vedrebbe qui, sull’ali del suo paio
     di colombelle, viti ulivi e grano:


     e le ceragie prime, e il primo staio
     delle castagne, e i primi fichi d’oro
     vedrebbe, e il primo grispolletto vaio!


     Dove son elle? Il cielo in vano esploro.
     Dov’è il ricordo del fanciullo buono?
     Ed ecco il padre un fischio dà sonoro.


     Ed ecco un altro suono dietro il suono;
     un lieve moto, un fischio, un volo, un rombo.
     Ei non c’è più; ma elle ancor ci sono.


     Vien la colomba accanto al suo colombo,
     e tutti e due si posano su ‘n ramo,
     snodando il collo del color di piombo.


     Scattano il collo a rimirar chi siamo,
     a lungo a lungo. Esse beveano al fiume,
     quando le scosse il solito richiamo.


     – Dov’è? – Guardano guardano nel lume
     roseo. – Non c’è! – Riguardano. E non vanno.
     Col becco intanto lisciano le piume.


     No, che non c’è. Non tornerà quest’anno!
     È il babbo solo… e tanto in cuor gli spiace
     d’avervi fatto questo breve inganno.


     Non c’è, per ora. Ite a dormire in pace.
     Nannetto vostro è sempre via pel mondo,
     ed, a quest’ora, anch’esso dorme, e tace.


     Non più, colombe, ora a Zurigo, in fondo
     di Magnusstrasse, ritto dietro il banco,
     vede chi passa, il bel fanciullo biondo.


     Vede bensì l’Eichhörnchen suo, che stanco
     è d’aspettare, e siede sullo staggio
     mostrando tutto il folto petto bianco.


     Né prende i semi d’acero e di faggio
     tra le zampine, e pensa che l’estate
     finisce, ed ei non torna dal vïaggio


     fatto in cercar le due compagne alate.



   BELLIS PERENNIS

 //-- I --// 

     Chi vede mai le pratelline in boccia?
     Ed un bel dì le pratelline in fiore
     empiono il prato e stellano la roccia.


     Chi ti sapeva, o bianco fior d’amore
     chiuso nel cuore? E tutta, all’improvviso,
     la nera terra ecco mutò colore.


     Sono pensieri, ignoti già, che in viso
     rimiran ora, ove si resti o vada;
     nati così, nell’ombra, d’un sorriso


     di stella e d’una goccia di rugiada…


     O mezzo aperta come chi non osa,
     o pratellina pallida e confusa,


     che sei dovunque l’occhio mio si posa,
     e chini il capo, all’occhio altrui non usa;


     bianca, ma i lievi sommoli, di rosa;
     tanto più rosa quanto più sei chiusa:


     ti chiudi a sera, chi sa mai per cosa,
     sei chiusa all’alba, ed il perché sai tu;


     o primo amore, o giovinetta sposa.
     o prima e sola cara gioventù!


 //-- II --// 

     È il verno, e tutti i fiori arse la brina
     nei prati e tutte strinò l’erbe il gelo:
     ma te vedo fiorir, primaverina.


     Tu persuasa dal fiorir del cielo,
     fioristi; ed ora, quasi più non voglia
     perché sei sola, appena alzi lo stelo.


     O fior d’amore su la trita soglia!
     Tu tingi al sommo i petali d’argento
     d’un rosso lieve. Una raminga foglia


     ti copre un poco, e passa via col vento…


     O fior d’amore su la soglia trita!
     o, quando tutto se ne va, venuta!


     che vivi quando è per finir la vita!
     e che non muti anche se il ciel si muta!


     Hai visto i fiori nella lor fiorita:
     vedi le foglie nella lor caduta.


     Ti coglierà passando Margherita
     col cuore assorto nell’amor che fu.


     Ti lascerà cadere dalle dita…
     – Egli non t’ama, egli non t’ama più! —



   LA PECORELLA SMARRITA

 //-- I --// 

     «Frate,» una voce gli diceva: «è l’ora
     che tu ti svegli. Alzati! La rugiada
     è sulle foglie, e viene già l’aurora».


     Egli si alzava. «L’ombra si dirada
     nel cielo. Il cielo scende a goccia a goccia.
     Biancica, in terra, qua e là, la strada».


     S’incamminava. «Spunta dalla roccia
     un lungo stelo. In cima dello stelo,
     grave di guazza pende il fiore in boccia».


     S’inginocchiava. «Si dirompe il cielo!
     Albeggia Dio! Plaudite con le mani,
     pini de l’Hermon, cedri del Carmelo!»


     Tre volte il gallo battea l’ali. I cani
     squittìano in sogno. Le sei ali in croce
     egli vedea di seraphim lontani.


     Sentiva in cuore il rombo della voce.
     Su lui, con le infinite stelle, lento,
     fluiva il cielo verso la sua foce.


     Era il dì del Signore, era l’avvento.
     Spariva sotto i baratri profondi
     colmi di stelle il tacito convento.


     – Mucchi di stelle, grappoli di mondi,
     nebbie di cosmi. Il frate disse: «O duce
     di nostra casa, vieni! Eccoci mondi».


     In quella immensa polvere di luce
     splendeano, occhi di draghi e di leoni,
     Vega, Deneb, Aldebaran, Polluce…


     E il frate udì, fissando i milïoni
     d’astri, il vagito d’un agnello sperso
     là tra le grandi costellazïoni


     nella profondità dell’Universo…


 //-- II --// 

     E il dubbio entrò nel cuore tristo e pio.
     «Che sei tu, Terra, perché in te si sveli
     tutto il mistero, e vi s’incarni Dio?


     O Terra, l’uno tu non sei, che i Cieli
     sian l’altro! Non, del tuo Signor, sei l’orto
     con astri a fiori, e lunghi sguardi a steli!


     Noi ti sappiamo. Non sei, Terra, il porto
     del mare in cui gli eterni astri si cullano…
     un astro sei, senza più luce, morto:


     foglia secca d’un gruppo cui trastulla
     il vento eterno in mezzo all’infinito:
     scheggia, grano, favilla, atomo, nulla!»


     Così pensava: al sommo del suo dito
     giungeva allora da una stella il raggio
     che da più di mille anni era partito.


     E vide una fiammella in un villaggio
     lontano, a quelle di lassù confusa:
     udì lontano un dolce suon selvaggio.


     Laggiù da una capanna semichiusa
     veniva il suono per la notte pura,
     il dolce suono d’una cornamusa.


     E risonava tutta la pianura
     d’uno scalpiccio verso la capanna:
     forse pastori dalla lor pastura.


     E il frate al suono dell’agreste canna
     ripensò quelle tante pecorelle
     che il pastor buono non di lor s’affanna:


     tra i fuochi accesi stanno in pace, quelle,
     sicure là su la montagna bruna;
     e il pastor buono al lume delle stelle


     quaggiù ne cerca intanto una, sol una…


 //-- III --// 

     «Sei tu quell’una, tu quell’una, o Terra!
     Sola, del santo monte, ove s’uccida,
     dove sia l’odio, dove sia la guerra;


     dove di tristi lagrime s’intrida
     il pan di vita! Tu non sei che pianto
     versato in vano! Sangue sei, che grida!


     E tu volesti Dio per te soltanto:
     volesti che scendesse sconosciuto
     nell’alta notte dal suo monte santo.


     Tu lo volesti in forma d’un tuo bruto
     dal mal pensiero: e in una croce infame
     l’alzasti in vista del suo cielo muto».


     In cielo e in terra tremulo uno sciame
     era di luci. Andavano al lamento
     della zampogna, e fasci avean di strame.


     Ma il frate, andando, con un pio sgomento
     toccava appena la rea terra, appena
     guardava il folgorìo del firmamento:


     quella nebbia di mondi, quella rena
     di Soli sparsi intorno alla Polare
     dentro la solitudine serena.


     Ognun dei Soli nel tranquillo andare
     traeva seco i placidi pianeti
     come famiglie intorno al focolare:


     oh! tutti savi, tutti buoni, queti,
     persino ignari, colassù, del male,
     che no, non s’ama, anche se niun lo vieti.


     Sonava la zampogna pastorale.
     E Dio scendea la cerula pendice
     cercando in fondo dell’abisso astrale


     la Terra, sola rea, sola infelice.



   LA VERTIGINE

   Si racconta di un fanciullo che aveva
   perduto il senso della gravità…

 //-- I --// 

     Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
     cresce nel cuore. Io senza voce e moto
     voi vedo immersi nell’eterno vento;


     voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
     ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
     abbandonarvi e pender giù nel vuoto.


     Oh! voi non siete il bosco, che s’afferra
     con le radici, e non si getta in aria
     se d’altrettanto non va su, sotterra!


     Oh! voi non siete il mare, cui contraria
     regge una forza, un soffio che s’effonde,
     laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.


     Eternamente il mar selvaggio l’onde
     protende al cupo; e un alito incessante
     piano al suo rauco rantolar risponde.


     Ma voi… Chi ferma a voi quassù le piante?
     Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
     a questa informe oscurità volante;


     che fisso il mento a gli anelanti petti,
     andate, ingombri dell’oblio che nega,
     penduli, o voi che vi credete eretti!


     Ma quando il capo e l’occhio vi si piega
     giù per l’abisso in cui lontan lontano
     in fondo in fondo è il luccichìo di Vega…?


     Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
     getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
     a un filo d’erba, per l’orror del vano!


     a un nulla, qui, per non cadere in cielo!


 //-- II --// 

     Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
     Qual freddo orrore pendere su quelle
     lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,


     su quell’immenso baratro di stelle,
     sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
     quel seminìo, quel polverìo di stelle!


     Su quell’immenso baratro tu passi
     correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
     con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.


     Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
     Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
     occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:


     se mi si svella, se mi si sprofondi
     l’essere, tutto l’essere, in quel mare
     d’astri, in quel cupo vortice di mondi!


     veder d’attimo in attimo più chiare
     le costellazïoni, il firmamento
     crescere sotto il mio precipitare!


     precipitare languido, sgomento,
     nullo, senza più peso e senza senso.
     sprofondar d’un millennio ogni momento!


     di là da ciò che vedo e ciò che penso,
     non trovar fondo, non trovar mai posa,
     da spazio immenso ad altro spazio immenso;


     forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?
     La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
     io te, di nebulosa in nebulosa,


     di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!



   IL PRIGIONIERO


     Prendi, infelice, il tuo dolore in pace!
     «Perché?» Tu, perché gridi, urti la porta?
     «Perché dolore è più dolor, se tace».


     Se lo nascondi, frutterà. Sopporta,
     attendi, spera… «O vanità! Non spero.
     Non credo». Eppure… «Dio non è!» Che importa?


     C’è del mistero intorno a te… «Mistero?
     Io non lo vedo». Ciò che tu non vedi,
     o prigioniero, è un altro prigioniero;


     e un altro e un altro. Hanno nei ceppi i piedi…
     «Anch’io». Presto la morte, ora catene!
     «Anch’io». Dunque tu sai, dunque tu credi.


     Non li destare! «Io, dormo forse?» Ebbene?
     Se vuoi parlare, parla sì, ma piano;
     canta, se vuoi, ciò che dal cuor ti viene:


     canta, ma un dolce canto, esile, vano,
     che su la piuma delle sue parole
     li porti in collo al loro amor lontano:


     cantalo quello che nel cuor ti duole!
     piangano anch’essi, ma dormendo ancora!
     Chi piange in sogno, è giunto a ciò che vuole,


     è giunto alfine a tutto ciò che implora
     invano. Canta: e l’anima pugnace
     tua placherai. Ritroverà l’aurora


     anche te forse addormentato in pace.




   I FILUGELLI


   CANTO PRIMO

 //-- I --// 

     Con chi partisci quell’esigua messe?
     La deve qualche luccioletta avere,
     che ti fa lume? o il ragno, che ti tesse?


     o la formica? Le formiche nere
     t’han fatto il mucchio, che somiglia un poggio?
     E mezzo devi il grano del podere,


     e lo misuri: e il tuo ditale è il moggio.


 //-- II --// 

     T’han fatto, o Rosa, le formiche il mucchio.
     Ora partisci, benché sia d’aprile;
     San Marco, appunto; quando il gelso è in succhio.


     E il tuo grano è una polvere sottile
     e sembra nato tutto in una zolla…
     Lo tribbiò il grillo dentro il suo cortile,


     e la vanessa ventilò la lolla.


 //-- III  --// 

     Te lo tribbiò le lunghe sere il grillo
     trillando acuto… Oppur codesto grano
     tu l’hai mietuto al regamo e al serpillo?


     O scosso t’hai nel cavo della mano
     l’urna del fiore dell’oblio, del fiore
     del dolce sonno? Vi s’udiva un vano


     scrosciar di pioggia in un lontano albore…


 //-- IV  --// 

     E tu vuoi dunque seminare il sogno
     del rosso fiore? Non è tardi? È molto
     che cadde il fiore al melo ed al cotogno.


     Fiorisce il grano già da te sepolto.
     Pendono ai rami i pomi verdi e lazzi.
     Fiorisce l’uva; e dal ciliegio folto


     pendono bianche le ciliege a mazzi.


 //-- V  --// 

     Ma tu ti sganci il candido corsetto,
     o bionda Rosa. Fuori è chiaro il sole,
     e due colombi tubano sul tetto


     Ti slacci il busto. Odore di vïole
     bianche è nell’orto. Oh! lascia come prima.
     Bello è come è. Non altro fior ci vuole.


     Ci son due bocci ch’hanno il rosso in cima.


 //-- VI  --// 

     Non chiudere entro il bianco petto, o Rosa,
     il fior del sonno. Non la notte e il giorno
     costì si veglia e mai non si riposa?


     Ma senti a un tratto scalpicciare intorno
     alla tua casa… Ora le lievi trine
     tu lieve agganci, ed il corsetto adorno


     richiudi, a un grido delle tue vicine.


 //-- VII  --// 

     Chiamano: Rosa! A doppio le campane
     suonano. Andate! Va con l’altre a schiera:
     prega da Dio la cara pace e il pane.


     Peregrinando suoni la preghiera
     per campi e selve, e per le vigne e gli orti.
     Ristate, o litanie di primavera,


     avanti a croci, qua e là, di morti!


 //-- VIII  --// 

     Appiedi, o Rosa, delle vecchie croci
     prega anche tu: che venga alle su’ ore
     il grano e l’uva, e le gioconde noci


     e le castagne; per il dolce amore
     tuo, per quei morti, che non sai chi sono…
     Prega! Pregate che sfiorisca il fiore,


     che il bello passi ma che lasci il buono.


 //-- IX  --// 

     Ai morti ignoti hanno pensato, ed anche
     al seme chiuso che lor è sul cuore,
     covato già da due lievi ale bianche…


     E vanno via le vergini canore
     e il canto lor si perde nella valle.
     Cantano lontanando: Non si muore!


     E poi: Lo sanno insino le farfalle!…



   CANTO SECONDO

 //-- I --// 

     Nati! Son nati nel tuo petto i semi!
     Ah! che son bruchi, squallidi di pelo,
     neri, infiniti! Ma tu già non temi.


     Tu cauta e pia nel piccolo suo telo,
     in un paniere, adagi il tuo tesoro;
     e su vi spargi lievemente un velo


     di foglie trite e di germogli d’oro.


 //-- II --// 

     Ché savio il gelso come se c’intenda,
     ha messo a tempo. Ed ora ogni quattro ore
     tu recherai la piccola profenda,


     al lor presepe, nell’ugual tepore
     della tua stanza; ed essi pasceranno.
     Ma ecco, un dì, non toccano più fiore:


     noia li prende; alzano il capo, e stanno.


 //-- III --// 

     Dormono. Or tu non romperai quel sogno
     che forse fanno. Non portar più frasca;
     ché non d’altro che d’aria hanno bisogno.


     Un giorno; e par che il gregge tuo rinasca.
     Par nuovo. E tu gli porgi qualche cima
     fresca a cui salga il nuovo gregge, e pasca;


     e lo tramuti dal panier di prima.


 //-- IV --// 

     Cerca tre volte tanta una canestra:
     prendi i germogli con sur ogni foglia
     appeso un branco, e ponili giù destra.


     Tre volte tanto mangiano. E tu spoglia
     per loro i rami e spicca verdi i germi.
     Mangino. In capo de’ sei dì la voglia


     del cibo è queta: alzano il capo, e fermi!


 //-- V --// 

     Dormono. Il corpo a qualche cosa attorno
     hanno legato con sottili bave
     come di seta; e dormono un gran giorno.


     Alfine ecco si svolgono dal grave
     sonno, rifatti. Ed ecco a cento a cento
     li cogli a un ramo, poni giù soave


     in una stuoia il tuo cresciuto armento.


 //-- VI --// 

     Tre volte tanto brucano foraggio
     così cresciuti. Ma tre volte tanto
     verdeggia il gelso al puro sol di maggio.


     Due rose aperte tu porrai da un canto.
     Sognino nella stanza solitaria
     d’essere in Cina, i bachi, e per incanto


     errar sui gelsi tra il color dell’aria!


 //-- VII --// 

     Dormono… Ebbene: tristo sogno è il loro.
     Ma no: vegliano, e sembrano, all’aspetto,
     in doglia grande od a crudel lavoro.


     Non vedi come il torvo capo eretto
     per tutto un giorno dondolano stanchi?
     Póntano i pie’ di dietro, alzano il petto,


     e di sé stessi escono puri e bianchi.


 //-- VIII --// 

     Ora in tre stuoie li porrai, né ora
     più dalle rame sgrapperai le fronde.
     Porgi la rama florida, che odora.


     Non le hai deposte ancora, eccole monde.
     Ma tu gli alunni muterai dal primo
     letto, più volte, o almeno all’ultimo, onde


     l’ultimo sonno non s’invii sul fimo.


 //-- IX --// 

     Dormono… O Rosa, siediti; ché giova.
     Dormono alfin la grossa i filugelli
     che tu tenesti, nel tuo seno, in cova.


     Ma tu mondi olivagnoli, e fastelli
     scuoti, di cesti; vieni e vai; ti spicci,
     ti studi, entri, esci, apri, alzi, e sui castelli


     tacita e grave stendi altri cannicci…



   CANTO TERZO

 //-- I --// 

     Or sì, conviene ai gelsi bianchi, ai mori,
     dare il pennato e portar foglia a fasci,
     con fruscìo grande e il fresco odor di fuori!


     Ma su le prime indugi un po’; né lasci
     che il gregge impingui, e se ne perda il frutto:
     attenta, accorta, a man a man li pasci


     più largamente, fin che indulgi il tutto.


 //-- II --// 

     Ed ecco allora, nell’opaca loggia
     piena di verde, uno scrosciare uguale,
     un grosso allegro strepito di pioggia.


     Sembra l’oscurità d’un temporale
     che fa fuggire con le falci in pugno
     le villanelle… Invece le cicale


     cantano al sole, al nuovo sol di giugno.


 //-- III --// 

     Canta, nel sole immersa, la calandra
     che inebbria il cielo. Tu tra i tuoi castelli
     nella fresca ombra vegli sulla mandra.


     Di quando in quando vengono i fratelli
     portando rami striduli a bracciate:
     entra con loro il canto degli uccelli,


     entra con loro il soffio dell’estate.


 //-- IV --// 

     Ma sazi alfine i tuoi voraci allievi,
     or l’uno or l’altro, lasciano la foglia.
     Erano pigri, agili sono e lievi.


     Vagano spinti da non so qual voglia.
     Talvolta alcuno qua e là s’arresta.
     Sembrano ciechi che da soglia a soglia


     vadano tentennando con la testa.


 //-- V --// 

     Tu sai, tu vegli: a tempo tu facesti
     nella tua selva, o Rosa, quando c’eri
     pei primi funghi, irsute stipe e cesti.


     Rami d’ulivi, anche di meli e peri,
     anche di viti, tu serbasti insieme,
     e, quali alberi, piccoli ma veri,


     gambi di rape, dopo colto il seme.


 //-- VI --// 

     Di questi rami ed alberi minori
     alzi in un tiepido angolo tranquillo
     un bosco secco senza foglie e fiori.


     – Che rifiorisca? – par che rida il grillo.
     Non ride il ragno: egli fa pur le tele!
     Né l’ape ch’ama il regamo e il serpillo:


     tutto può darsi; ella fa pure il miele!


 //-- VII --// 

     Vanno inquïeti, contro lor costume.
     Qual monta i ritti, qual s’appende al muro.
     Traspare il corpo se si spera al lume.


     Più nulla è in loro, che non sia futuro.
     Par che la bocca un fil di luce aneli.
     Il verme è mondo, il verme è tutto puro…


     O Rosa, è puro, e cerca ove si celi.


 //-- VIII --// 

     Prendili, o Rosa, con le rosee dita:
     portali al bosco. Dentro pochi giorni
     l’arida selva rivedrai fiorita.


     Vai dal castello al bosco, poi ritorni
     dal bosco lieta al tuo castello: lieta,
     che l’un si vuoti e l’altro già s’adorni


     di biondi grandi bozzoli di seta.


 //-- IX --// 

     Non più castelli, o Rosa: altro non resta
     che il bosco brullo. Or tu siedi romita,
     pensi all’amore, un po’ lieta un po’ mesta.


     Dal bosco morto viene un’infinita
     romba nel gran silenzio sonnolento.
     Tra le sue rame odi un ansar di vita…


     le già sue foglie odi stormire al vento.




   LA MIETITURA


   TRA LE SPIGHE

 //-- I --// 

     Il grano biondo sussurrava al vento.
     Qualche fior rosso, qualche fior celeste,
     tra i gambi secchi sorridea contento.


     Pendeano li agli e le cipolle in reste.
     S’udian, mutata alfin la voce in gola,
     cantar galletti, altieri delle creste.


     Tessea le spighe dello spigo a spola
     la cara madre, per i suoi rotelli
     del banco grande e per le sue lenzuola.


     Fioria la zucca, arsivano i piselli,
     nell’orto. Le ciliege erano andate:
     per San Giovanni avevano i giannelli.


     C’erano già le mele dell’estate,
     c’erano le susine di San Pietro.
     Fatte via via più lunghe le giornate,


     il sole, stanco, ritornava indietro.


 //-- II  --// 

     E biondo al vento mormorava il grano.
     Fiorivano le snelle spadacciole
     tra i gambi gialli; e non sapean, che in vano.


     C’era un bisbiglio come di parole.
     E l’intendea la lodola che in tanto
     aveva lì la giovinetta prole.


     Tardi avea fatto il nido, lì da un canto.
     Oh! ella amava il sole più che il nido!
     Chissà? voleva far lassù, col canto!


     Or sui piccini udiva già lo strido
     della falciola; e li ammonìa di stare
     accovacciati senza dare un grido.


     Diceva: – Chiotte, contro terra, o care!
     che non si mova un bruscolo, uno stelo!
     V’ho fatte color terra: altro non pare,


     così, che terra, o nate per il cielo! —


 //-- III  --// 

     E il grano al vento strepitava; e disse
     il padre al figlio: «Mieteremo. Vedi:
     verdino è, sì, ma non vorrei patisse.


     Ché il grano dice: – Io sto ritto, e tu siedi.
     Qui temo l’acqua, e il vento mi dà briga.
     Altronde, o presto o tardi, o steso o in piedi,


     se il gambo è secco seccherà la spiga —».



   TERRA E CIELO

 //-- I --// 

     E disse poi, con tutti i figli attorno,
     appiè d’un melo, carico di mele:
     «Sì: mieteremo sull’aprir del giorno.


     La terra è buona: dura, ma fedele;
     ma è una barca, il sole per timone,
     e bianche e nere nuvole per vele.


     Ci vuole il cielo: tutto a sua stagione;
     e freddo, caldo, dolce, aspro, ci vuole,
     e i lampi e i tuoni e il fumido acquazzone.


     Il grano, in prima, ebbe due barbe sole,
     quando escì fuori, un solo gambo in tutto.
     Venne la neve: – Ah! vuoi goderti il sole?


     No! Soffri un po’! Metti altre barbe! Frutto
     non vien da seme che non sia già morto! —
     Die’ retta il grano. Marzo venne asciutto.


     Guai se i miei campi li prendea per l’orto!


 //-- II --// 

     Si sa: marzo va secco, il gran fa cesto.
     Il gran, per uno pallido e sottile,
     più ciuffi mise, quanto più fu pesto.


     Talliva. Allora sopravvenne aprile
     con le dolci acque. I giorni erano belli,
     ma e’ passava con il suo barile.


     Passava in alto, tra un cantar d’uccelli,
     con una gonfia nuvoletta nera…
     E il gran fece il cannello, anzi i cannelli.


     Doglia di verno, gioia a primavera!
     Tanti cannelli, tante spighe, nate
     d’un chicco solo; e questo chicco ov’era?


     Non c’era più. Restare, a che? Pensate.
     Il grano in tanto chiuso nello stelo,
     dentro le verdi lolle accartocciate,


     fioriva. Unita era la Terra e il Cielo.


 //-- III --// 

     Fioriva il grano. Erano in casa, i fiori,
     con l’uscio chiuso, e nuovi della vita
     mescean celati i loro dolci amori.


     Alfin la spiga aperse con due dita
     l’uscio, e guardò stringendo a sé la veste.
     Ma come vide al Ciel la Terra unita,


     anch’ella uscì, ma con un vel di reste.



   E LAVORO

 //-- I --// 

     E il grano è bello. Ma non fu soltanto
     la terra e il cielo, fu la nostra mano.
     Chi prega è santo, ma chi fa, più santo.


     E prima scelsi il seme del mio grano
     tra il grano mio. Grani più duri e grossi
     o più gentili non cercai lontano.


     Altri grani, altre terre, ed altri fossi
     ed altri conci. Il grano da sementa
     non lo tribbiai né macchinai, ma scossi.


     Quando fu tempo, presi calce, spenta
     da me, non vecchia; tal che, non appena
     l’acqua la bagni, bulica e fermenta.


     Ne feci latte, e in una cesta piena
     v’immersi il grano, che un po’ sempre molle,
     quando sentii la lunga cantilena


     di grilli e rane, sparsi sulle zolle.


 //-- II --// 

     Né lavorato avevo a fondo: a fondo
     avevo sì, ma pel granturco d’anno.
     Il grano è meglio, e però vien secondo.


     Sta pago il grano a quello che gli dànno.
     Vuol sì la terra trita, ma non trita
     tanto, ché, anzi, gli sarebbe a danno.


     Non diedi al grano, che mi dà la vita,
     nemmeno il concio. Poco o nulla e’ chiede
     per far la spiga bella e ben granita.


     Gli basta un po’ del troppo che si diede
     al formentone, che scialacqua e, grande
     com’è, non pensa al piccoletto erede.


     Ad ogni acquata egli s’innalza e spande,
     si sogna d’essere albero, fa vanti
     e sfoggi, e vuole intorno a sé ghirlande


     di zucche e di fagioli rampicanti…


 //-- III --// 

     Dov’e’ lasciò, grossi, pel fuoco, i gambi,
     io questo grano seminai; non fitto;
     e un sol governo valse per entrambi.


     E visse e crebbe, pesto giallo afflitto…
     Ma, or vedete: e’ non s’alletta e sta.
     È bello. Per tenere il capo ritto


     giova la cara buona povertà!



   IL PANE

 //-- I --// 

     Date la pietra a falci ed a frullane,
     o cari figli! spruzzolate l’aia
     con acqua pura! Ché ritorna il pane.


     Viene dai campi tratto a noi da paia
     di vaccherelle, a l’aie bianche ov’erra
     odor di fiori e odor di concimaia.


     Fategli festa: ei viene di sotterra,
     e sé dà cibo a quei che l’hanno ucciso,
     il figlio pio del Cielo e della Terra!


     Siete suoi figli; e, dopo che al sorriso
     di vostra madre, di tra le sue stesse
     mammelle sante, avete a lui sorriso.


     Lo stringevate, che non vi cadesse,
     con le due mani, ancora gronchie, al core,
     dandogli un bacio. Egli le sue promesse


     attiene, e per noi nasce e per noi muore.


 //-- II --// 

     Fategli festa. Era finito il grano…
     il grano vecchio. Or quello ch’è più in cera,
     noi sceglieremo e batteremo a mano.


     Il meglio, il fiore dell’annata intera,
     noi manderemo subito al molino;
     che l’abbia a giorno e che lo renda a sera.


     L’affioreremo. Vuo’ lo staccio fino.
     Prepareremo il lievito, ch’è quello
     che il nonno in casa ritrovò bambino.


     Sia buono il pane, ma non sia men bello:
     meglio che un brutto pan di fiore approvo
     un bel colombo fatto di cruschello.


     Sia ben levato e pieno come un ovo,
     e col suo sale; buono anche da solo.
     Sia questo primo pane di gran nuovo


     per te, mia figlia, che mi prendi il volo.


 //-- III --// 

     Ma da’ la pietra alla tua falce, o Rosa.
     Mieti con gli altri. Mieterai più lenta
     nei dì che passi tra fanciulla e sposa;


     nei dì che il cuore sembra che si penta
     di far le spighe che per ciò son nate…
     Mieti anche tu. Nelle tue carni ei senta


     l’odor del grano e della grande estate».



   LA MESSE

 //-- I --// 

     I due fratelli con le due sorelle,
     stringendo il grano e le lunate falci,
     mietean le spighe e ne facean mannelle.


     Torceano spighe, per legar, non salci.
     E le stendeano. O vite, così stese
     le carezzavi con l’ombrìa dei tralci.


     L’erbe così, mentre fiorian, sorprese,
     moriano al sole; onde alle bestie grata
     si fa la paglia come fien maggese.


     Passava il padre tutta la giornata
     pei solchi, e ritte le mannelle in croce
     ponea, se l’erba già vedea seccata.


     Seguian nel campo l’opera veloce
     lieti i fratelli e le sorelle accanto.
     Ma non si udiva, o Rosa, la tua voce.


     Un canto, sì, di lodoletta, o un pianto.


 //-- II --// 

     In ogni campo alzarono due tonde
     mete di spighe. Posero per prime
     quattro mannelle, le più grosse e bionde.


     Posero il calcio in terra, alto le cime;
     e poi, con le altre sopra quelle e intorno,
     fecero una gran cupola sublime.


     Mietean tre giorni. Sul finir del giorno,
     era finita. Placida la sera,
     erano i cuori placidi al ritorno.


     «Il grano è bello, e, di verdugio ch’era,
     secco sin troppo. Con quel sole, ha sete.
     Oggi la spiga ci parea leggiera»


     diceva il babbo, e soggiungea: «Vedrete!
     Il gran che il sole ora ha stremato e franto,
     poi si rifà la notte nelle mete,


     e s’enfia e s’empie, e peserà più tanto».


 //-- III --// 

     Nere le mete: solo qualche lampo
     facean le paglie, come se un tesoro
     fosse disperso qua e là nel campo.


     Diceano i grilli grazie mille in coro
     a chi, tagliato, per lor agio, il grano,
     gittò poi l’arma… La falciola d’oro


     brillava in cielo e ricadea lontano.



   I SEMI

 //-- I --// 

     L’alba sul monte e l’ombra nella valle.
     I vermi chiusi ne’ ben fatti avelli,
     piccole mummie rinascean farfalle.


     Le spose uscian da’ bozzoli più belli,
     candide e gravi. Col frullar dell’ale
     movean ver loro i brevi maschi snelli.


     La savia madre il letto nuzïale
     bianco lor tese. Ognuno andava in traccia
     d’una compagna all’opera immortale.


     E venne Rosa dalle bianche braccia
     nella stanzetta del fecondo rito.
     Recava in grembo i bei rotelli e l’accia.


     Rosa ristié vedendo già fiorito
     di semi d’oro, tanti semi, il panno.
     Pensava: – Allora avrò l’anello al dito,


     non ci sarò, quando rinasceranno…


 //-- II --// 

     Sentiva tonfi e scrosci come pioggia
     che sferzi i vetri. Il primo fior del grano
     scotean laggiù nella sonante loggia.


     Prendeva il babbo una mannella in mano
     e la battea, voltandola, più volte,
     forte e con garbo, sur un banco piano.


     Secche, bell’aspre, già per prime colte,
     eran le spighe, e con tre colpi a sesto
     davano fuori il grano lor, disciolte.


     Pioveano i chicchi. A Rosa vie più mesto
     si fece il cuore. Ah! che il desio rimane
     addietro, spesso, e il tempo va più lesto!


     Capì la madre che pensava al pane
     delle sue nozze, pallida e sgomenta;
     e disse, volti gli occhi in là: «Stamane


     scuotono il grano, ma della sementa…»


 //-- III --// 

     E nelle braccia si trovò piangente
     l’una dell’altra. «Oh! quello che più costa,
     figlia, è la gioia: oh! non si dà per niente!»


     «Se ho fatto male, non l’ho fatto apposta!
     Lascia ch’io resti qui con te, ch’io stia
     in un cantuccio, ma con te, nascosta…


     Non mi mandare, o dolce madre, via!…»



   IL CORREDO

 //-- I --// 

     «Non io ti mando. È un altro che ti manda.
     Fa quel ch’io feci, che per te fu bene.
     Va col tuo velo e con la tua ghirlanda.


     Te la faremo d’astri e di verbene;
     di rose, resti, e per un po’, tu sola.
     Va col corredo quale a te perviene.


     Frullare il fuso e correre la spola
     facesti assai! La tela, che tessesti!
     Quante coperte e paia di lenzuola!


     Tutte son tue; che, quando là ti desti
     nei primi giorni, prima che sia giorno,
     pensi che i più, degli anni tuoi, son questi.


     Ti sentirai l’odor di casa attorno,
     il buon odor di spigo e di cotogno,
     e di tua mamma; ed ecco di ritorno


     sarai, tra noi, se dopo dormi, in sogno.


 //-- II --// 

     Facesti assai correre l’ago e il fuso,
     la spola e i ferri. Il bene, si ritrova.
     Hai quel ch’è d’uso, ed anche più, che d’uso.


     Senza pensarci, ad una casa nuova
     tu provvedevi: tu, per quella, in piazza
     la seta e i polli tu portasti e l’uova.


     Per quella i teli stavano alla guazza
     ed alla luna. Dice il babbo, o Rosa:
     – Ricca da sposa, oprante da ragazza. —


     Ora, il primo anno, o figlia mia, riposa!
     Godi, che n’hai, le calze, e le gonnelle
     e le tovaglie a spina, a riso, a rosa.


     Per me l’hai fatte, e sono così belle!
     La madre tua le dona a te… Ma pensa!
     Quando i tuoi vecchi un giorno le ciambelle


     ti porteranno, ne ornerai la mensa».


 //-- III --// 

     Così diceva; ma di tanto in tanto
     le si arrochiva e si spengea la voce.
     Assieme allora elle faceano un pianto.


     Come è qui tutto, insino i fiori, a croce!
     La madre altrove la condusse, un banco
     le aperse, nuovo, lucido, di noce.


     «È tuo, con tutto il suo tesoro bianco».



   IL SALUTO

 //-- I --// 

     E il giorno avanti le sue nozze in fiore
     rivide, errando per il colle e il piano,
     ciò ch’ella amava, e che non era amore.


     E salutò coi cenni della mano
     la vigna verde che gli dava il vino,
     il campo grande che gli dava il grano;


     e il melograno rosso e il biancospino
     della sua siepe, e il campo così smorto,
     in cui fiorì come un bel cielo il lino:


     ciò ch’era morto e ciò ch’era risorto,
     ciò che nasceva e che moriva al sole,
     la selva, il prato, l’oliveta e l’orto.


     Di fiori, c’era un alto girasole,
     nell’orto, e qualche zinia ed astro in boccia.
     Tutto era colto… A lei con l’ali sole


     corse, tra un rotto pigolio, la chioccia.


 //-- II --// 

     Salutò l’aia, il pozzo, a tutte l’ore
     gemente e fresco, e la sua casa oh! tanto
     e tanto amata! ma non era amore;


     la cameretta, il letto a due, col Santo
     che v’era in cima. Il capo sulla sponda,
     piangeva, ed ecco udiva un altro pianto.


     «Oh! ella aspetta sempre che risponda
     il vitellino!» Era, quel pianto, un muglio.
     Un muglio sì, ma era la sua Bionda!


     Scese, e facea per lei qualche cerfuglio
     e qualche frasca. Ecco un ronzio sonoro.
     Era uno sciame che sciamava in luglio.


     Ronzare udiva quello sciame d’oro,
     e la sua mucca riudì mugliare.
     Rondini udiva cinguettare in coro,


     venute al nido sopra il vento e il mare.


 //-- III --// 

     Ed il domani baciò Nando e Dore
     che scappò, il babbo a cui ballava il mento;
     che amava, oh! quanto! ma non era amore.


     Ei disse: «Gioia dentro, lume spento».
     Baciò la madre, che la benedisse;
     e Violetta, col suo viso attento,


     tacita, grave, le pupille fisse.



   IL CHIÙ

 //-- I --// 

     – Addio! – La notte, troppo grande il letto
     era a Viola. Stava dal suo canto,
     con incrociate le due mani al petto;


     ma non dormiva. Non aveva pianto.
     Dicea di quando in quando una preghiera.
     Dormir, sognare, non volea; ché tanto…


     non c’era più! Perché sognar che c’era?
     non saper più, ma per un poco, appena,
     ch’era partita al rosseggiar di sera?


     La notte in cielo risplendea serena:
     tra cielo e terra un murmure, uno spesso
     palpito, l’onda d’un’assidua lena.


     E Violetta si chiedea sommesso
     dov’era quella che non c’era più.
     Col dolce verso sempre mai lo stesso


     le rispondeva di lontano il chiù.


 //-- II --// 

     Splendea lassù la gran luce di Sirio.
     Recava odor di fiori pésti il vento.
     – Ell’era andata a chi sa qual martirio!


     Ora, dov’era? A lume acceso o spento?
     Buon che le mise al collo, nell’aspetto,
     quella sua croce piccola d’argento!


     Ella doveva ora vegliar nel letto
     sola con lui! senza sperare aiuto! —
     Viola i panni si stringea sul petto.


     – Che cosa avrebbe egli da lei voluto?
     Qual piaga dare tenera e mortale
     a quelle carni bianche, di velluto?


     Qual pianto fa di quel ch’è ora, e quale
     rimpianto mai di quel ch’un giorno fu!… —
     Col mesto verso eternamente uguale


     le rispondeva di lontano il chiù.


 //-- III --// 

     Quando cantò la prima capinera
     nel puro cielo d’ambra e di viola,
     dormiva, sciolta la gran chioma nera.


     Dormiva forte, stretta alle lenzuola;
     e se sognò, non ricordò, che cosa.
     Si levò tardi. E come te, Viola,


     anche i tuoi vecchi. E tu più tardi, o Rosa.




   LE DUE AQUILE – I DUE ALBERI


   LE DUE AQUILE

 //-- I --// 

     La rupe è là con altre rupi intorno,
     alta, nell’immobilità del gelo.
     Talor vi ruota all’apparir del giorno


     una grande ombra che vien giù dal cielo.


 //-- II --// 

     La rupe un giorno par che muova, il ghiaccio
     sembra che crocchi e crepiti, fin ch’esce
     tristo un fil d’acqua da un sottil crepaccio.


     Al sordo e cupo fremere si mesce
     ora un bisbiglio ed un gorgoglio lene.
     Con l’ali aperte scende l’ombra, cresce


     all’improvviso, e grande sta. – Che avviene? —


 //-- III --// 

     E l’uccellaccio posa sopra il ciglio
     dell’alta rupe; e sente che s’abbassa
     la rupe sotto l’uno e l’altro artiglio.


     Tacito va, tacito viene, passa
     con le grandi ali. Tronchi d’agrifoglio
     e d’oleastro porta getta ammassa.


     Ora il bisbiglio e il fievole gorgoglio
     si fa rumore, giù di balza in balza,
     divien fracasso, giù da scoglio a scoglio…


     Tutta s’apre la fulva aquila, s’alza…


 //-- IV  --// 

     S’alza a vedere; tra le nubi e i venti
     s’adagia in cielo. Nelle valli brune
     vede gettarsi i botri ed i torrenti.


     Vanno con un feroce urlo comune,
     chi qua chi là. Scendono ciechi al piano,
     portano massi, travi, alberi, cune.


     Hanno la cupa voce d’uragano
     e di valanga; ed il fragor con loro
     rapido va, ma non è mai lontano.


     Fuor dalle nubi, risplendente d’oro,
     l’aquila ruota, remeggiando lenta,
     sopra il terrestre vortice sonoro.


     E s’alza ancora ed alto un grido avventa,
     atroce, per le vane plaghe sole.
     Tre volte grida, e sta tre volte intenta


     all’eco forse che ne mandi il sole.


 //-- V  --// 

     Amore! amore! amore! Ecco apparita
     sopra le nubi, immobile su l’ale,
     tremando in cuor lo squillo della vita,


     tremando in cuore il palpito immortale
     della sua vita, l’altra aquila. S’alza
     lenta, e ricorda a man a man che sale.


     Ricorda tutto, e presso lui già sbalza,
     e insieme precipitano al profondo,
     prèdansi a furia; l’anno e l’ora incalza:


     vuole due grandi aquile nuove il mondo!


 //-- VI  --// 

     Amore! amore! Or egli tra lo scroscio
     delle cascate s’inabissa a piombo,
     artiglia il daino, lacera il camoscio;


     e brani rossi porta, e sul rimbombo
     delle valanghe suona aspro il suo grido
     di sangue e morte, che poi frena: il rombo


     solo dell’ale ode il solingo nido.


 //-- VII  --// 

     Amore! Ed ella cova. Il capo eretto
     e gli occhi fissi, lunghi giorni e notti.
     Col rostro adunco ora si spiuma il petto,


     sprimaccia il covo. Sente gli aquilotti…



   LA PIADA

 //-- I --// 

     Il vento come un mostro ebbro mugliare
     udii notturno. Errava non veduto
     tra i monti, e poi s’urtava al casolare


     piccolo, ed in un lungo ululo acuto
     fuggiva ai boschi, e poi tornava ancora
     più ebbro, con suoi gridi aspri di muto.


     L’udii tutta la notte, ed all’aurora,
     non più. Dormii. Sognai, su la mattina,
     che la pace scendeva a chi lavora.


     Or vedo: scende. Scende: era divina
     l’anima. Il cielo tutto a terra cade
     col bianco polverìo d’una rovina.


     Non un’orma. Vanite anche le strade.
     La terra è tutto un solo mare a onde
     bianche, di porche ov’erano le biade.


     Resta il mio casolare unico, donde
     esploro in vano. Non c’è più nessuno.
     E solo a me che chiamo, ecco risponde


     il pigolio d’un passero digiuno.


 //-- II --// 

     Sul liscio faggio danzi corra voli,
     Maria, lo staccio! Siamo soli al mondo:
     facciamo il pane che si fa da soli!


     Voli lo staccio e treppichi giocondo,
     vaporando il suo bianco alito fino,
     che si depone sul tuo capo biondo.


     O lieve staccio, io t’amo. Il tuo destino
     somiglia al mio: tener la crusca; il fiore,
     spargerlo puro per il tuo cammino.


     E fai codesto con un tuo rumore
     lieto, in cadenza: semplice, ma bello
     per l’orecchio del pio lavoratore.


     Ma triste, sotto mezzodì, per quello
     del viandante, che rasenta i triti
     limitari del lungo paesello:


     ch’ode un danzar segreto, ode tra i diti
     di donna sola, in ogni casa, andare
     te, casalingo cembalo, che inviti


     lo sciame errante al tacito alveare.


 //-- III --// 

     Taci, querulo passero: t’invito.
     Sempre diventa il tuo gridìo più fioco:
     taci: or ora imbandisco il mio convito.


     Il poco è molto a chi non ha che il poco:
     io sull’aròla pongo, oltre i sarmenti,
     i gambi del granturco, abili al fuoco.


     Io li riposi già per ciò. Ma lenti
     sono alla fiamma: e i canapugli spargo
     che la maciulla gramolò tra i denti.


     Nulla gettai di quello che non largo
     mi rese il campo: la mia man raccoglie
     anche i fuscelli per il mio letargo.


     Serbo per il mio verno anche le foglie
     aride. Del granturco, ecco via via
     mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.


     Ciò che secca e che cade e che s’oblia,
     io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore
     si stacca triste e che poi fa che sia


     morbido il sonno, il giorno che si muore.


 //-- IV --// 

     Il mio povero mucchio arde e già brilla:
     pian piano appoggio sopra due mattoni
     il nero testo di porosa argilla.


     Maria, nel fiore infondi l’acqua e poni
     il sale; dono di te, Dio; ma pensa!
     l’uomo mi vende ciò che tu ci doni.


     Tu n’empi i mari, e l’uomo lo dispensa
     nella bilancia tremula: le lande
     tu ne condisci, e manca sulla mensa.


     Ma tu, Maria, con le tue mani blande
     domi la pasta e poi l’allarghi e spiani;
     ed ecco è liscia come un foglio, e grande


     come la luna; e sulle aperte mani
     tu me l’arrechi, e me l’adagi molle
     sul testo caldo, e quindi t’allontani.


     Io, la giro, e le attizzo con le molle
     il fuoco sotto, fin che stride invasa
     dal calor mite, e si rigonfia in bolle:


     e l’odore del pane empie la casa.


 //-- V --// 

     Chi picchia all’uscio? Tu forse, Aasvero,
     che ancor cammini per la terra vana,
     arida foglia per un cimitero?


     Chi picchia all’uscio?… E fioca una campana
     suona… Chi suona? Forse un vecchio prete,
     restato a guardia della tomba umana?


     È solo; e ancora a mezzodì ripete
     l’Angelus, ed a rincasare invita,
     morti, voi, che sotterra ora mietete.


     Socchiudo l’uscio. – Antica ombra smarrita,
     che in cerca erri del corpo; ultima foglia,
     che stridi ancora dove fu la vita;


     qual vento t’ha portato alla mia soglia,
     vecchio ramingo, ultima foglia morta
     d’albero immenso che non più germoglia?


     Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta
     necessità. Sei vivo: soffri! Vivo
     sei: piangi! Ed ecco, dunque, apro la porta:


     entra, fratello; ché ancor io… sì, vivo. —


 //-- VI --// 

     Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco
     l’azimo antico degli eroi, che cupi
     sedeano all’ombra della nave in secco


     (si levarono grandi sulle rupi
     l’aquile; e nella macchia era tra i rovi
     un inquieto guaiolar di lupi…):


     il pane della povertà, che trovi
     tu, reduce aratore, esca veloce,
     che sol s’intrise all’apparir dei bovi:


     il pane dell’umanità, che cuoce
     in mezzo a tutti, sopra l’ara, e intorno
     poi si partisce in forma della croce:


     il pane della libertà, che il forno
     sdegna venale; cui partisci, o padre,
     tu, nelle più soavi ore del giorno:


     ognuno in cerchio mangia le sue quadre;
     più, i più grandi, e assai forse nessuno;
     o forse n’ebbe più che assai la madre,


     cui n’avanza da darne un po’ per uno.


 //-- VII --// 

     Azimo santo e povero dei mesti
     agricoltori, il pane del passaggio
     tu sei, che s’accompagna all’erbe agresti;


     il pane, che, verrà tempo e nel raggio
     del cielo, sulla terra alma, gli umani
     lavoreranno nel calendimaggio.


     Ché porranno quel dì su gli altipiani
     le tende, e nel comune attendamento
     l’arte ognun ciberà delle sue mani.


     Ecco il gran fuoco, che s’accende al vento
     di primavera. Ma in disparte, gravi,
     sulla palma le bianche onde del mento,


     parlano i vecchi di non so che schiavi
     d’altri e di sé: ma sembrano parole
     sepolte, dei lontani avi degli avi.


     Guardano poi la prole della prole
     seder concorde, e, con le donne loro
     e i loro figli, in terra sotto il sole,


     frangere in pace il pane del lavoro.




   GLI EMIGRANTI NELLA LUNA


   CANTO PRIMO

   Il brodiag e lo studente


 //-- I  --// 

     Mancava ormai la legna e l’acquavite.
     Non venne il sonno e ritornò la fame.
     Disse un brodiag ai contadini: «Udite?»


     Si lisciava la gran barba di rame
     senza parlare, e si togliea tra il pelo
     le foglie secche e qualche fil di strame.


     Quelli aprivano gli occhi color cielo,
     zuppi di sogno. «Il vento!» disse: «il vento
     del nord! Quest’anno tarderà lo sgelo!»


     E l’isba scricchiolò con un lamento
     lungo ad un urto. Alzò le spalle un vecchio
     senza levare dalle palme il mento.


     Gli altri alla romba porsero l’orecchio.
     «Hai pane, tu,» ghignò il brodiag «tu, fieno!
     legna nel canto! latte anche nel secchio!»


     «Che farci?» disse il vecchio. «Olio, non meno!…»
     Il lume un po’ guizzò palpitò sfrisse,
     si spense. Il vecchio disse: «Olio, nemmeno».


     Che farci! Serrò gli occhi. Altro non disse.
     Ecco e s’empiva l’abituro d’una
     pallida nebbia. Ché via via men fisse


     vanian le stelle all’alba della luna.


 //-- II --// 

     E la luna calante batté gialla
     sull’impannata. Netta, senza brume,
     stava, sul liscio mar di neve a galla.


     L’immensa taiga biancheggiava al lume.
     Qualche betulla nuda, qualche cono
     d’abete, e solchi d’ombra d’un gran fiume.


     E si levò tra quelle genti un suono
     dolce di voce: «Il giovine straniero
     giunto tra noi, che parla a noi, ch’è buono…


     egli sa tutto; vede anche il pensiero
     chiuso nei cuori… egli leggeva un giorno
     un libro, il libro che ci dice il vero…


     La Luna, dice, è un’altra Terra, attorno
     a questa Terra. E ci si va. C’è gente
     che v’andò, che ne parla, ora, al ritorno…»


     La giovinetta voce piovea lente
     le sue parole. Balenava un raggio
     or qua or là da due pupille attente.


     E il contadino e il boscaiol selvaggio
     e donne e bimbi nella solitaria
     capanna, udian la storia del passaggio


     a quella luna, per il mar dell’aria.


 //-- III  --// 

     Scrollò la testa, il vecchio, e disse: «Fole!
     L’uomo non vola, o garrula ghiandaia,
     come gli uccelli e come le parole!


     L’acqua ci può. Sul fiume va l’alzaia,
     non già per aria. L’aria è aria; nulla.
     Ma l’acqua è cosa, quando pur traspaia.


     Fole da dire sotto una betulla,
     d’estate, a sera…» Ed ella disse: «Allora
     le nuvole?…» E il brodiag: «Ecco, fanciulla!


     Terra e lombrichi vede chi lavora
     le terra. C’è nel mondo altro, che il grano!
     Il sole cade; e l’uomo fa l’aurora!


     Uno bisbiglia; e l’ode uno lontano
     le mille miglia! I carri vanno a torma,
     da sé, con un fragore d’uragano!


     E c’è chi vola senza lasciar l’orma.
     Sì! Sì… come la nuvola che batte
     nella luna, e si ragna e si deforma…»


     Le sue parole in un chiaror di latte
     passavano, nel loro alitar su.
     Come nuvole presto fatte e sfatte


     le rimirava l’umile tribù.



   CANTO SECONDO

   Com’è la luna

 //-- I --// 

     Scórsero i giorni, anche le notti; e il vento
     soffiò più forte, e si levò la luna
     più tardi, e il fuoco morto e il lume spento


     s’era più presto: un’altra notte, e una
     pallida nebbia errò su padri e figli
     non sazi. Ma la madre era digiuna.


     Destò la luna i languidi sbadigli
     degli altri: a lei si rifletté su gli occhi
     umidi e lustri sotto i curvi cigli.


     Si scaldavano un poco ora i marmocchi
     a lei. L’ultimo, in terra, il capo ciondo-
     loni via via le urtava ai due ginocchi.


     Ella parlò: «Se fosse qui quel biondo
     grande… Ma egli prese la bisaccia
     vuota; e chi sa, dov’ora è mai, del mondo?


     Io gli avrei detto: Non è lei che ghiaccia
     i fossi e i fiumi? Non è lei che imbeve
     del suo biancore i lunghi teli e l’accia?


     Non fa la brina e il gelo essa? Ci deve
     far così freddo! tra le stelle sole,
     liscie, lustranti! Quel biancore è neve…»


     «No, mamma,» disse la fanciulla: «è il Sole!»


 //-- II --// 

     E la tribù guardò nel cielo. Quella?
     Dunque piena di sole essa trascorre,
     di notte, come una più grande stella?


     Una piccola Terra, or sulla torre,
     or sull’abete… Ma quell’ombre? Monti,
     quelle ombre, rupi valli greppi forre…


     rughe: le rughe delle vecchie fronti.
     Ma ella, dunque, è vecchia calva ossuta,
     senza verde di frondi, acqua di fonti?


     E la fanciulla disse: «Io l’ho veduta.
     In un suo libro. Egli sapea contare
     i monti e i mari. Io l’ascoltava muta.


     C’è il Mare di Serenità. C’è il Mare
     di Nubi. Anche, di Pioggie e di Tempeste.
     Un altro Mare senza l’acque amare.


     C’è la Palude delle Nebbie meste.
     C’è anche un Seno, a goccia a goccia pieno
     di guazza dalla grande alba celeste.


     E c’è il Lago dei Sogni. Anche c’è il Seno
     delle Iridi: tanti alti archi di porte
     nel cielo: un infinito arcobaleno.


     Vicino ai Sogni, il Lago della Morte».


 //-- III --// 

     Anche la morte? e dunque anche i viventi?
     «No! no! nessuno. Chi v’andò, discese.
     In terra avea del bene e le sue genti».


     Dunque nessuno… O tacito paese
     sopra le nubi, o isola del cielo,
     che fiorisci e sfiorisci d’ogni mese!


     Il sole ha fatto colassù lo sgelo!
     Gli stagni son coperti ora dei gigli
     d’acqua, a fior d’acqua sopra il lungo stelo.


     Si sommergono gli alberi vermigli
     dentro la cilestrina acqua dei laghi.
     L’aria è fiorita dall’odor dei tigli.


     E rossi e gialli spuntano tra gli aghi
     d’abeti e pini, che nessun calpesta,
     fiori, bocche di lupi, occhi di draghi…


     Al dolce vento trema la foresta.
     Dalla foresta vengono col vento
     lontane voci di campane a festa…


     Vi s’ode ancora un palpito più lento,
     un tuffo molle a quando a quando, un va
     e vieni: ondeggiamento sonnolento,


     lassù, nel Mare di Serenità.



   CANTO TERZO

   In sogno

 //-- I --// 

     Scórsero i giorni; ancor le notti, a una
     a una, sempre più stellate e scure;
     e più tarda e più vana era la luna.


     Ma quelli in sogno ecco prendean la scure
     avanti l’alba. Erano, chi tra un denso
     nebbione, chi su ventilate alture.


     Chi s’arrestava avanti un mare immenso,
     chi camminava, lungo un colonnato
     d’enormi pini, tra l’odor d’incenso.


     E non vedeva che a sé stesso il fiato
     cerulo, ognuno, e s’ascoltava il gemito
     arido, nel silenzio inabitato.


     A pini e cerri i pionieri estremi
     davan la scure per la lor capanna
     e i nuovi aratri, e per la nave e i remi.


     Quella, in un poggio, il tetto avea di canna
     fiorita ancora. Questa, umida ancora,
     nereggiava sotto alte iridi, in panna.


     Ma tristi gli emigranti erano! Allora
     uno di tronchi costruì l’altare.
     E saliva un soave inno, all’aurora,


     dallo scosceso Caucaso lunare.


 //-- II --// 

     Due, la fanciulla e il giovane che amava,
     ecco non più si videro. Interrotte
     n’erano l’orme a un tondo orlo di lava.


     Vicino al Lago, essi, dei Sogni, in grotte
     azzurre, orlate d’ellera e vilucchio,
     vivean felici. V’era anche la notte,


     presso quel Lago! Era lor letto un mucchio
     d’alghe e di felci; e li addormiva il vago
     sogno dell’acque e il fievole risucchio.


     Presso il Lago dei Sogni, c’era il Lago
     dei Morti; e niuno ardìa venirci. Alfine
     erano soli. Il loro cuor fu pago.


     E i morti? Ebbene, anime pellegrine
     anch’esse, anch’esse giunte là dal lido
     terrestre, buone e tacite vicine…


     non s’udiva che un loro esile strido
     di notte, come già sotto le gronde
     a notte buia il pigolìo d’un nido:


     lo strido, ch’uno chiama uno risponde,
     allor che spunta dalle cime, ed erra
     nel cielo azzurro, e tremola sull’onde


     azzurre, come un grande astro, la Terra.


 //-- III --// 

     Tutti felici! V’era solo Dio
     lassù. Poneano nel lor campo un sasso,
     poneano un segno al lor canotto: È mio!


     Ma non premeva le lor vie, che il passo
     di miti renne. Il lor tranquillo mare
     solo sentiva remigar lo svasso.


     Le donne al Mare senza l’acque amare
     soleano andare all’acqua; ma lontano
     gli uomini in pace le sentian cantare.


     La vecchia fame li rodea… ma il grano
     c’era, ma gialle non avea le reste;
     ma già prendeano le falciole in mano.


     Il vecchio freddo li pungea… la veste
     c’era: in dosso alle renne era tuttora.
     La legna c’era, ma nelle foreste.


     E non c’è dì senz’alba, e l’alba è l’ora
     più bella; e senza fiore non c’è frutto,
     e il fiore è bello, il fiore è il più che odora.


     Ed è bello ogni boccio, anche s’è brutto…
     Sì; ma il lor mondo, più vicino al dì,
     era una falce, un’unghia, un filo… e tutto


     in una luminosa alba vanì.



   CANTO QUARTO

   Ritorno in sogno

 //-- I --// 

     Ed il lor sogno anche vanì dai cuori.
     E si sparsero intorno, come i cani
     dopo una morte: vagolano fuori,


     fiutano cento miglia oggi, domani
     piangono all’uscio. Quella madre a Dio
     tendeva, sola, dentro sé, le mani.


     Ma c’era, ahimè! tanto piagnucolìo
     di madri, al mondo! che potean soltanto
     dire, d’un po’ di carne viva: È mio!


     Il cielo alfine si velò, poi franto
     giù si versò. L’acqua s’udia cadere
     col suono ora d’un canto, ora d’un pianto.


     Non c’erano nel mondo albe né sere.
     C’era un silenzio fatto di frastuono
     nei giorni oscuri, nelle notti nere.


     Ed ecco che rimbombò lungo un tuono
     allegro, apparve in fondo al cielo un fioco
     raggio di sole, un suo sorriso buono.


     E su la terra non restò per poco
     che un luminoso sgocciolìo sonoro;
     e poi, tra i cirri e i cumoli di fuoco,


     un filo, un’unghia, era una falce d’oro!


 //-- II --// 

     Scórsero i giorni; ella cresceva: ed ecco
     l’un dopo l’altro scesero a trovare
     la lor capanna e la lor nave in secco.


     L’erba cresceva sopra il limitare.
     Lungo il lido la nave intarmoliva.
     Là sui monti funghito era l’altare.


     Chi stava in monte, ora scendeva in riva
     del mare. Chi vivea presso lo stagno,
     ora cercava una sorgente viva.


     E ciascuno s’urtava al suo compagno.
     Taciti, prima; e quindi alcuno disse:
     Va, mosca! e l’altro ribatté: Va, ragno!


     Al Mare Dolce s’accendean le risse
     stridule, acute. V’accorrean dai monti,
     l’ascie nei tronchi abbandonando infisse,


     gli uomini, calmi e gravi in viso, e pronti,
     nel cuore, a tutto. Uno dicea sereno
     il viso: «O donna, mancheranno fonti!


     Prendi l’orciuolo e va per acqua al Seno
     della Rugiada!» Era sparita intanto
     la luna; e folgorava egli un baleno


     d’odio a colui che gli tremava accanto.


 //-- III --// 

     E malcontenti erravano già tutti
     lassù, notturni, nell’odor del sole
     che apriva i fiori e maturava i frutti.


     E questi invece si mettea per gole
     nere di monti, e quegli ambiva rade,
     nei grandi mari, inesplorate e sole.


     E quegli, andando per anguste strade,
     vedeva un altro, di rincontro, al varco.
     Si vedeano con truci occhi di spade…


     E questi cauto s’allestìa lo sbarco
     tra giunchi e biodi, quando, ecco un burchiello
     venir, piccolo e nero, sotto un arco


     d’iride… Ognuno fuggì via dal bello
     e scese tra le nebbie, alla Palude.
     Ma vi trovava l’ombra del fratello.


     E da per tutto s’incontrava, rude,
     in quella donna con la sua sommessa
     voce, con quelle creature ignude.


     In poco tempo il lor dolore messa
     avea la sua radice anche su lì;
     e quella Terra era già vecchia anch’essa:


     soffriva ognuno ciò che già soffrì.



   CANTO QUINTO

   L’altra faccia lunare

 //-- I --// 

     Crescea la luna. Ognuno già per ogni
     plaga passava come a lui straniera.
     Ognuno al Lago ora pensò, dei Sogni.


     Forse la morte non temean, tant’era
     la lor tristezza. E il Lago era pur bello
     con le bianche ninfee di primavera!


     Ivi abbracciato al dolce oblìo gemello
     era il ricordo. Ivi cantava un nido,
     da sé, partito ch’era già l’uccello.


     Cantava il cuore, ora, da sé, col grido
     d’allora, a notte! E ve l’udian cantare
     i soli morti assisi lungo il lido.


     Ed era il Lago ora nel lume, e chiare
     fiorian le schiume. Ecco, una luce scialba
     si diffondea nel Caucaso lunare.


     E dalle grotte orlate di vitalba
     videro, i due, rifulgere le accette
     lassù, nel monte, tra il chiaror dell’alba.


     S’udiva per le valli e per le strette
     l’arido scroscio delle foglie morte…
     I lor compagni erano sulle vette,


     volti ai Laghi dei Sogni e della Morte!


 //-- II --// 

     E si levò tra quelle genti un suono
     dolce di voce. Usciva allor da un velo
     rado la luna pendula, dal cono


     d’un abete. Una nebbia, un ragnatelo
     di luce scialba tremolò su crani
     lustri, su cenci e bioccoli di pelo;


     e rifulsero allora occhi lontani,
     zuppi di sogno, e bocche aperte a un alto
     ululo. Il pugno si stringean le mani.


     Videro tutti là, di soprassalto,
     quella fanciulla, con le braccia in croce,
     bianca sul liscio lago di cobalto.


     Ella parlava timida e veloce.
     Quello che ammansa, quello che consola,
     pioveva dalla giovinetta voce.


     «Io l’ho veduta. Corre sempre, vola,
     passa. Ma mentre va, che non mai posa,
     a noi non volge che una parte sola.


     Vediamo, noi, nel cielo azzurro o rosa,
     sempre quelle montagne, sempre quelle
     paludi. Sempre. Ma di là? Che cosa


     è mai di là, verso le grandi stelle?»


 //-- III --// 

     E la luna fu mezza. Erano tutti
     di là. Ciascuno avea varcato un nero
     cerchio di monti, un bianco orlo di flutti.


     Ciascuno andava per un suo sentiero.
     Movean lassù per il paese vuoto,
     silenzïoso come il lor pensiero.


     Movean pensosi; e cancellava il moto
     l’orme sue stesse; per l’eternamente
     non visto, per l’eternamente ignoto;


     là, dove il tutto rifiorìa dal niente,
     libero, dove s’adempìa perenne
     un sogno, sogno del buon Dio dormente.


     C’era anche il pane. E c’erano le renne
     placide, il latte, il fuoco: tutto! Oh! molto
     pensava il vecchio: ma di là non venne.


     Oh! la sua Terra! Egli torceva il volto.
     Veder la Terra gli era assai; ché infine
     e’ non doveva ch’esservi sepolto.


     Oh! pur dal fascio, ch’era, lì, di spine,
     all’appressarsi dell’oscurità,
     veder la Terra rosseggiar sul crine


     delle montagne e dileguar di là!



   CANTO SESTO

   In cerca della guida

 //-- I --// 

     Più che mezza la luna era, e più ore
     restava su, tra l’iridato alone,
     e le notti imbevea del suo pallore.


     E sonava il fragor d’un acquazzone,
     sempre: era il fiume che la terra brulla
     fendea, cantando la sua gran canzone.


     Rimpennava ogni tiglio, ogni betulla.
     Era la primavera, era lo sgelo.
     E, una sera, uno esclamò: «Fanciulla!


     Dov’è colui che sa le vie del cielo?
     La luna è là. Le cose ormai son fatte».
     Ciascuno attese. Anche quel vecchio, anelo…


     «Oh! no! Restiamo! O madre che si batte
     perché ci nutra! O madre che si lascia
     se non dà pane, dopo dato il latte!»


     «Dov’è?» chiedeva con segreta ambascia
     la trista madre. Che darebbe or ella
     ai bimbi, a cena? il ferro, ormai, dell’ascia?


     «Dov’è?» Splendeva una solinga stella
     presso la luna, per il gran deserto
     del cielo. «Dove?» «Sì, dov’è, sorella?»


     «Dov’è? Cerchiamo. In qualche luogo è certo».


 //-- II --// 

     Si sparsero dall’alba di quel giorno,
     come da quercia morta aride foglie
     a una ventata che le sparge intorno.


     Stavano, come indifferenti, a soglie
     di vecchie case, ad ascoltar lì, gronchi,
     l’uomo gridare e sfaccendar la moglie.


     Battean le selve; il frullo dei bofonchi
     parea parole: erano péste i picchi
     dei picchi verdi sui marciti tronchi.


     Sedean sopra le pietre nei crocicchi,
     guardando i carri; con pupille fisse
     seguendo al passo i contadini e i ricchi.


     Non c’era più! Non c’era più! Ma disse
     alcuno: «Forse… se per suo costume
     quello straniero sol a notte uscisse?»


     E per le lande errarono nel lume
     di luna, tutti, per le selve rare,
     lunghesso il verde scintillìo del fiume.


     Videro alcuni un uomo in mezzo a un mare
     di luce, nero, e diedero la voce…
     Ed era il vecchio che volea restare;


     sopra un sepolcro, a’ piedi d’una croce.


 //-- III --// 

     E scórse un giorno. E spuntò, grande grande,
     la luna piena, e per il ciel si mosse.
     Risplendean l’acque, risplendean le lande.


     Come di giorno. Un giorno senza rosse
     luci, né voci; il giorno d’un riverso
     silenzïoso, che nessun più fosse.


     Per vero, intorno, qualche cane sperso
     urlava a lupo. Al colmo era la luna,
     sola soletta in mezzo all’universo.


     E nella terra errava quella bruna
     compagnia d’ombre. Elle tendean le braccia.
     Avean lassù tutta la lor fortuna!


     E case e terre! E persa avean la traccia
     della lor guida! E videro uno spetro,
     lontano, col bastone e la bisaccia.


     Corsero. Corse, coi marmocchi dietro,
     la madre. E come furono di paro…
     era il brodiag. Egli si fermò, tetro.


     La grande barba risplendeva al chiaro
     di luna… «Guida, esso non c’è, sii tu!
     La luna è pronta…» Oh! come rise amaro!


     Rideva; e i cani urlavano vie più.



   I DUE ALBERI

 //-- I --// 

     Vento dei Santi, il giorno si raccoglie
     già per morire; e tu su’ due gemelli
     alberi soffi, e stacchi lor le foglie.


     Ora le tocchi appena, ora le svelli:
     quali cadono a una a una, quali
     partono a branchi, come vol d’uccelli.


     Tutta una fuga, quando tu li assali,
     si fa nel cielo, e in terra, fra le zolle,
     un fruscìo grande, un vano tremor d’ali:


     stridono e vanno, girano in un folle
     vortice, frullano inquïete attorno,
     calano con un abbandono molle.


     A volte sembra muovano al ritorno,
     a sbalzi… Ma, tu le riprendi, e porti
     con te, via. Tutte son cadute e il giorno


     è morto: tu lo sai, vento dei Morti!


 //-- II --// 

     Viene col vento un canto di preghiera
     e di tristezza, e vanno via le foglie
     con lui, stridendo in mezzo alla bufera:


     «Noi di noi siamo le fugaci spoglie:
     la nostra vita è sempre là dov’era.


     Il vento in vano all’albero ci toglie:
     là rinverzicheremo a primavera».


     Col vento via le vane foglie vanno;
     gemono, mentre intorno si fa sera.


     «Non torneremo al rifiorir dell’anno:
     noi ce n’andiamo avvolte nell’oblìo.


     Non fu la vita che un fugace inganno.
     L’albero è morto. Addio per sempre! Addio!»


     È morto il giorno, ed anche muor la sera,
     ed anche muore il canto tristo e pio.
     E il cielo splende su la terra nera.


 //-- III --// 

     Il vento trova la sua strada ingombra
     di foglie e stelle. Gli alberi, sparito
     e l’uno e l’altro. Io vedo una grande ombra.


     Ne vedo un solo. All’animo lo addito,
     l’albero solo. Spunta da un velame
     di nebbia eterna, ed empie l’Infinito.


     Protende le invisibili sue rame
     cui sono appesi d’ogni parte i mondi.
     Si crolla ad un grande alito il fogliame;


     e d’un perenne tremolìo le frondi
     lustrano ardenti. Alcuna cade e brilla
     giù per gli abissi ceruli, profondi.


     Io, sotto la corona, che sfavilla,
     dell’Universo, odo, smarrito assòrto,
     uno stridìo. Forse una foglia oscilla


     ancora a un ramo dell’albero morto.




   LA VENDEMMIA


   CANTO PRIMO

 //-- I --// 

     – Una vendemmia fa, così, piacere!
     Nemmeno un chicco marcio nella pigna.
     – E tutte pigne, salde fisse nere.


     – Uva d’alberi, e pare uva di vigna.
     – Ma qui ci son d’agosto le cicale
     da levar gli occhi! qui la vite alligna!


     – Porta il bigoncio. – È pieno.
     – Avessi l’ale!
     Avessi l’ale d’una rondinella!
     Il nido lo farei nel tuo guanciale.


     – Guarda: la vespa vuole la più bella.
     – L’ape fa il miele, eppur le basta un fiore,
     fior di trifoglio, fior di lupinella.


     – Ha fatto buono all’uva lo stridore
     di tutta estate. – Ciò che fa per l’una,
     non fa per l’altro. – Ora, contava l’ore.


     – Qua le canestre, donne.
     – O bella bruna!
     Quando nascesti, in cielo una campana
     sonava sola, al lume della luna.


     – Questa la stenderete sull’altana:
     è troppo bella per andar nel tino.
     – Ma anche quello è come vin di grana!


     – Non ci fu pioggie, non ci fu lo strino.
     – Portate bere. Molto all’uva aggrada
     sentirsi in viso l’alito del vino.


     – Pigia il bigoncio un po’.
     – «Sono in istrada,
     E che mi dài, che mi conviene andare?»
     «Un bacio in bocca, perché tu non vada».


     – La paradisa ha pigne lunghe e chiare,
     e tutti d’oro sono i chicchi, e hanno
     il sole dentro, il sole che traspare.


     – Rigo, di tutte queste qui, si fanno
     cipelle, acché, tu con la moglie accanto,
     ne mangi all’alba, il primo dì dell’anno.


     L’uva vuol dire il buono, il bello, il tanto.
     E porta bene, o Rigo.
     – Ho contro, io sento,
     fin le finestre, e quando passo e canto,
     si chiudono da loro senza vento.


 //-- II  --// 

     Così staccavi la dolce uva, alfine,
     co’ tuoi vicini, ché i vicini sono
     mezzo parenti, e con le tue vicine,


     o Rigo. Il tempo era da un pezzo al buono,
     e la vendemmia si cocea matura
     anche a bacìo; quando sentisti un tuono.


     Dicesti: il bello è bello, ma non dura.
     E vendemmiasti. Ed era un giorno asciutto,
     si scivolava per la grande asprura,


     cupo di vespe era un ronzìo per tutto,
     calda era l’uva e, nei bigonci ancora,
     rendeva già l’odor del mosto e il flutto.


     La gente era venuta sull’aurora
     quando la guazza o la nebbietta inerte
     vapora in cielo, e il cielo si colora.


     Allor le donne ascesero per l’erte,
     parlando basso, e recideano a prova
     le pigne con le piccole ugne esperte.


     Le recideano al nodo che si trova
     a mezzo il gambo. Le galline intorno
     bandian l’annunzio, ad or ad or, dell’ova.


     Ma crebbe il vario favellìo col giorno.
     Montava, per tagliare le pinzane,
     un giovinetto sul pioppo e sull’orno.


     Cantava poi, quand’erano lontane
     le donne, quando in una sua cestella
     portava il vino Violetta e il pane.


     Ell’era in casa della sua sorella
     da un mese e più; ma stava per tornare
     a casa sua, più pallida e più bella.


     «C’è tempo:» Rigo alla gentil comare
     diceva «addietro è là da voi la vite.
     Poi verrò io: non c’è di mezzo il mare».


     Era un piacere rivederle unite
     le due sorelle al solito lavoro!
     Ma quelle sere, nell’ottobre mite,


     anche si dava che piangean tra loro.


 //-- III  --// 

     Erano quella sera alla finestra.
     Salìano gli uni coi bigonci pieni,
     l’altre scendean con vuota la canestra.


     Parlavano nel lungo va e vieni,
     alto, ché in loro anche parlava il vino.
     «Si vuol finire, prima che si ceni».


     «Non resta che il filare qui vicino.
     Saranno due bigonci o tre; ma un poco,
     perché li tenga, vuol pigiato il tino».


     Il cielo già si colorava in fuoco.
     Al colmo tino il giovinetto snello
     si lanciò su, come a provar per gioco.


     Stette sull’orlo un poco in piedi, bello,
     raggiante tutto del suo bel domani,
     a braccia spante, simile a un uccello.


     Poi si chinò, s’apprese con le mani
     all’orlo, e dentro, fra le pigne frante
     tuffò le gambe e sul crosciar dei grani.


     Il rosso mosto risalì spumante
     sopra i garretti; ed ei girava a tondo
     premendo coi calcagni e con le piante.


     E il sole rosso illuminava il biondo
     vendemmiatore; ed ecco, da un remoto
     canto del cielo un tintinnìo giocondo.


     Uno, dal cielo, accompagnava il moto
     dei piedi suoi, di su quei rosei fiocchi,
     picchiando in furia sur un bronzo vuoto…


     L’altro moveva rapidi i ginocchi
     sul rosso mosto, anche movea la testa
     ben in cadenza, il sole in mezzo agli occhi.


     Ma era un suono di campane a festa.
     E quei pigiava; quando, all’improvviso,
     Rosa lassù, Rosa, già muta e mesta,


     si levò su, molle di pianto il viso,
     con un singhiozzo, e Violetta, china
     a guardar fuori immersa in un sorriso


     si volse bianca, e mormorò: Rosina!



   CANTO SECONDO

 //-- I --// 

     «Rosina! L’hai promesso anche stamane…
     Non pianger più!» Ma Rosa pianse ancora,
     tra il suono a festa delle due campane.


     «O Violetta, mi pareva or ora
     fosse la gloria per un angiolino…
     oh! come quando… Fu dopo l’aurora.


     Sentii parlare ed un odor vicino.
     Avean qualche garofano e viola:
     una ghirlanda per il mio bambino.


     E c’era il prete, il prete con la stola.
     – Ma tutto ha qui! le robe sue ben fatte,
     la sua cunella con le sue lenzuola,


     e un petto ancora pieno del suo latte!


 //-- II --// 

     Non vuol venire. È tristo, che fa pena.
     Oh! come è tristo! In vero è così poco
     che ride un poco! Ci ha imparato appena! —


     Ricordo un giorno lo sfasciavo, al fuoco,
     e lo guardavo. Ei tese il dito a un occhio.
     Lo vide lustro, gli pareva un gioco,


     chi sa? vedeva un altro bel rabocchio
     lì dentro. E io me lo tenea lontano,
     lo patullavo in alto d’in ginocchio,


     gli prendea la manina nella mano,
     e la scoteva, gli facea le rise;
     ed ecco, anch’egli si provò pian piano,


     fece bel bello le fossette, e rise.


 //-- III --// 

     Rise. M’avea riconosciuta: ero io:
     la mamma, ahimè!… Prima, diceva al seno,
     con gli occhi e con le due manine, È mio!


     Dopo, ero sua, tutta, né più né meno.
     E, se vagiva e se piangeva, al suono
     della mia voce si facea sereno.


     Com’era savio! Come savio e buono!
     A volte, quando era a dormir di giorno,
     entravo, udito un grido, un tonfo, un tuono…


     S’è desto? Nulla. Qualche mosca intorno
     ai vetri… Alzavo il velo della culla.
     Sul guancialino coi belli orli a giorno,


     ridea tra sé, guardando in alto, a nulla.


 //-- IV --// 

     Oh! non a nulla! Egli rideva, io penso,
     con gli angioletti. Io ci sentii l’odore
     di gigli, a volte; o un vago odor d’incenso.


     Nella sua stanza essi venian nell’ore
     calde che i bimbi dormono. Alla gola
     uno lo vellicava con un fiore;


     e tutti attorno alla cunella sola
     facean i giochi, ed e’ guardava attento,
     come lassù si canta e suona e vola:


     scoteano i loro cembali d’argento,
     battean sui loro tamburelli vani…
     Entravo, e via sparivano col vento:


     rideva esso, annaspando con le mani.


 //-- V --// 

     Ma poi… piangeva. Mi si fece bianco
     e stento, e quando lo attaccavo al petto,
     succhiava un poco e poi pareva stanco.


     Non mi voleva. E quasi avea dispetto
     della sua mamma. Quante n’ho cantate,
     di ninnenanne, senza toccar letto!


     Me lo ninnavo in collo le nottate
     intere al fresco, uscendo con lui fuori
     al lucciolìo dell’odorosa estate.


     Pensavo ai mesi ch’ebbi in me due cuori…
     Come piangeva or l’uno e l’altro, accanto!
     E tra quella allegria di grilli mori


     come passava triste ora quel pianto!


 //-- VI --// 

     – Ma che vuoi dunque? Andar con loro? E ch’io
     ti lasci andare? A me tu lo domandi?
     Per me t’ho fatto! – Eppure un giorno, addio!


     – Hai pianto e pianto a ciò che ti rimandi
     donde sei sceso. Ora ti lascio alfine! —
     Restò con gli occhi aperti fissi grandi.


     Gli misi la cuffietta con le trine;
     la sua camicia, la sua vesticciola,
     gli misi i fiori nelle sue manine.


     L’accomodavo senza far parola,
     quando d’un tratto udii parlar da basso.
     Gli misi le scarpine con la suola


     nova, pulita… O Dio, nemmeno un passo!


 //-- VII --// 

     La terra, non l’avean toccata ancora!
     oh! i miei piedini!… I bimbi della scuola
     venner coi fiori un po’ dopo l’aurora.


     E c’era il prete, il prete con la stola.
     Era pronto il bambino, era vestito.
     Quando sonò la gloria alla chiesuola…


     Che scampanìo festoso ed infinito!
     L’angiolo andava a gli angioli, a cui tanto
     avea sorriso tacito e romito.


     E va, va pure, piccolo mio santo…
     Cos’è la mamma? E che può darti? Il petto
     e un po’ di latte; il cuore, un cuore affranto;


     e poi, cos’altro? Oh! niente, angiolo eletto.


 //-- VIII --// 

     Va dunque, e tu, veglia su lei, su loro.
     E cosa ha fatto ella per te? T’ha fatte
     due camicine: non un gran lavoro!


     Lassù quell’uomo batte batte batte
     sulle campane… Io guardo il bimbo, muto
     con gli occhi aperti, gli occhi ancor di latte…


     Ah! che capii, che non avea voluto,
     che non voleva! Quel gran pianto, oh! era,
     che non voleva, e mi chiedeva aiuto!


     Nella cassina stava lì, di cera,
     con le manine che facean Gesù,
     con gli occhi aperti sino da ier sera:


     guardava… – O mamma, che non mi vuoi più! —


 //-- IX --// 

     Piangea più forte, ma s’alzò smarrita.
     Sentiva, dentro, un rodere, un discreto
     grattar all’uscio, all’uscio della vita;


     ma così piano, ma così segreto,
     così lontano… Avea tre mesi appena…
     Era già buio, e tutto era già cheto.


     L’uva era colta, e si dovea far cena.



   PIETOLE

   Sacro all’Italia esule

 //-- I --// 

     Siede, adagiato sotto la corona
     d’un ampio faggio, il dorso ad una siepe,
     il contadino. E piena d’api i fiori,
     la siepe manda un lieve suo sussurro.
     Splendono intorno e fiumi e laghi al sole,
     al vento glauche fremono le spighe.
     Ad ora ad ora un muglio di giovenchi
     cupo, e un tremulo ringhio di polledri;
     e tubar rauche qua e là colombe,
     e gemebonde tortori sull’olmo.
     Quegli ripete aspre parole ai pioppi,
     ai lunghi pioppi dondolanti in fila.
     E dice:


     – I am Italian
     I am hungry… —


     I pioppi a lui rispondono, col canto
     d’un rusignolo ch’ha sui rami ognuno,
     l’un dopo l’altro; e lontanando il canto
     va sino al Mincio ed al ceruleo Po.


 //-- II --// 

     Ché nell’autunno è per lasciare i campi,
     il campagnolo, e dire addio per sempre
     alla sua verde Pietole. Ché fugge
     la Patria; dove, e’ non lo sa per ora.
     Qual sia per lui, de’ quattro venti, ancora
     e’ non lo sa; né lo sa meglio il vento,
     il lieve vento ch’ora sulla palma
     gli sfiora e sfoglia crepitando un libro
     da portar seco nel cammino ignoto.
     Ora a quel vento e’ cómpita cantando
     strane parole a chieder pane e fuoco,
     acqua e lavoro, oltr’alpi ed oltre mare,
     sotto altro sole…


     – Ich bin Italiener
     Ich bin hungrig… —


     A quelle voci strane
     dalle verdi acque echeggiano le rane
     con la querela sempre ugual, ch’eterna-
     mente gracidano gracidano…


 //-- III --// 

     – Soy Italiano
     Tengo hambre… —


     Ed ecco
     brilla nei tardi avvolgimenti il Mincio,
     cinto d’un orlo tenero di canne;
     s’irida, come d’un sorriso, il lago.
     Leva tra i biodi la giovenca il muso
     e fiuta l’aria con le froge larghe;
     né più dismette di tubar su l’olmo
     la tortore e la querula colomba.
     Risuona tutta la campagna intorno
     d’allegri ringhi e cupi mugli lunghi.
     E di lontano ora vien su crescendo
     la melodia de’ rusignoli in coro,
     quasi canoro aereo ruscello,
     nel quale, piane, guazzano le rane.
     Bombisce a un tratto e palpita la siepe,
     e, fatto sciame, volano via l’api
     come un’oscura nuvola. Ché tu,


 //-- IV --// 

     tu sopra vieni; e ti si fanno incontro
     tutte, dai florei pascoli e dai bugni,
     l’api con suon d’avene e di campestri
     buccine e franto strepere di trombe;
     ecco e piegare al tuo passaggio i pioppi,
     i lunghi pioppi, con l’ondulamento
     d’opre che a tondo menino le falci;
     ecco e fiottare al tuo passaggio i campi
     d’orzo e di grano, come ad un fecondo
     soffio, in un lustro tremolìo di reste;
     e impazïenti a te muggir le stalle
     chiuse; dall’aie a te squittir la forza
     fida dei cani; a te, dal pingue concio,
     rosso plaudir, battendo l’ale, il gallo:
     perché tu vieni ai dolci campi, ai noti
     fiumi, ritorni al tuo natio villaggio,
     alla tua gente ed alla tua tribù,


 //-- V --// 

     Virgilio! O tu, cui partorì la madre
     nei campi, al sole, dentro un solco aperto
     dal curvo aratro per il pio frumento;
     o tu, che avesti per gemello un pioppo
     che si levò su tutti gli altri al cielo,
     sì che ai suoi rami si stessean le nubi:
     appiè del dio, chiuso nell’aureo musco,
     venìan le incinte, e i loro blandi voti
     s’unìan lassù col pigolìo dei nidi:
     o tu cui l’arnie, di cucite scorze
     o di tessuti lenti vinchi, all’ombra
     dell’oleastro, persuadeano il sonno
     col grave rombo, quando a te tra i fiori
     era la cuna: fiori d’ulivella,
     timbra e serpillo che lontano odora,
     e di viole scese a bere al fonte,
     al fonte che scivola molle e va;


 //-- VI --// 

     ritorni al luogo, donde già vedesti
     passar cacciato dalle sue maggesi
     il contadino; che annestati i peri,
     piantato vigna, seminato il grano
     avea per altri, e che non più, tornando
     al regno suo cinto di siepe viva,
     alla sua reggia dal colmigno a piote,
     vedrebbe ormai, che qualche grama spiga:
     passava avendo siepe e campi in cuore,
     e l’abituro, e si parava innanzi
     poche sue capre, e ne traeva a mano
     una che addietro si volgea belando;
     che avea lasciato due gemelli addietro
     ah! su la ghiara: ed il pastore andava;
     ed era l’ora del ritorno a casa
     e della cena; e dai tuguri il fumo
     salìa nella crescente oscurità.


 //-- VII --// 

     Virgilio, e tu, di tra i pastori uscito,
     vedesti intorno lo squallor dei campi
     abbandonati, e non più messi, e date
     le curve falci al fonditor di spade,
     e tolto il coltro all’imporrito aratro:
     l’aratro nuovo tu facesti, d’olmo
     piegato a forza, e l’erpice e la treggia,
     ed intessesti le crinelle e i valli;
     e nella nuova primavera, al primo
     tiepido soffio, gli anelanti bovi
     spingesti al solco, e nereggiava il suolo
     al vostro tergo, e si bruniva attrito
     lo scabro e roggio vomere. La strada
     così segnavi ai campagnoli ignari,
     l’opere e i giorni, ed imparare, in prima,
     la dura terra, ed osservar nel cielo
     la luna e il sole, e il volo delle gru.


 //-- VIII --// 

     Ritorni ai campi, o già dei campi uscito,
     uscito in riva all’infecondo mare;
     in cui vedesti gli esuli del fato
     venir col fuoco tratto fuor dal fuoco,
     venire in cerca dell’antica madre.
     Una indugiava, delle stelle in fuga;
     una splendea tra il rosso dell’aurora.
     Italia! Italia! udivi tu gridare
     di su le prue, tra l’ànsito del mare.
     Sul tremolante rosseggiar dell’onde,
     nere venìan le navi. E c’era a poppa
     d’una un gran vecchio che libava il vino,
     con gli occhi al cielo. Ed in un verde prato
     pascean, drizzando ad or ad or le orecchie,
     quattro cavalli d’un candor di neve.
     Italia! E il mare col sussurro eterno
     montava su, ridiscendeva giù…


 //-- IX --// 

     O madre grande d’ogni messe, o grande
     madre d’eroi! D’oro e d’incenso abbondi,
     nessuna terra è più di lei ferace.
     Qui piene spighe, qui rigoglio d’uve,
     qui pingui ulivi, qui fecondi armenti.
     Il bel cavallo qui le zampe al trotto
     scambia a test’alta; qui con lenta possa
     muovono i bianchi bovi trionfali.
     Pascon, la guerra e la vittoria, insieme!
     Qui tiepide aure e il fiore d’ogni mese.
     Eppur non tigri, non leoni, o l’erba
     che buona sembra a cogliere, che uccide;
     né il serpe striscia in terra lungo, e s’alza
     ravvolto a spire… E quanta opera d’uomo!
     Quante massiccie acropoli sui monti!
     E quanti fiumi specchiano le grandi
     mura di preromulee città!


 //-- X --// 

     I suoi due mari? dove il Po travolge
     lo scintillìo de’ ghiacciai su l’Alpi,
     e dove il sacro Tevere conduce
     l’acque di neri sotterranei laghi?
     E i grandi laghi? così grande alcuno,
     che come un mare si ribella al vento?
     E i tanti porti? E nelle vene il rame
     ebbe e l’argento; ebbe già l’oro: ha il ferro.
     Ha questa terra una gagliarda stirpe
     d’uomini, i Marsi, la genìa Sabella
     aspra dal sole, i Liguri indomati
     dalla fortuna. Questa terra al mondo
     diede gli eroi: gli uomini pronti al fato,
     duri alla guerra, i Deci ed i Camilli…
     Eppur la terra è del buon Dio di pace,
     del buon fuggiasco ignoto Dio, la terra
     della giustizia e della libertà!


 //-- XI --// 

     – Soy Italiano
     Tengo hambre… —


     E Roma
     tu la vedesti quando ancor non era.
     L’acque del sacro Tevere la nave
     saliva, all’ombra tremula, solcando
     nel liscio specchio la boscaglia verde.
     Sul mezzodì videro un colle sparso
     di pochi tetti; ma quel dì la gente
     cingea col re, lunghesso il fiume, un’ara,
     l’ara più grande. Ed in due cori i Salii,
     giovani e vecchi, avendo al capo rami
     di pioppo bianco, dissero un lor canto,
     tripudïando, al domator dei mostri
     e della morte, ad Ercole sereno,
     al vïandante pacificatore,
     armato appena d’un fortuito tronco
     d’albero. Ercole nudo, Ercole solo,
     figlio del cielo, ma né dio né re.


 //-- XII --// 

     E il re pastore e il povero senato
     davano incensi all’ara, un tempo e sempre
     massima. E il re del grande Pallantèo
     scotean dal sonno i passeri annidati
     sotto la stoppia della sua capanna.
     Erano scorta, al re per via, due cani.
     Pascean nel Foro e nelle vie di Roma
     mandre di bovi ad or ad or mugghianti;
     ed echeggiava il Campidoglio ai mugghi.
     Ed era tutto una silvestre macchia
     il Campidoglio, e ruderi, tra i bronchi,
     grandi giacean d’una città distrutta.
     Roma era morta, e ancor dovea, l’eterna,
     sorgere al sole; ancor dovea d’un muro
     cingere, Roma, i sette colli, il Lazio,
     l’Italia, l’Alpi, i mari ed i deserti,
     tutte le genti e l’orbe intiero, a sé.


 //-- XIII --// 

     Ma il contadino legge sempre al vento
     le rauche carte, e lungo sé non vede
     Virgilio, a cui fremon le messi, e i pioppi
     paion falciare mollemente in aria.
     Ed egli parla, non inteso all’uomo
     suo paesano; l’odono le miti
     giovenche intorno e i fervidi polledri.
     O forse l’uomo udir non può, che sopra
     ora gli ronza più che prima, d’api
     tornate ai fiori, la pasciuta siepe;
     e d’ogni pioppo ora risuona il canto
     d’un rusignolo; il dolce e triste canto
     ch’e’ fa notturno, e che somiglia al pianto.
     E il migratore cómpita presago
     a campi e nubi le sue voci strane;
     e quatte quatte nelle placide acque
     strepono or qua, le vecchie rane, or là.


 //-- XIV --// 

     Dice Virgilio: «Oh! troppo fortunati
     agricoltori, cui la madre terra
     latta da sé, come una buona madre!
     Giusta è la terra e non ti nega il cibo,
     la madre, mai: se il grano è poco, l’uva
     è tanta: è sempre di qualcosa, annata.
     Poi, c’è la pace, e le gioconde feste,
     e il sonnellino sotto un olmo, al canto
     delle cicale, al mormorìo dell’acque.
     Tu non sei ricco ed accallato hai l’uscio,
     sempre, di casa, e la gallina becca
     nell’atrio tuo; non hai tappeti e bronzi,
     e non odora, l’aia tua, d’amomo:
     ma il bimbo ricco, in casa tua, s’invoglia
     di tutto, e tutto ammira, e tutto chiede,
     il pane, il pomo, il latte, l’uovo; e sente
     che il buono e il tutto è quello che non ha.


 //-- XV --// 

     Cerchino gli altri il pallido oro e il plauso
     vertiginoso e lascino la soglia
     trita dai loro, e migrino: tu resta.
     Tu con l’aratro i piccoli nepoti
     nutri, e la Patria, e tieni gli occhi in alto,
     perché tu segui a mano a mano il sole.
     Viene l’inverno, e tu godi il fruttato,
     frangi le ulive e affumi quel secondo
     orto ch’è il porco che mangiò la ghianda.
     La notte, vegli, appunti faci, o tessi
     valletti e cesti; e la tua moglie canta,
     tra l’alternar dei pettini e dei licci.
     Oppure schiuma, più vicina, al fuoco,
     con una foglia l’onde che traboccano,
     entro il paiuolo tremulo, del mosto.
     O notti! O vita dolce assai, ch’ha sempre
     amor la notte, come sole il dì!


 //-- XVI --// 

     E perché migri? e perché fuggi? Grande
     assai non t’è questo tuo verde campo?
     Non ha la siepe, che lo fa più grande
     perché più tuo? Mugliano i bovi, i galli
     cantano, l’api ronzano. Qui tutto
     avrei passato, io, senza gloria, il tempo!
     Qui, la giustizia, che tornava al cielo,
     sostò, lasciando una parola in terra:
     – Non l’uno il troppo ed abbia l’altro il poco!
     Pace abbia il cuor dell’uomo e non lo muova
     il ricco all’astio ed il mendico al pianto! —
     Va coi vicini, poi ch’è festa, e steso
     con lor su l’erba, e col cratere in mezzo,
     bevi giocondo… Vissero nei campi
     i forti antichi popoli; l’aratro
     il solco eterno disegnò di Roma;
     l’Italia detta dai giovenchi, è qui».


 //-- XVII --// 

     – I am Italian
     I am hungry… —


     All’ombra
     Virgilio siede, non a lui veduto;
     ed in quel core egli ode la querela
     del fuggitivo suo pastore antico.
     «Non anche dunque al lor levante primo
     vennero gli astri e ricominciò l’anno
     dell’Universo? E non ne diede il segno
     a cieli e terre un fievole vagito?
     Non ritornò la Vergine? Non prese
     dunque a regnare, luce e vita, il Sole?»
     Virgilio pensa che il vicin suo gramo
     fugge dai campi, oh! non a lui, no, dolci,
     ch’egli ha solcato con servile aratro
     e bovi d’altri, per il pane e il sale.
     «Dunque non è ricominciato il regno
     del Dio latino, di quel Dio che giusto
     semina e miete? E Roma non è più?»


 //-- XVIII --// 

     O buon profeta! o anima immortale
     di nostra gente! La Saturnia terra
     torni a chi l’ama, a chi la vanga ed ara!
     Rieda a’ suoi posti il migratore, e parco
     alcuni scabri iugeri redima,
     come il tuo vecchio Cilice, e vi pianti
     la sua casetta, e viti ed arnie e fiori,
     grano per casa, e fieno pei giovenchi,
     e pei nepoti il molto cauto ulivo!
     Tu sei con noi: la voce tua che suona
     mista di trilli, di ronzii, di mugli,
     dal cielo annunzia il nuovo tempo umano.
     Per tutto ondeggia, senza reste, il grano,
     il miele sgorga dalle cave quercie,
     e pende l’uva dagl’incolti pruni.
     Italia! Italia!… Ed altri eroi son nati,
     e sarà, tutto, ciò che ancor non fu.