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|  Giovanni Prati
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|  Poesie scelte
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   Giovanni Prati
   POESIE SCELTE


   RITRATTO FISICO DELL’AUTORE


     Alto e giusto di forme, e brun di volto;
     Nero di ciglia; intento occhio che splende;
     Fronte mobile ed ampia; il crin mi scende
     Giù per le spalle abbandonato e folto.
     Sotto i mustacchi impallida o s’accende
     Il labbro; agil la voce, il piede ho sciolto;
     Pronti i gesti; talor l’abito incolto;
     Ecco il visibil che di me si rende.
     I pochi o i tanti che non m’han veduto,
     Come leggendo suol crear l’affetto,
     Mi fingono sottil, macro e sparuto;
     Ma in viso il fior della salute io mostro.
     Che importa mai? Si scrive carmi; e il petto
     Fuor manda sangue a colorar l’inchiostro!



   RITRATTO MORALE


     Or che pinto è il di fuor, l’intimo sguardo
     Tenti l’intima vita, e tragga il vero.
     Son uom; dunque ier prode, oggi codardo;
     Guato il mondo, al ciel penso e di là spero.
     Mesto e gaio in brev’ ora; umile e altero;
     Subitano al concetto, all’opra tardo;
     Vago di lode, indocile d’impero;
     Soave, e un po’ talor brusco e beffardo.
     Ma simulato mai. Credo al ben; tento
     Di farlo; amo chi il fa; spregio la ingrata
     Genìa de’ vili; ardite cose io sento.
     E come sento, arditamente dico.
     Che val s’io batterò via sconsolata?
     Son più del ver che di me stesso amico.



   LA MIA CRONACA DI POETA

   Ognun ha il suo diavolo all’uscio.
 Prov.


     Uno stess’orto germina
     L’arancio e la cipolla,
     Stampa uno stesso artefice
     Il vaso illustre e l’olla;
     E incido anch’io, poeta,
     Nel marmo o nella creta
     Febo con Marsia, e Cesare
     Da lato a Calandrin.
     Ma è sogno da nottambuli
     Piacere al mondo. Or odi,
     Savio lettor, la cronaca
     Del tuo poeta. E godi,
     Godi, chè Dio ti fece
     Per la viuzza, invece
     Che sotto a’ nembi avvolgerti
     Su pel dirceo cammin.
     La libreria dell’avolo
     Là nella mia Dasindo
     Mi cominciò gli oracoli
     A bisbigliar di Pindo;
     Ma l’irto pedagogo
     Gittommi il Dante al rogo,
     Tonando dal suo tripode:
     Pane il cantar non dà.
     Pur gli uccelletti cantano
     E trovan pane anch’essi,
     Io mi diceva; e incorrere
     L’ire tremende elessi,
     E, con sul petto il peso
     Di quel mio Dante acceso,
     Dissi alle rose e ai zeffiri
     La negra iniquità.
     Ma il buon curato, il sindaco,
     Lo spezïal persino
     Piangean co’ miei le indocili
     Follie del birichino,
     Ed eran pie soltanto
     Del birichino al canto
     Le cingallegre, i taciti
     Venti e il fiorito april.
     Scesi alla dotta Padova
     Col fardellin dei carmi,
     Lode cercando; e rigido
     Nessun volea lodarmi.
     Chi con la lente al naso
     Mi ruppe il segnacaso,
     Chi mi gualcì l’epiteto,
     Chi mi castrò lo stil.
     Dafni una volta e Fillide
     Cantai, del Zappi a modo,
     E il molle ovil dei Titiri
     Si liquefece in brodo.
     Ma dai novelli troni
     I torbidi Platoni
     Sentenzïâr che pecora
     Nacqui e dovrei morir.
     Allor destai de’ pallidi
     Fantasmi la famiglia,
     E l’antro de’ romantici
     Muggì di maraviglia.
     Ma i Pindari e gli Orfei
     De’ logori Atenei
     Colle titanie folgori
     M’han fatto impallidir.
     Poi sulla terra apparvero
     Scole, congressi, asili,
     Metodi ed altre olimpiche
     Buffonerie simili.
     E allor perdei la scrima
     Del verso e della rima,
     E in quel concilio d’aquile
     Nessun mi numerò.
     Belava un’effemeride:
     «Volgi ad amor gl’inchiostri!»
     Ruggiva un periodico;
     «Vendica i dritti nostri!».
     Sclamava una rivista:
     «Canta materia mista!».
     E il suo bastardo simbolo
     Ognun mi balbettò.
     Io, spinto fra le cattedre
     Di Caifa e di Pilato,
     Che far potea? Sugli omeri
     Mi son ravviluppato
     La veste d’Ecce homo,
     E, pubblicando un tomo,
     Spiegai, bruchetto incognito,
     L’ali iridate al sol.
     Greche e romane forbici
     Fûr su quell’ale in guerra.
     Quanto superbo scandalo
     Fra i Danti di mia terra!
     Dalle laringi dotte
     Schiattâr pustéme e gotte;
     Diede itterizie e coliche
     Di quel bruchetto il vol.
     Senza sentir più redine,
     Senza voler più freno,
     Corsi a Milan col rotolo
     Di Edmenegarda in seno,
     E a ricercar mi mossi
     Manzoni, il Torti, il Grossi,
     E assunto al tabernacolo,
     Fissai la trinità.
     Ed ella, austera e candida
     Come le sante cose,
     Al novo catecumeno
     Covò le prime rose.
     E, quando acuta e fina
     Me ne ferì la spina,
     Ebbi alle piaghe i dìttami
     Talor della beltà.
     Povero pazzo! i memori
     Fogli sigilla e taci.
     Fatti allo specchio, e merita
     Sol della musa i baci.
     Così non dissi allora
     Che mi ridea l’aurora;
     Or che s’infosca il vespero,
     Comincio ad insavir.
     Ma intanto accuse e strepiti
     Mi si moveano intorno.
     Oh! fosse morto, al nascere,
     Della mia fama il giorno?
     Petrarchi e Tassi frusti,
     Caproni e bellimbusti
     Fêr sinagoga il despota
     Monello a maledir.
     Uno inventò le favole,
     Un altro le diffuse;
     Chi sporse il monosillabo,
     Chi pronto lo conchiuse,
     E dietro al dâlli! dâlli!
     Gl’insulsi pappagalli
     Sul trivio ancor cinguettano
     Le ree stupidità.
     Sino frugâr nel tumulo
     Dove tu dormi, Elisa,
     E ti compianser vittima
     Da’ miei tormenti uccisa;
     Sorgi dall’erma bara,
     Ombra sdegnata e cara;
     E del compianto ipocrita
     Possa arrossir chi ‘l fa.
     Tal m’apparì lo splendido
     Mio mondo. E il pan che fransi,
     Pan tossicato al lievito,
     Gittai per terra e piansi;
     E imprecai quasi al nume
     Che mi vestìa di piume,
     Onde agitarle in etere
     Livido e reo così.
     Poi mi riscossi. E l’anima
     Fatta matura e il piede,
     Ebbi dal duol più libere
     Note, più forte fede,
     E camminai. Le spalle
     Portâr la croce al calle,
     E il cireneo del Golgota
     Per me non apparì.
     Meglio. Chi pensa e spasima
     E non consente al duolo,
     Per nude pietre e triboli
     Dee camminar da solo.
     E camminai. Sul viso
     De’ manigoldi ho riso,
     E di più bei fantasimi
     Il cor mi scintillò.
     Addio, febei mirmidoni,
     Macre spennate piche,
     Addio, volanti retori
     Per forza di vesciche:
     Latrami contro, o grulla
     Prosopopea del nulla;
     Fuor di tua riga i cantici
     Erato mia pensò.
     Ruppe le sacre tenebre
     D’Antèla e Mantinea;
     Conobbe il sasso e i salici
     Di Leutra e di Platea;
     Del Simoenta al margo,
     Là sulla polve d’Argo,
     Sentii di Smirna l’angelo
     E per l’Egeo tuonar.
     Tu, musa mia, la cenere
     Del Ghibellin baciasti;
     Tu solitaria visiti
     La cameretta d’Asti,
     Vaga di freschi allori,
     Le antiche glorie onori,
     Pensi all’Italia, e vigili
     De’ padri miei l’altar.
     Lasci una vil politica,
     Rosa da tigne e tarpe,
     A chi la vende e compera,
     Come l’ebreo le ciarpe;
     E, in bassi ed alti scanni
     Fisando i tuoi tiranni,
     Ogni giustizia vendichi,
     Fai sacro ogni dolor.
     Chiuso nei polsi un rivolo
     Del sangue d’Alighiero,
     Armi di meste collere
     Il tuo civil pensiero,
     E, quando il dio ti spira
     Fra i nervi della lira,
     Tu squarci alla fatidica
     Delfo i silenzi ancor.
     Deh! non cader. Se un ebete
     Vulgo t’offende, oblia.
     Lanciò la fatua Solima
     Le pietre in Geremia,
     E la dardania prole
     Rise le illustri fole,
     Che pur carpia la vergine
     Cassandra all’avvenir.
     E fu Sionne un cumulo
     Di sassi e di vergogna;
     E sugli iliaci ruderi
     Sta il corvo e la cicogna.
     O musa, i fior, che a nembo
     Lasci cader dal grembo,
     Possan sull’atrio ai posteri,
     Non su macerie olir!
     E voi smettete il mugolo,
     Spadoni imbrattacarte,
     Ch’ella con veglie e lacrime
     Fe’ sua la fede e l’arte,
     E già da voi ghirlanda
     Non sogna e non dimanda,
     Perché di malve e d’alighe
     Non vuoi fregiarsi il crin.
     Canta; e cantando arridimi,
     Tu de’ miei dì sorella;
     Astro nel ciel; sul pelago
     Volante navicella;
     Al petto inerme e nudo
     Gentil lorica e scudo;
     Nome al mio nome; e lampana
     Sul mio sepolcro alfin.



   EDMENEGARDA


   CANTO PRIMO


     Per le vie più deserte, in doloroso
     Abito bruno e con un vel sugli occhi,
     Passa la bella Edmenegarda, – e al queto
     Lume degli astri si raccoglie in una
     Romita barca e con le sue memorie
     Vaga piangendo.
     Misero! che speri,
     Se ti percote Iddio? Non è già il mondo
     Grandemente pietoso. Egli al banchetto
     Della tua casa volentier si reca
     E ne sparge di rose i penetrali;
     Ma se il cupo dolor veglia alla porta,
     Non aspettare il solito conviva,
     Ei non verrà!
     La bella Edmenegarda
     Gioì superba i maritali amplessi,
     E sulla fronte di due biondi figli
     Depose un dì senza terror le sue
     Non colpevoli labbra: e chi sa quante
     Donne quei baci invidiâr tremando!
     Ella era lieta nel felice stato.
     Ma il geloso Avversario d’ogni bene
     Consumò la sua gioia; e il fatal giorno
     Che si sentì la misera per l’ossa
     Serpere il novo affetto, e la battaglia
     Troppo forte le venne, a Dio si volse
     Delirando e sclamò: «La tua tremenda
     Volontà sia compiuta!» – Era la canna
     Dal turbine già franta, e sotto ai morsi
     Del livido colùbro il fiorellino
     Si sperdeva alla terra.
     Oh! sull’afflitto
     Giovine capo la terribil pietra
     Non lanciatela voi, che tante volte
     Perdonati cadeste! e nella polve,
     Così percossi dal dolor, vi parve
     Anco la gioia dei felici insulto! —
     Ricco era e bello di viril bellezza
     Lo sposo a Edmenegarda. Un incolpato
     Nome d’Anglia recava; i suoi silenzi
     Lunghi; forti gli affetti; accostumata
     A non mutar propositi la mente,
     S’anco gemesse la ragion del cuore.
     A molte donne della sua contrada
     L’altera e disdegnosa indole piacque.
     Ei non curò.
     Ma nella dolce terra
     D’Italia nostra un dì fisse gli ardenti
     Lampi degli occhi a Edmenegarda in viso.
     Era il loco romito, il sol morente
     E inchinevoli l’alme alla tristezza.
     E’ le piacque e fu suo. Parea tessuta
     Dal paradiso la gentil catena.
     Ed ei l’amò di quell’amor che vince
     Ogni memoria di passata gioia,
     Ogni speranza di futuro bene!
     Tremendo amor, che, quando fugge, insolca
     Profondamente l’anima di sangue!
     Deh, custodite, miseri! il bel sogno,
     Che sì celere passa. Ispido verno
     (Né sarà tardi) occuperà le vostre
     Vedovili giornate, e orribilmente
     Vi farà scarni, vipera dell’alma,
     La rimembranza. Miseri! suggete
     L’ultima stilla del celeste nappo.
     Chi ve la turba… impenitente spiri!
     – Ben t’avvenga, o dei dogi inclita sposa,
     Lïonessa terribile dei mari!
     Eri pur or sul tuo letto di rose
     Come un’egra gentil, cui sotto l’ombra
     Di dolorosi salici, a rilento
     Si consumano i dì. Ma un fresco e nuovo
     Alito ancora i belli occhi morenti
     Ringiovanisce, e sulle forti chiome
     Ti splende un raggio della gloria antica.
     Oh! tu sei veramente il più leggiadro
     Fior dell’Italia, a cui la riverente
     Malinconia dello stranier s’inchina,
     Mistico fior che in mezzo all’acque vivi!
     Ben meritava Edmenegarda bella
     Di sorriderti appresso, e, sul materno
     Petto serrando le soavi teste
     De’ suoi fanciulli giocondar la fiera
     Alma d’Arrigo!
     – «Oh, vedi come azzurro
     Il ciel, placide l’acque! Mi lusinga
     Un desiderio di recarmi a Lido.
     Ci verrai tu?»
     «Non posso.
     «Oh che? tel vieta
     Qualche dolce ritrovo?» – (e sorridendo
     Gli accarezzò le chiome).
     «Edmenegarda,
     Va’ tu».
     «Sola?»
     «Che temi?»
     «È tristo il mondo
     Ed io fragile troppo! – E ancor sorrise
     La infortunata). – E poi… da te disgiunta
     Andar m’accora».
     «A rivederti. Il cielo
     E il mar t’inebrii di sue forti gioie;
     Poi riedi a me. Mi troverai, tel giuro,
     Sposo recente!»
     «In ver? Novo portento
     Già non sarebbe!»
     «La superba!… Addio.
     Fatele guardia, o fanciulletti!…» —
     A questo
     Scherzoso favellar termine pose
     Un’armonia di baci. In aspettando,
     Canticchiava il nocchier sulla sua barca.
     Arrigo strinse la diletta al core;
     I bambini traendosi per mano,
     Edmenegarda scese.
     Onde del mare,
     Contrastatele il varco! Aure del cielo,
     Convertitevi in turbine! Non possa
     La infelice, non possa! Urti piuttosto,
     Sdruccioli, cada il remator nell’acque…
     Le muoia un bimbo!… Ma che val? – Terrena
     Prece non muta i preparati eventi.
     Ride il ciel, ridon l’acque, i due bambini
     Ridono anch’essi, il gondolier prosegue
     La sua canzone; Edmenegarda pende
     Sul negro abisso. E son tutti d’amore
     E son tutti di pace i suoi pensieri.
     Dalle molli rapita ale de’ venti,
     Tocca a Lido la prora. E se non fosse
     Prepotenza de’ fati, un’altra volta
     Io pregherei che ti spezzasser l’onde,
     Malvagia barca, tutti tranghiottendo
     Questi innocenti – a dissipar le fila
     Dell’orrendo peccato. A te da canto
     Susurra, o donna, l’angelo caduto
     Tenebrose lusinghe; e una fatale
     Malinconia nel core insinüarsi
     Tu senti già. Meglio per te sarebbe
     Un tempestoso delirar di sensi,
     Che ti gittasse al marinaio in braccio.
     Schifosa e breve durería la colpa!
     Ella prese i fanciulli e lentamente
     Venne sul lido. Nuda e desolata
     È quella terra; e di romite pietre
     Sparsa all’intorno. Non le onora un segno,
     Non le guarda una croce: eppur custodi
     Stanno colà d’una progenie estinta.
     Eternamente le percote il vento,
     Eternamente le flagella il mare,
     A ricordar che su quel cener pesa
     La sentenza di Dio. Ma l’uom superbo
     Guai se calpesta quelle pietre e ride.
     Dopo l’ora mortal non ha la creta
     Verità di giudizio; e agonizzante
     Cristo pregò dalla sua croce a tutti
     Il perdono del Padre!
     Inculte rose,
     Pochi e pallidi gigli erano intorno
     A quei nudi sepolcri.
     Oh dilicata
     E arguta e forte cortesia di donna!
     Edmenegarda il piè dei fanciulletti
     Rimovea da quei fior seco pensando:
     «I figli miei non vi torranno, o meste
     Urne, l’unica gioia, onde si mostra
     Liberale alle stanche ossa la terra!»
     E sospirò come chi pensi al prezzo
     D’una cara pietà nei faticosi
     Dí del dolore.
     Un suo bimbo, seguendo
     Con trepido desío per quella costa
     Il vol d’una solinga farfalletta,
     In una zolla incespicò.
     Vi narro
     Comuni istorie: ma son questi i lievi
     Stami che annodan l’avvenir.
     Sorgiunse
     Tempestiva la madre e il vispolino
     Trepidando garrì. Ma in quelle strette
     Paurose dell’anima, non vide
     Che disciolto da’ polsi un vezzo d’oro
     Nelle morbide zolle era caduto.
     Con certo vago non curar dipinta
     Su vi splendea l’immagine d’Arrigo,
     Bruno, superbo, dispettoso e bello.
     Giorno e notte compagno ella si tenne
     Quel diletto ornamento! ed or tra l’erbe
     Miste d’un giglio egli smarrito giace
     Presso l’avel di giovinetta ebrea,
     Morta d’amore. Ricomposti alquanto
     I conturbati spiriti, s’accorse
     Edmenegarda della rea ventura,
     E ne tremò come di lungo affetto
     Che improvviso si rompa. E il suo fanciullo
     Riguardò corrucciata.
     – «Oh tu perdesti,
     Mamma, il tuo vezzo!»
     «E tu cagion ne sei.»
     «Si, veramente» (con voce di pianto
     Proruppe il bimbo).
     «Non turbarti, o caro:
     Il troverem. Ma voi vi trastullate
     Là su quell’erbe. Cercherollo io sola.
     Il buon Iddio già non vorrà che io peni
     Più lungamente». —
     Spensierati al gioco
     Obliarono tutto i due bambini.
     Edmenegarda con rotti sospiri
     E tormentosa avidità cercava.
     Avrìa gemuto ogni più scabro petto
     A contemplar quella dolce persona
     Di qua, di là gittarsi incertamente,
     Curva, carponi, e con le mani bianche
     Frugando in mezzo all’erbe e per le spine,
     E tra il vel delle lagrime le ardenti
     Pupille sulla terra affaticando.
     Non lontano da lei terribilmente
     Batteva un core a rimirar quegli atti.
     «Eccola! E indarno, indarno sempre il sogno
     Della mia vita io seguirò! Né un guardo,
     Né un sol guardo di lei questa profonda
     Febbre, che m’arde, acqueterà! Che spero?…
     Vedi iniqua fortuna? Ella ha smarrito
     Qualche sua dolce cosa, e gli affannati
     Occhi volge alla terra. Oggi soltanto
     Le son sì presso… e non mi vede! Oh sia
     Maledetta la cosa che a sè tira
     Le ostinate pupille e inganna il lungo
     Mio desiderio! Mordere le possa
     I bei diti una serpe, onde sollevi,
     Almen gemendo, quell’amato capo!
     Una volta, una volta ella mi veda
     Così scarnato e misero per lei!»
     In queste voci di dolor proruppe
     Il giovine Leoni.
     Era di casa
     Patrizia nato. Tra follie consunse
     L’età ridente. Nelle bische, ai balli
     Splendea su tutti e beffeggiava il casto
     Sospir dei fidi o non felici amanti.
     Ma nel viso gentil d’Edmenegarda
     Un dì scontrossi e ne tremò. Del suo
     Turbamento si rise, e non pertanto
     Anelò rivederla: e una cocente
     Torbida fiamma al fatuo cor s’accese.
     Da quell’ora solingo egli passeggia;
     Non più lieti convegni, orgie notturne,
     Riso e feste d’amici. Arde il leggiero
     Schernitor degli affetti; arde. La cerca,
     La perseguita ovunque, e se per caso
     Un lampo de’ suoi belli occhi rapisce,
     Gela ed avvampa di convulsa ebbrezza.
     A lui la notte, in pria fredda e deserta,
     Or tutta è un sogno del celeste viso,
     E il giorno un’acre voluttà superba
     Di ricomporlo nell’ardente idea.
     E come in quell’istante ogni movenza
     D’Edmenegarda, e le fuggenti trecce,
     E il fluttüar degli scomposti veli
     Ei divorava!
     – «Quanta cura!… Or dunque
     Smarrito ha il paradiso?»
     E anch’ei si pose
     Sdegnosamente a ricercar. Né appena
     L’orme e gli occhi per caso avea sospinti
     Presso l’avel della fanciulla ebrea,
     Che sotto al gioco dell’obliqua luce
     Un lampo uscì dalle non peste zolle,
     Il vezzo è già nella sua man. Vi scôrse
     Le sembianze d’Arrigo. A Edmenegarda
     Volò.
     – «Guardate!… Io lo trovai!… Guardate
     Aman tutti, – ed io solo, io senza amore
     Passerò dalla terra!»
     E nei convulsi
     Moti dell’ira il fatal vezzo infranto,
     Gittollo ai piedi della donna e sparve.
     Fu l’opera d’un punto. Ella non seppe
     Domar gli occhi; il mirò; di nessun’altra
     Cosa le calse; piangere l’intese…
     E a goccia a goccia come piombo ardente,
     Nei tumulti del core impäurito
     Sentí stillarsi quel terribil pianto.
     Ne gemettero gli angeli. Percossa
     Quell’infelice dall’orrendo caso,
     Si stringe a’ figli; ma sudor le gronda
     La chioma e il volto, e gelido è l’amplesso.
     Tenta pensar d’Arrigo; ma turbata
     Le traballa l’imagine alla mente;
     Tenta pregar; non puote. Intorno gli occhi
     Slancia tremando; li raccoglie ai figli.
     Gli apre, gli chiude, misera! non puote,
     E gli apre ancora avidamente e cerca…
     Chi?… Piangetene, o cieli!
     Consumata,
     Consumata nell’anima è la colpa.
     Ed ahi sí presto!
     Che misteri asconde
     Di dolor, di fortezza e di peccato
     Questa superba e lagrimabil creta!
     Tu pregherai, tu spererai, ma indarno.
     O Edmenegarda, il demone con molte
     Fatiche ha comperato la sua preda;
     Per anni molti ei la vorrà. Che importa
     Se tu ti slanci al tuo legno fuggendo?
     Che importa, se la bruna navicella
     Va come lampo, e pur gridi affannata
     Al remator che acceleri la corsa?
     Che val, se il tempo col desío divori?
     Tendi gli orecchi. Non ti fêre un novo
     Romor nell’acque? Volgiti! non odi?
     Come larva notturna, che persegue
     L’agitato pensier del viandante
     E gli fa tardo il passo, il respir greve,
     Or rotti or doppi i battiti del core,
     Presso il navil d’Edmenegarda un altro
     Venía solcando; e la medesim’onda,
     Che dall’uno, dall’altro era percossa.
     O Edmenegarda, volgiti! non odi?…
     Ahi, che duro pallor t’ha ricoperta!
     Che abbandono di sensi!
     I tuoi fanciulli
     Ti credono dormente, e si fan cenno,
     Ponendo il dito sulle rosee bocche,
     Di non turbarti quell’amabil sonno.



   CANTO SECONDO


     Sfiora le eccelse cupole, tra gli archi
     Vagola e trema sugli azzurri flutti
     Con la pietà d’un fuggitivo amante
     Il sol che muore: ed un suo raggio estremo,
     Ferendo i vetri alla romita stanza
     Posa sul crin d’Edmenegarda.
     Oh sole,
     No, non lasciarla. Anche su lei risplendi;
     È bella ancor questa colpevol fronte.
     Simigliante ad un naufrago, che manda
     L’ultimo grido, e vinta la persona,
     Le disperate mani incrocia al petto
     E piega il capo sotto l’onde e spira;
     Così la combattuta Edmenegarda
     Col suo dolce peccato ahi! s’addormenta.
     «Tutti son lungi; ed io qui sola il noto
     Rumor sospiro degli amati passi!
     E ancor non viene! Ei non dovria lasciarmi
     Il mio Leoni a questo tetro sogno.
     Non teme ei forse ch’io svegliar mi possa?
     Sì consumata nel fallir sarei?…
     Oh infame il giorno che mi fûr recate
     Queste note d’amore!!»
     E su dal seno
     Una lacera carta ella traendo,
     V’infisse i lumi; la baciò; la strinse
     Tra le palme e gemette.
     «Io ben rammento
     Che, appena l’ebbi, la gittai nel foco…
     Ma estinto il soffio del dimòn l’avea.
     Lungo era l’atto a lacerarla intera…
     Io nol potei!»
     Che sogna la demente?…
     Arsa l’avrebbe?… Ah, se stridea la fiamma
     Lí pronta a divorarla, indi ritorti
     Avrìa gli occhi la misera. E se un primo
     Impeto pur ve la traea, sparmiato
     Già non avrebbe le sue belle vesti
     E le man dilicate, onde salvarla
     Dalle subite vampe.
     Oh! qual periglio
     Può rattener la donna innamorata,
     Quando la punge quell’acuto immenso
     Empio patir?
     Deh, non parlar di queste
     Crëature sì fragili e possenti,
     Tu non nato ad intendere che il vile
     Gaudio d’averle e d’oblïarle sempre!
     «Duro è l’indugio. E ancor non vien!»
     Si desta
     Da lunge un’eco: Edmenegarda ascolta
     Avidamente; le si fan le gote
     Porpora viva… Il suo Leoni è giunto.
     «– Addio, diletta!»
     Ella si tacque; e un lungo
     Sospir traendo, con le molli braccia
     Gli cinse il collo e lo baciò.
     – «Divina
     Sei veramente! Durassero eterne
     Quest’ore! Stolto! io non credea che tanta
     In sé chiudesse voluttà la terra!…
     Dov’è sembianza che alla tua somigli?
     Chi non daria per queste chiome un regno,
     Per baciar mille volte, com’io faccio,
     Queste tue chiome, e a forza di baciarle
     Stemperarsi d’amor, com’io mi stempro?…
     Sì, Edmenegarda!… Piega la tua testa
     Qui sul mio cor!… Deh, senti come batte
     Un cor d’Italia… Ah, questi miei non sono,
     Non son gli amplessi del superbo Inglese…»
     «– Leoni mio, non proseguir!… Ti prego
     A mani giunte, non mi far morire!…
     Troppa è l’ebbrezza che nel cor mi versi;
     Ma per pietà non proferir quel nome!…
     Io non ho forza a sostenerlo!… Taci!…»
     «– Ei ti disama; non t’amò giammai.
     Co’ suoi gelidi modi ei ti contrista,
     Gentil rosa d’amor! Ben meritava
     D’aversi a moglie una rubesta donna
     Delle carniche rupi, e non la dolce
     Edmenegarda mia!»
     «Deh! più non dirne;
     Mi son pugnale avvelenato all’alma
     Le tue parole! Ei sì ancor mi ama Arrigo,
     Troppo umano e cortese a questa sua
     Miseranda colpevole!… Che fora,
     S’ei risapesse?… Oh mio Leoni!… Un serpe
     Mi rode il core!… Io lo disamo, io sola;
     E si tormenta il misero a vedermi
     Tramutata così!»
     Può far portenti
     La pietà nei gentili. Ed ella intensa
     La sentia per Arrigo. Arse Leoni
     In quel fiero sospetto: e sulle labbra
     Dal core offeso gli suonâr parole
     Sino allor non proferte.
     – «E cieca or tanto
     Fatta sei tu?… Veder ne lo potessi
     Sotto i vecchi palagi, com’io ‘l vidi,
     Passeggiar sorridendo! Egli divora
     Tutte degli occhi queste nostre donne,
     E, immemore di te, forse possiede
     Nel suo vil desiderio altre sembianze,
     Che un raggio, un’orma della tua non hanno».
     «– Leoni, è tempo di tacer!»
     «Non anco,
     Edmenegarda!… Lasciali i rimorsi
     A lui che vola a comperati amplessi,
     E svergogna cosí questo suo dono.
     Non meritato dal Signor!» —
     Le guancie
     D’Edmenegarda in una calda fiamma
     Si tramutâro.
     «Ascoltami, Leoni!
     Tu menti; è vano il dubitar; tu menti!
     Deh, così basso non cader! Non farmi
     Più pesante la colpa! Almen mi lascia
     Questa alterezza, che in vulgar persona
     Io non locai l’affetto. Intender tanto
     Non credea dal tuo labbro. Arrigo è fiero,
     Arrigo mio, più di quant’altri alberga
     La vostra Italia. Ei non sapria macchiarsi
     Di gelose menzogne. Egli, il mio sposo,
     Pria di mentir, morrebbe. Or via, mi guarda;
     Gli occhi ho pieni di lagrime!… Sei pago?»
     «– Edmenegarda!… Se le atroci ambasce,
     Che mi schiantano il cor le risentisse
     Una fragile donna, ella saria
     Sepolta già. Dissimular che giova?…
     Voi l’amate, l’amate!»
     «Oh così fosse!…
     Perchè trarmi dal core anche il rimorso?»
     «—No, Edmenegarda, non lo dir!… Ma vedi!…
     Vedi come per te cieco son fatto!
     Questa indomita febbre è la mia parte
     D’aria e di sole. Io morirei senz’essa.
     Credi, non sente amor chi lo divide!…
     Edmenegarda mia, vile io non sono!
     Questi crudi, che a voi povere e frali
     Insegnaron la colpa, e poi non sanno
     Sentir la gioia dell’avervi intere,
     Paghi d’un bacio che a sbramar li venga,
     Questi tutti son vili!» —
     Dallo sguardo
     D’Edmenegarda, ai concitati accenti,
     Lampeggiò l’allegrezza; e intorno al collo
     Gli ripose le braccia; e figli e sposo
     Svaniron lenti dalla sua memoria
     Sotto il vel dell’oblio, che il novo affetto
     Continuatamente iva tessendo
     Più fitto sempre.
     Ma sorrider lieta
     Già non sapeva.
     – «Oh mio Leoni! Infauste
     Giornate il cor mi presagisce. Ah sempre
     Amami, sempre com’io t’amo; e queste
     Parole mie non oblïar. La terra
     Mi tesserà dolori, avvilimenti;
     Io sarò forte a sostenerli. In core
     Mi languirà la prece, e disperata
     Io non cadrò. Se mi mancasse il pane,
     Non saliranno i miei lamenti a Dio;
     Me l’avrò meritato!… Ma, se mai
     Tu… mi lasciassi…»
     «Angiolo mio! Quai fole
     Per la mente ti passano? Sorridi,
     Edmenegarda. Or via; caccia dall’alma
     Queste vaghe paure!… E non ti basta
     L’amor mio tanto?…»
     «Oh sì, mi basta!… E vedi
     Ch’io son tranquilla. Ma tu pur, diletto,
     Non affannarmi; non voler ch’io tremi
     Dell’ire tue! Qual gloria indi n’avresti?…
     Che resta a noi, se non amarci?» —
     A queste
     Voci d’affetto sospirò Leoni
     Di profonda amarezza, ed esitando
     La man le porse, come con quell’atto
     Perdon le dimandasse dello averla
     Contristata così.
     Sul core afflitto
     Ella serrò la cara mano… e tacque!
     Molti dolori chi molto ama oblia!
     Sceso era già dall’orizzonte il sole
     E in grembo alle romite aure del loco
     Movea un suon di reconditi sospiri
     Rotti da qualche inebrïato accento.
     Ma quella sera sulle dolci mura
     Calâr tetri i crepuscoli; alle imposte
     Mugolarono i venti; e sembrò voce
     Quasi di pianto il mormorar de’ flutti.
     Anche l’addio delle tremanti bocche
     Alla forzata ilarità del volto
     Non rispose quel dì.
     Nelle fatali
     Soglie si nascondea la preparata
     Ira del Nume; un innocente bimbo.
     Il sottil laccio tra la siepe al falco
     Ghermisce il collo, e la invisibil goccia
     Colmo alle ripe l’Oceàn travolve.
     Per quelle sale con aerei passi
     Trasvolando Leoni, non s’avvide
     Del fanciulletto che di là per caso
     Passava. Urtollo; e il poverino a terra
     Giacque ferito nella bella fronte.
     Leoni come lampo gli si tolse
     Dagli occhi. Accorse alle dolenti strida
     La madre.
     – «Oh santa Vergine! Rispondi;
     Rispondi; angelo caro. Che hai tu fatto?…»
     «Mamma, non io; ma quel signor del Lido…»
     «—Taci; t’inganni; non è ver. Non deve
     Un bel fanciullo lagrimar. Se taci
     Se non parli ad alcuno, io ti prometto
     Che un bell’abito avrai, ma de’ più belli
     Che si veda in Venezia.» —
     Ed asciugando
     Il poco sangue del picciolo viso,
     Molte feste gli fece. Alle carezze
     Inusitate da gran tempo, e al gaio
     Promettere, il fanciul serenò gli occhi
     Subitamente; e non finìa la madre
     Di carezzarlo.
     Una crudel tempesta
     Da molti giorni si mescea frattanto
     Nell’anima d’Arrigo.
     Ove fuggito
     Era quel dolce, quell’amabil riso
     D’Edmenegarda sua? Perché sì mesto
     Il sonar della voce e sì frequente
     Lo scolorir del volto? onde quel vago
     Svïarsi de’ pensieri e quel profondo
     Compatir delle colpe?… e se festiva
     Talor si mostra, perché mai traluce
     Dalle note e dai gesti un doloroso
     Sforzo dell’alma? la cagion del fiero
     Mutamento qual era?…
     Ella altre volte
     D’Arrigo a canto procedea superba,
     L’ondeggiar delle vele e il varïato
     Gioco de’ raggi e il luccicar dell’acque
     Lietamente notando. Ai vaghi aspetti
     Era gelida adesso e di mirarli
     Rifuggìa quasi. Nel leggiadro core
     Altre volte un desio caldo la punse
     Di visitar le insigni opre dell’Arte
     In compagnia d’Arrigo; or da gran tempo
     Non vedea quelle sale; e senza cura
     Abbellìa la persona; e senza affetto
     Educava i suoi fiori.
     «In che le spiacqui?
     Talor diceasi Arrigo. E donde nasce
     Quel tormentoso infastidir di tutto?…
     Quei rotti sonni?… Quel tremar talvolta
     Nelle mie braccia?… Oh che?… Forse?…»
     E dal bruno
     Fronte gocciava qualche fredda stilla.
     Poi, ripensando alle celesti gioie
     Da Edmenegarda avute; e a quella tanta
     Vita d’amor pei figli; e a sè guardando
     Giovine e bello e da tanti anni amato
     Con timida allegrezza, ebbe vergogna
     Di dubitar.
     Né sì profondo infitta
     Gli restò come pria dentro al pensiero
     Una persecutrice ombra, che sempre,
     Con la sua dolce Edmenegarda uscendo,
     Su’ lor passi incontrava.
     – «Oh l’importuno!
     Che pretende costui?» proruppe un giorno
     Con la sua donna Arrigo.
     «E che?… Vorresti
     Impedirgli la via?» —
     Si ricambiaro
     Ambo un sorriso; e fu sì casto e pieno
     E confidente, che potea di mille
     Sospettose paure esser compenso.
     Ma quando acuta i visceri penètra
     La vipera del dubbio, ella consuma
     Fieramente la vita, e non è forza
     Ch’indi la tragga. Nel fervor dei prandi,
     Nella vicenda de’ convulsi giuochi,
     Tu crederai di seppellir quel mostro;
     Ma sorgerà. Nelle sonanti corse,
     Tra i tumulti del dì, nella notturna
     Melodia d’un’angelica canzone
     Che di tepido oblìo l’anima incanta,
     Tu crederai di seppellir quel mostro;
     Ma sorgerà. Né sull’altar di Dio,
     Dove si placa ogni tempesta umana,
     La prece e il pianto t’usciranno in pace.
     – «Vieni, Adolfetto mio: dolce è la sera;
     Vieni a San Marco. Vi vedrai di molti
     Vispi fanciulli. Tu sta’ ritto e bello.
     Fa’ loro invidia».
     Vezzeggiando al padre,
     Battè palma con palma il fanciulletto
     Tutto contento, ed abbellir si fece.
     Nero il turbante, come neve il collo,
     Ceruli i guardi, cerula la veste,
     Biondi i capelli, inanellati e lieve
     Per l’omero scorrenti, era Adolfetto
     Un angelico incanto. E parea nato
     Quel soave fanciullo a render miti
     Con la tanta bellezza anche le fiere.
     – Sei pur vaga, o Venezia, e lungamente
     Memorabile e cara alle pietose
     Fantasie del mio cor! Chi porta gli occhi
     La prima volta sull’eterne torri
     Del tuo San Marco e non sospira, è degno
     D’assiderarsi alle perpetue brume
     Del Boristene. Chi trascorrer lascia
     Le gentili tue donne e non si sente
     Rapito all’aria de’ leggiadri aspetti,
     Non merta mai bacio d’amante. E quando
     Al grazïoso favellar festivo
     Non esilara il cor, l’ultima Islanda
     Io ben dirò che gli fu madre.
     Al cupo
     Tempestar della mente e agli odii ingrati
     Della terra natale, e a qualche arcano
     E tremendo peccato, in queste tue
     Ospiti rive, dopo lunga guerra,
     Trovò riposo un esule; e talvolta
     Brillò la gioia ne’ fulminei sguardi
     Del poeta d’Aroldo.
     Alle solinghe
     Ore di quella travïata i canti
     Del poeta d’Aroldo eran compagni.
     E quella sera le correan a forza
     La mente e gli occhi sui dolenti casi
     Di Parisina. Alla fatal lettura,
     Ecco repente tramortir la lampa,
     Stridere i vetri: ella riapre e chiude
     Più volte il libro, e pallida, d’intorno
     Sguardando, le parea dalla oscillante
     Parete lampeggiar l’ombra del duca.
     Popolata è la piazza, e sotto il doppio
     Ordin degli archi in allegria passeggia
     La varia gente. Assiso era col padre
     Il fanciullin da un canto. E con le bianche
     Dita sfogliava una recente rosa
     Che la gentil fioraia, in trapassando
     Data gli avea. Dal doloroso petto
     Sospirò Arrigo a contemplar divelta
     La beltà di quel fior.
     – «Perchè sospendi,
     Adolfetto, il tuo giuoco?… A chi riguardi
     Sì fisamente?… Di’; conosceresti
     Quel signor bruno?…»
     «Se il conosco! e molto
     Male ei mi fece!…»
     «Che?»
     «Spinsemi a terra».
     «Dove?»
     «Fuggendo per le nostre sale».
     «Tu sogni?»
     «Babbo mio, deh! non guardarmi
     Sì corrucciato».
     «Parla, angelo, parla!…»
     «La mamma corse ed egli era scomparso.»
     «Ed è quello?»
     «Sì, quello.»
     «In lontananza
     Forse t’inganni!»
     «Oh no.»
     «Quando ripassa,
     Guardalo attento!» —
     – Ripassò Leoni. —
     – «Dunque?…»
     «Gli è quello!» —
     «Arrigo si coperse
     Di mortal pallidezza! i polsi un tratto
     Gli si allentâro; e sotto alla vergogna
     Sospirò di morire. Il paradiso
     Della sua vita si chiudea per sempre!
     Ma dopo gli urti di quel primo affanno,
     Che ogni forza, ogni senso gli scompose,
     Dell’aere diffuso al refrigerio,
     Pietosamente assursero in Arrigo
     I secondi pensieri.
     «Ella tradirmi!…
     Ella sì amante, che parea vivesse
     Del soffio mio!… Tradirmi ella, mendìca
     E allo splendor delle mie nozze assunta!
     Ella che sempre io nominai coi nomi
     Più giocondi e soavi!… Arrigo, acqueta
     L’anima ardente… e non potria quel folle
     Essersi appena avventurato un giorno
     A tentar le mie soglie, e così offesa
     Edmenegarda dispregiar quell’atto,
     Da non curarne o vergognar tacendo?
     Talor maestro di sospetti è il caso
     Perfido e vile. Ma… quel novo stato
     Di tristezza che l’occupa!… Parlarle
     Uopo è una volta. Oh incanutir le chiome
     Mi possano oggi! Mi diserti il cielo
     D’ogni ricchezza, un misero sepolcro
     Copra i miei figli… ma non sia l’orrendo
     Fallo; non sia!…»
     Da una lampada d’oro
     Sul letto nuzïal d’Edmenegarda
     Una timida luce si diffonde
     Velatamente.
     Ella è soletta, e il capo
     Stanco reclina tra le ardenti palme.
     E pensava, pensava!… E in quei pensieri
     Era un torbido assalto di paure,
     Di rimorsi, d’amor, di pentimenti,
     E indomato un desio di sovvenirsi,
     E un lungo sforzo d’oblïar.
     Da quella
     Mutua battaglia alfin scosse la testa.
     Arrigo entrò. Lieve un tremor sul labbro,
     Lieve un pallor; non altro. – E a lei vicino
     Si pose.
     – «Arrigo!»
     «Edmenegarda! È tempo
     Ch’io vi favelli. Rammentate i giorni
     Del nostro amore? Ei furon lieti!… e forse
     Non torneranno più!…»
     «Tristo è il presagio,
     Arrigo mio! »
     «Sentite, Edmenegarda.
     Qualche mistero di dolor vi siede
     Nell’anima profonda. Io non vorrei
     Aver fatto una misera. Quel giorno
     Che legai la mia fede (oh così amaro
     Non credea mi tornasse il ricordarlo!)
     Quel giorno come adesso, io tenea stretta
     Nelle mie la tua mano… e questi accenti
     M’uscîr dal core: Edmenegarda, eterni
     So che non duran sulla terra affetti.
     O inesorata li spegne la morte,
     O li lacera il mondo. Io credo e spero
     Che mi amerai… Ma… se una volta stanca
     Di me tu fossi… se al tuo cor non pari
     Trovassi il mio… se di tristezza e noia
     I tuoi giorni languissero… prometti
     Che parlerai, prometti! – E a te piangente
     Parve strano quel dir; tu non credevi
     Che quest’ora arrivasse…. Edmenegarda,
     Tu nol credevi! – Or via; parla una volta:
     Che ti contrista?… Questa lunga e dura
     Serie di giorni desolati – è troppo.
     Parla; ti versa nel mio cor. Non sono
     L’amico tuo?…» —
     Fu dieci volte spinta
     Quella infelice a rivelar la colpa.
     Ma il terror, ma l’amor, ma quella stessa
     Bontà d’Arrigo, a cui tanta ferita
     Già recar non sapea, miseramente
     La rattennero – e tacque.
     «Oh più non dirmi
     Di sì dolenti cose! A te ben noto
     Esser dovria perchè sì mesta ho l’alma!…
     Son questi i giorni che a’ miei dolci colli
     Gir mi lasciavi; e della madre in seno
     Io deponeva i verecondi arcani
     Del mio felice vivere! – Da un anno,
     Sai ch’ella… è morta!…» —
     E, a quella pia memoria,
     Le cadeva una lacrima, confusa
     Col rossor di meschiar l’urna materna
     Alla prima menzogna.
     – «Edmenegarda!…
     Null’altro?… Questo… veramente questo
     V’amareggia?… Null’altro?…»
     «E perchè fiso
     Così mi guardi?» —
     Tutto in quell’occhiata
     Edmenegarda intese; e la sostenne
     Imperterrita.
     – «Ascoltami!… Un atroce
     Dubbio m’agita l’anima. Più a lungo,
     Viltà sarebbe il mio tacer. – Conosci…
     Certo Leoni?…» —
     Un gelido trabalzo
     Urtolle il core, ma passò qual lampo.
     – «Lo conoscete? »
     «Arrigo mio, perdona
     Se ti sorrido… Io sì che lo conosco
     Quello scortese. Un dì, male avviato,
     D’ignote genti a dimandar qua venne;
     E, nel partirsi, inavvertito, a terra
     Spinse Adolfetto nostro.»
     E, proferendo
     Le mendaci parole, un’aria assunse
     Di maraviglia, d’innocenza e pace.
     Ei la guardò; ma l’ineffabil riso
     Tuttavia nei sereni occhi brillava.
     Caderle ai piedi, stringerla, baciarla
     E ribaciarla; e non finir di dirle
     Mille accorate e mille dolci cose
     Fu per Arrigo un punto. Era oblïato
     L’orgoglio inglese in quegli atti d’amore!
     E l’abbracciava il misero!…—
     Un istante
     Che allentato si fosse il tempestoso
     Urto di quella ebbrezza, avria sentito
     Tremar sotto gli amplessi orribilmente
     Le colpevoli membra, e sotto i baci
     Farsi di gelo la convulsa bocca.



   CANTO TERZO


     O giovinette, gioia vereconda
     Delle case materne, a cui dovrebbe
     Vergin campo d’amori esser la terra,
     Quand’io vi veggo rotear ne’ balli,
     Di rose e gigli incoronate il crine,
     Quand’io v’ascolto ne’ giocondi crocchi
     Le memori narrarvi ore del chiostro,
     O le speranze del futuro amante,
     Non vi sorrido; ma pietà mi stringe
     Dolorosa di voi, che imprenderete
     La dura via tra poco. Una celeste
     Larva è l’amor, che spanderà d’ebbrezza
     La vostra notte; ma sull’alba gli occhi
     Vi nuoteran, senza saperlo, in pianto.
     Deh, se più tarda del desìo vi splende
     La visïon delle ridenti nozze,
     Deh non v’incresca, o giovinette, il vostro
     Vergine asilo e il queto orto materno!
     Deh non vi punga di mutar la pace
     Di quelle mura col rumor del mondo!
     Guai se una volta lacrimaste i tempi
     Non redituri! E se di spose e madri
     A quel tremendo ministerio eccelso
     Dio vi destina, di più forte gente
     Fate ricca la terra! Incliti amori
     E pietose virtuti al secol novo
     Date una volta; e la gentil fortezza
     Degli atti vostri avrà corone e canto.
     Ma fra quanta di rei turba infelice
     (ahi poche e stanche) i verginali capi
     Riposerete alla fiorita landa
     Voi, coraggiose martiri, venute
     La frale ad espïar anima d’Eva!
     E tu, mio Genio, pellegrin ti reca
     Sul precipite abisso. E quando ascolti
     Altre misere incaute approssimarsi,
     Alzati e grida col furor negli occhi
     D’Edmenegarda il nome. E se la turba
     Dall’impeto è travolta, allor dell’ali
     Fatti un velo alla fronte, e piangi e prega.
     Passan l’ore sull’uom, passano i giorni
     Che triste o lieto, irremutabil sempre,
     Numera il Sol. Ma le speranze, i sogni,
     Gli odii, gli amori, e l’incalzarsi eterno
     Delle memorie, e l’avvenir celato,
     E i durissimi tedii, e il faticoso
     Dibattersi dell’alma, e il trovar pace
     Dopo fieri cimenti, ahi tarda e breve
     E guerreggiata con orrenda gioia
     Da Satàna e dall’uom; questi misteri
     Non li numera il tempo. Anni ed istanti
     Con pari vol misurano. Nessuno
     Quei dell’altro indovina. Han vita e moto
     E sepoltura in noi; sin che lo strale
     Fischia della suprema ora nell’alto,
     Guizza il lampo di Dio sulle tenèbre…
     E quell’ambage non è più.
     Chi tenta,
     Poichè la rea fra le tradite braccia
     Tremò, chi tenta penetrar gli abissi
     Dell’anima sviata?… Ella sorride;
     Chiama, con voce più soave, il nome
     De’ suoi figli e d’Arrigo; e in una tinta
     Lieve di rosa s’incolora il lungo
     Pallor del volto. Più profonda è fatta
     La battaglia del cor, che nessun vede,
     Ma che improvvisa ad or ad or balena
     Da un sospir divorato e da una fredda
     Stilla di pianto.
     E Arrigo?… Egli si sforza
     D’esser lieto, e non può. Ben come un dolce
     Fantasma, che talor passa per l’ombre
     D’un sogno tormentoso, ei si dipinge
     La fè d’Edmenegarda; e l’accarezza
     Come il dormente quella bianca imago.
     Ma, quasi mesta del notturno gelo,
     Fugge la bella forma, e risepolto
     Nelle tenèbre il sognator sospira.
     «Perchè quest’ombra di sospetto a tergo
     M’incalza sempre?… Ma, se rea foss’ella,
     Come potrebbe sostener sol uno
     De’ baci miei, nè di rossor morirne?
     Avria sconvolto le sue leggi eterne
     La natura ed il ciel? Come in sì breve
     Ora mutar l’angelico costume?
     Io demente l’accuso; e chi sa quanto
     Ella si strugge, e se de’ miei s’accorse
     Dubbi codardi! Io vigilai già troppo,
     Nè mai l’aspetto di colui m’apparve,
     Nè ombroso un gesto, un moto io mai non vidi
     D’Edmenegarda mia, di quella mite
     Anima che talor si fea tremante
     D’un mover lieve di notturna foglia,
     D’un fior che le cadesse. Oh questa è colpa,
     È colpa in me, ch’io vo’ punir.»
     Siffatti
     Son d’Arrigo i pensieri. E cerca ovunque
     Disvïarne la mente. Ecco; alla sua
     Leggiadra donna d’abbellirsi a festa
     Amabilmente impera.»
     – «Il gaio mondo
     Vola a’ teatri. Edmenegarda, altero
     Fammi di te, tra tutte quante bella!
     Sentirai la virtù delle immortali
     Melodie di Rossini in bocca a questo
     Angelo ispano! Tutt’Europa ai canti
     Della Garcìa sospira.» —
     Allegra accolse
     E timida l’invito. Eran più giorni
     Che nol vedeva, consigliero a entrambi
     Il prudente timor. Forse tra’ mille
     Ritrovato coi destri occhi amorosi
     Quella sera l’avria.
     Quanta vaghezza
     D’abiti e forme! e che tesor si spande
     Di profumi e di luce, e che diffusa
     E terribile e mesta onda di note
     Per la bella Fenice!
     Inni di gloria,
     Canti d’amor, selvagge ire dal petto
     Fulmina Otello, e solitario cade
     Di Desdemona il pianto, e sotto i salci
     Freme l’arpa divina.
     Oh! chi non arde,
     Chi non gela a le lunghe e disperate
     Note d’amor, di gelosia, di morte?
     Suonano le commosse aure di grida;
     Palpita Arrigo; ed ella, in quei tumulti
     Soffocando il terror, giù nella folla
     Furtivamente il suo Leoni affisa,
     Che, chiuso in altre voluttà, non plaude,
     Ma profondo sospira.
     I canti estremi
     Lacerarono Arrigo; e quando Otello
     Con le sue mani furïose estinse
     Desdemona infelice, inorridito
     Pianse l’inglese e ricercò sul volto
     D’Edmenegarda una pietà segreta…
     Ed ella?… Indarno la chiedea dal cielo!
     Da molti giorni era composto in pace
     Il cor d’Arrigo; e carezzava i figli
     Festevolmente, e sulle sue ginocchia
     Se li togliea, facendoli amorosi
     Messaggieri di baci alla lor madre.
     E alfin, quel dubbio ad espïar, risolse
     Per qualche dì, con dilicato affetto,
     D’abbandonar la sua dolce compagna
     E le venete spiagge; anche a rapirsi
     Da quei duri pensieri.
     A voi più volte,
     O frïulane valli, inebrïato
     Tornava Arrigo col desio; che un’orma
     In voi trovar della natal sua terra
     Gli parea sempre; e il vostro aere cortese
     Gli custodiva il più soave arcano
     Degli anni suoi; però che sulle sponde
     Del Tagliamento un dì vide una mesta
     Giovinetta vagar pensosamente,
     Al mite raggio delle prime stelle
     E ai fioretti del margo acconsentendo
     Qualche sospiro; e dimandò chi fosse;
     E più d’ogni altro gli fu caro il nome
     D’Edmenegarda. E ancora una vaghezza
     Lo pungea di mirar quelle divelte
     Torri, che la solinga edera allaccia.
     Campo una volta a baronal fortuna,
     Or son nicchia notturna alle selvagge
     Volpi, e per gli atrî, ove suonâr le spade,
     Passa a staccar qualche frantume il vento,
     Mentre in alto la bruna aquila ondeggia,
     E il fulmineo serrando arco dell’ale,
     Precipita alla preda. A quei castelli
     Lambe le falde impäurito e passa
     Il vïandante, e i colpi della scure
     Sull’erma balza il legnaiuol sospende
     Ad or ad or: chè dentro alla solinga
     Magion de’ Savorgnani ode un feroce
     Ballo di morte, e lungo quelle sale
     Vede traverso i colorati vetri
     Passar rossi fantasimi, agitanti
     Fiaccole e spade.
     Anche il pensier d’Arrigo
     Dietro quelle sognate ombre correa.
     Poi riposando a fantasie gentili,
     Rammentava, o gagliarda Utino, l’opre
     Del tuo Giovanni, che attingea dai labbri
     Del divin Raffaello il benedetto
     Soffio dell’arte che d’amor si pasce,
     E cielo e terra, innamorando, crea.
     E del merlato Spilimbergo intorno
     Udìa sull’aura reverente i nomi
     Del Vecellio e d’Irene, ambo immortali.
     E là trovar tra i memori oliveti
     Già gli parea la giovenil sua vita,
     E di là, le marine onde solcando
     Pregustava nel cor la inaspettata
     Voluttà dei ritorni.
     E così volle,
     E a la sua cara ne parlò. Sostenne
     Edmenegarda, tra la gioia e il pianto,
     Quella battaglia: e ch’ei si rimanesse
     Tremava; eppur lo scongiurò di starsi;
     E gioì del rifiuto; e insiem rimorso
     Di quel gaudio sentì.
     Misera! il fato
     Già ti chiuse ogni via, tranne quell’una
     Che d’abisso in abisso ti sprofonda.
     Povera foglia alla bufera in preda!
     «– Dunque tu parti!… Anche per me saluta,
     Arrigo mio, quei colli, e le dilette
     Rive del Tagliamento, e quei beati
     Campi! ma lungo il tuo restar non sia!» —
     E di vera tristezza eran parole.
     – «Noi ci vedremo in pochi dì. Scrivetemi,
     Edmenegarda!»
     «Arrigo mio, m’è nuovo
     Questo tuo far. Perché nell’abbracciarmi
     Non mi chiami del tu? Tetra una nube
     Ti sta sul volto, nè stanotte il sonno
     Ti consolò. Che hai?»
     «Nulla, mia cara.
     Prendi cura di te, pensami e scrivi.
     Addio, fanciulli!» —
     Al sen tutti li strinse
     E si partìa. Ma la rinata spina
     Laceravagli il cor. S’era ingannato?…
     O quella notte Edmenegarda in sogno
     Proferse un nome?… E ancor, per quelle sale
     Passando, acuto un brivido lo colse.
     «Quanto son vile! Non è ver. Sì, vile…
     Sì, demente son io.»
     Ma, ad ogni passo
     Verso la ripa, una gelata mano
     Sentia calar sul divampante petto,
     A respingerlo addietro. Egli räuna
     Ogni sua forza, quell’incubo orrendo
     Per debellar. Nè vinta era la pugna.
     «Tornarmen’io?… Pormi in agguato?… All’arti
     Del sospetto discendere?… Follia!
     Ma inumano è lo strazio. E in un dì solo
     Io quest’inferno dissipar potrei.
     Tanto è ch’io peno! E in un sol dì la vita
     Potrei mutarmi in paradiso eterno!»
     Lieve una piuma a traboccar bastava
     Quella bilancia, e non tardò la sorte
     A gittarvela su.
     Già il piè d’Arrigo
     Monta la prora; già la corda è sciolta;
     Ei volse il capo… e fu per caso; e sopra
     La man passovvi; e vide… e non s’illuse…
     Vide colui, che con pupille ardenti
     Lunge, in agguato, a contemplar lo stava.
     Leoni sparve. Arrigo si raccolse
     Un istante: ha risolto. A terra scese;
     La via rifece; per ignota parte
     Entrò; salì non visto: in una stanza
     Orba di lume si celò; la fronte,
     Quasi per molto faticar, gli cadde
     Sull’ansio petto; e un’onda di pensieri
     Lunghi ostinati gli muggìa d’intorno.
     Immenso amor, vergogna, ira, sospetti,
     E terrori e speranze, eran commiste
     Quasi in un vario e vorticoso nembo
     Di tenèbra e di luce; e dentro a quella
     Tempestosa meteora – spïando —
     Stava l’inglese all’infernal tortura
     Ogni piè, che sonasse alle sue scale,
     Gli era un colpo nel petto; ogni persona
     Che arrivasse, una morte. E in pochi istanti
     Ore ed ore passarono. Arrossiva
     Già di sé l’infelice… allor che un’ombra
     Rapida intese. Ei trema; la pedata
     Si ferma all’uscio; e l’uscio s’apre; ei guarda,
     Misero! guarda; e vede un’ombra… un uomo…
     Vede Leoni trapassar!
     Le fibre,
     Le vene, l’ossa gli divampan tutte.
     Ma sbarrata e di vetro è la pupilla;
     Cadaverico il volto; e sol la vita
     Da un tremor lieve delle labbra appare.
     Inchiodato così stette un istante
     Indi sorrise; e due gelate stille
     Dagli occhi morti gli colar sul petto.
     Stette ancora un istante. Alfin si mosse
     Quel pallido fantasma; ad ineguali
     Passi arrivò sulla tradita soglia;
     E l’aperse – e li vide – e d’uno sguardo
     Li fulminò. – Poi chiuse.
     Annichiliti,
     Trascolorati, come fredde pietre
     Restäro entrambi. Edmenegarda tenta
     Trar dalla gola un solo accento; è indarno.
     E, a forza sollevando la convulsa
     Testa, gli accenna di partir. Leoni
     La man ghiacciata le serrò.
     «Congiunti,
     Donna, per sempre!…»
     E a proseguir non valse:
     E, sovra il gel delle livide labbra
     Non baciato baciandola, col capo
     Vertiginoso, a strascico le membra
     Disviluppando, di colà si tolse.
     Arrigo il vide ripassar. Fu un punto,
     Ch’ei non pose sovr’esso l’omicida
     Mano a strozzarlo. Ma, serrati i denti
     E incrociate le braccia, ei si contenne.
     E quando il seppe dileguato, un cupo
     Urlo mandò qual di ferito tigre;
     E sull’infame limitar, di nuovo
     Ritto, immobile, apparve.
     La tapina
     Nol vide già: chè le cadea la fronte,
     Quasi con peso d’agonia, sul petto.
     Ma pur – senza vederlo – a sè davanti
     Lo sentia, lo sentia, muto e tremendo.
     E si sforzò di sollevar le braccia,
     E congiunte le palme, senza pianto,
     Senza parola, verso lui le stese.
     «Non pregate, o signora. Ospite io v’ebbi
     Sett’anni; or basta. Ad altre mense, ad altri
     Talami andrete.»
     Uscir quelle parole
     Fulgoreggiando. Traboccò riversa
     Edmenegarda, e una schiumosa riga
     Mista di sangue sui guanciali apparve.
     Un urto!… un urto ancora… e a terminarla
     Sarìa bastato.
     Ma il Signor non volle!



   CANTO QUARTO


     Vedesti mai della Città fatata
     Sulle sponde amorose, ove s’innalza
     Perpetuo il canto tra l’oceano e il Sole,
     Vedesti mai le lucide sembianze
     D’un’angelica forma ir diffondendo
     Fascini arcani, e dietro lei confusi
     Mille cuori agitarsi, e in rapimento
     Scintillar mille sguardi, a cui dinanzi
     Ella verrà nei sorridenti sogni?
     Mai non vedesti una leggiadra donna
     Col suo dolce compagno irsene altera,
     E preceduta da due biondi figli,
     Qual da una coppia di nascenti rose?
     E non ti parver quelle anime amiche
     Irradïate da un medesmo affetto
     Quattro corde sonanti e risonanti
     Sotto il ciel che le ascolta e s’innamora?
     Qual core è mai che non esulti a queste
     Melodie, che morir su le perdute
     Soglie del paradiso, e a far men triste
     La fulminata razza, un giorno ancora
     Sotto le dita dell’Amor son vive?
     Le sollecite madri alle fanciulle
     Quella donna additavano, esclamando:
     – Beate voi, se avrete una, sol una
     Parte dei giorni avventurati! —
     Oh certo,
     Senza molto indagar, tu la vedesti
     La invidïata crëatura amante
     O nel rumor d’un ballo avvilupparsi,
     O star composta ad una sacra pompa,
     O lungo il mare vagolar solinga;
     Tu la vedesti; e la più cara stella
     Del felice Adriatico ti parve.
     Or leva gli occhi all’ultima finestra
     Di quel palagio, a cui lambe la luce
     Le fondamenta brune, e, digradando
     Via digradando, sul canal si perde.
     Quel palagio il conosci? – È di Leoni. —
     Conosci or tu quella femminea forma
     Col crin dimesso, con le mani scarne,
     Con la febbre nel cor, con le pupille
     Macchinalmente immobili sull’acque?
     Ahi! come poco ella ti par diversa
     Dalla gelida pietra a cui s’appoggia!
     Sol l’ignominia d’un ripudio puote
     L’umano aspetto tramutar cotanto.
     Invan tu cerchi nella tua memoria
     Di quella donna indizio. E se una traccia
     Lontan, lontano al tuo pensier balena,
     È un lieve sogno qual di cosa morta
     Da lunghissimo tempo, a cui tornando,
     L’anima tenta di rifarne intera
     La somiglianza – e più e più s’attrista.
     Or, l’hai trovata?…
     Quel crollar del capo,
     Quel doloroso tuo lungo sospiro
     Mi rispondon che sì.
     – Quanta pietade
     Sentirà dell’afflitta anima il mondo! —
     Oh nol pensar!
     Questo rettile abbietto
     Non ha voci per piangere. Egli manda
     Sull’infelice il suo grido di scherno,
     E lo dispera col livor dei morsi,
     E nell’ora del mal fischia di gioia.
     Così, quando scoppiò l’orrido nembo
     Sul fragil capo alla reietta, i labbri
     Verecondi di mille, a cui non note
     Son le vie del peccato, amaramente
     Fecero il ghigno; e da quei labbri il nome
     D’Edmenegarda si gittò nei crocchi,
     Senza vergogna; e fu divelto a brani
     Con maligna pietà dalle opulente
     Peccatrici, che menano a trionfo
     La tolleranza del codardo sposo.
     E se qualche pudica anima ai casi
     Sospirò miserata, ebbe il dileggio;
     E fin si diede a quel gentil compianto,
     Con demente rigor, la scellerata
     Nominanza di colpa!
     Ed or che il nappo
     Ella finì sino alla feccia, il mondo,
     Pietoso o stanco, l’obliò!…
     – Che importa,
     Se precipita un’alma e senza madre
     Gemon due figli e pesa il vitupero
     Dove rise la gioia? Ordine è questo
     Di natura e dei fati! —
     Or esce appena
     Qualche rea celia, a ricordar la nuova
     Ospite di Leoni.
     Egli da canto
     Caramente le siede:
     «– Alza la fronte,
     Ti consola, amor mio! Su quel feroce
     Si scagliarono tutti. E se anco l’ira
     Ti ferisse de’ tristi, io la divido
     Con te, dolce amor mio! Tu la mia vita,
     Tu la mia gioia; tu di me possiedi
     Il giocondo avvenir. Come esser puote
     Se non giocondo?… Che ci cal di questa
     Così ampia terra? Anco in angusto asilo
     Amor compone il paradiso!… Io tanto
     T’amerò e tanto, che potrai, (lo spero!)
     Dimenticare il doloroso sogno
     Del tuo passato!…»
     «Oh! mio Leoni…»
     «Arresta —
     Non turbarti, non piangere!… E se d’uopo
     N’hai veramente, non badarmi; e piega
     Qui la tua testa, poveretta, e piangi!…
     Merto ben io che mi trafigga il dardo
     De’ tuoi dolori!!» —
     Edmenegarda il capo
     Riscosse alquanto, e con più lunga stretta
     Serrò Leoni tra le braccia:
     – «Amico!…
     Vedi se i giorni del patir son giunti!…
     Io tel diceva!… Ma tu sempre meco
     Resterai, non è ver?… Tu questa mia
     Misera vita non vorrai coperta
     Di più dure vergogne. Io farò forza
     Per oblïar; per non ti dar mai segno
     Che ti contristi!… Ma se tu mi vedi
     Sospirar qualche volta… oh! non dolerti,
     Te ne prego a man giunte… Io già non penso
     Che a’ miei poveri figli!…»
     «Angelo amato!
     Perchè dirmi così?… Pria che una sola
     Lieve pena costarti, io mille volte
     Vorrei morir!… Ma tu… mi amerai sempre?»
     «– Sin che il cor batterà. Deh così presto
     Questa febbre mortal non mi consumi!»
     «– Sei ben crudele, Edmenegarda!»
     «Oh ridi,
     Leoni mio. Ma… così piena ho l’alma
     Di tanti sogni! Ed un di loro è bello;
     E mi par che s’avveri; e già lo sento
     Nell’esser teco!»
     «E lo sarai, diletta
     Compagna mia, nel dì dell’allegrezza,
     Lo sarai nel dolor!…»
     «Taci! Assopite
     Reminiscenze tu nel cor mi desti.
     Non sono ancor molto lontani i tempi,
     Ch’ei così mi parlava!…»
     «Or via, se m’ami,
     Tu dèi lo spirto allontanar da queste
     Sconsolate memorie. Odi la brezza
     Che via pei flutti vagolando spira?…
     Vieni a goderla.»
     «Il tuo voler m’è caro,
     Caro più d’ogni ben che un dì mi avesse
     Potuto dar la terra!» —
     E lungamente
     Favellaron coi baci, entro la bruna
     Lor navicella errando.
     In quella sera
     Fu giocondo spettacolo a vedersi
     Agili gondolette, una sull’altra
     Scivolanti alla corsa, e un muover chiuso,
     Come di campo, e un dar vario ne’ remi,
     E un urtar nelle prue con meditata
     Frode leggiadra, e poi tutte svagarsi,
     Come nere isolette, in seno all’acque,
     E seguitarle de’ nocchieri il canto.
     Ma in quella gaia compagnia, la loro
     Gondoletta non venne. E tu la miri
     Colaggiù, solitaria, in lontananza,
     Abbandonarsi alla balìa del vento,
     Come svïato pellegrin che pianga
     Per lo deserto.
     In quelle cento prore
     L’aperta gioia sfolgorò. Qui siede
     Il dolor e l’amor, fiori di tempra
     Passionata e gentil, che cercan sempre
     Gioie romite.
     E quando quella turba
     Di navicelle, dai percossi flutti,
     Una ad una, scomparvero, a misura
     Che il ciel più sempre si vestìa di stelle,
     Quel remoto battel venne alla riva.
     I languidi occhi Edmenegarda spinse
     Dietro la folla che dai curvi ponti
     Diradata calando, iva in dileguo.
     E sgombero di genti era già il lido…
     Se togli un uom, che si tenea per mano
     Due fanciulletti, con le fronti chine
     E vestiti a gramaglia.
     Ahi, che parola
     Di tremendi dolori, indossar lutto
     Di persona vivente!!
     Ella conobbe
     L’anime offese, e serpeggiar la morte
     Sentì nel cor; ma si contenne. E volti
     Gli occhi sul mare, al suo tacito amico:
     «Come è bello, dicea, questo lucente
     Solco, che sotto all’agitar dei remi,
     Qual per magica verga, esce dall’acque!»
     Così volaro i tempi. E le congiunte
     Anime solitarie, come due
     Rondini amanti che fuggir dal falco,
     Guardavano il lor nido, allontanate
     Dalla guerra del mondo.
     Edmenegarda,
     Dopo lagrime lunghe, e procellose
     Preci, e torbide gioie, e rivocati
     Proponimenti, e divorar con fiero
     Sforzo quell’onda di martìri, e pace
     Dimandar dalla morte, e sul futuro
     Spinger ratto la mente e poi ritrarla
     Impäurita, e desïar che tutte
     Precipitasser le create cose,
     E due spiriti soli issero erranti
     Sulle vaste ruine… alfin quetossi
     La desolata e stanca in quel fallace
     Sonno d’amore.
     O Amor! come trasmodi
     Nostra natura, e dentro v’intenèbri
     La scintilla di Dio.
     Velo d’inganni
     Tesse prima il rimorso; e il cor s’avvede,
     Ma, pago d’ingannarsi, il cor non bada;
     O se vi bada, di badarvi ha sdegno;
     E, poco a poco, il misero costume
     Rende l’inganno a verità simìle.
     Come fu? Come avvenne?… Indarno il chiedi.
     Stanco s’addorme il bambinel tra i fiori,
     E si risveglia col velen nell’ossa.
     E così fu di lei, buona già tanto!
     Credette pria; poi dubitò; poi disse:
     «Non è ver, non è ver! – Qual fede io ruppi?
     Su quale altare io lo giurai? Qual Dio
     Presiedette al mio giuro? Esser non puote
     Che un monarca sì grande oda ogni vano
     Bisbigliar de’ mortali. Un re sì giusto
     Esser non può che a servitù condanni
     Questo fuoco d’amor, che da lui parte
     Libero tanto ed è movenza e luce
     Del suo creato! L’avvenir?… Chi ‘l vede?
     Chi può giurar sull’avvenir?… Chi giura
     S’ei domani vivrà? Se questo sole
     Splenderà sulla terra? Ama la tigre
     Il suo compagno; ma se amor la volge
     Naturalmente ad altre gioie, è stolto
     Chi ne la incolpa. E l’uom misero ardisce
     Emendar la natura? Ama il selvaggio
     La donna sua; ma talamo è la rupe,
     Talamo il lido ai non vietati amplessi,
     Che fan forte l’amore. E senza lacci
     Sono i turbini e l’onde. E chi le doma
     Starà sempre in catene?… Oh è ben scaduta
     Questa di belve incivilita plebe!»
     Lette in infauste pagine, e dai labbri
     Del suo Leoni mille volte udite,
     Tai cose ed altre a sé dicea la donna.
     Non qual chi pensa in sicurezza il vero,
     Ma qual chi tenta, con la mente ardita,
     Suadere al cor che ogni paura è tolta.
     E non sapea che quell’incerto moto,
     Quel senso vago, quella nube arcana,
     Che le errava sull’alma, era il più grande
     De’ mortali spaventi, era l’occulto
     Sentimento di Dio.
     Fu di Leoni
     Così cortese, delicato, intenso,
     Previdente l’amor, che al caro volto
     Rifioriron le rose, e un novo raggio
     Vestì gli occhi diletti; e le rivenne
     Desiderio dei fior.
     Furono in breve
     Quelle stanze un profumo, una celeste
     Musica di colori, un inusato
     Tesor di pompe. E qua serici drappi
     E lucenti ottomane, e sulla terra
     Morbide pelli a render muto il passo;
     E sulle mura le dipinte imprese
     Di dame e cavalieri; e di Gulnara
     Sulle ginocchia del Corsaro il pianto,
     E il bel crociato che in un roseo nembo
     All’amoroso susurrar dei rivi
     Bacia i grandi e lascivi occhi d’Armida;
     E pendule dall’alto a mezzaluna
     Lampade vaghe a illuminar le mense,
     E argentei vasi, e d’alabastro e d’oro
     Splendide conche, e bei volumi e fiori
     Sparsi, confusi, ondoleggianti… e un molle
     Aere indistinto, una fragranza intorno,
     Un’armonia da rinnovar l’Eliso.
     Fra tanti vaghi e graziosi aspetti
     Ella felice si credea. Ma sempre
     Quella nube fuggevole, quel moto
     Misterioso, che la fea per forza,
     Tornar crucciata sui passati tempi.
     Indi l’acre piacer dell’adornarsi
     Le rïassalse il cor.
     Donna, per quanto
     Scaduta sia dalla sua bella altezza,
     Anco nell’onda di cocenti affetti,
     Serba sempre un amor per la sua veste.
     Fors’è quel senso di pudico orgoglio,
     Che le insegna onorar la più gentile
     Delle create cose.
     Il desir novo
     Indovinò Leoni; e benedette
     Fur le ricchezze dal felice amante.
     E ondosi drappi e gonne agili e bianche,
     Come piuma di cigno, e argentei veli
     E malinesi e batavi trapunti,
     E lane arabe e perse, e nastri e gemme,
     A ornar le trecce d’ebano e i nitenti
     Omeri e il collo e le nudate braccia,
     Tutto, qual per incanto, a sé davanti
     Vide la bella fata; e il cor di donna
     Con precipiti palpiti battea.
     Ma non molto durò; chè come piombo
     Le pesâr quelle vesti, e interrogarne
     Il perchè non ardiva.
     Una rancura
     Vigile sempre nel profondo petto
     La tormentava, la scotea dall’ebro
     Assopimento: le dicea:
     – Tu dormi,
     Ma teco io sono!
     Edmenegarda fece
     Per non udir quell’importuno grido.
     Ma, qual punta di dardo in piaga viva,
     Ei riveniva.
     Disperata pianse,
     Meditò, corrucciossi, e forza a forza
     Apertamente oppose.
     – «Hai ben ragione,
     Leoni mio. Noiosa è questa vita
     Di servitù, chiusi dall’onde. Io stessa,
     Che vivrei teco ne’ deserti, or sento
     Che dritto n’hai, se la disami. Eguali
     Qui gli strepiti, sempre egual la pace;
     Gondole eterne e gondolieri e ciance.
     Mai quell’ampio e vibrato aere, quel sole
     Che non si franga dalle pietre in fiamma;
     Mai quel vario veder, quell’agitato
     Scalpitio de’ cavalli e quel de’ campi
     Dolce tumulto; mai quelle segrete
     Melodie che fa l’ôra in tra le fronde;
     Né un fil d’erba, né un fior, né una dolce ombra,
     Che queti il cuore! E non poter da un cocchio
     Splender coll’uom che s’ama; o sulla sponda
     Seder d’un rivo e udir per la pianura
     Limpidi canti, e nella folta siepe
     Il rosignol che piange! In mezzo all’acque
     Morrebbe certo l’amator gentile!…
     Oh la terra! la terra!… Ai primi padri
     Già non fur le pesanti onde marine
     Prima stanza d’amore!»
     «E non tel dissi,
     Edmenegarda mia, che ti verrebbe
     Questo vivere a noia? Esserti caro
     Quel che a me spiace?… Hai detto ben. La terra,
     La terra è stanza dell’amor; non questa
     Prigion dell’onde. Cresce, nel sonante
     Tumultuar, la vita. A questo pigro
     Nido di pesci abbandoniam le stolte
     Anime di costor. La non curanza
     Con lo spregio si paghi. Edmenegarda!…
     Alla terra, alla terra!
     «O mio Leoni,
     Mi batte il cor di questa ebbrezza!… » —
     Han d’uopo
     Quei due miseri ormai del tempestoso
     Romoreggiar del mondo!
     E un agil cocchio,
     Tratto in balìa di palafreni ardenti,
     Per le città, tra il sonito e la polve,
     Già li rapisce; e invidiata splende
     La bellissima donna. E or le vetuste
     Vie d’Antenore varca; e tu la miri
     Seder superba e sfolgorante in quelle
     Marmoree maraviglie, onde ai futuri
     Inclito andrà del mio Japelli il nome.
     Or su i berici colli, in mezzo a tanta
     Allegrezza di verde, alle rugiade
     Mescon dell’alba i solitari amplessi;
     Or volano al beato Adige in riva,
     E tra i penduli salci, ove s’estinse
     L’armonia di Catullo, un molle accordo
     Par che ai lor baci tuttavia risponda.
     Poi de’ piani lombardi e delle valli
     Cercarono il sereno aere, e la ricca
     Popolosa città.
     Ma il gelsomino
     Sotto i vampi del sol, senza una fresca
     Ala di vento che lo irrori, a terra
     Debbe un giorno languir!
     Sai tu le gioie
     Amare e forti della bella figlia
     Del Caramano, nei dipinti arémi?…
     Oggi il fervido sir preme sul petto;
     Pensieroso diman vede il monarca,
     E sente il peso delle sue catene.
     Un dì, regno sull’alma. Indi è procella
     Di tetro amor – di voluttà – di sdegno —
     Di fastidio – d’oblio – di rinascenti
     Gioie – con vano ritornar sui tempi
     Che più non sono.
     Di Leoni è fatto
     Nebbioso il cor. Qualche benigno accento,
     Qualche cura gentil, qualche soave
     Sorriso vi splendea, come una queta
     Ma fuggitiva luce. Il resto è lampo,
     Che vien coll’oragano a illuminarne
     Gli schianti e la ruina.
     O Edmenegarda,
     Che cor fu il tuo – quell’amator sì umano
     E caldo e mansueto or lo veggendo
     Così diverso!
     Gli favella?… È un dono
     Inaspettato, s’ei la man le stringe,
     O sorridendo le ricambia il detto. —
     Gli si pone d’appresso? Ei sfoglia un libro
     Sbadatamente e legge. Osa mostrargli
     Qualche rancor? S’infuria; e le fa pieni
     Gli occhi di pianto. Allor, come accorato,
     La vien baciando; e un vivo sol repente
     Le si spande nel volto, e muta in perle
     Quelle rugiade del dolor.
     Ma il crudo
     Velen della memoria ogni conforto
     D’amarezza le tinge; e più non sente
     Edmenegarda, come pria, quei caldi
     Impeti passionati, e l’indiviso
     Nuvol dell’alma le si fa più tetro.
     Aridi i fior, l’aria pesante, ingrato,
     Dispettoso il tumulto, aspra la vista
     Delle cose e dell’uom, torbidi i giorni,
     Trangosciate le notti… e il suo compagno
     Non curarsi e tacer! Questa è la spina
     Più sanguinosa.
     Il forvïato tralcio
     Trova un olmo, e s’appoggia. Ahi! se quell’olmo
     Stanco sarà di sostenerlo!…
     «Oh Arrigo!…
     Oh miei poveri figli! Oh mia perduta
     Casa! Oh speranze della vita infrante!»
     E profondo gemea. Ma nella voce
     Del suo Leoni un refrigerio ancora
     Sapea trovar.
     Necessità od affetto,
     Gli era avvinta e bastava. Anzi, in quell’alma,
     Necessità ed affetto, onta e rimorso,
     Pentimento e peccato era una cosa.
     «Ahi, son fiere amarezze! Ecco il fedele
     Prometter suo! sola mi lascia. E quando
     Alta è la notte, io pallido mel veggio
     Comparir, non so donde. E fa risposta
     Alle parole mie con disdegnosi
     Gesti, o muti sospiri, o vïolento
     Suon di dolcezza… e d’ingannarmi ei crede.
     Mio Dio! quanto mutato! Oh s’io sapessi
     Quel ch’ei cela nel cor! Gli tedian forse
     Queste rive del Garda?… O ch’io gli costo
     Qualche grave pensier?…»
     Sì fatte cose
     Tra sé volgendo, abbandonò le stanze,
     Nel giardin si recò.
     Pallidamente
     In grembo alle argentate acque del lago
     Lucea la luna. Era diffuso il cielo.
     Placida l’ôra si movea tra i rami;
     E d’un novo color, sotto le stelle,
     Si vestivano i fiori. Entro un cespuglio
     La gentil capinera innamorata
     Modulava le sue dolci canzoni.
     Or sì or no, tra il folto delle piante,
     Qualche lucciola intorno iva raggiando.
     E vivo e terso, come argentea zona,
     Mettendo un soffio di sottil frescura,
     Luccicava tra l’erbe un fiumicello.
     E, a compir quella pace, il caro e mesto
     Suon della sera si spandea dagli alti
     Campanili del Sirmio; e in una sola
     Armonia fervorosa, a mille a mille,
     Salir limpide voci; e cielo e terra
     Pareano intesi a quel sublime accento:
     «Santa Madre di Dio, prega per noi!»
     Sola, non vista, in un segreto calle
     Di quel giardino, la colpevol donna,
     Compreso il cor d’un subito ribrezzo,
     Incurvò le ginocchia, e, giunte in croce
     Le ceree mani, sovra cui profuse
     Giù cadevan le lagrime del volto,
     Lungamente pregò.
     Furon parole
     Rotte, confuse, inebrïate, amare;
     Furon moti e singulti.
     Alfin la prece
     Le uscì lucida e calda. Era pei figli
     E insegnata dal core:
     «O santa Madre
     Dei dolorosi, non a me guardate,
     Non a me, così rea! Ma i tribolati,
     Ma gli innocenti, gli orfani son vostri!
     Per le piaghe di Lui, che vi amò tanto,
     Proteggeteli sempre. E se una volta
     Sapran di me, che li lasciai nel mondo
     Sì crudelmente, oh! fateli benigni
     A questa loro travïata e trista,
     Che aspetta pace dalla morte.»
     E china
     Ad un salcio la fronte e sotto i raggi
     Mesti del ciel, pareva un decaduto
     Spirito che pensasse al paradiso,
     Quando più pesa la crudel memoria
     Del commesso peccato.
     Un’orma suona —
     Si disperde – s’approssima – s’aggira
     Pei torti calli – si raccosta – È lui.
     – «Ma che fate voi là, stesa sull’erbe
     Umide della notte?… Or via; sorgete.
     Quel non è loco da pregar. Dimani
     Torneremo a Venezia. Avrete cento
     E mille chiese eternamente aperte,
     Per stancar questo Dio.»
     «Taci, Leoni…
     Ma che ti feci io mai?… Forse gioisci
     Di vedermi tremar?… Dillo una volta;
     Che ti turba così?…»
     «Nulla.» —
     Da un cespo
     Ella colse due gigli; ed un lo pose
     Con umil vezzo al suo Leoni in petto.
     Ma quei senza badar, foglia per foglia,
     Lo stracciò con le labbra; e il nudo stelo
     Lasciò cadersi, sospirando. Anch’essa,
     A quella vista, il suo bel fior distrusse,
     Con riboccante d’amarezza il seno,
     E nessun più parlò.
     Che lungo sogno
     Quella notte la assalse!
     In pria, da lunge,
     Come in vaghi ricordi, una dimora
     Nota le apparve, e due giovani amanti
     E due vispi fanciulli avvicendarsi
     Baci e carezze di celeste affetto.
     Indi una barca, uno smaniglio infranto.
     E colpevoli fremiti e fulminee
     Voci dai labbri d’un fantasma uscite.
     Poi mutò quella scena. E patimenti
     Lunghi intravide, e care cortesie,
     E ritorni alla vita, e ricambiati
     Baci d’amor; ma tra quei baci un ghigno
     Che le scagliava senza posa il mondo.
     E ancor novi fantasmi. E il fragoroso
     Suonar d’un cocchio; e nell’obliqua fuga
     Città, ville, castella e colli e monti
     E pianure e torrenti. Alto un tripudio
     Di cacce e prandi; libera una pompa
     Alle danze, alle corse; e in quella vita,
     Che parea venturosa, il verme arcano
     A corroderla sempre. Uno spavento
     Fea trabalzar sulle agitate piume
     La sognatrice; ma durava il sogno,
     Che del futuro le squarciò il velame.
     E sotto al raggio d’un fanal notturno,
     Cinto di bari, in una cava oscura,
     Scoperse un uomo (e le parea Leoni)
     Gittar convulso l’ultima moneta
     Sopra una carta; e stringere le pugna,
     Bianco dall’ira; e bestemmiar la sorte
     E giurar contro Dio.
     Mise ella un grido,
     Ma non seppe destarsi. E quella stanza
     Maledetta fuggìa. Ma un’ampia landa
     Le si pose davanti; e misurarla
     Vedea quell’uomo a giganteschi passi,
     E lunge lunge, oltre i morenti lembi,
     Onde si distendeano, onde ed altre onde,
     Senza riposo. E una raminga prora,
     Come penna di corvo entro alle nebbie,
     In quelle vaporose indefinite
     Lontananze del mar si disperdea.
     Trambasciata, sudante, ella si scosse.
     Aperse gli occhi, le rivenne il senso;
     Sul cor tremante delle viste cose
     Ne passaron mill’altre; un gel la strinse;
     E disperatamente, tra le coltri
     Chiusa la testa, più pensier non ebbe.
     Taciti e soli, sul venir dell’alba,
     Mosser dai campi alle natie lagune.
     Rifecer quelle vie senza parola;
     Risolcaron quell’acque.
     Egual rimasta
     Era la terra. Eguale il mar. Partiti
     Eran col riso dell’april; col riso
     Dell’april ritornavano. Ma il core?
     Ah! sui campi del core a disertarli
     Era passato il vento della morte.
     Quel riveder, risalutar gli alberghi
     Consci di tante voluttà segrete,
     Ben fu com’aura, che vagasse intorno,
     Cercando i fiori dell’eliso antico.
     Ma non trovò che nude alighe e pruni,
     E dileguò, gemendo.
     Alfin dei tempi
     Destinati da Dio l’ora è suonata.
     Leoni ha risoluto. Aspre le pugne,
     Fieri i tumulti, amaramente mista
     La vergogna al dolor, morto il passato,
     L’avvenir senza speme, e messi in fondo
     Il nome e la fortuna, ha risoluto.
     Strascinerà vituperato i giorni,
     Sotto altro ciel.
     Più volte quel codardo
     Meditò di morir. Ma amor lo vinse
     Della misera creta ond’era cinto,
     Non terror del misfatto; e ruppe il ferro.
     Non fugge infamia. Dell’infamia il nome
     Sol può mutar.
     «La stolta ira del mondo
     Mi percota. Che importa?… Non è campo
     Tra noi per misurarci. Ahi! la perduta
     Giovinezza del cor! Questa è la spada
     Che ferisce profondo. E i lieti giorni
     Non potran più rinascere… Ed io solo
     Fui, che li uccisi!… Ed altre vite, ed altri
     Estinti amori: e lacerato il nodo
     D’anime mansuete… e la materna
     Felicità d’un angelo!… Ah, la morte,
     Ch’io non so darmi, saria pur pietosa,
     Se mi venisse a liberar da queste
     Dure battaglie! Ancor quest’oggi il pane…
     Ancor quest’oggi. E poi?… No, no. Sull’onde
     Getterò la mia vita. Io più non voglio
     Ascoltar quella voce. È orrenda cosa
     Ascoltar la sua voce! Oh le tempeste
     Inghiottir mi potessero!… L’Eterno
     Benedirei. Leoni! anco un istante,
     E poi… lunge per sempre.»
     Era soletta
     Su un veron del palagio Edmenegarda
     Co’ suoi mille pensier; torbidi, incerti,
     Rapidi, intensi, paventosi, amari;
     E, tra quelli, un occulto, un ostinato
     Presentimento… ma di tal sventura,
     Che nome non avea nella sua mente,
     E già stavale in cor.
     «Dio degli afflitti!
     Non sia ver, non sia ver!»
     Morta la luce
     Era d’intorno. Ribattevan l’ore
     Dalle squille notturne. Ella un acuto
     Strido mandò – ché un rumor lieve intese;
     E lieve un bacio le sfiorò le chiome.
     Vede un’ombra; poi nulla. Intorno getta
     Gli occhi smarriti; nulla. A fievol voce
     Chiama Leoni; ma nessun risponde.
     Era sogno?… Nol sa. Vero?… Ella sente
     Sul capo ancora il gel di quelle labbra
     Che la baciaro. In sé tutta si stringe
     Impäurita; un orrido deserto
     Par che la cinga… e il cor le si discioglie,
     A groppo a groppo, in un dirotto pianto.
     Quante cose in quel punto ella si disse!
     Quante più ne pensò! Non è linguaggio,
     Non è forma o color che le dipinga.
     S’incrociano; si sciolgono; van ratte;
     Rivengono più ratte entro la mente
     Disperata e confusa; e, in geli e vampe
     Tramutandosi, assalgono gli abissi
     Miserandi dell’alma, ove al fin regna
     In solitaria e paurosa notte
     L’insensato dolor. Fûr pochi istanti;
     Ma tremendi, ineffabili, nascosi
     A umana idea. Traverso a quello spirto
     Errava ancora un negro insuperabile
     Turbine di memorie, e di pensieri.
     Poi languiron le forze della vita;
     E sui guanciali in un sopor profondo
     Piombò.
     Da quel sopor chi ne la desta?
     Chi la riscote? – Non è lui. – Lo guarda…
     Ma non è lui. Si risovvien di tutto.
     Quegli un amico è di Leoni, e sorge;
     «E’ dov’è, grida: ditelo! Non monta:
     Lo sapea da gran tempo. Or via: parole,
     Non sospiri; parole vi dimando!
     Non mi fate morir!…»
     «Egli vi lascia
     Per mia bocca un addio. Di perdonargli
     I patiti dolori ei vi scongiura;
     E così solo e povero… veleggia
     Verso la Francia!»
     La misera donna
     Soffocò un urlo; e rassegnata al cielo
     Alzò le mani, e non avea parole
     Altre che queste:
     «Il meritai! Doveva
     Esser così. Sotto il giudicio vostro
     Io m’inchino, o Signor. Contro vi venni,
     Mal nata polve, e voi saliste in ira
     E m’avete percossa…
     Il meritai!»



   CANTO QUINTO


     Deh, venitemi intorno, estri gentili
     Della terra del Sol, dalle gioconde
     Belle odalische, voluttà promessa
     Del paradiso; e freman le ricurve
     Arpe, miste al romor delle fontane
     Correnti in letto di corallo e perle;
     E della mesta Rosellana al canto
     Dall’ardue torri lo stambùl risponda,
     Mentre scherzano i silfi entro al fogliame
     Delle mistiche palme, e i flessüosi
     Giovinetti rosai dell’Ellesponto
     Levano un nembo di celesti odori!
     Deh, venitemi intorno, innamorate
     Fantasie di quei cieli, a consolarmi
     La mente e il carme, per sì lungo pondo
     Di dolor contristati!
     Io così prego,
     Ma renitenti alle invocate gioie
     Non rispondon le corde, e dalla triste
     Anima il vivo imaginar dilegua.
     Alla fuggente prora apresi il mare.
     Così fuggisser le memorie infami
     Che lasciasti o Leoni, avvinte al lido!
     Altri, cui tocca la pietà profonda
     Della misera donna, a te daranno
     Di tristissimo il nome; altri, cui l’uso
     D’abbandonar necessità crudele
     Fe’ parer l’abbandono, un motto appena
     Sibileran dai labbri, e sarà incerto
     Se sia pietate o scherno, o indifferente
     Rumor di voce che col vento passa:
     Pochi dal cor sospireran tacendo,
     Pochi tremanti della propria polve,
     Che il giudicio dell’uom lasciano a Dio.
     Quando si seppe di quel novo caso,
     Misto a vili racconti, onde sul capo
     D’Edmenegarda ripiombâr gli oltraggi,
     In ferite s’aperse, e grondò sangue
     L’anima altera, affettüosa e degna
     Di quel misero Arrigo.
     Egli tradito,
     Privo per lei delle più sante gioie
     Che dispensa la vita, accompagnato
     Da perenni vergogne, egli l’amava…
     Ancor l’amava! Era la sua fanciulla,
     Vista sì bella sulle consce rive
     Del Tagliamento; era la dolce amica
     Del segreto suo talamo; la madre
     Di quei due fanciulletti, ultimo bene
     Ch’egli avesse nel mondo; or così sola,
     Così deserta, e misera, e percossa
     Dalla terra e da Dio!…
     Battea d’acerba
     Gioia e d’orrido affanno il cor d’Arrigo
     Confusamente, e prorompea;
     «Son giunti
     Questi giorni una volta! Edmenegarda,
     Li volesti; e son giunti; e non è dritto
     Che nessun te li tolga. Il lutto e l’onta
     Nella mia casa hai seminato; or cogli,
     Cogli, ché è tuo, di quella dura pianta
     Il durissimo frutto. Oh pienamente
     Vendicato son io; ma troppo, ahi! costa
     Quest’amara vendetta. E chi sa come,
     Come, adesso, ai fuggiti anni ella pensa!
     Quante lacrime sparge; ed una mano
     Non aver che le terga, ed una voce
     Non udir che la chiami e la consoli!
     Povera infortunata!… Io, che dovrei
     Maledirti, oblïarti, io sento il peso
     De’ tuoi dolori, io solo! Oh questo pianto,
     Che frenai da gran tempo, uopo è che scorra.
     Così bastasse!»
     E in furïosi e torvi
     Pensamenti quel suo spirito errava
     Dietro al vil fuggitivo; ed arrivarlo
     Avria voluto, e dirgli: Hai lacerato
     La vita mia; quel vago fior m’hai tolto,
     L’hai lasciato languir – perfido! – rendi
     Conto col sangue.
     E l’aspre alle dolenti
     Cose mescendo, rasciugava gli occhi,
     Che tornavan per forza a inumidirsi,
     E divorava i fremiti, e in disparte
     Torceva il capo. E que’ suoi due angioletti,
     Quasi con senso di pietà celeste,
     Senza parole, gli piangean da lato.
     Ma una più tetra e desolata stanza,
     E ben diversa dal palagio antico,
     D’ombre s’avvolge, e da quell’ombre un cupo
     Gemito insorge, e in una febbre ardente
     Trangoscia un core che morir non puote.
     E tra due mani discarnate e stanche
     Langue il lavoro, sovra cui s’incurva
     La debil vita a guadagnarsi il pane.
     O Edmenegarda in così verde etade,
     Ormai per te sì miserabil fatta,
     Che la stessa Pietà non ha più accento
     Per consolarti! Orribili pensieri
     Ti si volgono in mente, e a quando a quando
     Incapace ti senti a soggiogarli:
     Sì turbinosi assalgono.
     Infelice!
     Da quell’orlo sacrilego rimovi
     Gli ammalïati sguardi. All’acre punta
     Di quel pugnal non accostarti. Il nappo,
     Che cercavi di mescere, percoti
     Alla parete; ché dei tanti falli
     Sepolcro infame una viltà non sia.
     Ed ella veramente era tentata
     Di finir quegli spasimi. Ma il forte
     Pensier de’ figli, e una continua speme
     Che il digiuno e la febbre avria consunto
     Quelle estreme reliquie, e il provvidente
     Terror di Dio nel comparirgli innanzi
     Così com’era; e non chiamata; – un freno
     Posero a quella bramosia di morte.
     Ma per quanto ella di pregar tentasse,
     Più pregar non sapeva. Era la sua
     Vita un torbido mar corso dai nembi
     Senza un filo di luce.
     A lui pensava,
     Che credea d’obblïar; pensava a un altro
     Che obblïar non poteva; e con veloce
     Ricordanza crudele e detti e sguardi
     Ricomponendo, e patimenti e gioie,
     Stupida e lassa al suo lavor tornava.
     Degli aurei fregi e delle ricche vesti
     Non possedea più nulla: in sacrificio
     Lieto le offerse, a liberar le fedi
     Da Leoni tradite. E dopo tanto
     E sì intenso patir, – venne quel giorno
     Aspettato e terribile, che all’opra
     Cadder le membra, e il cibo che non manca
     Al più mendico – le mancò. Soccorsi
     Limosinar dal mondo? Oh! pria di farlo
     Era meglio morir. Morir non era
     La gioia sua?…
     Ma la mordente fame
     Vinse i fieri proposti; e ripensando
     Che del molto fallir pena e riscatto
     Esser potea la vita, ella ne volle
     Trangugiar l’amarezza insino al fondo;
     E, offenditrice, il pan del pentimento
     Dimandar dall’offeso.
     «Alle sue soglie
     Ben mi sta ch’io ritorni: ei così smunta
     Mi vedrà!… così debole!… alla terra
     Curvata e supplicante! – Io fui la dolce
     Compagna sua! Gli parlerò d’un tempo,
     Ai nostri cuori memorabil troppo.
     Non dirò nulla; piangerò. Che importa,
     Se quel mio Arrigo io non potrò guardarlo?…
     Parole acerbe ei mi dirà! – ma al prezzo
     Di risparmiar nuovi peccati – il pane
     Non vorrà rifiutarmi. Io non gli chiedo
     Altro che il pane!»
     Alla più dura croce
     Oggi la miseranda anima è posta.
     Ben merita, o Signor, quando ella giunga
     Nel tuo cospetto, che coi tanti giorni
     Di spavento e di colpa, anche quest’ora
     Ella trovi notata.
     In ampio velo
     Chiuse la fronte, e con gli sguardi a terra
     Sforzatamente a quella volta mosse.
     Dopo quattr’anni ripassò per vie
     Non obbliate! da lontan scoperse
     Quella dimora! – entrò per quella soglia!
     Quelle mura conobbe! Ad ogni sguardo
     Una fiera memoria; ad ogni passo
     Un sorvenire, un assalir d’affetti;
     Un acceso disordine; un tumulto
     Vertiginoso. Entrata era felice;
     N’uscìa reietta; vi tornava quasi
     Moribonda di fame. Il cor materno
     Si dilatava, si stringea, spirando
     L’aura spirata da’ suoi dolci figli;
     E così a stento, finalmente venne
     Alle stanze d’Arrigo.
     In fondo egli era,
     Solo e pensoso. Alzò gli sguardi e vide…
     E credea d’ingannarsi; e in piè balzando,
     Un tremito contenne, immobil stette.
     E la guardò.
     La misera prostrata
     Gli era davanti ad aspettar.
     – «Chi siete?…
     Che cercate da me?»
     Levò tremando
     Edmenegarda la consunta faccia,
     E – «Guardatemi! disse. Un dolce nome
     Io portava una volta; a voi dinanzi
     Più recar nol poss’io… Ma ho fame, Arrigo!…
     Sì, guardatemi!… ho fame!»
     «Ah! che i sepolti
     Non han più desiderii; ed è gran tempo
     Ch’ella è sotterra, e disertati e soli
     Qui restiam noi. Vedete quelle stanze?
     Là mi venne rapito, ahi! così presto
     Quel mio tenero fiore. E questi cari
     Li vedete? – appressatevi, infelici
     Orfani miei!» —
     La disperata madre
     Stese le braccia; ma li strinse Arrigo
     Forte sul petto, come per salvarli
     Da quell’amplesso.
     – «Sono miei! Non sono
     D’altri che miei! Partitevi: alle vostre
     Gioie fate ritorno… e non turbate
     Questa dimora ove obblïar si tenta.» —
     Così dicendo, e accortosi che i figli
     Eran vicini a rannodar le sparse
     Reminiscenze dell’amato aspetto,
     Li strappò seco; e si perdea nel vuoto
     Aere il romor dei concitati passi.
     Quella larva s’alzò; segno non fece,
     Non proferse parola; uscì più ratta,
     Qual s’ella avesse il suo vigore antico.
     Gelido un riso le movea dai labbri;
     Sotto l’urto precipite del sangue
     Non vedea più le cose; – e camminava
     Camminava convulsa e strascinata
     Da un’orribile idea.
     Vide una striscia
     D’acque terse e lucenti. Era il canale;
     La meta sua. Con un’ebbrezza intensa
     Girò lo sguardo; misurò quell’acque;
     Doppiò le forze; si cacciò sull’orlo;
     V’inarcò la persona… e già il mortale
     Tratto mancava. – Quando, ai disperati
     Occhi una luce balenò; dischiusa
     Vede una bianca soglia; ode un soave
     Salmodïar di voci; un infinito
     Scoramento la vince; una speranza
     Vien come lampo; quel disegno orrendo
     Torna, cede, rincalza, è dileguato! —
     Inneggiate, o celesti! Ella è nel tempio
     Col suo dolce Pastor l’agna perduta;
     Rifiutata dal mondo, ella è raccolta
     Nelle braccia di Dio.
     Godi, infelice,
     Questo bene supremo. Ogni vivente
     Ch’oggi stolto scendesse a contristarti,
     Senza misura irriterìa l’Eterno. —
     E là, dinanzi al più remoto altare,
     Non turbata pregò; pregò pei figli,
     Per Arrigo, per sé, per quel ramingo
     Ch’era lunge, per tutti; e non potendo
     Quel ramingo scordar, chiedea dal cielo
     Che gli dèsse fortuna; indi pentita,
     Il periglio sentia di quella prece;
     E pensando ad Arrigo, in sé chiudendo
     Qualche rancor pel rifiutato pane,
     Non finiva di piangere – e col pianto
     Dimandava che Dio le perdonasse.
     Indi, tornata alle deserte case,
     Trovò dell’oro. Il generoso ignoto,
     Arrossendo, conobbe.
     «Or dunque estinta
     Son io per lui, senza riparo?… Estinta
     Sarò per tutti.»
     Ma venìa frequente
     Quell’amor tenebroso a conturbarla,
     E pensava al lontano – e aver novelle
     Pregava sempre – e sempre era delusa.
     Più sperar non volea; dopo un istante
     Ritornava a sperar.
     – Misera! acqueta
     La tormentata anima tua; da lui,
     Se ti è concesso, ogni pensier distogli.
     Amor che nasce e si matura in colpa,
     Che col rimorso e col terror s’annoda,
     Senza voto né legge, infausto fiore
     Lungamente non dura. Aprir le foglie
     Alla vampa del sol, chiuderle ai baci
     Rugiadosi dell’alba, abbandonarle
     Non vigilate ai venti – ed una sera
     Inchinarsi e morire, ecco la sorte
     Di quell’infausto fiore.
     Egli – il cui nome
     T’è rimprovero al cor – d’ogni allegrezza
     Essiccate ha le fonti, e intensi amori
     Più custodir non puote. Egli oggi obblia
     Quel che ieri adorava, ed oggi adora
     Quel che domani obblïerà.
     Malvagia
     E steril landa è di costor la vita.
     Solitari la passano; e l’estrema
     Necessità di morte li sorprende
     Nudi d’affetto; e non han figli, o sposa,
     Non un caro superstite, che doni
     Lagrimando alle fredde ossa una croce!
     Edmenegarda umilïar la fronte
     Tra le genti non seppe. E se talvolta
     Qualche compagna dei giocondi tempi
     Spïò da lunge, in altra parte mosse
     Delicata e superba.
     Uscian le turbe
     Agli allegri tumulti? – Ella nell’orto
     Restava, ore con ore, contemplando
     Una vïola del pensier, diletto
     Fiorellin ad Arrigo. O di feroci
     Note di sdegno o d’armonie d’amore
     Sonavano i teatri? – Ella con mesta
     Voce sommessa modulava un canto,
     Che ad altri tempi in calda estasi Arrigo,
     Arrigo suo rapì. Poi quando i raggi
     Languian nell’occidente, e qualche stella
     Scintillava nel ciel, sulla solinga
     Finestretta venia guardando al mare;
     Perchè ogni sera alla medesim’ora
     Una barca radea l’eremo lido,
     Non a’ suoi dolorosi occhi straniera.
     Ella da lunge la vedea sull’acque
     Avvicinarsi; le tremava il core;
     Le rivolgea qualche romito accento;
     La seguìa sospirando; insin che il breve
     Suo fanaletto si perdea tra l’ombre.
     Un dì, scendendo a visitar nell’orto
     Quella vïola del pensier… curvata
     Sul tenue gambo e pallida la vide
     Presso a esalare i moribondi incensi
     Nell’etere materno. Anche quel caro
     Memore fior languiva! Al vedovato
     Vasellino lo tolse, in cor pensando
     Di lasciarlo cader sull’aspettata
     Navicella fuggente.
     «Oh tu, pietoso
     Messaggio almen, sulla corolla estinta
     Recherai loro questi caldi baci!»
     Aspettando ella sta. Che roseo sogno
     Le si dipinge nel pensier! – Non sempre
     Volgon dure le sorti, e il duolo in parte
     Fu riscatto alle colpe, e la memoria
     Di quel lontan si discolora e passa.
     Chi sa che un giorno la pietà non parli
     All’anima d’Arrigo, ed ei non voglia
     Dimenticar, – e le rïapra il seno,
     E monda dalle lacrime la chiami
     Novellamente sua! Dio che perdona
     Più che l’uom non fallisca, eternamente
     Lascerà l’odio nella sua fattura?
     Aspettando ella sta. L’acume intende
     Delle pupille ad esplorar le vaghe
     Lontananze; non ode urto di remo.
     L’ora è trascorsa; ancor silenzio. Addoppia
     Gli occhi e l’udito; e il navicel non giunge.
     Ahi! la viola del pensier, funesto
     Vaticinio è di mali.
     Una pedata
     Ode; si volge; un sigillato foglio
     Le si reca; lo guarda, impallidisce;
     La man d’Arrigo lo vergò; tremante
     L’apre e vi legge… (Misera! dagli occhi
     Quante lacrime ancor ti gronderanno!)
     «Edmenegarda! I tuoi miseri falli
     Rimetta Iddio! Ma non sperar parole
     Di perdono da me. Tu mi rapisti
     Tutte le gioie; maledir m’hai fatto
     Questa tua bella Italia, ov’io sperava
     Viver lieto e morir; privi di madre
     Tu rendesti i miei figli. Alla natale
     Inghilterra io mi reco a seppellirvi
     Il dolor, se m’è dato; e pensa come
     Lieta avrò l’alma nell’udir taluno
     Che di te mi dimandi. Ahi! sarà duro
     Il dover dirgli: La mia donna è morta. —
     E quando il guardo io volgerò dagli erti
     Miei colli al sito ove si spande questa
     Terribil terra, imagina se gli occhi
     Avrò giocondi! Oh sì, fibra per fibra
     Tu m’hai lacero il core, e più non posso
     Parlar di pace. Ma per tutti un’ora,
     Edmenegarda, arriva; ed io la sento
     Più di tutti vicina. All’appressarsi
     Di quell’ora di Dio fuggon dall’alma
     I corrucci e le offese, e bisognosi
     Di perdono siam tutti. O Edmenegda,
     Spera in quell’ora. Io non dimando al cielo
     Che d’obblïar, di crescermi vicini
     Sempre i miei figli, e sostenere in pace
     Le agonie della morte… e perdonarti!».
     Di man le cadde il foglio; alla parete
     S’appoggiò; le grondò larga una stilla
     Giù pel pallor del volto, e senza speme
     Tra le genti si vide; e allor l’acerba
     Coppa sentì d’aver vuotato intera.
     Sì! la vuotasti. Ma il divino Amico
     Ti vestì di coraggio, e del tuo lungo
     Patir l’offerta, festeggiando, accetta.
     Sola e pensosa il cammin novo imprendi,
     Come chi parta da dilette cose
     Per un lungo viaggio.
     Incontrerai
     Sterpi e tenebre e gel; ma non ti colga
     Scoramento né tema!
     In lontananza
     S’apre una dolce, una serena plaga,
     Dove la pace i combattuti accoglie
     Come una madre, e della vita il sogno
     Lene si solve in una santa luce.




   L’UOMO


     Terra, dall’ime viscere
     Manda di gioia un grido;
     Svegliati, e leva un fremito.
     Mar dall’immenso lido;
     Angelica coorte,
     Inneggia e ti prosterna;
     Sulle celesti porte
     Brilla ineffabil dì;
     L’uom dalla mano eterna
     Colmo di vita uscì.
     Più arcano delle tenebre,
     Più delle belve truce
     Più libero del turbine
     Più bello della luce,
     Nel portentoso istante
     Al Crëator converso;
     Di gloria sfolgorante
     Egli già move il piè…
     O suddito Universo,
     T’apri davanti al re.
     Figlio di Dio, recandosi
     L’alta promessa ei viene:
     «Di nati avrà miriadi,
     Come astri e come arene!
     A un cenno di quel fonte
     Sarà l’oceano aperto;
     Quasi lapillo, il monte
     A’ piedi suoi cadrà;
     La tigre del deserto
     Sul dorso il porterà!»
     E già gagliardo e nomade
     Corre la giovin terra;
     Ode i ruggiti, e indomito
     Sfida le belve in guerra;
     Per mezzo alle foreste
     Fiero la tenda inalza;
     Cinge l’orribil veste
     Dei pardo e del lïon;
     Sui geli della balza
     Suona la sua canzon.
     Ma da quei geli un’intima
     Voce soave il chiama:
     Scende fratello incognito,
     Trova i fratelli… ed ama!
     Oh santo il primo amplesso,
     Che rannodò i mortali!
     Non gemito d’oppresso,
     Non ira d’oppressor:
     Ma liberi ed eguali.
     Con un sei patto in cor!
     Ecco una fiamma eterea
     In mille spirti è giunta;
     L’occhio di mille in candida
     Pietra angolar s’appunta.
     Curvo sostien le braccia
     L’uom verso l’alto immote;
     Gli scende sulla faccia
     Misterïoso un vel…
     È nato il sacerdote,
     Stretta è la terra al ciel!
     Muto si prostra il popolo
     A lui, che vaticina;
     Ode i proferti oracoli
     Dalla fatal cortina;
     E adora un dio; de’ campi
     Nella virtù feconda,
     Dei päurosi lampi
     Nell’infiammato vol,
     Nel fremito dell’onda,
     Nella beltà del Sol!
     Allor le destre in memori
     Patti la Fè compose,
     I genii del connubio
     Si cinsero di rose,
     L’uom tra le monde mani
     Tolse l’occulto lare,
     Negli aditi più arcani
     Tremando il collocò,
     E a quell’ignoto altare
     Questa parola alzò:
     «È mia la casa: i pargoli
     Sangue del sangue mio!
     Noi coronò di talami
     Casti e felici Iddio!
     Qui fu la nostra cuna,
     Qui sorge il nostro avello,
     Ciascun di noi per Una
     Sentir qui debba amor…
     Oh! non m’è più fratello
     Chi non m’intende ancor!
     «Pera chi tenta volgerti
     In giorni bassi e rei,
     O patria del mio cantico,
     Terra de’ figli miei;
     Sin le verginee voci
     Daran tremendi suoni,
     E contro alle feroci
     Idre converse in te
     Vigileran leoni
     Delle tua mura al piè».
     Oh come bello e splendido
     Fu l’uom serrato in arme!
     Si sollevò dall’orrida
     Siepe de’ brandi un carme.
     Si scossero i gagliardi,
     Come rumor di venti,
     La pugna dei codardi
     Un breve lampo fu…
     Sostarono i fuggenti,
     E già non eran più
     Inni al trionfo! Ei reduce
     Pien di beltà guerriera
     Sul petto con un fremito
     Stringe l’ostil bandiera;
     L’elmo, l’acciar la maglia
     Fiammeggiano di gloria,
     Il Dio della battaglia
     A lui d’accanto sta…
     – Incurvati, o vittoria,
     Tolto lo scettro ei t’ha!
     Santa è la pace! – Ai teneri
     Nati il vestir festivo
     Componi, o madre, e intrecciane
     Il biondo crin d’ulivo!
     O veglio, a’ tuoi racconti
     Riedi sereno ancora;
     Soldato, i patrii monti
     Ritorna a salutar;
     Sali, o nocchier, la prora,
     E t’abbandona al mar!
     Non più gli avversi spiriti
     Suon d’oricalchi preme;
     Santa è la pace! albergano
     Gli agni e le tigri insieme.
     L’uom non obblìa l’antica
     Virtù; ma giace ascoso
     L’elmetto e la lorica,
     La lancia ed il corsier…
     – È un altro il luminoso
     Volo del suo pensier.
     Fremente al par dell’aquila
     Cui la bass’aria duole,
     Egli s’avventa a togliere
     Una favilla al sole!
     Entra d’intatti regni
     Nell’intime latèbre,
     Misterïosi segni
     Gli schiudono il cammin;
     Ei rompe le tenèbre,
     E interroga il destin!
     «Di me che fia?… del fragile
     Ente, che pensa e muore?…
     Come s’incende l’aëre,
     Come si pinge il fiore?…
     Perchè senz’urto posa
     Questa materia inerte?
     Che è mai la forza ascosa
     Che tutto volve al suol?
     Di poche piume aperte
     Come si libra il vol?
     «Qual è virtù, che il vortice
     Ferocemente desta,
     Che annegra e muta il nugolo
     In ira di tempesta?…
     Della tua luce adorno
     Non mi. mandasti, o Dio?
     Dell’universo un giorno
     Fatto non m’hai signor?
     Dunque allo sguardo mio
     Perchè lo celi ancor?….
     Questo dolor, quest’impeto
     L’uom sitibondo ardeva.
     Era il poter dell’angelo,
     Nella fralezza d’Eva!
     E non tremò. Nei veli
     Si spinse del mistero;
     Schiuder le porte ai cieli,
     Tentar l’abisso ardì…
     – E incoronato il Vero
     Dalla sua tomba uscì!
     Tripudia, o forte! – Al sonito
     Della tua voce ei venne;
     Or lo suggella in pagina,
     Che debba star perenne;
     A lacerarti il seno
     Gli stolti. sorgeranno;
     Tu, martire sereno,
     Esulta e va a morir!
     Impero essi non hanno
     Sui dì dell’avvenir!
     Entro i non nati secoli,
     Del gran giudicio è l’ora!
     Per te venuta i posteri
     Confesseran l’aurora;
     Redimeranno i vati
     Le non colpabili ossa;
     E l’onta, che i passati
     Sul marmo ti stâmpar,
     Verrà nella sua possa
     La gloria a cancellar!
     Ma per qualunque tramite
     Muover tu pensi l’orma,
     Dimmi, qual mai ti seguita
     Cara, celeste forma,
     Che ti carezza il viso,
     Che mormora il tuo nome,
     Che di un fraterno riso
     Consola il tuo cammin,
     Che intreccia alle tue chiome
     Le rose del suo crin?….
     Oh! le ti prostra; e venera
     Dio nelle sue sembianze!…
     Spargile in sen le lagrime,
     Le gioie e le speranze!…
     E quando ogni altro amore
     T’avranno tolto i fati,
     Stringiti allor sul core
     Quest’angiol di pietà:
     – Tesori inaspettati,
     La tua miseria avrà!



   LA DONNA


     Tu, che sull’ali d’angelo
     Scendi alla nostra vita,
     E dentro gli occhi hai lacrime
     E rose in tra le dita,
     Misterïosa forma
     Di luce e di profumi;
     Bella, se movi l’orma
     Per calli di splendor;
     Santa, se ti consumi
     In un occulto amor;
     Eva e Maria nel vincolo
     Del fallo e del perdono,
     Levata dalla polvere,
     Posta a raggiar sul trono,
     A te mi prostro, e miro
     L’opra animata in cielo
     Col più cocente spiro
     Che dall’Eterno uscì;
     Mi prostro.… e teco anelo
     Dividere i miei dì.
     Dividerli in un tacito
     Di sguardi rapimento,
     Nella terribil estasi
     D’un posseduto accento,
     Sempre sederti appresso,
     Cingerti al crin ghirlande,
     Pianger, chinar l’oppresso
     Mio capo in seno a te,
     E di un amor sì grande,
     Non chieder mai mercé!
     Alle tue braccia io palpito
     Come a promessa antica:
     T’amo bambina e vergine,
     Madre, sorella, amica!
     T’amo siccome l’ara
     Dove fanciul pregai,
     Come la prima e cara
     Vittoria in gioventù,
     Come quel dì che amai
     La fede e la virtù! —
     Vieni, invocata! e illumina
     Questi anni miei dolenti;
     Vieni e di Dio favellami
     Se vacillar mi senti!
     Fa che un indizio io scerna
     Nella gentil sembianza
     Di quella luce eterna
     Che rivelando il ciel,
     Mi vesta di speranza
     Il dubitato avel!…
     Io crederò! men torbida
     Mi correrà la vita
     Confusa co’ tuoi gemiti,
     Colle tue gioie unita.
     Io crederò! – Dal vano
     Riso mortal disciolto,
     Stringendo la tua mano,
     Spirando il tuo respir,
     Col paradiso in volto
     Tu mi vedrai morir!
     Che se una tua fuggevole
     Aura del crin mi tocca,
     Se tu mi dai di giungere
     La mia con la tua bocca,
     Non io su molli strati,
     Sotto ozïose tende,
     I giorni inonorati
     Non io consumerò…
     Ben altra fiamma accende
     L’uom che da te si amò! —
     Qual è più dolce numero
     Di lira o di liuto,
     Che si assomigli a un tenero
     Suono del tuo saluto?
     Qual è dovizia d’oro
     Che valga un solo vezzo
     Composto sul tesoro
     Dell’innocente crin?…
     Empio chi tenta un prezzo
     Porre sul tuo destin!
     Deh! non voler che in tenebre
     Muoia la tua bellezza;
     Guai se del casto soglio
     Tu perderai l’altezza!
     Cara, ogni tuo lamento
     Sarà dall’uom reietto,
     Nessun per te un accento
     Misericorde avrà,
     Sovra ogni tuo concetto
     Un’onta incomberà!.…
     No, povera! Non piangere;
     L’uom prega, e non t’offende!
     Non sai che oscuro ed esule
     Ei per te sola splende?
     Che l’ombra di un pensiero
     Lo stringe di paura?
     Che mentre di mistero
     Ti cerca avviluppar,
     O frale crëatura,
     Sempre lo fai tremar?…
     Eppur sì frale, a gloria
     Nova tu l’hai risorto! —
     Tua forza Iddio lui nomina,
     Te suo fedel conforto. —
     Come di bianchi gigli
     Circondasi un altare,
     Tu d’innocenti figli
     Serto gli fai gentil;
     E a voi la vita appare
     Quasi un eterno april!
     Deh passa, amato spirito,
     Tra gli scorati e i mesti;
     E i labbri lor ti lascino
     Un bacio sulle vesti! —
     Tu placane i martíri;
     Soffri per essi, e prega!
     Nel ciel co’ tuoi sospiri
     Precedi il pianto lor…
     Grazia giammai non nega
     Agli angeli il Signor.
     Oh! qual è mai tra gli uomini
     Cui tanta luce adorni,
     Che vinca il sacrifizio
     Degli umili tuoi giorni?
     Qual è, che a rimertarti
     Di così santi affanni,
     Lieto non voglia darti
     L’aura che spira e il sol,
     Non si contristi gli anni
     per risparmiarti un duol?
     Per te, per te la splendida
     Nota che il genio desta,
     La gioia del convivio
     L’applauso della festa;
     Per te l’amor, la gloria,
     L’ora di gaudii piena,
     La più gentil memoria
     Del tempo che fuggì,
     La speme più serena
     Degli aspettati dì!
     T’ergano un’ara i popoli,
     E i forti nel tuo nome
     Dopo la pugna esultino
     In coronar le chiome!
     Celeste messaggiera
     Di chi nel fango giace,
     Reca la sua preghiera
     A chi sul trono sta:
     Porta clemenza e pace
     Tal come Dio la dà!
     Donna! non cerchi il pargolo
     D’una sua madre invano;
     Al solo e mesto veglio
     Non manchi la tua mano;
     T’ascolti il moribondo
     Quando ogni labbro è muto;
     Anche all’uscir dal mondo
     Trovi sul passo un fior…
     Non può morir perduto
     Chi a te d’accanto muor! —



   PERDONATE


     Ignosce illis quia nesciunt quid faciunt.
     Parlo a voi, che, amici a Dio,
     Del dolor vi fate un trono;
     Parlo a voi, dolente anch’io,
     La gran voce del perdono.
     Questa voce sulle penne
     Dell’amore a Dio s’alzò,
     Voi sapete donde venne,
     E qual labbro la mandò.
     Perdonate! – Sulla terra
     È disceso anch’ei terreno,
     A combattere una guerra
     Senza esempio – il Nazareno.
     Egli nasce, all’uom ridona
     Il suo serto di splendor…
     E si compra la corona
     Dello spregio e del dolor!
     Oh! lo spregio ei l’ha sofferto,
     Ei senz’ombra di peccato!
     Era amante, e fu deserto;
     Era giusto, e fu negato:
     Sino al labbro dello stolto
     Che venivalo a tradir
     Rese il bacio… e il santo volto
     Abbassò con un sospir!
     O voi tutti, a cui l’offesa
     Crudelmente incise il core,
     Perdonando si palesa
     D’esser figli del Signore!
     Perdonate! – i dì più belli
     Della vita a sé rapì
     Chi poteva i suoi fratelli
     Amar sempre, e li abborrì.
     Pace, amico! – Un uom che offende
     Scemo od ebro ha l’intelletto.
     Tutto certo ei non comprende
     L’atto proprio, il proprio detto.
     Dopo un duol, che ad altri crebbe,
     Quante volte ei sospirò,
     E ritorto in sé vorrebbe
     Quello stral, che altrui lanciò!
     Pace, amico! – Un riso, un gesto,
     Una voce inavvertita
     Può ferirti… e non per questo
     Volontaria è la ferita!
     Il fanciul, che piuma a piuma
     L’augellin nudando va,
     Lentamente lo consuma
     E d’offenderlo non sa.
     Soffri sempre, e l’odio ignora;
     Fratricida ei l’uomo ha fatto:
     Ei la fronte ti divora
     Come il marchio del misfatto.
     Questo mostro a modo d’angue
     Senza posa il cor ti assal;
     Stringe un calice di sangue
     E sta sempre al tuo guancial.
     Che fai tu fra quelle frondi?…
     Sciagurato! il piè ritira.
     Se dagli uomini t’ascondi,
     Omicida, Iddio ti mira!
     Tutti i giorni che tu prendi
     Dalla vita d’un fratel,
     Tutti salgono ai tremendi
     Tabernacoli del Ciel.
     Spezza l’arme, e nei consigli
     Della mente ti riposa!
     Chi tu aspetti ha molti figli,
     Madre amante, e dolce sposa;
     Ha una fede svigorita,
     Uno spirto che non muor,
     Che ha bisogno della vita
     Per rifarsi nel Signor.
     «M’han confitto a questo legno,
     Padre mio!… ma stolti sono;
     Manda a lor dal nuovo regno,
     Per me compro, il tuo perdono!» —
     Questa voce egli ha disciolta
     Quando il Padre l’obbliò!…
     Abbracciatevi una volta
     In colui che vi salvò!
     Abbracciatevi! – S’oscura
     Della terra il dì fugace,
     Si guadagna il dì che dura
     Coll’amplesso della pace.
     Chi perdona Iddio lo serva
     Per la santa eredità,
     Lascia l’anima proterva
     Al giudicio che verrà.
     O Signore, – Ah’io le fransi
     Del rancor le ree catene;
     Fui piagato, offesi e piansi;
     Or la pace al cor mi viene.
     Ripercotimi, se credi
     Che sia giusto e salutar:
     Solamente mi concedi
     D’amar sempre e perdonar.
     Siam fratelli in un’amara
     Solitudin di dolori;
     L’un coll’altro si prepara
     L’acqua e il pan che lo ristori!
     Posseduto è da Satano
     Chi coll’ira al desco vien;
     Maledetta è quella mano
     Che vi mescola il velen.
     Siam fratelli nell’insulto,
     Donde venga e dove suoni,
     Siam fratelli nel tumulto
     Delle libere canzoni!
     Oh! vi torni e v’affatichi
     Quell’amor che vi fuggì!
     Date bando agli odii antichi,
     Se bramate i nuovi dì.



   IL POETA E I SUOI PENSIERI

   L’anima, che s’abbraccia col mondo fisico
   e coll’immateriale, va alla sua meta.


     Per la tua bassa ténebra
     Non move un’aura blanda;
     È senza stelle, o povera
     Notte, la tua ghirlanda;
     Non una dolce tibia
     Di solitario amante
     Lungo le verdi piante
     Lieve ascoltar si fa.
     Ma pur da me s’espandono
     Suoni di fresco amore;
     Più che le stelle e l’etere,
     Grandi linguaggi ha il core:
     Pensoso accetta il giubilo,
     Lieto il dolor riceve,
     E risonante e lieve,
     Dov’è chiamato ei va.
     Come chi parte a compiere
     Pellegrinando un voto,
     Tiene, piangendo, agli ultimi
     Tetti lo sguardo immoto;
     Poi nel trovar non cognite
     Siepi e solingo piano,
     Torna cogli occhi invano
     Ai campi che lasciò;
     Tolto così da un fulgido
     Sentier di sogni, anch’io,
     Movendo in solitudine
     Chiedo i ritorni a Dio;
     Ma un imperante spirito
     Su’ passi miei cammina,
     E l’alma pellegrina
     Più ritornar non può.
     Dunque provato ai triboli,
     Rinverginato al pianto,
     Come i ruscelli al murmure,
     Dio mi destina al canto?
     Vieni, o mia lira, abbracciami,
     Giacché per fede antica
     Forte e modesta amica
     Dio ti congiunse a me.
     Detti superbi o pavidi
     Tu sul mio labbro attuta;
     Quel che non sente l’anima,
     Di modular rifiuta;
     Non abborrir del povero
     Per vil pudor le stanze,
     Per misere speranze
     Non inchinarti al re.
     Vieni. Onoriam di lagrime
     L’umanità che è mesta.
     Sul nudo suol degli esuli
     Santa rugiada è questa.
     Con la speranza accostati
     Ai tribolati ingegni,
     Vinci gl’iniqui sdegni
     Col doloroso amor.
     Ma non però del candido
     Riso fuggiam la luce,
     Che a solitari palpiti
     Le fantasie conduce,
     Perchè del riso i balsami
     Sul cor ce li diffuse
     La stessa man, che schiuse
     Le fonti del dolor.
     Ella che pose ai turbini
     L’ale e distese i cieli,
     Die’ pur la vita all’alighe
     E incolorò gli steli;
     Tutto, dal serpe all’angelo,
     Mi leva intorno un coro;
     Tutto egualmente adoro,
     Dal filo d’erba al sol.
     Sotto l’ombrìa dei platani
     Molli del novo incenso,
     Assorto il cor nell’estasi
     D’un viso amato, io penso
     Subitamente al profugo
     Se un uccellino io miro,
     Che mova mesto in giro
     Per rami ignoti il vol.
     Con voi, fanciulle, i facili
     Poggi odorosi ascendo
     Lieto nell’alma, e reduce
     Ripenso a voi piangendo;
     Ma non così ch’io tolgavi
     In quelle dolci feste
     Un vezzo da la veste
     O un gaio fior dal crin.
     Ben saprò dir le provide
     Speranze a la tradita,
     Che i tenebrosi assalgono
     Spaventi de la vita:
     Io mi porrò degli umili
     Sotto le verdi tende,
     Dove più forte splende
     La fede al pellegrin.
     E tu, mia man, le nobili
     Voci del cor tu scrivi,
     Del cor che abbraccia i tumuli,
     Che vagola coi rivi,
     Che di sorrisi illumina
     Le sue mestizie arcane,
     Che le allegrezze umane
     Circonda di sospir.
     Più che per altri il fervido
     Tumulto del convito,
     A me fia caro un vergine
     Pane cibar romito:
     Poi, qual fuggente rondine,
     Verso la patria vera,
     Coll’anima che spera,
     Recarmi all’avvenir.
     E tu, mia lira, insegnami
     Come svagato io corsi,
     E, col pensier, dell’opera
     Si scontino i rimorsi.
     Spandi così tra gli uomini
     L’aura del tuo perdono,
     Se non udito il suono
     Da le tue corde uscì.
     Come per l’alto un zefiro,
     Si passerà dal mondo,
     Ma lasceremo un cantico
     Non vil né inverecondo:
     E i sorvolanti effluvi,
     Forse nei rovi ascosa,
     Riveleran la rosa,
     Che nel dolor fiorì.



   LA PAROLA

   La contemplazione dell’universo insegna
   All’anima la parola che lo rivela.


     Nell’ombra, ai malinconici
     Occhi velata ancora,
     Arde una sacra fiaccola
     Che la mia mente adora;
     Ben qualche raggio io sento
     Riverberar da lunge,
     Ma troppo tenue e lento
     Mi penetra nel cor,
     E d’una brama il punge,
     Che è simile al dolor.
     Che val che in me discendano
     Da non mortale altezza
     Caste e possenti immagini
     D’amore e di bellezza,
     Se tra quel mondo arcano
     Rapido il verbo gira,
     Perseguitato invano
     Dal cupido pensier,
     Che rivelar sospira
     Ne la parola il ver?
     In me dai sensi all’anima
     Passa un divin linguaggio,
     Che unisce il fior col turbine,
     Che mesce l’ombra al raggio,
     Che d’un’occidua stella
     Mi ferma agli splendori,
     Che un’umile acquicella
     Lungo mirar mi fa,
     Esca a quei forti amori
     Che a tutti il ciel non dà.
     Ma la parola!… O povera,
     Che speri, o tenti mai?…
     L’arcano dello spirito
     Tutto non s’apre, il sai.
     Un vago regno ascoso
     Con noi germoglia insieme,
     Lo abbraccia il cor pietoso
     Che col pensier lo amò,
     Ma inutilmente geme,
     Perchè svelar nol può.
     Dunque passate, o candidi
     Visi, o leggiadre vesti,
     Labbra arridenti e pallide,
     Occhi sereni e mesti:
     Date, o gioconde lire,
     Bando all’inutil verso;
     Inchinati a morire,
     O benedetto sol;
     Non suoni all’universo
     Che un’armonia di duol.
     A me talor l’oceano
     Povera stilla appare,
     Talor nell’umil gocciola
     Sento diffuso il mare,
     E l’atomo che in calma
     Lieve per l’aere vola,
     Cose infinite all’alma
     Comunicando vien;
     Ma la fatal parola
     Mi muor consunta in sen.
     Cieca e superba polvere,
     Dunque m’ha Dio percosso,
     Un mondo rivelandomi,
     Ch’io rivelar non posso?
     E questo senso, e questa
     Aura del cor romita,
     Libera, ardente e mesta
     Un’arpa non avrà,
     Che spanda un fior di vita
     Per la ventura età?
     Mio Dio, quest’arpa oh datemi,
     Squilla ai dormenti petti:
     Non di lusinghe, armatela
     Di coraggiosi affetti;
     E accomunati in loro
     I mal divisi amanti,
     Suoni una corda d’oro,
     Che ai figli del Signor
     Renda animosi i canti
     E valido il dolor.
     Oh mobili onde! oh libere
     Aure! oh campagne aperte!
     Anche nel verno vedove
     D’astri e di fior deserte,
     Voi la parola avrete,
     Che cerca il mio pensiero,
     E, a temperar la sete
     Che il cor mi consumò,
     Sovra l’altar del vero
     Tutto svelar saprò.
     Tutto, dai gioghi inospiti
     Ai sorridenti calli,
     Dal campo dei cadaveri
     Allo splendor dei balli,
     Tutto che impera il senso
     E che lo spirto insegna,
     I mondi che l’immenso
     Alimentando va,
     L’uom che obbedisce e regna,
     Dio che sorride e sta.
     Dio sentirò nel barbaro,
     Che d’uman sangue ha voglia,
     Ma festeggiando all’ospite,
     Gli dorme su la soglia:
     Nel pellegrin, che assonna
     Sotto le palme assiso:
     Ne la selvaggia donna,
     Che insegna al suo figliuol
     Di tener vôlto il viso
     Là dove nasce il sol.
     Oh! nell’intatta tenebra
     Saprò trovarti allora,
     Misterïosa fiaccola,
     Che la mia mente adora:
     In quell’eccelso loco
     L’arpa con Dio s’accorda;
     Ben l’immortal tuo foco
     Mi farà polve il cor,
     Ma la morente corda
     Sarà sonante ancor!



   IL POETA E LA SOCIETA’


     Terra, crudel, se in vincoli
     Possenti a te mi lega
     Pensier, che abbraccia e lacrima,
     Cor che indovina e prega,
     Tranne gli ardenti cantici,
     Altro da me che aspetti?
     Tranne i pietosi affetti,
     Altro che vuoi da me?
     Le tue speranze io mormoro,
     E tu mi nieghi ascolto:
     Io modulo i tuoi gemiti,
     E tu mi chiami stolto:
     S’io vo solingo e torbido
     E chiudo ai canti il core,
     Un riso acerbo è il fiore
     Che tu mi getti al piè.
     Ahi troppo duro e valido
     Sento de’ tristi il regno
     Per säettar le folgori
     Del concitato ingegno:
     È troppo rea sui deboli
     Questa ragion del forte
     Che fa sentir la morte
     Necessità del cor.
     Dimmi, che cerchi, o perfida
     Noverca, ond’io ti piaccia,
     E tu mi possa stendere
     Le perdonanti braccia?
     Vuoi ch’io mi curvi ad opere
     Cui Dio non mi compose,
     E che all’eccelse cose
     Si tolga il mio sudor?
     Terra! se tu sei giudice,
     Pesa la mia parola;
     Ella, se il ver la suscita,
     T’è sacerdozio e scola;
     In questa fiamma io m’agito,
     Di questa vita io vivo,
     Per onorarti scrivo,
     Altro operar non so.
     Cruda! tu senti il debito
     Del pane all’operaio
     Che ti racconcia i sandali,
     Che ti rattoppa il saio,
     E a questo forte povero
     Che per te pensa e suda,
     Sempre rispondi, o cruda:
     «Pan da gittar non ho».
     Non hai tu pane? E al facile
     Mutar d’una carola
     Profondi l’oro, e al limpido
     Trillo d’un’agil gola;
     Stolti! e tra voi la divite
     Turba d’onor s’ammanta,
     E l’anima che canta
     Nuda di gloria va.
     E sia così! Quest’esule
     Va dove pensa e vuole,
     Selvaggia come l’aquila,
     Ardente come il sole.
     Ma pur, divisa, un nobile,
     Secreto amor nutrica.
     E la respinta amica
     Voi maledir non sa.
     Datele almen che vergine
     Possa serbar la lira,
     Ch’ella non mesca gli aliti
     Santi ove l’odio spira,
     Che un non curar sacrilego,
     Che un guerreggiar codardo,
     Non le contristi il guardo
     Non le recida il vol.
     Voi la ponete in tenebre,
     Ella vi dona il giorno;
     Voi la dannate a piangere,
     Ella vi canta intorno.
     E nel fiammante nuvolo
     De’ suoi divini incensi
     Ella vi leva i sensi
     Là dove regna il sol.
     Ah, potess’io far cognito
     Quanto in lei vive e siede:
     Gli odii, gli amor, le torbide
     Gioie, la dubbia fede,
     E i rapimenti e gl’impeti
     Soltanto a lei concessi,
     E i suoi potenti amplessi
     Dati a la terra e al ciel.
     Oh a me compagni ed emuli
     Nel carme e nel dolore,
     Tutti in un solo uniamoci
     Nodo d’eccelso amore:
     Oda la Terra unanime
     Quest’armonia di canti
     E a’ suoi celesti erranti
     Apra il materno ostel.
     Così quest’arpe italiche,
     Queste fraterne voci
     Espïeran l’obbrobrio
     Dei roghi e delle croci,
     Quando di sé fu martire
     Ogni intelletto sacro,
     Ed ebbero lavacro
     Di sangue i turpi dì.
     Espïeran gli stolidi
     Ozi e la boria vile,
     E l’arroganza barbara
     E l’adular servile;
     E sarà duce ai popoli
     Quest’armonia scettrata,
     Che coll’Italia nata
     Dal cor di Dante uscì.



   CHI AMI?


     Pria venne un conte, e con sospiri accesi
     Mi porse un vago fior:
     Del suo dono gentil grazia gli resi:
     Ma non gli diedi il cor.
     Poi venne un duca, e nel panier mi pose
     Un braccialetto d’ôr.
     Dissi anche a lui cento leggiadre cose,
     Ma non gli diedi il cor.
     Poi venne un re; del suo gemmato serto
     M’offerse lo splendor:
     Tremai superba del gran dono offerto!
     Ma non gli diedi il cor.
     Alfine un pensieroso giovincello
     Venne, e mi chiese amor;
     Era mesto, era povero, era bello:
     Ed io gli diedi il cor!



   LA MADRE E LA PATRIA


     – Teco vissi; or tra le squadre
     Son chiamato a militar;
     Tu mi guardi, o dolce madre,
     E non fai che lacrimar.
     Monti e valli e piani aperti,
     Madre mia, varcare io so;
     Se tu brami ch’io diserti,
     Madre mia, diserterò.
     – Che mai dici, figliuol mio!
     Non mi dar questo dolor.
     Sia di me quel che vuol Dio,
     Ma non farti disertor.
     Infamato al patrio lito
     Non recar l’incauto piè:
     Figlio mio, t’ho partorito
     Per la patria e non per me. —



   TUTTO RITORNA


     – Fanciulla, che fai qui sulla porta
     Guardando da lontan per quella via? —
     – Ah se sapeste! Quando la fu morta
     L’han portata di là la madre mia;
     M’han detto che di là debbe tornare,
     E son qui da quattr’anni ad aspettare. —
     – Oh povera fanciulla! tu non sai
     Che i morti al mondo non ritornan mai! —
     – Tornano al vaso i fiorellini miei,
     Tornan le stelle… tornerà anche lei! —



   VENDETTA


     – Conosci, quell’Immagine di santo
     Sulla muraglia con quel lume accanto?
     Sotto quel lume sette pugnalate
     Una volta tu desti al padre mio…
     Prendi questa e quest’altra… Insanguinate
     M’ho le man del tuo sangue; or va con Dio. —
     – Mandami almeno un prete a confessarmi!
     – Prendi anche questa!.. Io non vorrei salvarmi
     Se andasse in salvamento la tua vita!…
     Non gli batton più i polsi. Ora è finita. —
     Stolto! Chi versa l’uman sangue, il sente
     Odorar nelle mani eternamente
     Dopo l’ora mortal, tutta la vita
     Non è finita!



   GIAPO


     – Mi chiamo Giapo, chi saper lo vuole. —
     Gli anni belli ho già varcato.
     Di mia strada or tocco al fin;
     Qui tra ’l verde pergolato
     Del mio picciolo giardin
     Tremola il sole!
     – Son di Sicilia, chi saper lo brama. —
     Ebbi il riso de’ miei piani,
     La dolcezza del mio ciel,
     Il fervor de’ miei vulcani;
     E si tenne a me fedel
     Più d’una dama.
     – Ho settant’anni chi saper lo chiede. —
     Ma lanciato in zuffe orrende
     Perigliai la mano e il cor.
     Vil, per Dio chi non difende
     La sua patria, ed al suo amor
     Rompe la fede! —.
     Qui un fremito successe alle parole.
     La rugiada avea bagnato
     Già del vecchio il raro crin;
     E sul verde pergolato
     Del suo picciolo giardin
     Moriva il sole!



   IL DELATORE


     Le orecchie intente, gli sguardi bassi,
     Tu come un’ombra segui i miei passi:
     Se un lieve accento muovo al compagno,
     Ratto ti sento sul mio calcagno,
     Va, sciagurato, mi metti orrore;
     Sei delatore!
     Ma, quando mangi pan guadagnato
     Con l’abbiettezza del tuo peccato,
     La bieca larva del tradimento
     Non ti sta presso? non n’hai spavento?
     Va sciagurato, mi metti orrore;
     Sei delatore!
     Il sol la luce dovria negarti;
     Mai col tuo nome nessun chiamarti,
     Ma con quell’altro che ti dispensa
     Pane e vergogna sull’empia mensa.
     Va, sciagurato, mi metti orrore;
     Sei delatore!
     Talora il ladro chiamo infelice;
     Degna di pianto la meretrice;
     Da me un’ascosa lagrima ottiene
     Sin l’omicida stretto in catene:
     Ma tu, tu solo mi metti orrore;
     Sei delatore!
     Va, sciagurato; cala il cappello,
     Ti ravviluppa nel tuo mantello,
     E se un istante sul cor ti pesa
     La mia parola, cerca una chiesa,
     E piangi, e grida: – Pietà! Signore,
     Son delatore! —
     Là solamente, presso a quel trono,
     Può la tua colpa trovar perdono;
     Impäuriti de’ tuoi tranelli,
     Più sulla terra non hai fratelli,
     Va, sciagurato, mi metti orrore;
     Sei delatore!



   CAMPAGNUOLI SAPIENTI


     Lavoriam, lavoriam, dolci fratelli,
     Sin che molle è la terra, e i dì son belli.
     Lavoriam, lavoriam; quanto ci mostra
     Di ricco il mondo, è passeggiero spettro;
     Il crin sudato è la corona nostra,
     Il piccone e la marra il nostro scettro.
     Qui si tradisce; là s’affila il brando;
     Dappertutto si piange e si fa piangere;
     Noi lavoriam cantando.
     Lavoriam, lavoriam, dolci fratelli,
     Sin che molle è la terra, e i dì son belli,
     Qui tra il susurro delle fonti e il verde,
     Preghiam che lunge stia l’arso e la bruma.
     Chi possiede tesori il sonno perde;
     Chi possiede intelletto il cor consuma:
     Quanti mila infelici errano in bando
     Senza conforto! Tra le spose e i pargoli
     Noi lavoriam cantando.
     Lavoriam, lavoriam; l’ora che avanza
     Di lavor sia tessuta e di speranza.
     Se questi ricchi, che ci dan le glebe,
     Qualche volta con noi miti non sono,
     Noi, dolorosa ma non trista plebe,
     Rispondiamo con l’opra e col perdono.
     E così, nel silenzio, ammäestrando
     L’umile cencio a rispettar del povero,
     Noi lavoriam cantando.
     Lavoriam, lavoriam: l’ora che avanza
     Di lavor sia tessuta e di speranza.
     Volando e rivolando s’affatica
     Il suo nido a compor la rondinella;
     Sugge l’ape alla rosa e la formica
     Porta il cibo del verno alla sua cella,
     Nel codice di Dio l’opra è comando.
     Non per noi, ma pei figli è l’edifizio
     Su! lavoriam cantando.



   LE MIE SIMPATIE


     Voi mi accusate che i miei concenti
     Nuotano in nembo di troppi fior;
     Sì, mi son cari questi innocenti,
     Queste opre belle del Crëator.
     In lor si vela tanto mistero
     D’amor, di pena, di voluttà,
     Che ogni movenza del mio pensiero
     Armonïosa con lor si fa.
     Se miro un volto di giovinetta
     Dimesso e mesto, puro e gentil,
     Mi trema in mente la vïoletta,
     Che orna le siepi del novo april.
     Quando alle spine del nostro esiglio,
     Caro fanciullo, tu avvezzi il piè,
     Svolto dall’urna d’un bianco giglio,
     Sospira il canto d’intorno a me.
     A una sembianza d’allegra sposa,
     Che in mezzo ai balli gemmata appar,
     Dall’ondeggiante sen d’una rosa
     Profumi e carmi sento esalar.
     Ricchezza occulta del trovatore
     È un fior rapito da un nero crin,
     E quante volte si cela un fiore
     Nell’amuleto del pellegrin!
     Il fior, ricordo d’una fanciulla,
     Vive tra l’armi, vola sul mar.
     Rose e ligustri copron la culla,
     Rose e ligustri l’urna e l’altar.
     Un giorno fugge, l’altro s’avanza,
     Fiorisce il duolo come il gioir;
     Ha un fior la vita per la speranza,
     Ha un fior la morte per l’avvenir.
     Spargono l’aria, l’ombra e la luce
     Perle e colori sul tenue vel;
     Curvo alla terra, che li produce,
     Notturni amori mormora il ciel.
     In lor si vela tanto mistero
     D’amor, di pena, di voluttà,
     Che ogni movenza del mio pensiero
     Armonïosa con lor si fa.



   GELOSIA ORIENTALE


     Coperto la fronte di mirti e d’allori,
     Tra l’arme e il tripudio di compre beltà,
     Cinquanta odorose stagioni di fiori
     Mirò sulla terra Braimo pascià.
     Eppur su quel crine non fiocco di neve,
     Non velo di nebbia nell’occhio seren;
     Al nappo d’amore quel labbro non beve
     Che pronta non arda la fiamma del sen.
     La bella Odalisca fra tutte le belle,
     Zorama di Gaza, con tacito piè
     Al pallido varca fulgor delle stelle
     La soglia gelosa del vago suo re.
     E quando sull’alba rimira vestite
     Le punte dei chioschi d’un dolce color,
     Le coltri abbandona sì lungo gioite
     Ancor colle labbra stillanti d’amor.
     E irride superba le vinte rivali
     In duri abbandoni dannate a languir;
     Chè pende la gioia de’ baci regali
     Da un sol di Zorama segreto sospir.
     Ma sono due sere che lenta Zorama
     S’interna fra l’ombre d’occulti sentier,
     Che all’opere usate le ancelle non chiama,
     Che ha grave la fronte d’un tetro pensier.
     Volando una notte, con petto più anelo,
     A’ gaudi promessi da un cenno del dì
     O vide, o le parve, trascorrere un velo
     Che lungo tra gli archi, qual nebbia, svanì.
     Fu larva? fu donna? Zorama non crede
     Le storie che il buio spavento sognò;
     Eppure in quell’ora dimanda una fede,
     Che il duro suo fato più darle non può.
     Or dunque, fu donna!… Repente quel viso
     Smarrì la celeste nativa beltà,
     Fu il gel della tomba sul morto sorriso,
     Ma quel che è nell’alma nessuno lo sa.
     Ancora una notte del sire all’amplesso
     Ritorna; si scontra nel velo fatal;
     Seida, Seida! L’ha vista dappresso;
     Tentò, ma non trasse l’occulto pugnal.
     Non grida, s’avventa. La serra alla gola,
     Si svinghia Seida, s’afferrano ancor;
     Ormai di due vite s’è fatta una sola,
     Son strette due tigri da mutuo furor.
     Ma un gemito acuto quell’aure percosse,
     Ma un corpo sul calle riverso piombò.
     Non chieder se amasti, l’estinta qual fosse.
     Star contro alla serpe la rosa non può.
     Zorama la guata. Raccoglie le chiome:
     Nel vel di Seida si terge la man
     Cospersa di sangue; la chiama per nome,
     La scuote alla vita con scherno inuman.
     – Tu di fata hai l’orma lieve,
     Rubi il canto all’usignuol;
     Il tuo volto è come neve,
     Il tuo sguardo è pari al sol.
     E perchè non ti risvegli,
     O degli angeli il più bel?
     Ricomponi i tuoi capegli,
     Vieni in braccio al tuo fedel. —
     . . . . . . .
     E via la trascina sin presso alle soglie
     Fatali; sul marmo la gitta; e perchè
     Ancor di bellezza un raggio s’accoglie
     Sul volto a Seida, la sforma col piè.
     E ancor non è paga. Gelosa, furente
     Ne interroga il core, lo sguardo, il respir;
     Non cerca se è morta, la brama vivente
     Per anco poterla vedere a morir.
     Poi tra la luce e i balsami
     Dell’amoroso loco
     Entra Zorama. Indocile
     Per inusato foco
     La invita alle sue coltrici
     Il bello e infido Sir.
     – Zorama, oh! perchè pallida
     Mi guardi e non rispondi? —
     – So che nel petto i gaudii
     D’un altro amor nascondi;
     Che in abbandono e lacrime
     Il mio dovrà perir. —
     – Oh, che di’ tu, se l’unico
     Grande amor tuo mi dona
     Più che i miei cento popoli,
     Più che la mia corona?…
     Calma l’incerto spirito,
     Cara, e t’affida in me.
     – Sì; ma v’è tal, che il palpito
     D’un impudico affetto
     Non cela… e se ti nomina
     Ti chiama il suo diletto. —
     – La invereconda accennami;
     Parla, Zorama, ov’è? —
     – Ma è dolce come un roseo
     Sorriso del tramonto;
     È vaga come un zefiro
     Tra i fior dell’Ellesponto… —
     – Ella è più rea d’un demone
     Se pianto a te costò. —
     – Gran pianto!… E qui pesavami
     Sempre un’orrenda idea.
     Ogni mia fibra, a scorgerla,
     Furiosamente ardea.
     M’ascolta; i tuoi vestiboli
     Ella pur or calcò.
     Noi ci scontrammo: – «Amabile,
     Bella Zorama, addio.
     – Che fai Seìda? – Io vigilo,
     E penso all’amor mio. —
     Parti, gelato è l’aere. —
     – Gelo non sente amor.
     Qui vo’ restarmi. – Appressati,
     Braimo; ancor v’è forse.
     Così Zorama. E subito
     S’alzò, la man gli porse;
     Sentì Braimo un brivido
     D’incognito terror,
     . . . . . . .
     Si schiude la porta; del sire lo sguardo
     S’affigge in un corpo; fremendo ristà;
     Prorompe Zorama con riso beffardo:
     – Paura del gelo l’amore non ha. —
     Il resto è mistero. Ma d’urla mortali
     Quegli archi segreti suonarono allor;
     E i bianchi pilastri di larghi e fatali
     Vestigia di sangue rosseggiano ancor.



   RILLA


     «Addio, notti serene! addio beate
     Coste, ricche di mirra e belgiuin.
     Addio bei soli! Addio splendide fate,
     Dalla immortale gioventù del crin.
     Impallidite ormai son le ghirlande
     Che il lucente Azraello un dì mi diè!…
     Ecco la nube d’Arimàn si spande
     Sopra la fossa apparecchiata a me!
     Tholmàr, la mia sorella ha chioma bionda,
     Occhio di stella e bocca di coral,
     E qual d’un rivo sigillato l’onda,
     Move la voce lenta e verginal.
     Bella è pur tanto! E non un’ora ai lieti
     Garzoni aperse il verecondo cor.
     Serba fede d’amante a’ suoi roseti,
     E consumata morirà con lor.
     L’altra mia suora Ircana ha capel nero,
     Che giù sul cinto in doppia lista vien;
     Sguardo ha di foco; ma un fatal mistero
     Orrendamente le disfiora il sen.
     Sovra una culla or s’inginocchia e geme,
     Or esce il mar da lungo ad esplorar.
     Ma alla feroce angoscia che la preme
     Sorda è la culla, e senza vela il mar!
     Povere entrambe! E fin quella pietosa
     Che le vostre venìa pene a blandir,
     Oggi al sepolcro dà la man di sposa,
     Chiede un guancial di pietra, e vuol dormir.
     Cosvelto! Arabo mio! Dal cielo aperto,
     Tre dì ti chiesi, e dall’immenso pian:
     Ho varcato le sabbie del deserto
     Tre lunghissime notti… e sempre invan!
     Impallidite ormai son le ghirlande,
     Che il lucente Azraello un dì mi diè…
     Ecco la nube d’Arimàn si spande
     Sopra la fossa apparecchiata a me.
     Orsù, Jago! ti sveglia!» – Un moro sorso
     Dal nudo suol: guatolla: indi abbassò
     Gli occhi infiammati: fieramente morse
     Le dure labbra… e a Rilla s’accostò.
     – Con bianca fede m’obbedisti, o Moro,
     Sino a quest’ora. Per la tua virtù
     Io ricchezze non ho. Ma, invece d’oro,
     Guarda la terra! Libero sei tu.
     Sol da te chieggo una pietà suprema.
     Jago! Tempo è di morte. O mio fedel
     Qui batte il core… A te la man non trema…
     Or via. Mandami in braccio ai mio Cosvel! —
     Così vela la fronte, e immobilmente
     Aspetta il colpo che le tronchi i dì…
     Ma il foco in vece d’una bocca ardente
     Sul casto petto, e un gemito sentì! —
     Si volse. Ahi vista!… Fino all’elsa ascoso
     Il pugnal disperato ei s’ha nel cor.
     Preme una man sul varco sanguinoso
     E un fil di vita vi rattiene ancor.
     – T’amai, Rilla, t’amai!… di tale un senso,
     Che mai nol capirà petto mortal;
     Fier come il sol, come l’oceano immenso,
     E, vedi! occulto come il mio pugnal.
     Ma… Cosvello… è sotterra! – E appena il disse
     Si svelse il ferro e l’anima esalò.
     Rilla, curva sul Moro, i guardi affisse…
     E in un riso frenetico scoppiò.
     – T’ho trovato, t’ho trovato,
     O di Rilla disertor!
     Quasi, o caro, s’è spezzato
     Pel gran piangere il mio cor!
     O Cosvello, della guerra
     Più non correre al fragor
     Vivi e morti una egual terra,
     Tutti e due ci debbe accôr!
     Ma il crepuscolo è già presso:
     Vieni meco, o mio tesor!
     Questa notte in un amplesso,
     Scorderemo ogni dolor.
     Che fai tu che guardi il mare?…
     Che fai tu, che baci i fior?…
     Su, venitelo a mirare
     Come è splendido d’amor!
     . . . . . . .
     . . . . . . .
     . . . . . . .
     . . . . . . .
     Rilla così da quell’istante orrendo
     Corre il deserto. E quando s’affacciò
     Alle pallide suore, una gemendo
     Svelse i roseti, e l’altra il mar lasciò!
     E la baciano e piangono al suo fianco!
     Ella sorride. E fiuta ad or ad or
     Lieve una macchia sul suo velo bianco.
     È schietto sangue… ma la crede un fior.



   CONVEGNO DEGLI SPIRITI


     Ecco là sotto di quel tiglio verde
     Compajon le due anime affannate,
     Chiuse in eterno son le labbra lor.
     Spiriti, o voi, per cui goccia non perde
     Di sue rugiade il fior che nol sappiate,
     Ditemi voi di quell’ignoto amor.
     – Se da noi saper tu aneli
     Di quei due che muti stanno,
     Quel che fêr, non quel che fanno,
     Sarà pago il tuo desir.
     Hanno amato quando i cieli
     Biancheggiarono all’aurora;
     Hanno amato, amato ancora
     Delle stelle al comparir.
     Seppelliti in antri cupi
     Hanno amato, allor che nera
     S’ascoltava la bufera
     Per le selve imperversar.
     Sulla punta delle rupi
     Han compiuti i loro amori,
     Li han compiuti in grembo ai fiori,
     Li han compiuti in mezzo al mar.
     Sia che l’arso o la moria
     Disertasse e case e colti,
     O i mortali avari e stolti
     Fosser tratti alla tenzon;
     Legò sempre un’armonia
     Le due vite oscure e sole;
     Parlâr basso…; e fur parole
     Che ancor note a voi non son.
     E talvolta nell’ebbrezza
     Del baciarsi e viso e chiome,
     Sui lor labbri il dolce nome
     Dell’Italia risuonò;
     Ma per dir che la bellezza
     De’ suoi cieli e de’ suoi mari
     A un lor bacio non è pari:
     Tanto forte amar si può!
     I color vivaci e schietti
     Si tramutano alle fronde,
     Si tramuta il letto all’onde,
     Si tramuta all’uomo il cor.
     Cangia il tempo a mille oggetti
     Usi e forme e nomi e tempre;
     Ma i lor baci eguai fur sempre,
     Sempre eguale il loro amor.
     Quando il mal li ha sopraggiunti,
     Si guardaro e pianser tanto:
     Ma ogni stilla di quel pianto
     Dai lor baci astersa fu.
     Cadder pallidi e consunti:
     Lor dimora è tra gli spirti;
     Noi di più non possiam dirti,
     Tu non puoi saper di più. —
     E intanto giù nel basso a un romorìo
     Di foglie e delle stelle al lume incerto,
     Ecco tremar la compagnia fedel;
     Poi surge un suon di disperato addio;
     Ei s’inabissa giù nel suolo aperto,
     Ella gemendo si dilegua in ciel.
     « O fate vergini,
     Voi che abitate
     Gli astri e le tenebre,
     L’aure ed i fior;
     Voi rivelatemi,
     Vergini fate,
     Questa recondita
     Storia d’amor.
     E un roseo nuvolo
     Sulle veloci
     Piume dei zefiri
     Ecco venir;
     Ecco un insolito
     Rumor di voci,
     Poi queste limpide
     Note n’uscir:
     – Vissero insiem; ma la fanciulla amante
     Volea prostrarsi sulle verdi zolle
     A supplicar per le sue colpe tante…
     Ed ei non volle.
     Molto l’amò; ma la fanciulla, senza
     Pace vivendo, volea far satolle
     Dei miseri le fami, in penitenza…
     Ed ei non volle.
     Spuntava l’alba; e la fanciulla oppressa
     Giù in quell’erma chiesetta, a piè del colle
     Scender volea per ascoltar la messa…
     Ed ei non volle.
     Fuggiro un dì dopo contrasti e guerre;
     E la madre di lei diventò folle:
     Chieder volea novella alle sue terre…
     Ed ei non volle.
     E molto i suoi voleri eran tenaci,
     Ma in lei sola fu lieto, in lei si piacque;
     E i suoi voleri confondea co’ baci…
     Ed ella tacque!
     Piangeva un dì con disperato affetto
     Un fanciullin, che per morir le nacque:
     Ei se la strinse lungamente al petto…
     Ed ella tacque!
     Pensava un tratto alle natie riviere
     Nei lunghi dì quando malata giacque;
     Ei la vegliò per cento notti intere…
     Ed ella tacque!
     E i più bei fiori ell’ebbe, i più bei frutti;
     L’amò sui monti, l’adorò sull’acque.
     Ei fu tutto per lei, nulla per tutti…
     Ed ella tacque!
     Moriro, e in premio dell’amor profondo,
     Posson trovarsi nel giardin natìo;
     Se due morti ritornano nel mondo,
     Così vuol Dio.
     Ma il pensiero di lui fu travïato;
     Ella versò d’amari pianti un rio,
     E in ciel fu tolta; ed egli è condannato;
     Così vuol Dio.
     Che se aveva egli pur, siccome ell’ebbe,
     E terrori e rimorsi e sentir pio,
     Anche forse per lui stato sarebbe
     Pieghevol Dio.
     E invece di venir sulla tacente
     Ora a scambiarsi il tormentoso addio,
     Vivrebbero abbracciati eternamente
     Lassù con Dio. —
     Via per le tremule
     Volte stellate
     Più malinconica
     La luna errò,
     E il lieve e lucido
     Stuol delle fate
     Nel mar dell’aere
     Si dileguò.
     Solo uno spirito
     Sotto quel tiglio
     Dov’ei posavano
     S’udia cantar:
     – « Ahi! tra le lagrime
     « Di questo esiglio,
     « Che importa vivere,
     « Che giova amar? » —



   UNA CENA D’ALBOINO RE


     Fervean di canti, fervean di suoni
     Di re Alboino l’ampie magioni;
     E, in mezzo ai duchi giunti al convegno
     Dal vasto regno,
     Sparsa di gemme, lucente d’oro,
     Di quelle mense fregio e decoro,
     Più dell’usato bella e gioconda,
     Sedea Rosmonda.
     Gli orli spumanti di vino eletto,
     Volan le tazze per il banchetto;
     Fumosa ai capi l’ebrezza ascende;
     E trema e splende
     Di fosca luce l’occhio regale
     Come la punta del suo pugnale;
     Scoppian le risa, lunghe e feroci
     Stridon le voci.
     Disser di queste belle contrade
     Oppresse e vinte dalle lor spade;
     Plausero a questi colli vestiti
     Di tante viti.
     Fragili fiori più che colonne
     Chiamâr, codardi! le nostre donne;
     Le disser liete, superbe e belle,
     Ma tutte ancelle!
     E al vil susurro dell’orgia rea
     Rosmunda bella forse gemea,
     Per colpe orrende non ancor fatta
     Di quella schiatta.
     – Prenci e baroni, paggi e scudieri,
     Ecco il più bello de’ miei pensieri. —
     (Così, nell’ebro furor del vino,
     Parla Alboino).
     – Vedete questa, che ho qui d’accanto,
     Lieta, superba? che mi ama tanto?
     La vera gemma quest’è, per Dio,
     Del serto mio.
     Vuoi tu trapunta d’oro ogni veste?
     Trecento all’anno banchetti e feste?
     Ricca è l’Italia, ma ricca assai:
     Chiedi, ed avrai.
     Ma, poichè denno questi miei prodi
     Nei lor castelli dir le tue lodi,
     E notte e giorno render gelose
     Fanciulle e spose;
     Sien dunque istrutti d’ogni tuo merto.
     Che tu sei buona, frate Roberto
     L’ha predicato. Che tu sei casta,
     Io ’l dico, e basta!
     Agil di forme, sottil di piede,
     Che tu sei bella, ciascun lo vede.
     Or via, Rosmunda, dà loro un saggio
     Del tuo coraggio. —
     E a lei porgendo con un sorriso
     Il nudo teschio del padre ucciso:
     – Or via, Rosmunda, forte esser devi:
     Rosmunda, bevi!
     Per me il suo sangue, per te il mio vino;
     Bella Rosmunda, questo è destino:
     Tu l’hai baciato prima ch’ei mora;
     Bacialo ancora.
     E tu, spolpato re Cunimondo,
     Addio. Tu vieni dall’altro mondo.
     Ecco la stella di mia famiglia:
     Bacia tua figlia. —
     Del re briaco piacque lo scherno,
     E un lungo eruppe plauso d’inferno.
     – Re Cunimondo, bene arrivato!
     Dove sei stato?
     Perchè la mano più non ci tocchi?
     Per Dio, che avvenne? Tu hai perso gli occhi!
     Oh sconsacrato figliuol di Roma,
     Dove hai la chioma?…
     Real cugino, lancia smarrita,
     Dammi novelle dell’altra vita.
     Poi di due cose rendimi istrutto,
     Tu che sai tutto.
     Pingui di cibo, scarsi di guerre,
     Starem molt’anni su queste terre?
     E a quali patti Dio ce la dona
     Questa corona?
     Ospite bianco mutolo e cieco,
     Bacia la rosa ch’io tengo meco,
     Ve’ che i tuoi baci pallida aspetta
     La poveretta. —
     E il re briaco, così dicendo,
     Giocherellava col teschio orrendo;
     E a lei, che gli occhi fremendo torse,
     Ratto lo porse.
     – Ferma, Alboino, da’ labbri miei
     La prova infame voler non dèi.
     – Bevi, Rosmunda; non più parole!
     Così si vuole. —
     Bevea Rosmunda. Ma con lo sguardo
     Parea dicesse: – Re longobardo,
     Se la vendetta qui non mi langue,
     Berrò il tuo sangue! —
     E dopo un anno da quel convito,
     Dormiva solo l’ebro marito.
     Aprì una notte l’erma sua cella
     Rosmunda bella…
     E con un forte vago soldato
     Il regicidio fu patteggiato…
     Ed ecco all’alba sommessamente
     Picchiar si sente.
     – Sei tu, Almachilde? – Son io. – Che porti? —
     – Che un lungo sonno dormono i morti! —
     Ond’ella, tratto l’aspro cimiero:
     Dal suo guerriero:
     – Questa corona, dolce mio bene,
     Questa corona più ti conviene.
     Ella era turpe; rendila degna;
     Baciami, e regna. —
     Se iniqua storia vi raccontai,
     Quello ch’è storia non cangia mai.
     Nel torbid’evo, quando l’Italia
     Fu data a balia,
     Di casi atroci ne avvenner molti:
     Ma ai nostri tempi, civili e colti,
     Spose e mariti, popoli e troni
     Son tutti buoni.



   SOLITUDINE E RACCOGLIMENTI DELLO SPIRITO

 //-- I. --// 

     Che mi giovò peregrinar per tante
     Terre, temprando i mesti carmi e i lieti?
     Sotto l’ombra de’ gelsi e degli abeti
     Or sogno i dì quand’io sorrisi infante.
     Cara città del Tanaro sonante,
     Patria d’imperadori e di poeti,
     Molli prega per te l’aure e i pianeti
     La nostra Musa della pace amante.
     La nostra Musa, che un romito albergo
     Or chiede al cielo, d’ascoltar già lassa
     Tanto vacuo rumor stridersi a tergo.
     Rumor di biasmo che matura affanni,
     Rumor di lode che col vento passa.
     Oh, i cari sogni de’ miei giovani anni!


 //-- II. --// 

     Nei cari sogni de’ miei giovani anni
     Vidi una mesta creatura bella,
     E sul cammin de’ cominciati affanni
     Per man la presi, e la chiamai sorella.
     Or basso giace! E piacque alla mia stella
     Riconfortarmi con illustri inganni;
     Ond’io sclamai: Gloria, ti cerco. Ed ella
     Mi rispose: Figliuol, cerchi i tuoi danni!
     E ben fu il ver: perchè ho consunti gli occhi
     Per tante veglie lacrimate, e sento
     Su per l’aspro cammin rotti i ginocchi.
     Sui fior già tristi la imminente neve
     Si versa, e picchia ai morti rami il vento.
     Primavera dell’uom quanto sei breve!


 //-- III. --// 

     Primavera dell’uom quanto sei breve!
     Perciò natura con pietoso affetto
     Fece uscir di sue mani il fanciulletto
     Così ridente, spensierato e lieve.
     Son rose i lini del suo picciol letto,
     Rose i baci che dona e che riceve;
     È rugiada del ciel l’acqua che beve,
     Divina è l’aura che gli scorre in petto.
     Lasciamo in grembo al luminoso incanto
     Questo picciolo re dell’allegrezza,
     Che in breve diverrà schiavo del pianto.
     Oh rimembranza dell’età fanciulla!
     Chi serba amor di quella prima altezza
     Sospira, e torna a ribaciar la culla.


 //-- IV. --// 

     La culla a ribaciar torna e sospira
     Chi per suoi dolorosi esperimenti
     Apprese l’arti, onde si volve e gira
     Questa torbida razza de’ viventi.
     Chi vide uscir dai ben orditi accenti
     L’opre disformi, e il viver dolce in ira
     E poderosi i rei sugli innocenti,
     La culla a ribaciar torna e sospira.
     Io l’amo sì, dal vulgo inavvertita
     Quest’umil casa, ove sognar si ponno
     Le larve più soavi della vita.
     Ma al par di questa, che con dolci tempre
     Chiama sugli occhi ai pargoletti il sonno,
     Amo quell’altra ove si dorme sempre!


 //-- V. --// 

     Amo quell’altra ove si dorme in pace,
     Ove allo stanco figlio del dolore
     È pio conforto una solinga face,
     Una stilla di pianto, un mesto fiore.
     Colà dentro sepolto, il rumor tace
     Di tanti sogni, che fêr nodo al core.
     Oh, ben s’apre ai dolenti la tenace
     Porta onde vassi all’ultime dimore!
     Io quando sento come si consuma
     In me il vigor della nascosta vita,
     Visibil cosa alle persone accorte,
     D’una subita luce si ralluma
     L’anima vagabonda; e un’infinita
     Gioia mi prende in vagheggiar la morte.


 //-- VI. --// 

     Sì tu verrai; verrai, morte invocata,
     Ultimo dono che il Signor dispensa.
     E: «Vieni, amico, mi dirai, la mensa
     Nuzïal che volesti, è preparata.
     Vieni meco alla piaggia avventurata,
     Ove da lunga cecità rinsensa
     Questa misera polvere, che pensa
     Pensieri ed opre che non han durata».
     Ed io verrò, cortese ultima amica,
     Verrò nella tua pace. E il vïatore
     Chi sa che alla modesta urna non dica:
     Dorme là dentro un infelice ingegno
     Consumato da sè nel più bel fiore.
     Ma sofferse, e di pace egli era degno!


 //-- VII. --// 

     Quel dì che dentro agli occhi moribondi
     Mi nuoterà la fuggitiva luce,
     Della barchetta mia chi sarà duce
     Sul mar che mena negli eterni mondi?
     Rimembro io ben d’un cherubino il truce
     Brando, e la pena delle offese frondi;
     E so che a quei perduti orti giocondi
     Nessun merito mio mi riconduce.
     Pure ho speme, buon Dio, che tu sia mite
     Ad un che amò, che delirò cercando
     Suo bene in terra, e non trovò che duolo.
     Ahimè! Signor, da tenebre infinite
     I’mi sento cerchiar, sino da quando
     Il buon angelo mio mi lasciò solo!


 //-- VIII. --// 

     Il buon angelo mio fu quella cara
     Che, or è il quart’anno, s’è da noi partita,
     Tramutando le rose della vita
     Negli oscuri giacinti della bara.
     Di quella donna affettuosa e rara
     In noi la ricordanza illanguidita
     Par talvolta alle genti; e la romita
     Nostr’alma il riso dei felici impara.
     Ma, Dio! Qual riso d’amarezza pieno,
     Riso che sfiora i freddi labbri appena,
     E dentro al cuore in lagrime si muta!
     Ond’io gli occhi sollevo, e chiudo al seno
     Le braccia, e tra me dico: Or la serena
     Stagion volga per altri: io l’ho perduta.


 //-- IX. --// 

     Volga per altri la stagion serena,
     Che a me rise negli occhi, or nella mente
     Sì mi travaglia, che da mesta vena
     Spuntar sempre i miei carmi ode la gente.
     E tuttavia l’afflitta anima sente
     Anco una gioia; ed è che fatta piena
     Sia la speranza di veder possente,
     Come un tempo già fu, l’itala arena
     D’una schiatta animosa, alta e gentile,
     Che si rammenti degli antichi padri,
     Stelle fiammanti in procelloso nembo;
     E fiorisca una volta il forte aprile
     Dai fiori eterni; e sentano le madri
     Con gioia il peso che lor vive in grembo



   ALLA MALINCONIA

 //-- I. --// 

     Vieni, dolce compagna alla pensosa
     Anima, che pur volge ove tu sei;
     E non molto tardar, se alcuna ascosa
     Simpatia di dolor t’annoda a lei.
     Vieni soletta, e accanto mi riposa,
     Poiché tutto in custodia io mi ti diei;
     E dolce parla, e dimmi alcuna cosa
     Che dia pace una volta a’ pensier miei.
     Tedio m’occupa l’alma e l’intelletto
     Per sè già stanco nel rumor, che mena
     Tanto popol che ciancia e che non sente!
     Talchè ogni lume di soave affetto
     Mi si fa gel di dentro, e ne ho gran pena.
     Provvedi, amica, il mio viver dolente!


 //-- II. --// 

     Provvedi, amica, sì com’è tuo stile,
     Che di soavi godimenti mesti
     Fai tremar l’alma e in animo gentile
     Ogni pensier più desolato vesti;
     Se alcun mio canto, in che ti manifesti,
     Dritto ti parve non tenerlo a vile,
     Provvedi, amica (e non sia tardo), a questi
     Ultimi dì del mio cadente aprile.
     So che da te si move ogni armonia
     Di verità, che come il tempo dura
     E come la immortale anima mia.
     E so che, se i begli occhi in me tu giri,
     Rimarrà forse nell’età ventura
     Qualche parte di me ne’ miei sospiri.


 //-- III. --// 

     Qualche parte di me; però che il vano
     Desio, la folle speme e il cieco amore
     Dormiran muti nel funereo piano,
     Come questa infedel creta che muore.
     Spero soltanto che con senso umano
     Talun di me favelli. E quando il core
     Gli anderà mesto dietr’un ben lontano,
     Goda di conversar col mio dolore.
     Dolor vestito in abito diverso,
     Ma mio pur sempre, e in me riverberato
     Dal vario lacrimar dell’universo.
     Talchè il mio nome non andrà lodato
     Per la dolcezza del leggiadro verso,
     Ma forse per quell’aura ond’egli è nato.


 //-- IV. --// 

     E se anco eterne imperversasser l’ire
     Della sorte, che in noi volge sì dura,
     E accorresse la turba a seppellire
     Meco i miei carmi, (infausta sepoltura!)
     Veramente la mia trista ventura
     Non sarà piena; chè gli udran ridire
     Da quella, or piccioletta creatura,
     Che Elisa mi lasciò pria di morire.
     Lunghesso un rivo, al tramontar del sole,
     Ella verrà piangendo; e in quell’affanno
     Canterà i carmi che le piacquer tanto.
     E gli uccelletti e l’aure e le vïole
     Con pietosa dolcezza esclameranno:
     Come è gentil la cantatrice e il canto!


 //-- V. --// 

     Com’è gentil la cantatrice e il canto!
     Così diran di quelle dolci note:
     E tu repente sulle rosee gote
     Sentirai, figlia mia, scorrerti il pianto.
     Se un curïoso, che ti passa accanto,
     Di ciò s’avvegga, interrogar ti puote;
     E tu le inchieste di responso vuote
     Non lasciar, nè ti pesi il suo compianto.
     Ei tutto e presto obblïerà. Ma quando
     (E ciò s’avvera), al tempo ahi! non più vivo,
     Gli anderà mesto e intenerito il cuore,
     Fia che rammenti, e forse lacrimando,
     Una pia giovinetta in margo a un rivo,
     E un sol morente, ed un canto d’amore.


 //-- VI. --// 

     Tutti di rose a te rideran presto
     Gli anni di gioventù, cara angiolella,
     Nè molto andrà che sentirai quel mesto
     Turbamento gentil, che amor s’appella.
     O figliuoletta mia! poiché da questo
     Mondo è fuggita la materna stella,
     Il tuo povero cor fa manifesto
     A me, che per me t’amo, e più per quella.
     Io parlerò col tuo povero core,
     E alcun conforto, o dolce anima cara,
     Stillerò forse sulla tua ferita;
     Perchè l’uom che negli occhi ebbe il dolore,
     O figliuoletta, agevolmente impara
     La mesta intelligenza della vita.



   OMBRE E LUCE


     Tu che il giovane capo orni di rose,
     Le hai ridenti sull’alba e a vespro morte!
     Tu ne’ balli t’avvolgi, all’amorose
     Vergini arridi, e al piè compri ritorte.
     Piangerà chi la lieve anima pose
     Dietro larve di bene, ahi! così corte;
     Chi non ha senso dell’eccelse cose
     Avrà il tedio custode alle sue porte.
     Oh! inver beato il pellegrin, che il piede
     Mette per questa landa orrida e grama,
     E gli è cibo l’amor, tenda la fede
     Verso le torri, e la città che il chiama!
     Poco intende quaggiù cor che non crede,
     Nulla intende quaggiù cor che non ama.



   A UGO FOSCOLO

 //-- I. --// 

     E tu, caldo di gloria e libertade,
     Ahi! d’Albïon sotto le rupi brune,
     Dove il raggio del sol sì pigro cade,
     Teco traesti l’ultime fortune.
     E hai dovuto varcar l’atre lacune
     Pria di veder le maledette spade,
     E i rei turbanti e le falcate lune
     Dar volta dalle tue belle contrade!
     Chè Zante no, ma il riso tutto quanto
     Di Grecia a te fu patria, Ugo, che avesti
     Di Pindaro e Tirteo l’anima e il canto.
     E pur nudo e ramingo, in piagge estrane.
     Ahimè! non lacrimato i dì chiudesti.
     Ecco, ingegni frementi, il vostro pane!


 //-- II. --// 

     Ma lungo il fiume dell’elisia valle
     La verde riva appena ebb’egli presa,
     Che sentissi gridar dietro le spalle:
     «Ugo, qua rompe ogni terrena offesa!
     Guarda come di fior, d’erbe e farfalle
     Tinta è l’aria e la terra, e con che accesa
     Trepidanza gentil vincono il calle
     L’anima di Ricciarda e di Teresa,
     E tua madre con lor». Baci e saluti
     Fûr molti; e arrise la immortal pianura,
     Quand’ei narrò, senza dolor nè sdegno,
     Rea mercede del canto, i combattuti
     Anni e l’ira e l’esiglio, e quanto dura
     Nelle memorie d’un afflitto ingegno.



   A G. PLANA


     M’odi, signor. Quand’io m’innamorai
     Di te, come per fama avvenir suole
     D’uom, che da queste miserande aiuole,
     Batte l’ale all’altezza ove tu stai,
     Veramente in quegli anni io non sperai
     Vederti in viso ed ascoltar parole
     Di quel pensier che sta cogli astri e il sole,
     E inutilmente, non li tenta mai.
     E or t’assidi al mio letto; e mi favelli
     Con tal riso d’amor, come faresti
     Con un dei tuoi lucenti astri più belli.
     Oh ben t’avvenga, illustre alma pietosa,
     Che cittadina delle vie celesti,
     Cerchi il dolor come celeste cosa.



   A GIORGIO BYRON


     Nato nel grembo di nebbiose lande,
     Bello apparisti e formidabil tanto,
     Che spesso i lauri delle tue ghirlande
     Andar bagnati del femmineo pianto.
     Varia del viver tuo per varie bande
     Suonò la fama, e talor fosca, ahi! quanto.
     Ma chi t’intese, ti compianse, o grande
     E giovin re del desolato canto!
     Uomini, fede ei vi chiedea, e tacque
     Lo steril mondo. Amor gli fu venduto.
     L’ebbe senz’oro e non gli die’ conforto.
     Allor lanciossi dell’Egèo sull’acque.
     Non vi giovi indagar com’è vissuto;
     Pensate sol dove il poeta è morto!



   A M….

 //-- I. --// 

     Donna! Se gli occhi recherai su questi
     Carmi infelici, ch’io vado cantando,
     Perchè di me qualche memoria resti,
     Di me, che or vivo da ogni gioia in bando
     Chi sa che il cor non ti si turbi, quando
     Vedrai come per segni manifesti
     Di te parla talora e lacrimando
     L’anima mia, che tu non conoscesti.
     Credei che il mondo non avesse eguale
     Al tuo cuor nessun altro; e t’amai come
     Cor nessun altro amar non ti potea.
     Oh! non prevista mia piaga mortale!
     Oh! lusinga terribile d’un nome!
     Oh! in angeliche membra alma sì rea!


 //-- II. --// 

     Però senti, se viva è nel mio petto
     Di te la rimembranza! Allor ch’io m’era
     Così presso alla morte, e l’intelletto
     Già delirando in misera maniera,
     I’ pur sempre correa (così m’han detto),
     Sempre del Lario alla gentil riviera,
     E ti parlava con quel grande affetto,
     Che si ha per donna infortunata e altera.
     Ed eran teco i due bimbi innocenti;
     E profonde dal cor lacrime sparsi,
     Lungamente baciandoli nel viso.
     Poi desto della vita ai sentimenti,
     Vedea tutte le cose incolorarsi
     D’un soave color di paradiso!


 //-- III. --// 

     Pace, o memorie dell’età fiorita!
     E gioisca ella, se altro amor le adorni
     D’altri sogni il pensier. Ma se romita
     Trascorre in solitudine i suoi giorni,
     Comprenda allor come una volta uscita
     Dal cor la gioventù rado è che torni;
     E come e quanto alla deserta vita
     Pesino questi inutili soggiorni.
     Inutili, se il cor tutta aveva posto
     La sua dolcezza in una larva cara,
     E che poi se ne andò miseramente!
     Ahimè! come dal sogno è il ver discosto.
     Ahimè! come nel tempo si prepara
     L’acerbo disinganno della mente.


 //-- IV. --// 

     Sentimi, o donna. Su quest’ampio vano,
     Che diciam terra, ove i presenti guai
     Fan gemer l’alme a qualche ben lontano,
     S’io ti scontrassi un’altra volta mai,
     Sarò nel viso amicamente umano
     Pensando al dolce tempo che t’amai.
     Ti porgerò senza terror la mano,
     E tu senza terror la stringerai.
     Forse negli occhi nostri alcuna stilla
     Verrà di pianto a ripensar qual’era
     L’antica speme e il bel tempo fuggito.
     E a quella mesta visïon tranquilla
     Avrem compagne l’aure della sera,
     E il sor nell’occidente impietosito.



   SONETTO


     I’ vo con l’aria fresca e con la piova,
     Coll’alba azzurra e il vespero rosato,
     Modulando armonie qual chi non trova
     Altro usbergo miglior contra il suo fato.
     E mi conforta nella varia prova
     La mesta musa che mi vien da lato;
     Musa in ira ai codardi, e a cui sol giova
     Gir raminga e cantar senza peccato.
     Ch’ella tien salde le ragion del vero,
     Nè cala a tregua coi potenti, o lega
     Mobili patti con la vil fortuna.
     Tal che, fragile giunco, o cedro altero,
     Può spezzarsi ella sì, ma non si piega.
     Di tal tempra, perdio! fatta è quest’una.



   LA MORTE


     Dolce pittor, dipingimi costei
     Non circondata di spavento e d’ira,
     Come gli sciocchi se l’han finta e i rei;
     Ma quale il mesto mio pensier la mira.
     In bianca veste avvolgila, e le spira
     La serena bellezza degli dei;
     E tolta in guardia la fedel mia lira,
     Chiuda soavemente gli occhi miei!
     Così, nell’alto fantasie del core,
     Sempre mi piacque immaginar la morte;
     Amica e madre ai figli del dolore.
     Perchè vestirla di sì tetro velo,
     Scarno fantasma sulle nostre porte,
     Quand’ella è cosa che ci vien dal cielo?…



   UN GIGLIO


     Oh il più soave e il più gentil tra i fiori,
     Che pur divelto al povero tuo stelo,
     Su un nero crin modestamente odori,
     O in fra le pieghe d’un virgineo velo;
     Ti dà la terra i suoi tepenti umori,
     Lo schietto lume e le rugiade il cielo,
     E ahimè! sì presto, o fiorellin, tu muori
     Per poca vampa o lieve orma di gelo.
     Così passa la bella giovinezza,
     Vergini care. E il nappo oggi ripieno
     D’ambrosia, all’alba del diman si spezza.
     Tal che quand’io ne’ chiusi orti vi miro
     Correr gioconde con un giglio in seno,
     Come a dolente visïon, sospiro.



   ZULIA


     Sull’incantato Bosforo,
     Passeggiava Zulìa, la rosellana,
     Rapita in mesto fantasie d’amor.
     Un dì la vide il giovane
     Sir di Bisanzio, e la creò sultana;
     Ma pria di tutto aver voleane il cor.
     Ambre, alabastri e porpore
     Sparse dovunque; e agli occhi di Zulìa
     Mostrò d’ori e di gemme ampio tesor,
     E dalla intenta vergine
     Il bellissimo re della Turchia
     Ottenne gli occhi, ma non n’ebbe il cor.
     Volò in battaglia; e i perfidi
     Vinse fratelli di Zulìa: ma festa
     Non menò de’ caduti il vincitor:
     Tolti alla morte e liberi
     Anzi li volle: e dalla vergin mesta
     Ottenne i baci, ma non n’ebbe il cor.
     Dimenticò le vigili
     Cure del regno; e in erma navicella
     Errò con lei degli astri allo splendor;
     Pianse alle sue ginocchia,
     E dalla frale giovinetta bella
     Ebbe gli amplessi, ma non n’ebbe il cor!
     Ecco, una sera i portici
     Dell’assopito Arème
     Suonar di grida, e un turbine
     Di spade, e cento fiaccole
     Per le agitate tenebre
     Confusamente errar;
     E il regnator che freme
     Cieco, e l’orrenda sciabola
     Sfonda de’ suoi giannizzeri
     Nel petto; e quasi l’angelo
     Dello sterminio appar!,
     Che fu?… Zulìa, la tenera
     Zulìa deluso ha tutti.
     E quella notte naviga
     Dell’Ellesponto i flutti,
     Fuggendo alle inamabili
     Cortine e ai minareti
     Lieti – di luce e fior,
     Per ricercar men cerule
     Onde, men dolci venti,
     Ma più serene e libere
     Gioie, e più santi gemiti,
     E non spïati accenti
     E non temuti amor!
     E questi amori arrisero
     Alla fuggente?… E il roseo
     Labbro di lei s’aperse
     Più molle vita a suggere
     Da meno ardente ciel?…
     No. Sue parole agli alberi
     Selvaggi, alle stellate
     Tenebre, al mar proferse,
     Ma sempre inascoltate.
     E un bruno e mesto viso,
     E un core e un intelletto,
     Che indovinasse i subiti
     Misterii delle lacrime
     E i lampi del sorriso
     Con delicato affetto
     D’amante e di fratel
     Mai più non ebbe. Oh povera
     Zulìa, tu passi e canti
     Lunghesso le fantastiche
     Riviere di Granata:
     E le fanciulle amanti
     Ti credono la fata,
     Che giunge a vol dai floridi
     Paesi delle Urì
     Per rivelare ai forti
     Le pugne e le vittorie,
     E sulle aperte e timide
     Palme spïar le sorti,
     E solvere i segreti
     Dal calice dei fiori,
     E derivar gli oroscopi
     Dal raggio dei pianeti,
     E a quïetar gli ardori
     Notturni delle vergini,
     Vaticinarne i talami
     Allo spuntar del dì.
     Così tu passi; e il crine hai sempre in fiore.
     Ma il povero tuo core
     Vuoto è d’amore!
     E vai pregando. che il dolor ti porti
     Giù nell’anguste e forti
     Case dei morti!
     Pur ti credon felice allor che suoni,
     O meni danze, o doni
     Filtri e canzoni;
     Ma nessuno, del mondo a esplorar viene
     Di che rea febbre piene
     T’ardon le vene.
     Nessun vede, cogli occhi, il miserando
     Stral che ti piaga, quando
     Passi cantando,
     E miri un giovincel, che l’orme affretta
     Sull’orme alla diletta
     Sua giovinetta,
     E tra le siepi e le solinghe aiuole,
     Al tramontar del sole,
     Cerca vïole,
     Per poi deporle dolcemente nelle
     Mani odorose e belle;
     Due gigli anch’elle.
     «T’amo,» ella disse al venticel segreto,
     «T’amo,» al lucente e lieto
     Fior del roseto:
     Ma un triste grido il venticel rispose,
     E curve e dolorose
     Pianser le rose.
     Allor con quella brama intima acuta
     Del cor che risaluta
     L’età perduta,
     Pensò la mesta al suo golfo lontano.
     E sospirò, che in vano
     Piacque al sultano.
     Dell’incantato Bosforo
     Ai palmeti tornò la rosellana.
     Ma non più accesa in fantasie d’amor.
     Ben la rivide il giovine
     Sir di Turchia. Ma un’altra era sultana,
     Che insiem cogli occhi gli avea dato il cor.
     Ambre, alabastri e porpore
     I sogni della povera Zulìa
     Turbano adesso, e i drappi assiri e l’ôr:
     Ma gli ebbe un’altra vergine
     Dal bellissimo re della Turchia,
     Che insiem coi baci gli avea dato il cor:
     Mesta Zulìa rivisita
     I noti calli, e va soletta a sera,
     Or sospirando al roseo color
     D’una fuggente nuvola,
     Ora al vol d’una rondine leggiera,
     Ora alle foglie pallide d’un fior.
     Oh fiorellino! oh rondine
     Cara! oh rosata nuvola fuggente!
     Fate un canto di morte e di dolor:
     Poi lo cantate al gelido
     Origlier della vergine, che sente
     L’amaro tedio della vita, e muor.



   GALOPPO NOTTURNO


     Ruello, Ruello, divora la via;
     Portateci a volo, bufere del ciel.
     È presso alla morte la vergine mia;
     Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
     Se a forza di sprone li fianchi t’ho aperti,
     Coi lunghi nitriti non dirmi crudel;
     Son molte a varcarsi pianure e deserti,
     Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
     Non senti nell’aria che perfido riso?
     Non senti che fischi d’orrendo flagel?
     L’odor dei sepolti mi soffia nel viso,
     Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
     Ah! questa, ch’io sento, sarebbe la voce
     Del coro, che mesto la porta all’avel?
     Dio santo!.. che veggo!.. la bara e la croce!..
     Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
     T’arresti, Ruello?… Coraggio e speranza!
     Per Dio, vuoi tradirmi, cavallo infedel?..
     Laggiù la tempesta ruggendo s’avanza;
     Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
     Galoppa, Ruello; più forte, più forte;
     Dio santo, che foco! Dio santo, che gel!..
     Ormai sulle ciglia mi pesa la morte:
     Galoppa… galoppa… galoppa… Ruel.
     E qui cadde orribilmente
     Fulminato sul sentiero;
     E il cavallo, che non sente
     Più lo spron del cavaliero,
     E che ha libera la groppa,
     Vola vola e non galoppa.
     Scossa al vento la criniera,
     Va più sempre inferocito.
     Animata è l’ombra nera
     Da una pesta e da un nitrito,
     Egli ha libera la groppa,
     Vola vola e non galoppa.
     Sbuffa ansante. Il fumo s’alza
     Della febbre e del sudore;
     Polve e ghiaia in alto sbalza
     Sotto i piè del corridore,
     Egli ha libera la groppa,
     Vola vola e non galoppa.
     Dal dirupo alla boscaglia
     Cento leghe ha divorato.
     Finalmente a una muraglia
     Batte i fianchi il disperato…
     Sta la morte sulla groppa,
     E il caval più non galoppa!..
     E frattanto sulle pallide
     Scarne guance alla morente,
     Che sussurra un dolce nome,
     L’agil tinta ricompar;
     E levata in sulla coltrice
     La persona amabilmente,
     Le bellissime sue chiome
     Ricomincia a inanellar.
     «Madre mia! sì forte l’anima
     Tu non sai chi mi riscosse,
     Oh! dell’abito più bello
     Io mi voglio rivestir!
     Questa notte per le tenebre,
     Non so dir come ciò fosse,
     Ma la pesta di Ruello
     M’è sembrato di sentir.
     Guarda, o madre, tra quegli alberi
     Dove accenna la mia mano!…
     Non ti par che un picciol punto
     Si avvicini?… Osserva ancor.
     Ah!… non vedi quella polvere
     Che s’innalza di lontano?…
     Non conosci?… È giunto! è giunto!
     Madre mia… mi fugge il cor.»
     Poveretta! in giro i languidi
     Occhi aperse un’altra volta;
     Cercò il sole; e uscì di guerra
     Nominando il suo fedel.
     Poveretta! ai casti talami
     Lo aspettava… e fu sepolta.
     Oh speranze della terra!
     Voi finite in un avel.



   SOGNI D’AMORE


     Canto di Rodolfo.
     Poiché le stelle, o incognita
     Amica, lor più bella,
     A visitar ti vengono
     Nella magion novella,
     Non senti un malinconico
     Spirto vagar tra i fiori,
     E i suoi notturni amori
     Gemer, pensando a te?
     Odilo: ei canta. Un esule
     Dal ciel son io. Nessuna
     Gioia m’allegra. Ai pallidi
     Riflessi della luna
     Erro solingo; e memore
     Che il mio destino è questo,
     Vo modulando il mesto
     Canto che Dio mi diè.
     Oh, potess’io d’un zeffiro
     Lene vestir le tempre!
     Il molle crin baciandoti,
     Con te vivrei pur sempre.
     E per terror d’intendere
     Qualche crudel richiamo,
     Non ti direi che t’amo.
     Ma gemerei d’amor.
     Fossi una rosa, un umile
     Bruno giacinto almeno!
     E si affrettasse a portelo
     Anche un amante in seno,
     Purché suggessi gli atomi
     Dei mio romito incenso,
     Lieto del dono immenso
     Ti languirei sul cor.
     Nel dì d’un’agil rondine
     Mutassi i giorni miei!
     Sempre dall’alba al vespero
     Sul tuo balcon sarei,
     E respirando l’aere
     Della tua dolce stanza,
     Di pena e di speranza
     Là bramerei morir.
     Ma tutto indarno. Un esule
     Spinto dal ciel son io,
     Che di dolenti musiche
     Rivesto il pensier mio.
     La ingrata solitudine,
     L’ira, il dolor sostenni:
     Come nel mondo venni
     Dovrò dal mondo uscir.
     Ah! se nel grembo a un’isola,
     O in un remoto speco
     Chi die’ la vita agli angeli
     Ti facea nascer meco!
     Stati sarien partecipi,
     In quelle verdi chiostre,
     Delle allegrezze nostre
     Il mare immenso e il ciel.
     Noi passeggiando il pelago
     Lunghesso i fior del lito,
     Ebri di gioie insolite
     Avremmo sempre udito
     Tutto d’amor sorriderci,
     D’amor parlarci tutto,
     La luna errante, il flutto,
     La barca e il venticel.
     Quando alle dubbie tenebre
     Chiuso tu avessi gli occhi,
     T’avrei raccolto, angelica
     Donna, su’ miei ginocchi,
     Rasciutto avrei le roride
     Stille dei tuo sudore,
     T’avria battuto il core
     Sotto una conscia man.
     T’avrei chiamata in lacrime;
     E tu, gentil, da tanto
     Sonno d’amor svegliandoti,
     Terso m’avresti il pianto.
     E le tue labbra, indocili
     E per pudor tenaci,
     Dai prorompenti baci
     Sarian fuggite invan.
     Terribil Dio, rispondimi;
     Perchè a crearmi questi
     Vani fantasmi un lucido
     Strano poter mi desti?
     Ah, le gioconde imagini
     Hanno un balen di vita,
     E l’anima assopita
     Ritorna a lacrimar.
     Addio, fanciulla. In tramiti
     Contrari il ciel ne pose.
     Spine sul mio germoglino:
     Sul tuo fioriscan rose.
     La gondoletta i placidi
     Seni attraversi ancora,
     La fulminata prora
     Nuoti in balìa del mar.
     Addio, fanciulla. Un intimo
     Di me pensier ti resti.
     Lontani ancor ricordati
     Che son fratelli i mesti.
     Altri pur sua ti nomini
     «Ne’ tuoi felici giorni,
     «Purché tu mia ritorni,
     Quando il dolor verrà.
     Oh! se dispersi fossimo
     Anche alle plaghe estreme,
     L’orme affrettiamo e i palpiti,
     Per ricercarci insieme.
     Questa, tremando, è l’ultima
     Ch’io t’oso dir parola,
     Questo pensier consola
     La mia raminga età.



   IL CALUNNIATORE


     Sai tu chi sei, che livido
     Per tenebrosi studi,
     Nel ferraiuol di Satana
     Le brutte membra chiudi,
     E con lo sguardo d’aspide
     Metti ribrezzo al sol?
     O dalla bella immagine
     Così di Dio scaduto,
     Tra i più codardi spiriti
     Che placan l’ire a Pluto,
     Va. Con la bava e gli aliti
     L’aure avvelena e il suol.
     Va. Nella dubbia tenebra
     La rea caldaia accendi.
     Gittavi l’erbe, adunale,
     Spremine i sughi orrendi;
     E l’infernal tuo farmaco
     Distilla, o traditor.
     Indi col ghigno e il facile
     Motto e l’ambiguo riso,
     Spruzza le turpi gocciole
     All’innocente in viso,
     Che passeran dall’intimo
     Sangue mortali al cor.
     Giuda! Co’ tuoi satelliti
     Tu al fatal orto ascendi,
     E accenni; l’incolpabile
     Sangue d’un giusto vendi.
     Giuda tre volte!… Accelera
     Via per la selva il piè;
     Cerca tremando un albero,
     Poiché perduta hai l’alma,
     E da quel tronco spenzoli
     La disperata salma,
     E la bufera e il turbine
     Fremano intorno a te.
     E i fiori e gli astri e i placidi
     Rivi tramutin tempre
     E come trombe squillino
     Per maledirti sempre,
     Giuda, che avesti i perfidi
     Occhi gelati in don,
     Non a mirar la florida
     Beltà de’ campi, e il velo
     Ampio de’ mari, e i liberi
     Monti, e l’immenso cielo;
     Ma a tossicar le vergini
     Gioie, che tue non son.
     Giuda! che non a sciogliere
     Detti giocondi o mesti,
     Non a cantar di gloria
     La infame lingua avesti,
     Ma tenebrosi e memori
     Menzogne a modular;
     Che rechi il piè di demone
     Pel calle obliquo e muto
     Nell’aure sacre a compiere
     Opre, ch’io dir rifiuto,
     Perchè la terra e l’aere
     Non s’abbia a macular.
     Senti! Se pena in carcere
     Un ladro, un omicida,
     So che la fame o l’impeto
     Cieco al fallir fu guida,
     E un’indulgente lacrima
     Forse dal cor, mi vien.
     Quando una trista femmina
     Dalle native glebe
     Reca l’infamia e transita
     Fra la ghignante plebe
     Che la fa rea del tenero
     Bimbo che chiude in sen;
     Io chino il capo e medito
     Che donna ella pur nacque,
     Come colei che in Magdalo
     Troppo fu bella e piacque;
     E pentimento e venia
     Spero all’infausto error.
     Qualunque fallo un gemito
     Risveglia nel cor mio,
     Sento il dolor dei miseri,
     Perchè lo impose il Dio
     Che visse in mansuetudine,
     E comandò l’amor.
     Ma te ribaldo e livido
     Per tenebrosi studi,
     Che nel mantel di Satana
     Le brutte membra chiudi,
     E con lo sguardo d’aspide
     Metti ribrezzo al dì,
     Te maledetto artefice
     Di filtri all’aer cieco,
     Te solamente abbomino,
     Te veramente impreco:
     E Dio perdoni al cantico
     Che nel dolor m’usci.



   A LUIGIA ABBADIA


     Cara e gentil penisola
     Nel riso dei pianeti,
     Nel bacio delle vergini,
     Nel canto dei poeti;
     Cara e gentil, siccome
     Il musical tuo nome
     Proferto in ogni barbara
     Lingua con dolce suon;
     Ama costei, che ogn’intima
     Aura di tua favella
     Sente, e la fa dall’agili
     Corde vibrar più bella;
     Ama costei, che tanto
     Coglie sorriso e pianto,
     Quant’è dall’Etna al Vèsulo,
     E te lo reca in don.
     Ella vagì tra i liguri
     Fior, sotto l’ombre care
     De’ cedri. E i malinconici
     Venti, le stelle, il mare,
     Il turbine, la calma,
     Tutto sonò in quell’alma;
     E una spontanea musica
     Furono i suoi pensier.
     Si fe’ narrar le istorie
     D’Imelda e di Giulietta.
     E, in voluttà fantastiche
     Chiusa la giovinetta,
     Il doloroso arcano
     Pensò del pianto umano,
     E in quella facil estasi
     Pianse, e conobbe il ver.
     Con tutti allora il parvolo
     Suo cor tremò diviso.
     Ebbe pei mesti un gemito,
     Pei fortunati un riso,
     E da quel vario moto
     Agile, ardente, ignoto,
     Come da sacra tenebra,
     L’arte, raggiando, uscì.
     Così questa ineffabile
     Forza, che sente e crea,
     Chiude in eterne immagini
     La fuggitiva idea;
     Ed è vittoria e regno
     Dell’ispirato ingegno
     Quella parola artefice,
     Che al mondo e al ciel rapì.
     Ed è parola il gelido
     Marmo, la pinta tela;
     Questo color, quest’impeto,
     Che il mio pensier rivela,
     E la canzon d’amore,
     Che pria ti nasce in core,
     Poi sulle ardenti porpore
     Delle tue labbra vien.
     Canta, sì, canta; e provoca
     Col musical tesoro
     Le rigid’alme. Immemore
     Di chi l’invôlga, onoro
     L’arte del canto unita
     Con un pensier di vita,
     Come fremea sugli attici
     Campi a Tirtèo nel sen.
     Italia mia, di martiri
     Divino asil, bagnato
     Dalle immortali lacrime
     Di Dante e di Torquato,
     Misera e sacra terra
     Piena d’orrenda guerra,
     Che die’ retaggio ai popoli
     D’ignavia e di dolor.
     Su te si volve un secolo
     Lieto di molta speme.
     Ma nel tuo sen combattono
     Avverse forze insieme.
     Voleri accesi e lenti,
     Coraggi e pentimenti,
     Pie le parole, e indomito
     L’acre desío dell’or.
     Forse un immenso palpito
     In questo dubbio mondo
     Desterà Dio. Dell’inclite
     Acque eridanie in fondo
     Fors’è la gemma ascosa,
     Che all’indolente sposa
     Più glorïosi talami
     Desiderar farà.
     E tu, fanciulla, indocile
     Degli evirati accenti,
     Cantar tu possa il cantico
     Che aspettano le genti!
     E in quell’eccelso agone
     Raccoglierai, corone,
     Quai non fioriro al libero
     Sol della greca età.



   ULTIME ORE DI TORQUATO TASSO


     Era la notte d’un morente aprile,
     Ben remota da noi, ma con eterne
     Lacrime degna che la pianga il mondo.
     Sovresso i campi dell’eccelsa Roma
     Ridea tutto di stelle il firmamento.
     Biancheggiavano in lungo ordine i templi.
     Eran l’urne de’ Cesari percosse
     Dalla imminente luna. E i sette colli,
     Cui si curvò la trïonfata terra,
     Come sette giganti eran sepolti
     In altissimo sonno. E per l’immenso
     Aër nulla s’udia, fuorchè il sonante
     Precipitar del Tevere divino.
     Dai mordaci dolori e dalle colpe
     Han requie nella notte imi e superbi.
     Sul suo greppo natal l’aquila posa.
     Giace tra i giunchi della siepe il verme.
     E con le gigantesche ombre cadenti
     Sotto l’interminato arco dei cieli
     Dormon tutte le cose. Unica vive,
     Custode eterna della razza umana,
     La Sventura. E con lei, coronatrice
     Degli afflitti, la Morte.
     Ahi! verdeggiava
     Un bel ramo di lauro in Campidoglio
     Per il crin di Torquato; e dai convessi
     Padiglioni del ciel questi pianeti
     Non fuggiranno, che la illustre chioma
     Si stenderà sui miseri guanciali
     Dalla man della morte irrigidita.
     Oh nuvoletta, che laggiù rispunti
     Nell’azzurro occidente, apri e dilata
     Pietosamente il grembo, e tanto chiudi
     Lume di ciel, che i mesti occhi mortali
     Non offenda così! Però che al mondo
     Volge un’ora di lutto; e della sua
     Più nobil pianta rimarrà diserto
     Il giardin della terra.
     Eccolo!… Ahi quanto
     Da quel di pria diverso! Or non più vita
     Cavalleresca e splendida; non alto
     Di destrieri nitrito, e pompe e giostre
     E baldanze magnanime, e superbe
     Glorie di giovinezza. Una parete
     Squallida; il raggio d’una dubbia lampa;
     Una povera coltre, e pochi intorno
     Pii fratelli d’un chiostro. – Ardono i polsi;
     Ardon le fibre; e nel consunto aspetto
     Lampeggia l’occhio immobile. Non batte
     Palpebra; e in vaghe visïon rapito
     Par tuttavia l’infermo. E gli s’infiora
     Tra le pallide labbra un dolce riso,
     Come accenni al disio d’altro elemento
     Più dei nostro felice
     «Oh quegli schermi
     (Supplicò dolcemente il moribondo
     La finestra affisando) oh! quegli schermi,
     Che mi vietano il bel lume del cielo,
     Apritemi, fratelli!… Io veder voglio
     Anco una volta le mie dolci stelle,
     Compagne agli estri dei passati tempi.
     Anco una volta le mie dolci stelle!»
     D’un pietoso la man subitamente
     Schiuse le imposte. E le sue dolci stelle
     Vide Torquato; e per lo scarno volto
     Una cocente lacrima gli scese.
     «Come soavi brillano!… Che pace,
     Nel firmamento!… Che dolcezza ignota
     Tutto quanto mi penetra!… Fratelli,
     Meco resti un di voi!… Sento una forte
     Necessità di favellar con Dio.
     Meco resti un di voi.» —
     Sommessamente
     Si ritrassero gli altri. E il più canuto
     D’anni e di senno alla mortal cortina
     Taciturno rimase.
     Alzò Torquato
     La mano a stento, e si segnò. Poi chiuso
     Come in lungo pensier parve; nell’alma
     Sentì venir le ricordanze; aperse
     Le labbra indarno a favellar; sul fronte
     Che ardea cacciò la destra… e in disperate
     Lagrime ruppe.
     – Ve le conta il cielo
     Queste lagrime, o Tasso. Or via; conforto
     Datevi e pace. Misero i mortali
     Vi fecer, sì; ma Iddio v’ha dato un’alma
     Libera e grande. —
     «Una terribil croce
     Ei m’ha dato… e null’altro. Oh mia materna
     Casa!… Oh felice oscurità degli anni
     Senza gloria vissuti!…»
     – Il sacrosanto
     Dono di Dio non maledite in queste
     Ore, o Torquato. Ei ve lo diede; Ei seppe
     Cui dato era un tal dono; e vi ha creduto
     Di possederlo degno. Oh vi rimembri
     D’Alighieri infelice! —
     Arse Torquato
     Di vergogna a un tal nome; e si. ristette
     Dal penoso lamento.
     «È ver!… Codarda
     Debolezza mi vince. Oh! ma non era
     Così la tempra del mio spirto. I lunghi
     Odii, gli sfregi, il carcere, la morte
     D’ogni idea più sublime, e il mio settenne
     Non udito lamento, ecco i feroci
     Percussori del mio misero spirto!
     Ah!… Non era così!…»
     – Tasso, gli sguardi
     In quel svolto affissate: Egli v’insegni
     Il calice a votar dei patimenti
     Voi sapete Chi fu! —
     Giunse la mani
     In silenzio il poeta; e con ardente
     Confidenza pregò:
     «Re dei dolori,
     E Dio della fortezza! A un travïato
     Spirito infermo che domanda pace,
     Perdona omai questo corruccio. In petto
     Tu mi ponesti una terribil fiamma:
     Ella arder volle: ma da me non venne
     Custodita abbastanza; e in lampi d’ira,
     E in pensieri d’orgoglio, e in ardimenti
     Insensati ella ruppe. Il tuo cammino
     D’umiltà, di coraggio e di dolcezza
     Io seguitar non valsi; e al cor ne sento
     Penitenza amarissima. Sublime
     Era il patir tacendo; e vil mi parve;
     E non seppi domar la insofferente
     Anima; e caddi da quell’alto loco,
     Donde forse io potea schiudere al. mondo
     Più gran tesori d’armonie, più nova
     Luce di carmi, e d’opere gentili
     Più mirabile esempio.»
     – Ecco, Torquato.
     (Il monaco proruppe.) Ecco l’eccelso
     Spirito che ti sente e ti confessa,
     O Artefice dell’alte intelligenze,
     Dio, signor della gloria e della morte.
     Ben è questi il cantor della tua santa
     Gerusalemme. —
     «Si! son io. (Proruppe
     Il poeta infiammandosi.) Due lustri
     Piansi; due lustri meditai; la mente
     Per due lustri m’accese una potenza
     Glorïosa, indomabile, divina.
     Sognai campi e battaglie, armi ed amori;
     Le infernali falangi e le celesti
     Mi lampeggiâr nel concitato spirto;
     E in quell’ore fantastiche e sublimi
     D’abbracciar mi parea secoli e mondi
     Non conosciuti… e confidai che un giorno
     Qui sulla fronte mia, qui deporrebbe
     Italia il premio di tant’anni, il lungo
     Desiderio dei vati, il glorïoso
     Lauro di Dante. Oh sogni miei! Cadeste,
     Come fior, nella polve; e le mie corde,
     Non risposer le mie corde infelici
     Al pensiero di Dio!…»
     – V’inganna il troppo
     Delirar della mente, o sventurato,
     Nei febbrili tumulti. E non vi è noto
     Quanti plausi dall’Alpe all’Appennino
     Mandi Italia a Torquato… e come pianga
     Però che sa che il conceduto alloro…
     Forse… —
     «Il mio crin non cingerà. Lo sento
     Che al mio letto s’approssima la morte.
     Meglio così! Qual dono inaspettato
     La ricevo da Dio, che questo peso
     D’ira, di tedio e di dolor mi toglie.
     Da Dio, che m’apre (i’ n’ho speranza) un loco
     Di salvamento a’ miei liberi affetti,
     Che l’odio umano incatenò. Fra tanti
     Angeli al limitar del paradiso
     Un mi sorride e le amorose braccia
     In me tende… e mi chiama. Ahi… che vaneggio?
     O fratel, proteggetemi. Profano
     Pensier di colpa è questo mio!… Non posso
     Veramente domarlo! Io ben sospiro
     Al cielo, io sì; ma per colei sospiro,
     Per colei, che nel mondo ebbe la parte
     Di me più viva; per colei che accese
     I malinconici estri del mio canto;
     Per colei che mi fa dolce la morte.
     Ah, senz’essa, per me lume non splende
     Di Paradiso!»
     – Acquetati, infelice!…
     Anche di questo il Dio misericorde
     Perdonerà l’anima tua. Fu grande,
     Alto l’affetto che ti vinse, ed ella
     Fatta è celeste; e la vedrai co’ prodi
     Che tu cantasti. —
     «Oh mio Tancredi! oh mio
     Valoroso Rinaldo! oh mia Clorinda!
     Oh Elëonora mia! Vi risaluto
     Io vostro un tempo, eternamente io vostro.
     Quanti dolori, Elëonora, in quella
     Bolgia terrestre! E come piansi in dura
     Solitudin rimaso! E che cocente
     Disío di rivederti, e d’aver pace!
     Sorridi, amica; il tuo Torquato è giunto.
     Giunto?… Via quegli sgherri! Oh mi togliete
     Dal piè questa catena! Oh questo cencio
     Strappatemi! Smovetemi dal fronte
     Queste chiome che m’ardono! La mia
     Gerusalem rendetemi!… Non voglio
     Supplicar. Non ho colpe. Ho spasimato;
     Ho lacrimato lacrime di sangue!
     Vil, per Dio! quella terra ove si nasce
     O deboli, o feroci; ove si debbe
     Chiudere gli occhi o martiri, o codardi!» —
     Orava il frate perchè requie avesse
     Quel tormentato spirito. Rinvenne
     Pur finalmente l’infelice; e molto
     Affermò di patir.
     «Grazie vi rendo
     Della vostra pietà!… Mi liberaste
     Da terribili aspetti, ond’ebbi l’alma
     Sì travagliata!… Quel gentil conforto
     Che porgete a chi muor, vi sia renduto
     Nell’ora vostra! Io benedico il cielo,
     Che qui compio la mia. Qualche momento,
     In ver, sperai di sollevar le accese
     Membra da queste spine, e bever l’aura
     Libera… e il passo per gli aperti campi
     Riportar novamente. Oh!… fûr pietose,
     Ingannatrici fantasie. Che intensa
     Febbre passa qui dentro e mi consuma!…
     M’arde Il cerebro! Ho sete!»
     Il venerando
     Vecchio porgendo il refrigerio all’arse
     Labbra del moribondo, e consolato
     Veggendolo così per quelle poche
     Stille ottenute, ripensò l’orrendo
     Spasimo di Colui, che invan le chiese
     Sulla rupe del Golgota.
     «Fratello!…
     Ch’io vi stringa la man. Riconoscente
     Ha l’anima Torquato. Ha, se non altro,
     Questa ricchezza. E d’una grazia ancora
     Dato mi sia di supplicarvi. Un giorno,
     Se mai da questi solitari chiostri
     Voi moverete a visitar tant’altre
     Città d’Italia, e vi verran negli occhi
     Le dolci rive della mia Sorrento…
     Salutate quell’aure. Indi cogliete,
     Cogliete, in nome mio, da quelle sponde
     Pochi fior dolorosi; e con gentile
     Reverenza versateli, in mio nome,
     Sul materno sepolcro! Indi alla dolce
     Sorella mia raccomandate pace
     Nell’infortunio. E ditele che questo
     Dolor della mia morte ella riceva
     Da quella man, che tutto dona e toglie,
     E sa perchè.»
     – Queste parole vostre,
     Questi pii desiderii obbligo sacro
     Per me saranno. —
     «E ven ricambi il cielo
     D’ampia mercede!… E ancor di questo io voglio
     Supplicarvi. Se mai vi si conceda
     Di veder l’Eridàno, e la superba
     Città d’Alfonso… la fatal Ferrara…
     Colà vedrete il carcere nefando
     Ov’io giacqui tant’anni; e i maledetti
     Ferri, e le turpi vesti onde coperto
     Venni. Vedrete; e piangerete, io spero,
     Ricordando l’amico a cui si volle
     Toglier persino l’intelletto, il dono
     Sacrosanto di Dio. Però, non sento
     Odio o rancor per essi. Il mio perdono
     Ampiamente recate! E così possa
     L’età ventura perdonar… nè avanti
     Al suo giudicio, come suol, dall’urne
     Trarre i sepolti!… Perocchè Torquato,
     In quell’ora remota, assai più grande
     Sarà dei prenci.» —
     Lampeggiaron gli occhi
     Del poeta, e si tacque. – Indi, più sempre
     Si fèr pallidi i labbri; e una divina
     Aura spirògli nell’aperta fronte,
     Che da un alto pensier parve occupata.
     Era una fantasia dolce e potente,
     Che per l’ultima volta il sospingea
     Pietosamente a delirar.
     Sorrise
     Non umil troppo, nè superbo il vate,
     Ma pien di nobiltà gli occhi e l’aspetto.
     Indi, siccome il commovesse un alto
     Rapimento di gioia, ei bello apparve
     Fuor del costume di mortal persona,
     E sui cubiti ergendosi:
     «Vi sento,
     Aure del Campidoglio! (egli proruppe)
     Come è dolce spirarvi in questa altezza!…
     Come rapido ascesi!… Io vi contemplo,
     Divine onde del Tebro!… Oh! che diffusa
     Moltitudine intorno! È del mio nome
     Che la città dei sette colli esulta!…
     Son per me questi canti!… Anch’io mi posso
     Del mio trionfo inebriar!… Quel lauro
     Datemi!… È mio!… Non è potenza in terra
     Che rapirmelo possa!»
     Brancolando
     Pel vuoto aêr stese la man. Gli parve
     Di possederlo. Lo baciò. Sul fronte
     Se lo depose. —
     Addio, Torquato. Il tuo
     Secol ti piange e avrà lacrime e canti
     Per te sempre la Terra.
     Dai convessi
     Padiglioni del cielo ivan fuggendo
     Le bianche stelle; e quella illustre chioma.
     Nereggiando scendea sull’origliero
     Dalla man della Morte irrigidita.



   CONTRASTO

 //-- (Canto di Rodolfo) --// 

     Io di due femmine
     Schiavo son fatto,
     D’occhi fantastiche,
     Brune di crin:
     In così misera
     Forma è distratto
     Questo dell’anima
     Senso divin.
     Ma in me la candida
     Fede non langue,
     Chè ad esse io prodigo
     Diverso amor:
     Ad una i fremiti
     Del caldo sangue,
     All’altra i palpiti
     Del mesto cor.
     Se una, com’edera,
     A me s’implica,
     Sull’altra un nuvolo
     Veggio cader;
     Se rido e lacrimo
     Coll’altra amica,
     La prima involasi
     Dal mio pensier.
     Io così m’agito
     Fra due diviso,
     Or piuma all’aëre,
     Or pietra al suol:
     Una mi provoca
     L’ore del riso,
     L’altra mi genera
     Quelle del duol.
     Quando una candida
     Nuvola lieve
     Sfiora le cerule
     Vôlte del ciel,
     Penso a quell’angelo,
     Che un vel di neve
     Porta sull’agile
     Suo corpicel.
     Ma quando un subito
     Baglior celeste
     Di fiamme il vespero
     Tingendo va,
     Penso alla fervida
     Fata, che veste
     Di fosche porpore
     La sua beltà.
     D’una mi parlano
     Gli astri lucenti,
     Le aurette celeri
     Men del suo piè;
     Dell’altra il lugubre
     Fischio dei venti,
     Le selve e i turbini
     Parlano a me.
     Così quest’anime
     D’opposte tempre
     Di gaudio o collera
     Muse a me son;
     E in me coll’italo
     Canto pur sempre
     Suona la nordica
     Buia canzon.
     Ma quando spasimi,
     Con varia vice,
     Nelle delizie
     Del doppio amor,
     Su via, rispondimi:
     Sei tu felice,
     Felice, o povero
     Svïato cor?
     Dio! che terribile
     Smania ti frange,
     Se il grido elevasi
     De’ tuoi pensier!
     Dio! di che lacrime
     Fra noi si piange
     Nella inamabile
     Ora del ver!
     Ma non ti parvero,
     Con rossor molto,
     Di ferro i vincoli
     Più che di fior?
     E perchè, improvido,
     Non dare ascolto
     Ai fieri gemiti
     Del tuo rossor?
     Spesso da torbida
     Malinconia
     Mi sento rodere
     L’intimo sen;
     E allora il calice,
     Sì dolce pria,
     Di amari aconiti
     Mi sembra pien.
     Ah! il solitario
     Ben degli affetti
     Sparge di balsamo
     Questi egri dì;
     Perchè col tossico
     Di rei diletti
     La mente e l’anima
     Tradir così!
     Ma quelle d’ebano
     Funeste chiome
     Mi stan com’aspide
     Rattorte al piè;
     E invan le misere
     Potenze dome
     Gridano al suddito
     Che torni re.
     Oh caccie! oh vertici
     Montani! oh clivi!
     Oh ingenuo vivere
     Che dileguò!
     Oh selve! oh memori
     Campi nativi,
     Quando quest’anima
     Voi soli amò!
     Dai tetri fascini
     Per liberarmi
     Stendo alla docile
     Arte la man;
     E come un profugo,
     Cantando carmi,
     Dai patri margini
     Mi svio lontan.
     E il mio fulmineo
     Corsier galoppa,
     Nuove mostrandomi
     Ville e città;
     Ma dell’inutile
     Corsiero in groppa
     Sempre il mio demone
     Seduto sta.
     Talor negl’impeti,
     Rotta la briglia,
     Le membra insanguino
     Sul duro suol;
     Ma il bieco spirito
     Di là mi piglia,
     E per la tenebra
     Mi porta a vol.
     Pari a quel nomade
     Giudeo fuggente,
     Che sol coi secoli
     S’arresterà,
     Forse il mio demone,
     Forza inclemente,
     Vuol ch’io precipiti
     D’età in età.
     Signor, che debole
     Così m’hai fatto,
     Di me sovvengati,
     Dolce Signor;
     Pensa alla gloria
     Del tuo riscatto,
     La mente solvimi
     Da tanti error.
     Per sabbie inospiti
     Cieco e malvivo,
     Lunga mi stempera
     Sete crudel.
     Deh! scopri il murmure
     D’un picciol rivo
     A questo esanime
     Novo Ismael.
     Signor, le nebule
     Da me disgombra,
     E col tuo cantico
     Ti canterò,
     Sinchè dei salici
     Paterni all’ombra,
     Tranquillo e libero
     Morir potrò.



   ALLA SANTITÀ DI PIO IX


     Guardia dei santi oracoli,
     Re del più nobil soglio,
     Posto a seder dai secoli
     Sull’angolar tuo scoglio,
     Del superato inferno
     Visibil segno eterno,
     Propagator dei Golgota
     Per quanti ha lidi il mar;
     Uno tra quei che pregano
     Nella magion di Dio,
     Padre a: tutti i popoli,
     Un de’ tuoi figli anch’io,
     Pei crismi e per la fede
     Giustificato erede,
     Poste le man sui codici
     Del tuo perpetuo altar;
     Confesso il Dio che predichi
     Dal duro Trace al Moro,
     Credo alle sue vittorie,
     I suoi potenti adoro;
     Soavemente doma
     Dalla ragion di Roma,
     Figlia de suoi segnacoli
     La mia ragion si fa.
     E reverente e supplice
     Della tua gloria al trono,
     Chieggo le fresche e vivide
     Acque del tuo perdono.
     Ribenedici il figlio,
     Che dall’incerto esiglio
     Torna alle fonti e ai margini
     Della immortal città.
     Quel mite Iddio, che l’umile
     Cor dei credenti affida,
     Nell’incorrotto e mistico
     Tempio, che è tuo, mi guida:
     Ma con un’altra speme
     Che favellar non teme,
     Padre di quei che piangono,
     Io m’inginocchio a te.
     V’è tra te genti un’Inclita
     D’ogni miseria al fondo,
     Le cui frementi lacrime
     Toccan d’affanno il mondo;
     Porta di gemme e spine
     Un duro fregio al crine,
     E sul regal suo lastrico
     Trae catenata il piè!
     Madre di tanti martiri,
     Nido di tanti eroi,
     Casa dei gran Pontefici
     Data per patria a noi,
     Su tutti i campi e i mari
     Fe’ balenar gli acciari,
     Croce e parola al barbaro
     Figlia di Dio portò.
     Ma Dio che versa il giubilo
     In chi da lui s’appella,
     Con egual destra il calice
     Versò dell’ira; ed Ella
     Dove l’acciar portava
     Sentì ’l cordon di schiava,
     Usa a vestir le porpore
     Carca di cenci andò.
     Così, dannata a scendere
     Coi barbari mariti,
     Giacque tremante adultera
     Sui talami abortiti;
     E ier piangea peranco
     Stesa sull’egro fianco,
     Rimemorando i floridi
     Tempi che Dio le diè,
     Quando sui vasti oceani
     Fe’ navigar le prore,
     E all’orba Terra inospita
     Rese la mente e il core,
     Rese le tele e i marmi,
     Gl’inni, le leggi e l’armi
     Confederata ed arbitra
     D’una legion di re.
     Ahi, nell’amaro incorrere
     Delle memorie, il cielo
     Guatò fremendo e al pallido
     Viso fe’ il pianto un velo!
     Ma nella Donna, offesa,
     Qual nova forza è scesa?…
     Dal Tebro insuperabile
     Che novo grido uscì?…
     Sui quattro fiumi ei valica,
     Dai quattro venti suona;
     L’ode ogni lingua; inchinasi
     Ogni europea corona;
     Dall’afre selve ai poli,
     Dove ha pur Dio figliuoli,
     Quel nuovo grido inaugura
     Più benedetti dì.
     Pio, ti nomasti. E il memore
     Pallio regal s’è messa
     La eterna primogenita
     Del tuo gran tempio anch’essa:
     Sulla disparsa prole
     Oggi è risorto il sole,
     Oggi il promesso arcangelo
     Dato è all’Italia in cor.
     Pio, che la casa incardini
     Dove ruggiano i flutti,
     Nave del mondo ed ancora
     Della speranza a tutti
     Il cor deh! poni in Questa,
     Che i tuoi sigilli attesta:
     Pensa ch’è il fior più splendido
     Degli orti del Signor.
     Da lei Tu nato, e principe
     Vero, tu regni in lei,
     L’opre tue sante annunciano
     Chi ti mandò, chi sei.
     Dove fremea lo sdegno
     L’augusta pace ha regno,
     Cantan letizia i pargoli
     Col mite ulivo al crin.
     Padre, più assai che giudice
     Pensando a Cui somigli,
     Sceso il perdon sugli esuli
     Tu li nomasti figli:
     Dal Tevere alle genti
     Getti le strade ardenti,
     Perchè più presto arrivino
     Nel tuo gran tempio alfin.
     Ma tu, che all’ira, e all’odio
     Mite pastor fai guerra,
     Che annodi i prenci ai sudditi,
     Sappi che in questa terra,
     Nella fedel tua vigna,
     Un seme d’odio alligna,
     Che la contrista e macera,
     Ma ch’estirpar non può.
     Padre, ella piange, o supplica
     Le tue ginocchia sante:
     Tu che possiedi i folgori
     Della parola amante,
     Che col segnal che porti
     Puoi favellar coi forti
     Nel nome o nella imagine
     Del Dio che ti mandò;
     Pensa che questa Vittima,
     Tesor della tua Chiesa,
     Snidò l’infausto pungolo
     Che l’ha tant’anni offesa;
     Pace del lungo scempio,
     Pace ella chiede al tempio.
     Stringere i brandi abbomina
     Non benedetti in ciel.
     Padre, chi sangue semina
     Messe di sangue coglie.
     Pace vogliam. Presentati
     Sulle tue sacre soglie;
     E al possessor straniero,
     Che ha già sì largo impero,
     Prega che cetre e Solima
     Ridoni ad Israel.
     Pensa che un altro apostolo
     De’ fregi tuoi s’è cinto,
     Servi tra i servi; e il barbaro
     Flagel di Dio fu vinto.
     Di quel Lione eletto
     Tanto fra noi s’è detto;
     E ne diranno i posteri,
     Fin ch’abbia lume il sol.
     Prostrato sui vestiboli
     Della tua casa o Santo,
     Come il sentii con l’anima
     Posi alle labbra il canto:
     Ma s’io dicendo errai,
     Opra tu sol, che sai,
     Più della rea mia polvere,
     Quel che da Dio si vuol.



   A CARLO ALBERTO


     CARLO, che sotto ai liberi
     Venti dell’Alpe antica,
     Le arcane sorti armarono
     Di scettro e di lorica,
     Pei crismi e per le vivide
     Fontane della fede
     Fatto di Cristo erede,
     Figlio d’Italia e re;
     Quando cavalchi intrepido
     Per le tue file ardenti,
     Dimmi: l’assalto all’anima
     D’un gran desio non senti?
     E il breve suol che scalpiti,
     L’aura natal che spiri,
     L’arco di ciel che miri
     Non è minor di te?
     Oltre il Ticin, due popoli
     Posti a fatal tributo,
     Che s’han, nell’ozio, il calice
     D’ogni dolor bevuto,
     Ei, che una volta spinsero
     Fra suon di tube e lampi
     Uno i destrieri ai campi,
     L’altro le tolde al mar:
     A ogni romor che elevisi
     Sulla regal tua via,
     L’avide orecchie intendono
     Per ascoltar che sia:
     «Fossero mai le vindici
     Ugne de’ suoi cavalli?
     Fosser le tende e i valli,
     L’aste e i percossi acciar?»
     Poi se nell’aura immobile
     Quel suon si perde e muore,
     Non sa ristarsi il pungolo
     Del generoso errore;
     Speran che s’oggi un facile
     Varco è al desio mancato,
     Saprà domani il fato
     Un altro varco aprir.
     Côlti così due profughi
     Per boschi incerti e neri
     Dalla crescente tenebra,
     Fanno e rifan sentieri;
     Chè un’acre infaticabile
     Speranza li conduce,
     Sin che vedran la luce
     Dai patrii tetti uscir.
     Ah! se a costor che il chieggono
     D’un tuo pensier fai dono,
     CARLO, mio re, due splendide
     Gemme tu innesti al trono:
     Dio degli eventi è l’arbitro,
     Ma sul regal tuo fiume
     Tu le frementi piume
     Tien preparate al vol.
     Odi a quell’Alpe! Il barbaro
     Eco de’ brandi e i passi
     Suonano ancor sul vertice
     Di quegli eterni sassi:
     Di là son giunte, o principi,
     Le avare torme estrane
     Per assaggiar che pane
     Fioria sul vostro suol.
     E l’assaggiaro! e dissero:
     «Prenci, la terra è nostra:
     Bene avrà scettro e porpora
     Ognun che a noi si prostra;
     Ma saran nostri i codici,
     Nostre le messi e i brandi,
     Farvi tapini o grandi
     In nostra forza è già!»
     E voi taceste. E despota
     Sin dalla trista aurora
     V’è la fatal progenie
     Sulla cervice ancora.
     Ma ognun di voi consolasi
     Almen, tenendo un regno;
     E il vecchio giogo indegno
     Su noi gementi sta.
     CARLO, se è ver che l’itale
     Ire nel cor tu covi,
     Se con l’antica ingiuria
     Senti gl’insulti nuovi,
     Se quel desio, che t’agita
     Fiero e gentil, non langue,
     Se de’ tuoi padri al sangue
     Degna ragion vuoi far;
     Co’ mille tuoi presentati
     Alle lombarde prode;
     Vieni a snidar quest’aquila
     Che il senno e il cor ci rode;
     E non temer che al folgore
     Della regal tua spada
     S’abbia d’ostil rugiada
     Italia a imporporar.
     Spaventa i consapevoli
     De’ brandi tuoi la possa:
     San la occupata Ausonia
     Per qual bandiera è mossa;
     Pende la spada a tedio
     Dai femori alemanni,
     La ruggine degli anni
     Il fil ne consumò.
     Pria che pugnar, da un provido
     Alto terror disfatti,
     Ei scenderanno a chiederti
     La pia ragion dei patti;
     Allor tu sai, magnanimo,
     Alla sant’opra accinto,
     Quali abbia dritti il vinto
     Che al vincitor pregò.
     Sai che un’illustre vergine
     Del sangue lorenese
     Con umil gioia al talamo
     D’un de’ tuoi figli ascese:
     Da una gentil vittoria
     Il grande augurio prendi,
     Tu ch’ogni altezza intendi
     Di prence e di guerrier:
     Alza la mano al Brennero
     Che qua tant’odii ha scarchi,
     Grave intimando all’ospite,
     Che in pace lo rivarchi;
     Indi a sperar confortalo,
     Che Dio, cui toglie un trono,
     Forse più largo dono
     Serba nel suo pensier.
     E se nel cor gli penetra
     Quel facil detto umano,
     Onora il vinto e stringigli,
     Qual debbe un pio, la mano;
     Ma s’ei ti porta indocili
     Ire e querele intorno,
     Digli che questo il giorno
     Del lamentar non è:
     Digli ch’ei tolse un inclito
     Serto alla sacra chioma
     D’Italia, e in cambio barbaro
     Le diè catena e soma;
     Digli che a lui toccarono
     Le gioie, ad essa i lutti;
     E che il Signor di tutti
     Due leggi all’uom non fe’.
     Tenacemente memori
     Dei lieti e persi luoghi,
     Rivarcheran le teutone
     Schiere torrenti e gioghi;
     Pur affrettando i torbidi
     Passi dell’ira oh quanto!
     Per non udir quel canto,
     Che a CARLO echeggerà.
     Sarà canzon di vergini,
     Inni di pii soldati,
     Fragor di trombe e d’organi,
     Sacra armonia di vati:
     Vedrà l’Italia assurgere
     Dopo la gran vittoria
     Un nuovo sol di gloria
     Sopra le sue città.
     Rinati i cor, gli spiriti,
     Liberi i campi e i mari,
     Stretti in amor coi nobili
     Troni saran gli altari;
     E questa umil Penisola
     Posta dei mali in fondo,
     Farà temuta al mondo
     La sua bandiera ancor.
     Di conculcato palmite
     Resa mirabil pianta,
     Braccio de’ suoi pontefici,
     Sarà guerriera e santa.
     CARLO! per te dai secoli
     Fatta è la via che vedi;
     Credi una volta, oh credi
     Nel tuo possente cor!



   ARMI! ARMI!


     Popoli! La speranza anco ci splende
     Con allato il trionfo e l’avvenir,
     Armi in subita furia, or che le tende
     Scellerate atterrò l’ungaro ardir.
     Armi! Chè in sen della lombarda terra
     Torna il cupo vulcano a rimugghiar
     Principi, a voi. La benedetta guerra
     Riscota l’Alpe e risollevi il mar.
     Su le bandiere. Chi un’Italia brama
     Scordi il dissidio delle sue città.
     Intento è il mondo sulla nostra fama.
     Quest’è un’ora di gloria o di viltà.
     Svegliati, Alberto. Alzatevi, per Dio,
     Popoli tutti della nostra fè.
     So dal sonno ti desti. alma di Pio,
     La cattolica Italia è ancor con te!
     Di Goito e Curtaton sacri soldati,
     Ricingete la spada. Eccovi il dì.
     Sento i destrier della battaglia. Irati
     Tuonano i venti. La vittoria è qui.
     Volve il Danubio furibondi i flutti,
     Scintillano per voi l’Adige e il Po;
     Voi questo giorno l’attendeste tutti,
     E per tutti il Signor ve lo creò.
     Nella città, del maledetto impero
     Il Tumulto e la Morte ospiti stan:
     Chi non torna a gridar: Via lo Straniero,
     Stringe nell’ombra allo stranier la man.
     Siepe feroce di fraterne spade
     Chiuda la spaventata oste infedel.
     E l’orbe madri delle pie contrade,
     Svestan la chioma del funereo vel.
     Qua convengano i vecchi e i sacerdoti
     I drappelli furenti a benedir,
     E sui vessilli caramente noti
     Scrivan le donne: Vincere o morir!
     Vincere. È questa la parola, o forti,
     Che v’è tuonata dall’ausonio suol,
     Perchè sott’esso è una legion di morti.
     Che invendicata riposar non vuol.
     Armi! V’è chiesta una battaglia ancora.
     Armi freman le piazze, armi gli altar.
     Chi crede a un brando, chi una croce adora,
     Chi una patria desia, scenda a pugnar.
     Mandi ogni monte un fremito. Ogni villa
     Faccia il suo bronzo all’altre ville udir.
     Popoli, in arme, dal Cenisio a Scilla!
     Non lasciam la seconda ora svanir.
     È infido il tempo, o Principi. Nè possa
     D’uom lo ripiglia quando in fuga egli è.
     Principi! Italia che di sangue è rossa,
     Può chieder conto a chi versar gliel fe’.
     E guai se indarno e’ fu versato. Ahi, tetra
     Veggio un’imago dei futuri dì,
     Se il vostro passo, o paürosi, indietra
     Dai sacri campi che li Signor v’aprì.
     Regie fughe, man ladre, anime oscene
     Veggio, orrendi fantasimi. Non più
     Viver civil; non queta ora di bene:
     E, ultim’ira di Dio, la servitù.
     Quindi tolta la fè; spento l’amore;
     Velati a bruno la giustizia e il ver.
     Notte rea di spavento e di furore…
     Questo, questo mi varca entro al pensier.
     Come a mendichi mal sofferti, il pane
     Ci fia gittato; poi l’insulto vil;
     Poi la verga; l’esilio; e le lontane
     Carceri; e il palco, per mondar l’ovil.
     E dirà il mondo: «Neghittosi e ignavi!
     Non han saputo esser concordi un dì.
     Ponghiam le spade; e non curiam gli schiavi!»
     T’allegra, Italia. Parleran così.
     Deh! non sia ver che la terribil voce,
     Come foco di Dio, piombi su te:
     Tu che aduni nel brando e nella croce
     Sofi, vati, guerrier, popoli, e re.
     Armi, o prenci d’Italia, anco una volta,
     Armi, o leoni del sabaudo sir.
     O Italia grande, o parricida e stolta.
     Eleggere v’è d’uopo. Armi, o perir.
     Maladetto colui che non oblia
     Torti patiti, o chi li torna a far.
     Maladetto chi vanta, o chi per via
     Mena il sospetto e il cicalio volgar.
     Tra l’aule e i fôri, tra i sepolcri e l’are
     Tuoni un sol grido italico e guerrier;
     «NOSTRA È LA TERRA DALLE REZIE AL MARE!
     VIA LO STRANIER, PERDIO, VIA LO STRANIER!»
     Armi!! E la stirpe che’ verrà. da noi
     Possa aver detto a chi da lei verrà:
     Giacque l’Italia per tre giorni; e poi,
     Come Cristo, è risorta a libertà.



   DOLORI E GIUSTIZIE

   Elegia
   Emilio mio,
   Ti scrivo col tramonto del sole; quando l’anima torna per dolce istinto di una sua tristezza dagli oggetti del mondo nella sua intima vita. Di me dunque ti parlo: e, non so perchè, ma una voce misteriosa mi dice di consegnarti questa pagina, come si consegna il rotolo al mare nell’ora del naufragio.
   Come son fatto, tu il sai: impetuoso, malinconico, bizzarro; ma schietto e buono. Sai che mia suprema ricchezza è il mio canto; e ch’io riposo nella benevolenza di pochi, come in asilo più sicuro dalle tiepidezze e dai mutamenti umani. Non son poverissimo, nè infelicissimo, perché ho modesti desiderî e coscienza pura. Pellegrinando passo di terra in terra: e raccolgo le esperienze degli uomini e delle cose; esperienze che quasi sempre si conchiusero per me con un segnalato dolore. Non mi lagno però: alcuni uomini somigliano alle pietruzze poste in riva all’Oceano: le fascia il sole un momento, e poi son travolte dai cavalloni del turbine. Chi sa se torneranno più al lido, e se di nuovo il sole le fascierà? Per me lieve preoccupazione è cotesta. Credo saldamente in Dio; adoro la verità; aspetto il regno della giustizia; parlo con la consapevole natura; e penso e vivo poetando. Fieramente assetato di libertà, giocai a quel gioco nei dì del pericolo: e per il profondo amore di essa non mi duole di aver patito; o dirò meglio, mi duole di non aver patito di più. Ma certe superlative novità mi conturbano, e non le comprendo. Ciò vuol dire che la mia giovinezza è passata. Nella guerra italiana mi eccitò una profonda e riverente simpatia Carlo Alberto, magnanimo ed infelice: mi parve un re cavalleresco della grandezza antica: e lo cantai come si canta la virtù, la lealtà e la sventura. Ciò spiacque ad uomini di partito; anime tormentate dalla diffidenza, dalla superbia e, dall’odio; e mi guardarono con sospetti degni di loro. Contento del mio cammino, non mi son cacciato sulla via delle volgari ambizioni. Il poeta non può averne che una sola ed insigne; quella di vivere concittadino dei posteri. Se ciò gli è conteso, canti e si spenga come il rosignolo sulla frasca del suo boschetto natale. Non amico di tumulti e rabbie di popolo, credetti sempre italiana virtù il condannarli. Quando la parola del coraggio mi parve più debito che ostentazione, parlai senza paura; quando il silenzio mi fu consigliato da sdegnoso pudore, tacqui senza viltà. Questo bel regno della concorde Italia era la mia fede e il mio voto; fede e voto veramente degni della persecuzione d’uomini nati in Italia! Quando parlai del Piemonte, come della gente più forte e virtuosa della penisola, e ne parlai con quell’omaggio che inspira la grandezza de’ sacrificii, parecchi dottori pubblicani e farisei del mondo politico, mi ghignarono intorno; nè il lutto delle madri e il sangue dei martiri valse a impor loro, non dirò il debito dell’ammirazione, come a giusti fratelli, ma neppure la dignità del silenzio, come ad emuli offesi. Oh astiosi e superbi; quanti mali infliggete alla patria, e quante piccole atrocità consumate contro chi vi è spina e martello! L’uomo schietto tra voi è l’uomo importuno. Io mi onoro di esservi importunissimo. Non repubblicano in Venezia repubblicana, ebbi il carcere; non democratico in Firenze democratica, ebbi l’esilio. Quell’idea di repubblica era in Venezia un error di buon senso e una colpa d’ingratitudine: larva di democrazia era in Firenze un assurdo di fatto e una cagione di scandalo. Combattei l’una e l’altra, come valsi, col diritto del mio libero pensiero; e mi risposero di tal mercede quei repubblicani santi e democratici puri, che ne avrebbe arrossito il più impudico sgherro imperiale. Ma l’uom fa le ingiurie e il tempo le vendica. Io però benedico ed amo Venezia che persiste, generosa Termopili, contro al barbaro; ringrazio ed amo Firenze che fece italianamente suo l’oltraggio a me fatto. Gli uomini che governano queste due nobilissime città passeranno come l’ombra. Lasciamoli passare. Troppo gravi cose maturano nelle convulsioni del mondo, per insistere sui ricordi d’un proprio dolore, o d’un’altrui vergogna. Emilio mio, amari giorni corrono agli onesti che tacciono per sdegno, e agli sdegnosi che parlano per onestà. Con audacie dolorose si contamina tutto. Si grida fede, libertà, popolo, patria; e poi alla fede si vela l’altare, alla libertà si toglie il pudore, al popolo s’insegna il tumulto, alla patria si ribadiscono le catene. Se andasse perduta la fiducia nell’Onnipotente, che resterebbe oggi agli uomini? Addio; sovvengati dell’amico tuo, che recherà nel sepolcro i canti, il volto e la coscienza immutabili. E tu sta più solo che puoi. Oggi la solitudine è dignità di sè stessi.
   Firenze, 21 dicembre 1848.


   DOLORI E GIUSTIZIE


     Dunque sui sacri margini .
     Velati dalla bruna
     Ombra dell’Alpe, il languido
     Mio capo adagerò,
     Svegliando ai consapevoli
     Silenzii della luna
     Di melodie fantastiche
     L’onda regal del Po?
     Grazie a’ miei fati. Un intimo
     Desio, come d’amante,
     Di voi pur sempre, o memori
     Plaghe, mi punse il cor;
     Tornerò dunque a premervi,
     Piagge dilette e sante,
     Che un dì sull’orme al profugo
     Lauri cresceste e fior.
     Come la bruna rondine,
     Fida del mar veliera,
     Drizza pur sempre al cognito
     Trave l’affetto, e il vol;
     Io vi drizzai la trepida
     Piuma del cor leggiera,
     Più che alle stelle e ai zeffiri
     Dei mio materno suol.
     Chè voi mi amaste: e un gelido
     Cor non amaste. O giorni
     Miei desolati! oh vedove
     Notti del mio pensier!
     Oh ingrate veglie! oh inutile
     Sogno de’ miei ritorni!
     In che nefandi calici
     Dio mi costrinse a ber!
     Le fresche aurore, i limpidi
     Miei vespri alla collina,
     L’eco de’ corni e il fervido
     Moto de’ veltri al pian,
     Gli antri, le coste, i floridi
     Boschetti e la marina
     Sul mesto cor dell’esule
     Versâr lusinghe invan.
     Sin di due trecce il morbido
     Nerissimo volume,
     E il canto, per la tenebra
     Ignea colonna a me,
     Mai più rifar non seppero
     Agli estri miei le piume,
     Dacché il poeta, o libere
     Alpi, l’addio vi die’.
     Oh, quante volte, un arido
     Crespo mirando, un fiore,
     Sveglie bizzarre al cupido
     Latente sovvenir,
     Di procellosi palpiti
     Sentii balzarmi il core,
     E il pronto viso in porpora
     Mutarsi e tramortir!
     Oh, quante volte, armigero
     Nido di prodi antico,
     Di te parlando, un gemito
     L’anima mia levò,
     Siccome avvien nei facili
     Momenti, che all’amico,
     Si vuol narrar d’un misero
     Nodo che Dio spezzò!
     Con sì fiero tormento io t’amai;
     E negli occhi dell’esule, oh credi,
     La letizia non venne più mai!
     Solitario nell’erme mie sedi,
     Non curando la infida ventura,
     Ai pensosi silenzii mi diedi!
     E là presso alla pia sepoltura,
     Che raccoglie il mio dolce parente,
     Lacrimai colla mesta natura!
     Ma pur sempre dal petto fremente
     Misi un grido sul molto e nefando
     Cimiterio dell’itala gente.
     E il ben vigile sgherro esecrando
     Per quel grido mi ordì la catena,
     Poi le tetre miserie del bando.
     Ti ringrazio, o mia gloria e mia pena,
     Fedel musa, che meco hai diviso
     Gli ardui giorni, costante e serena;
     Ti ringrazio, chè il mesto mio viso
     Più ti valse dell’intima acuta
     Ricordanza del tuo paradiso.
     Ahi! la fede dell’uom si tramuta,
     Non la tua; così splendida e forte
     Come l’ora in ch’io t’ho conosciuta!
     Dolce amica, alle pallide e corte
     Mie giornate, te sola vogl’io,
     Dolce amica, al mio letto di morte.
     Ché in te sola del nido natio
     Più m’accese l’indomito affetto,
     Chè in te sola conobbi più Dio.
     Ahimè! d’odio rigurgita il petto
     De’ mortali, e l’un verme si scaglia
     Sovra l’altro a rapirsi il banchetto!
     No, mia musa. È una giusta battaglia
     Quella ch’odi sul sacro Ticino:
     Ben fu cinto ogni brando, ogni maglia .
     Là si pugna pel nostro destino,
     Là son vòlti dell’Alpe i leoni
     Nelle reni all’estranio Caino.
     E tu pensa le grandi canzoni,
     Musa mia, quando l’aquila infame
     Fia respinta nei patrii burroni.
     E coperta di barbaro ossame
     Splenda Italia, e a quel pasto s’allegri
     Delle cagne notturne la fame.
     Oh speranza!… Ondeggiavano i negri
     Battaglioni, fremevan le squille,
     Ruggìa l’ira nel polso degli egri,
     Era un rombo di campi e di ville,
     Dardeggiavan di guerra sin’anco
     Le pensose virginee pupille;
     Di purpureo, di verde e di bianco
     Colorata era l’aria d’intorno,
     Luccicava d’un ferro ogni fianco.
     Oh speranza! fior breve d’un giorno!
     Tu cadesti coll’ombra… e rimase
     Di percossi un funereo soggiorno.
     Quanto lutto di vedove case!
     Quante mense deserte di figli!
     Quante piagge di tenebra invase!
     Che tumulto di fughe e d’esigli!
     Segno d’odio è re Carlo frattanto.
     Io cantato lo avea nei perigli…
     E pei tristi fu colpa il mio canto!
     Arca di sette popoli,
     Re de’ sabaudi e mio,
     Chi ti contrista, o martire,
     Sfregia l’Italia e Dio.
     Ma tu, mio re, consolati,
     Ch’ebra o demente voce
     La savoiarda croce
     Contaminar non può.
     Io ti cantai. Sacrileghe
     Mani scagliâr la pietra
     Sulla raminga e povera,
     Ma liberal, mia cetra;
     E fèr sinedrio, e dissero
     Le iene del deserto
     Che il fulgid’òr d’Alberto
     I canti miei comprò!
     Vili! dannate il perfido
     Labbro a sigillo eterno.
     Me la latrata ingiuria
     Fa sogghignar di scherno.
     Vili! le meste pagine
     Rigo de’ miei sudori,
     Ma non ha gemme ed ori
     Per comperarle un re!
     Che se dall’umil polvere,
     Dove obbliato io sono,
     Più il capitan che il principe
     Canto e l’acciar che il trono;
     Se incito i forti a sperdere
     Degli Amorrei le tende,
     Chi la mia cetra offende
     Quanto è minor di me!
     Sì, ti cantai, magnanimo
     D’Italia mia soldato,
     Caro al Signor, di splendidi
     Dolori incoronato!
     Là ti cantai sul veneto
     Mar, che tu re guardavi;
     E, premio al canto, i savi
     Le carceri m’aprir.
     Mastri in foggiar repubbliche,
     Non certo a voi m’atterro.
     Amo il furor di Spartaco;
     Odio de’ Gracchi il ferro:
     Piango al destin di Cesare,
     Qual di leon caduto,
     E del pugnal di Bruto
     M’è orrendo il sovvenir.
     Ribalenò sul memore
     Tebro quell’arme ancora…
     Ma che nefanda tenebra
     Dopo la bieca aurora!
     Più Samuel non vigila
     Di Solima alle porte;
     E un bruno vel di morte
     Copre di Dio l’altar.
     Pietà, Signor! Terribili
     Son questi giorni al mondo!
     Vasto è l’abisso; e Satana
     Ride dall’empio fondo:
     E consegnato ai turbini
     Quell’esecrabil riso,
     La terra e il paradiso
     S’avventa a separar.
     De’ miei fratelli o fêretri,
     Quanto v’invidia il core!
     Bella è la morte a vespero
     Quando col sol si muore
     Colà sui campi! Il bambolo
     Oggi a dolor si vesta;
     E coronata a festa
     Sia la caduca età.
     Meglio morir che incedere
     Su maladetta arena,
     Dietro recando il sonito
     Della servil catena!
     Liberi no, ma despoti
     Veggio dovunque e sento;
     E chi un ne abborre, a cento
     Come obbedir potrà?
     Meglio recar nei gelidi
     Regni dell’ombra i lumi
     Stanchi ed offesi. O picciolo
     Ma pur divin tra i fiumi,
     Che a questa bella Italia
     Crescon le rose indarno,
     Oh insuperabil Arno,
     Sulle cui rive un dì
     Trasse Alighier dall’ispide
     Guance il dolor più vero,
     E poi dall’arco i numeri
     Dell’immortal pensiero,
     Tu pur sei tetro! e il margine
     Però di fiori hai cinto.
     La bara dell’estinto
     Sparsa è di fior così.
     È parricida l’alito
     Dei vïolenti, il credi,
     Fiume gentil. Nè all’umide
     Or più vagar mi vedi
     Stelle nascenti, o attendere
     Cogli occhi inebrïati
     Gli splendidi e rosati
     Tramonti del tuo ciel.
     Nè mi vedrai. La libera
     Mia verità dispiacque.
     Meglio fidar le subite
     Ire alle nubi e all’acque,
     Meglio che all’uom. Difficile
     Pei coraggiosi è il giorno
     Che ruota il pazzo intorno
     La daga od il fiagel.
     Savi tu cerchi, o misera
     Italia mia; nè trovi
     Che rotte plebi, e cupide
     Rabbie, e tumulti nuovi:
     E in cenci da postribolo,
     Tra fescennine mazze,
     Tratta per l’ebbre piazze
     La casta libertà.
     Oh! di cocenti lacrime
     Righiam sommessi il ciglio,
     Miei generosi. È tramite
     Per me d’onor l’esiglio.
     Date le spalle al pelago
     Delle città frementi,
     O arcani fiumi! o venti!
     Tra noi si parlerà.
     Coll’alba e coi crepuscoli,
     Per fide selve e piani,
     Si parlerà, dal mobile
     Tetto dell’uom lontani.
     Si parlerà coll’aquila
     Della petrosa vetta,
     Coll’erma lodoletta
     Dal canto mattinier.
     Parte di sè quest’Iside
     Bella ed arcana a noi
     Rivelerà. Col novero
     Poco de’ figli suoi,
     Dall’ombre malinconiche
     Esce la dea talora,
     E parla a chi l’adora,
     Verginalmente il ver.
     Là sulle balze inospite,
     Campo a perpetui soli,
     Dove l’abisso odorano
     Scherzando i cavrioli,
     Dove alla rara e pendula
     Ombra di qualche pianta
     Sibila il ghiro, e canta
     Sui vespri il mandrïan;
     Là chiederem gli oroscopi
     Di questo palmo d’erba,
     Che nomiam terra, imagine
     Sì poca e sì superba!
     E riguardando immobili
     Tra i nembi e le paure
     Da quell’eterne alture
     Sull’ondeggiante pian,
     Vedrem ferirsi adulteri
     Schiavi e tiranni in guerra,
     Scettri e catene infrangersi,
     Ebra balzar la terra,
     E fra la rea caligine
     Di quella notte atroce
     La sanguinosa croce
     Del Nazaren tremar.
     Là dall’aerio culmine
     Questo vedrem. Ma quando
     L’ara de’ tuoi pontefici
     Sia vendicata, e il brando
     De’ figli tuoi, penisola
     Sacra di fede e d’armi,
     Suoneran altri i carmi
     Dal Cozio sasso al mar.
     Oh, se ritorni a splendere
     Nel ciel della speranza
     L’arco de’ forti, il mistico
     Segnal dell’alleanza,
     Che un dì dall’Arno al Tevere
     Parve raggiar sì lieto,
     Dal Tevere all’Oreto
     E dall’Oreto al Po,
     Oh se ritorni!… Ascoltami,
     Giusto Signor: s’aggreva
     Molto fallir sugli ómeri
     Dolenti di quest’Eva;
     Troppo, egli è ver, di Gerico
     S’è maculato il fiore,
     Ma la tua man, Signore,
     Purificar lo può.
     Pensa che d’Eli a Davide
     Qua la progenie crebbe,
     Che qua scintilla il vertice
     Del portentoso Orebbe,
     Che sigillati scorrono
     Qua sotto i tuoi lavacri,
     Che qua tra i cedri sacri
     La sposa tua fiorì.
     Verghe, ceffate e spasimi
     Scagliano i figli in lei;
     Gettan sull’aurea clamide
     Le sorti i farisei;
     Fremi, o Signor! la chiamano
     Regina d’Israele,
     E poi l’aceto e il fiele
     Le versano così!
     Fremi, o Signor. La tiepida
     Famiglia de’ tuoi fidi
     Ben lacrimando annovera
     Della tradita i gridi;
     Ma non si lancia a toglierle
     Dal sanguinoso crine
     Il serto delle spine
     Per darlo ai percussor.
     E se talun fra il sibilo,
     Degli itali laureti
     L’alta del cor risuscita
     Ira de’ tuoi profeti,
     Fremi, o gran Dio! lo dannano
     Alla catena e al bando…
     Quando i tuoi giusti, oh! quando
     Vendicherai, Signor!
     E là frattanto il barbaro
     Spia da’ lombardi colli
     L’ire selvagge, e un brindisi
     Manda ghignando ai folli.
     Poi sul guancial men timida
     China la testa a sera,
     E forse all’alba spera
     Rizzarsi alla tenzon!
     E l’armi nostre, ahi! deboli
     Saranno ed infelici;
     Chè chi la madre insanguina,
     Non può ferir nemici.
     Così rompendo il Teutono
     Nelle pollute stanze,
     Misurerà le danze
     De’ nostri ceppi al suon.
     Tresca intanto la turpe semenza;
     Pane d’odio al suo desco si frange,
     Si tracanna licor di demenza.
     Poi da’ sabbati l’ebbra falange
     Fuor si vomita, e ruota il flagello
     Sulla inerme, che sotto vi piange.
     Orsù! dunque, raccogli il fardello,
     O percossa tu pur: ma sorridi,
     Dolce musa, al tuo dolce fratello.
     Altre stelle vedremo, altri lidi,
     Qua lasciando uno stuol numerato,
     Scudo a noi, d’animosi e di fidi;
     Che le tempia all’iniquo peccato
     Solcherà con le cifre dell’ira,
     E il dolor ci farà vendicato.
     Dolce musa, per l’aure s’aggira
     Dell’Arabia un augel, che si pasce
     Negli odor della mistica pira.
     Poi, combusto dall’orride fasce
     Del roveto, più bello e raggiante
     Dal suo cenere mesto rinasce.
     Musa mia, questo afflitto esulante
     Muore anch’egli; ma tu, mia cortese,
     Non turbar le pupille tue sante.
     Nacque anch’ei nell’arcano paese,
     Dove è dato alla spoglia che muore
     Vendicar della morte le offese.
     Oggi passa in silenzio il mio cuore;
     Ma dimani il Signor lo risveglia,
     Perché giusto coi giusti è il Signore.
     Tu frattanto dêi compier la veglia
     Al defunto, che in cento, che in mille,
     Di qua lunge, orizzonti si speglia,
     Per recar nelle consce pupille
     Tali sguardi e sul labbro tai cose,
     Che ai codardi sien folgori e squille.
     Mentre te di ligustri e di rose
     Cingerò con le man rinnovate,
     Come il crin delle donne amorose.
     E in baciar le mie labbra rosate,
     Sentirai come pregne di cielo
     Son le spoglie alla morte involate.
     E tu allor nel tuo candido velo
     Sorgerai solitaria e gentile;
     E, al tuo canto, dai vepri e dal gelo
     Su per l’aura un effluvio sottile
     Salirà: poi fia rotta repente
     Ogni gleba in un cespo d’aprile.
     E in quell’ora profonda e ridente,
     Là seduta nel tuo paradiso,
     Ti vedran se sei bella e innocente.
     E diran: «Per che spazio è diviso
     Il suo canto dai canti mortali,
     E dal riso del mondo il suo riso!
     Pera il giorno che un nembo di strali
     Fu scagliato per aura sì pura,
     A ferir quel sembiante e quell’ali!»
     E tu, nova e celeste figura,
     Riderai, come donna che pensi,
     D’altre cose, e di queste non cura.
     E, a velarti, una nube d’incensi
     Mollemente verrà dalla valle
     In quell’ora di giubili immensi.
     Ma tu intanto ti grava le spalle
     Della croce del tuo pellegrino,
     E soletta dividi il suo calle.
     Non si monta per altro cammino
     Su quel giogo coperto di fiori,
     Non si splende gentil cherubino
     Che passando per questi dolori.
     Con occhi cento, il livido
     Poter, che in me s’indraga,
     Freme dei pigri farmachi,
     Conta le notti e i dì;
     E va chiedendo ai rigidi
     Mastri dell’arte maga
     Quando potrà quest’ibrida
     Larva sgombrar da qui.
     – Perchè riman? del popolo
     L’urlo e il pugnal non teme?
     Che fa costui? Domestico
     Sangue toscan non è.
     O perché dunque, incognito
     D’are, di patria e seme,
     Un volgo reo gli prodiga
     Fiori e speranze al piè?
     Via questa larva! il folgore
     De’ canti suoi possiede.
     Via questa larva! i facili
     Sonni turbar ci può.
     Molti che noi non amano,
     In questa larva han fede!
     Oh tristo il dì che l’ospite
     Arno abitar pensò!
     Ma, più dell’altre, oh perfida
     Notte per noi fallita,
     Che lo dovea, fra tacite
     Armi, di qua snidar!
     Gli saria stata ignobile
     Sfregio l’ambigua uscita…
     E invece un’egra coltrice
     Or gli diventa altar!
     E un cicalío di bamboli
     Sta contro noi frattanto:
     E a denunciar quest’opera,
     Spreca lamento e stil.
     Oh che rovente lamina
     È questo reo compianto,
     Che penetrò le viscere
     Della città servil! —
     Non v’accorate. I pallidi
     Labbri di sangue schietto
     Stillano, è ver; mi macera
     Cupo, latente ardor;
     Da scellerate affrangere
     Tossi mi sento il petto,
     L’ore notturne io numero;
     Brucio di febbre ancor;
     Ma sdegnerei di crescervi,
     O tribolati e vili,
     L’ansie paure e i torbidi
     Sogni che il ciel vi dà.
     Or voi la man stringetemi,
     Pochi, di cor gentili;
     Firenze, addio. Fu nobile
     Colpa la mia pietà.
     M’odi. Il fatal tuo lastrico
     Cela un vulcan, nè il sai:
     Sulle colombe i cupidi
     Falchi l’artiglio aprir:
     E tra i ruscelli e i salici
     Dall’ombra de’ rosai
     Le tenebrose vipere
     Si slanciano a ferir!
     Certo, le ree potrebbero
     Morir sotto i piè vostri,
     O fieramente unanimi,
     Se vi bastasse un cor.
     Dio più non manda gli angeli
     Per duellar co’ mostri;
     E l’uom, che inerte spasima,
     Merita il suo dolor.
     Sacra è la casa, il tempio,
     La libertà, la croce,
     Gli avi, le spose, i pargoli,
     Il campo ed il confin;
     Con chi li lascia offendere
     Sia l’offensor feroce,
     E al neghittoso imbianchisi
     Nel vituperio il crin.
     Non ti turbar, mia tenera,
     Mia dolce ispiratrice!
     Che l’ansio cor ti palpita
     Pe’ miei perigli, io so:
     Ma sia dannata ai vermini
     Bocca che il ver non dice;
     Reo di silenzi al vindice
     Mio Dio non salirò.
     Vieni e partiam. Con vincoli
     Di fede e di coraggio
     Ci unì la vita: esanime
     Io sarò teco ancor.
     Mi bacerai de’ lùgubri
     Ceri notturni al raggio,
     Mi deporrai sul feretro,
     Lo cingerai di fior.
     Quindi sull’erma lapide,
     Chiusa in tuo vel pudico,
     Risponderai, se a chiedere
     Ti venga il passeggier:
     – «Le spoglie pie qua dormono
     D’un mio profondo amico,
     Cui lieti dì non risero,
     Perché non tacque il ver.». —
     Sorella mia, non piangere…
     Dammi un amplesso. Oh! vedi
     Come soave e placido
     Laggiù tramonta il sol?
     Sorella mia, con simile
     Pace si muor, mel credi.
     Rose vogl’io, non lacrime
     Sul funebre lenzuol.



   LA STATUA DI EMANUELE FILIBERTO E LA SENTINELLA


   DIALOGO I

 //-- (Avanti la battaglia di Novara) --// 

     Senza macchia e senza tarlo,
     Prode in armi, e a Dio fedele,
     Sulla piazza di San Carlo
     Veglia ritto Emanuele.
     Non si ficca, in certe prove;
     Caschi il mondo ei non si move,
     Non gli garba andare a zonzo;
     È un re forte, un re di bronzo.
     Ier di notte (è un caso strano
     Ch’io vi narro, e che m’ha scosso),
     Nel suo civico pastrano
     Un po’ tinto in color rosso,
     La noiata sentinella
     Col fucil sotto l’ascella,
     Tra la nebbia, a passo lento,
     Fea la guardia al monumento.
     Ode un cricchio… e non a torto
     N’è la scolta impaurita;
     Leva il capo… e vede il morto
     Che si move e piglia vita.
     Oh dell’ombre arcani effetti!
     Ecco il re di Marocchetti,
     Che alza il braccio, i baffi stira,
     Guarda l’Alpe, e poi sospira.
     – Che cos’è che le dà noia,
     Maestà? – gridò la scolta:
     E il real della Savoia:
     —Tel diremo un’altra volta.
     —Tel direm? Ciò suona male;
     Il pronome è illiberale.
     Il Noi regio andò al disotto.
     – Io l’adopro e me ne inf…
     Vivaddio! qual hai tu merto
     Perch’io sfoggi il galateo?
     Non mi chiamo Carlo Alberto,
     O mio povero babbeo.
     Io son re d’un’altra pasta;
     V’ho annasati, e tanto basta.
     – Alto là! saria codino
     Il guerrier di San Quintino?
     – Per cambiar le fave in ceci
     Non valea tirar la spada.
     Tanto dissi e tanto feci,
     Per salvar la mia contrada.
     Or, parliamoci a quattr’occhi,
     Per un branco di pitocchi,
     Che implebeiano il governo,
     Esser principi è uno scherno.
     E almen fossero costoro
     Di cor retto e mente salda;
     Ma son tutti un concistoro
     Di somier di prima falda.
     Parlamento e gabinetto
     Son due sbrendoli di ghetto.
     – Maestà, parli un po’ basso,
     Altrimenti faccio chiasso.
     Che? Le piacciono i ristagni,
     Gli arzigogoli, i tranelli
     Dei Cavour, dei Buoncompagni,
     Dei Gioberti e dei Pinelli?
     Bando bando ai pecoroni
     Delle mitre e dei blasoni!
     Non ci vuol che il dio Viperio
     Per dar vita al cimiterio.
     – Chi è costui?… saria quel desso,
     Che a pescar mignatte e scudi,
     Per tant’anni il grugno ha messo
     Nelle ungariche paludi?
     Merta ben pel sommo uffizio
     Il cordon di San Maurizio…
     Che lo strozzi, nel Signore!
     – Maestà! chiamo il Questore. —
     – Chiama pur; ma quando penso
     A quel Giuda invetriato,
     Che al buon prete ardea l’incenso,
     E che poi l’ha tracollato,
     Vergognar mi debbo assai
     Del paese ov’io regnai.
     – Maestà, se non si frena
     Do l’allarme a gola piena.
     – Quando penso e quando vedo
     Che una Camera si pone
     Genuflessa a dire il Credo
     Di cotesto don Pirlone,
     Scaverei con la mia mano
     Una mina al Carignano,
     Vi vorrei porr’io la brace
     – Maestà! tace o non tace?
     – Son molt’anni se li conti,
     Che sto zitto e non mi movo,
     E che faccio i miei confronti
     Tra i dì vecchi e il tempo nuovo.
     – Dica dunque; che le pare?
     – Che oramai dall’alpe al mare
     Molto fetida è la gora.
     – Maestà! continua ancora?
     Ma non vede?… – Vedo tutto.
     – Ma l’Italia?… – È un guazzabuglio.
     – Ma la guerra? – È un certo frutto
     Che il vedremo in fin di luglio. —
     E la scolta al frizzo orrendo
     Il fucil spianò fremendo,
     E gridò col capogiro:
     – Parli meglio… o ch’io le tiro.
     – Tira pur non mi confondo.
     In su questo piedestallo
     Per veder come va il mondo
     Ho fermato il mio cavallo.
     E or che ho visto, e visto troppo,
     Me ne parto di galoppo. —
     E il guerriero in questo mentre,
     Gli cacciò lo spron nel ventre.
     E il caval nitrendo sbuffa
     Pesta il marmo e lo ripesta,
     La criniera gli si arruffa
     Col rumor della tempesta;
     Ecco impennasi; e dall’alto
     Sta per dare il primo salto.
     E la scolta, poveretta,
     Supplicando al suol si getta.
     – Maestà! mio buon Signore,
     Per pietà non m’abbandoni.
     Maladetto il fonditore
     Che gli ha fatto anche gli sproni!
     Maestà! già lei non brama
     Ch’io qua perda onore o fama;
     La ci pensi, e non si butti
     A fuggir come fan tutti.
     Di trottar verso Gaeta
     Ha lei pur la regia idea?
     Che diran Mellana e Reta
     Di me ciuco all’Assemblea?
     Sclameran che è un’opra indegna
     Tradir l’arma e la consegna.
     E di lei, col noto stile,
     Grideran che è proprio un vile. —
     Non finía questa parola
     Che il feroce Savoiardo
     Gli serrò la voce in gola
     Colla fiamma dello sguardo.
     Il destrier la zampa arretra
     Sul suo zoccolo di pietra:
     Calmo è il ciel; piombato il forte
     Nel silenzio della morte.
     Tersa allor la faccia bianca
     Dal sudor della paura,
     Quella scolta un po’ più franca
     Si rimise in positura,
     E al diman salì le scale
     Del Comando Generale…
     E parlò distesamente
     Contro il re compromettente.



   DIALOGO II

 //-- (Dopo la rotta di Novara) --// 

     Ier di notte un’altra volta
     Filiberto si riscosse;
     Palpitò la nota scolta,
     Ma dimande non gli mosse;
     Anzi al suol chinò la testa
     Presentendo la tempesta,
     Chè già odia quel re di ferro
     Bestemmiar come uno sgherro.
     – Maledetta indipendenza,
     Buffonesca libertà!
     Perso è il grano e la semenza,
     Siam f.….i come va.
     – Perdonategli, o Signore,
     È un momento di dolore —
     Mormorava il buon soldato
     Un tantin scandolezzato.
     – Dimmi dunque: il Bollettino?…
     – Maestà!… pur troppo è vero.
     – Lo straniero è sul Ticino?
     – Alla Sesia è lo straniero.
     – Che? Alessandria è dunque invasa?
     O rossor della mia Casa! —
     Dalla reggia i lumi torse,
     E in furor le man si morse.
     D’atra luce in quel momento
     Rischiarossi il buio loco,
     I pilastri, il monumento,
     Tutto il bronzo era di foco.
     Tempestando il novo Orlando
     Spacca in due l’antico brando,
     E il grand’elmo e la corazza
     Scaraventa per la piazza.
     – Ahi sventura! e non vel dissi?
     Non potea la stolta guerra
     Che scavar nefandi abissi
     Alla povera mia terra.
     Bell’onor che s’è comprato
     Sovra i campi il re soldato!
     – Maestà; non vane offese;
     Lei fu grande, or sia cortese.
     Hai ragion. Povero Alberto,
     Tristo gioco a illustri inganni!
     Di qual drappo or s’è coverto
     Il pensier di diciott’anni!
     L’Ostia insigne or cadde; e l’ara
     Fosti tu, fatal Novara.
     Or soletto il passo ei move
     Ramingando, e chi sa dove.
     Va; ti cerca un queto esiglio,
     Non udrai da me rampogna.
     Non di te, mio degno figlio,
     Ma d’Italia è la vergogna.
     Vedi omai per qual contrada
     Tu ponesti onore e spada!
     Questa dunque è la mercede
     Riserbata a tanta fede!
     Quel mio prode ed infelice
     Ti riscosse, o sonnolenta,
     Tu il tradisti accusatrice,
     Trista Italia: or sei contenta?
     Là sull’Arno e al Campidoglio
     Tu gli hai tolto onore e soglio,
     Rendi i polsi alla catena,
     Fiera e giusta è la tua pena.
     – Maestà! pur troppo io sento
     La rampogna, e il viso ascondo:
     E or di noi vigliacco armento
     Che dirà, l’Europa e il mondo?
     – Ghignerà, come si suole
     D’un gran cencio esposto al sole,
     Che gridasse al passeggiero:
     Io fui porpora d’impero.
     – Maestà, ma ier degli Avi
     Re Vittorio al trono ascese,
     E chi sa ch’ei non ci lavi
     Del rossor di tante offese?
     Quel Sabaudo giovinetto
     D’un Leone ha il core in petto,
     E se fausta è la stagione
     Risvegliar si può il leone.
     – Zitto là che non t’ascolti
     Il caduco Maresciallo,
     Or che trae dai nostri colti
     Il foraggio al suo cavallo.
     – Maestà, lei parla saggio,
     Però un’onta è quel foraggio.
     – Ma frattanto che si ciarla
     Non si pensa a vendicarla.
     Zitto là! si tessa queti;
     Guai se strepita la spola.
     Torneranno i giorni lieti.
     – Maestà! lei mi consola,
     Maestà! c’é dunque caso!…
     – Va; non farmi il ficcanaso,
     Zitto là. C’è ancor nel covo
     Dell’Italia, il gallo e l’uovo.
     Ma, per Dio! cacciate in bando
     Rossi e rieri farisei,
     Che nei bossoli agitando
     Il berretto e l’agnusdei,
     Han condotto al vituperio,
     (Noti ben messer Viperio)
     Il reame subalpino
     Con il fil del burattino.
     E tu re, che or sei salito
     D’onde è sceso il tuo gran padre,
     Che il mio nome hai rinverdito,
     Tu leon fra le tue squadre;
     Bada ben la via, ch’or prendi,
     Ch’ella è fatta a saliscendi;
     Guarda i cor, non i sorrisi:
     Via le larve, e cerca i visi.
     Hai giurato ad una Carta;
     Tentennar non ti conviene;
     Ma temprando Atene e Sparta,
     Sparta imita, e onora Atene;
     E se alcun ti sbarra il passo,
     Man di ferro e cor di sasso.
     Sia l’esempio ripetuto
     Dei papaveri di Bruto.
     Con memorie dolorose
     Guarda sempre all’Alpe e al mare;
     Dove crescono le rose
     Cerca i lauri alimentare;
     Ama i prodi; i giusti onora,
     E in silenzio attendi l’ora,
     – Maestà! lei mi conforta
     A parlar di questa sorta.
     – Ti conforto?… Eppur mi sembra
     Che dì son, se tel rammenti,
     Ti corresse per le membra
     La repubblica a torrenti,
     E so ancor che irato in faccia
     Mi scagliasti una minaccia
     Colla bocca del fucile,
     E persin… M’hai detto vile.
     – Sono un povero soldato,
     Poco pensa e manco vedo,
     Ma m’accorgo che m’han dato
     Questi birbi un tristo credo,
     E sinor senza mio fallo
     Lo cantai da pappagallo;
     Però qui sull’onor mio
     Io le giuro innanzi a Dio,
     Che appostato in certo calle
     Diman notte, un meministi
     Lasciar voglio sulle spalle
     Di parecchi giornalisti;
     Non so ben se lei m’intenda,
     Per finir questa faccenda.
     – Picchia giù; tu sarai degno
     Cittadin del nuovo regno.
     Sono orrendi i lor peccati,
     Picchia giù senza pietà.
     – Tengo certi camerati….
     Lasci fare, Maestà!
     – Vivaddio, poveri troni
     Che han bisogno dei bastoni,
     Or che un santo e civil uso
     Al cannon la bocca ha chiuso.
     – Maestà! ma se Dio vuole,
     Quel cannon sarà sospinto
     Sul Ticin. – Non più parole,
     L’albagìa sta male al vinto.
     Però sentimi: se un giorno
     Per lavarci il doppio scorno
     Sorgerem dal mare all’Alpe
     Veri popoli e non talpe,
     Con Vittorio e co’ suoi forti,
     Con Fernando e con Umberto,
     Volerà tra le coorti
     Anche il vecchio Filiberto.
     Tufferò nel vinto Isonzo
     Queste redini di bronzo;
     E in mancanza di quel brando
     Che ho spezzato lacrimando,
     In quell’ultima fortuna
     Dio medesmo al suo fedele,
     Porgerà la spada bruna
     Dell’Arcangelo Michele,
     E il Lucifero secondo,
     Che avvelena il fior del mondo,
     In eterno fia diviso
     Dall’ausonio paradiso!
     Oh caval della mia gloria,
     Tu risenti i vecchi ardori:
     Certo è chiusa, una vittoria
     Nelle aurette che tu odori.
     Ferma il piè; rabbassa i crini;
     Non nitrir; chè i tuoi vicini
     Tutti omai dal bimbo al nonno
     Son rifitti in grembo al sonno.
     Ma se Italia non si sbenda
     Fra dieci anni i pigri lumi,
     Manda un urlo, e in lei discenda
     Ferro e foco, e la consumi;
     La bufera e la valanga
     Su vi passi, e non rimanga
     Della trista un sol ricordo!
     – Maestà! Siamo d’accordo.




   ALL’ESERCITO DOPO NOVARA


     E foste vinti, ahi lassi!
     Dai peregrini acciari:
     Spietatamente amari
     Fur del ritorno i passi;
     E sulla terra vostra,
     Dopo la infame giostra,
     L’usurpator le barbare
     Tende ghignando alzò.
     Liberamente morti
     Ostie del reo destino,
     Là sul fatal Ticino
     Dormono i nostri forti;
     E fu pietà del cielo
     Che nel funèbre velo
     Li ravvolgea, nè seppero
     Chi vincitor restò.
     Voi ne’ paterni ostelli
     Spersi reddiste e domi
     A dir le gesta e i nomi
     Dei perduti fratelli;
     E vi pesaro intorno
     L’arme infelici, e il giorno
     Malediceste, e l’ultima
     Ora che il sol morì
     Sugli spezzati brandi
     Sulle bandiere afflitte,
     Mentre le torme fitte
     Dei vincitor nefandi
     Rupper le cinte e i valli,
     E dei negri cavalli
     Nei superati tramiti
     L’empio nitrito uscì.
     E indarno l’accorata
     Pietà del mondo, e i baci,
     E i complessi tenaci
     D’ogni persona amata
     Vi consolaro. Il prode,
     Vinto che sia, non ode
     Conforti umani. Il feretro
     È carità miglior.
     Deh, con che senso ornai
     Riguarderete i mesti
     Puledri, e sulle vesti
     E sulle lance i rai
     Vi pioveran del sole;
     E le usate parole
     E i bei sogni di gloria
     V’agiteranno il cor!
     Voi prometteste i serti
     Alle care donzelle,
     E vi riveggion elle
     Ahi, di pallor coperti!
     Le man d’Italia affrena
     Nova, e più rea catena,
     E prometteste a Italia
     La dolce libertà!
     Datevi pace. Offese
     Voi la Fortuna, antica
     Druda sleal, nemica
     Delle gentili imprese.
     Datevi pace; ell’era
     Ben colla rea bandiera;
     Ma il Dritto è un solo; e vincoli
     Stretti con lei non ha.
     Ei colle salde mani
     Pose fra genti e genti
     Le montagne, i torrenti,
     Le selve e gli oceàni
     Per designar la schietta
     Parte che a ognun s’aspetta;
     E la Natura ai popoli
     Un core e un verbo diè,
     Perché difforme verbo
     Perché difforme core
     Tra suddito e signore
     Non fesse il nodo acerbo.
     E voi d’Itale case
     Senso natìo süase
     Contra costor, che posero
     Nell’altrui parte il piè.
     Or ben; fallì il certame.
     Forte è il più reo talvolta.
     Già di Caïn sepolta
     Non è la mazza infame.
     Ma scoppiano furenti
     Sul parricida i venti
     Urlando la terribile
     Condanna del Signor.
     Meglio a voi la caduta
     Che la vittoria ai figli
     Dell’ingiustizia. Artigli
     Di falco han posseduta
     La terra altrui; ma invano
     Della rapina il grano
     Si ciba in festa: attossica
     Il sangue al predator.
     Voi per la patria cara,
     Voi per la vecchia fede
     Il cor recaste e il piede
     Nella terribil gara.
     Sacre eran l’armi; degno
     Della speranze il segno;
     Con voi pugnava il libero
     Brando dei vostri re.
     Era l’Italia il voto,
     Via lo straniero, il grido.
     Nè fu selvaggio lido
     Che non fiorisse al moto
     Di quest’ausonio aprile,
     Nè fu petto gentile
     Che poi non desse un gemito,
     Stirpe Sabauda, a te.
     E invece i fortunati
     Trionfator che sono?
     D’una larva di trono
     Mal securi soldati,
     Cui gloria è alzar le spade
     Sovra le altrui contrade,
     Multar le messi, e irridere
     Fra i nappi e la beltà.
     Alle rive lombarde;
     Al Po temente; ai presi
     Moschetti; ai calabresi
     Cappelli; alle coccarde;
     Ai vecchi duci, al biondo
     Lor re fanciullo, e al mondo
     Che li dispregia, e al provvido
     Dio che gioir li fa.
     Turba corrotta. E i pochi
     Tra lor più generosi
     Sospirano i riposi
     Nei domestici fochi:
     E forse ai figli accanto
     Ricorderan col pianto
     L’ore, in cui tristo il vincere,
     Lieto il morir sembrò.
     Ite ai lari nativi,
     Come onor vi consiglia;
     E all’intenta famiglia
     Il buon racconto arrivi.
     Dite che non matura
     Nel giardin di natura
     L’odio da sè, ma il nordico
     Furor vel seminò.
     Dite ai vostri gagliardi
     Che guardino lor terre,
     E in pellegrine guerre
     Non rechino stendardi,
     Che par grave l’usbergo,
     E mal si preme il tergo
     D’un caval di battaglia
     Coll’ingiustizia in sen,
     Che l’ore ha numerate
     Per sè Fortuna, e Dio
     È re dei tempi, e obblio
     In sua ragion non pate,
     Che anch’egli ha brandi e tende
     E quadrighe tremende,
     E gli Amorrei son polvere
     Se alla battaglia vien.
     Questo lor dite; e quando
     Gli alteri, o mal prudenti,
     Nei futuri cimenti,
     Ricingan elmo e brando,
     Pregate sì che illesi
     Gl’incauti a voi sien resi;
     Ma se vi tenta il demone
     Trionfi ad invocar;
     (Deh perdonate all’ira)
     Nelle vostre magioni
     Cotesto nuncio suoni;
     Che la prole delira
     Chiusi ha per sempre i lumi
     Qua sui lombardi fiumi,
     E ne han le salme i vortici
     Per seppellirle in mar.
     Nordiche madri, a voi
     Suona il mio voto orrendo,
     Nè già godrei veggendo
     Madre che plori i suoi;
     Ma quest’Italia oppressa
     Ha le sue madri anch’essa,
     Che per voi denno in vedove
     Bende, infelici! uscir.
     Nel dì dei vostri affanni
     I bardi di Lamagna
     Geman con voi; non piagna
     Italo cor quei danni.
     Quando fra due s’è fatto
     D’immortal giostra un patto,
     Sopra una spoglia esanime
     Debbe un dei due gioir.
     Sappiam, che appena invase
     L’aquila i nostri nidi,
     Rupper giocondi gridi
     Là nelle vostre case,
     E tra le gemme e gli ori
     S’alzar le mense, e a fiori
     Fu delle bionde vergini
     Incoronato il crin.
     Questo sappiam, felici,
     Nè chi l’assenzio or beve
     Dimenticar mai deve
     La festa dei nemici.
     E noi pensosi in petto
     La custodiam. No, stretto
     Non è in sì picciol termine
     Della gran lite il fin.
     E voi levate il viso
     Nella speranza, o prodi,
     Di quest’alpe custodi,
     E consentite al riso
     Delle bocche amorose,
     Perché ha dolcezze ascose
     Veglia d’amor, che seguita
     D’una battaglia il dì.
     Nei presidii fiorenti,
     Sopra gli aerei spaldi
     L’antico ardor vi scaldi
     Dei guerrieri concenti,
     E vagheggiando l’ora
     D’una gran pugna ancora,
     Gittate il guanto al perfido
     Destin che vi tradì.
     Pensate ai rigidi avi
     Della vostra contrada,
     Che in Cristo e nella spada
     Lor fede han posta. I bravi
     Petti stan saldi, come
     Salda di tronco e chiome
     La fulminata rovere
     Sulla vostr’alpe sta.
     Pel sanguigno lavacro
     D’ogni vostra ferita
     Freme e ripiglia vita
     Dei morti il cener sacro,
     E vi dimanda, o cari,
     Di vendicar gli acciari,
     Per poi legarli ai pargoli
     In santa eredità.
     Così sulle guaine
     L’antico onor vi brilli,
     V’annodino ai vessilli
     Le austere discipline.
     È l’obbedir rammarco
     Per chi d’ignavia è carco,
     Per chi di forza esubera
     È l’obbedir virtù.
     Abbia chi questo apprezza
     Nei dì di gloria muti
     L’encomio dei canuti,
     L’amor della bellezza;
     E quando l’alba torni
     Di più felici giorni
     L’italo sol lo illumini
     D’un’altra gioventù.
     Poche ingiurie codarde
     Non vi trafiggan l’alma,
     Voi, che attendeste in calma
     Le alemanne labarde:
     Ma su l’elsa fedele
     Del vostro Emanuele
     Spïate colla cupida
     Pupilla l’avvenir,
     E intanto nelle liete
     Corse di campi e d’armi,
     Me cogli auguri carmi
     Vate solingo udrete,
     Solingo qual chi pensa
     Che ove il volgo s’addensa
     È vaniloquio, e sogliono
     Gli arditi estri languir.
     Nè già premio alla musa
     Dal dì che varca, agogno;
     In più ridente sogno
     La mia speranza è chiusa.
     Ma se avverrà che muoia
     Sull’armi di Savoia
     Tinto d’infami porpore
     La terza volta il Sol,
     Sopra un deserto lito
     Possa io chinar la testa
     Esanime; chè pesta
     Barbarica, o nitrito
     Io più non senta, o veda,
     Quasi a ludibrio e preda,
     Seguir superbo il teutono
     L’itale nuore in duol.
     Ma il patireste, o nati
     Dal cor dell’alpe? O fieri
     Superstiti guerrieri
     Dei campi insanguinati?…
     E ciò pur fosse; io pieno
     D’alte speranze, in seno
     Cadrò dell’urna; a scotermi
     Quando che sia, verrà
     Certo il fragor; Si è vinto!
     Nostra è l’Italia alfine!
     E alle voci divine
     Agitato l’estinto,
     Qualche eccelsa armonia
     Non modulata pria,
     Le meste solitudini
     Di morte inonderà.



   IN MORTE DI GIUSEPPE GIUSTI A LEOPOLDO CEMPINI

   Amico,
   A te, ed a voi tutti, gentili Toscani, che mi avete dimostrato tanta cordiale affezione in tempi oscuri, consacro ed invio. questo canto, come debito e segno di gratitudine. È un tributo povero sì, ma riverente, e sincero, ch’io rendo alla memoria di un vostro concittadino, il quale onorò in brevi anni la propria vita e l’Italia.
   La morte, che toglie prima i migliori, vi tolse dopo il Bartolini anche il Giusti; quasichè alla tanta serie dei pubblici infortunii dovessero porre il cumulo le sepolture di quei rari uomini, i quali consolavano almeno il lutto della nazione coi sacri studii e col nome famoso.
   Ti prego di far gradire questo mio canto, anzi di leggerlo tu medesimo a Gino Capponi, che fu quasi fratello e padre al povero Beppe, onde almen sappia anche quest’altro insigne uomo, così buono e così sventurato, che i veri generosi in Italia, vivano o muoiano, hanno sempre da qualcheduno lodi, riverenza e compianto; anche in dura stagione, allorchè il mondo suol troppo poco attendere alla vita o alla morte di tali, che non affliggendolo l’hanno Illustrato.
   Addio; e se visiti quel caro e onorato sepolcro, deponivi anche in mio nome un ramoscello di quercia.

     Il tuo PRATI.
     Come un occiduo sole
     Del tuo gentil paese,
     Cadesti, amico. E il mese,
     Che tinge le vïole,
     E alla fatal penisola
     Campi di pugne e di sepolcri aprì,
     Te pur, te pur del tristo
     Cipresso ha coronato!
     E sul tuo volto, ombrato
     Di speme ancor, fu visto,
     Siccome ladro, scendere
     Precipite il nefando ultimo dì.
     Or del tuo sasso accanto
     Dorme il flagel tebano,
     Che la tua ferrea mano
     Fea sibilar nel canto,
     Onde, sui turpi talami,
     L’Itala Aspasia di rossor tremò.
     In secolo ingiocondo
     Ahi tu nascesti, o prode.
     E spesso incensi e lode
     Scorda aver dato i l mondo,
     Per contristar col mobile
     Ghigno que’ petti, che domar non può.
     Tal ti vid’io sull’Arno
     Nella stagion dell’ira,
     Quando d’Alceo la lira,
     Casto ed insigne indarno,
     Velar ti piacque, e in torbida
     Solitudine i giorni egri languir;
     Però che l’alma chiusa
     A non cospicui sdegni,
     Tra ingrati volghi e regni
     La concitabil musa
     Mandar tremasti, e pallida
     Vederla d’odio, a’ baci tuoi reddir,
     Meglio così! Di rose
     Ti fè giaciglio al fianco
     Ella; e sul capo stanco
     Le belle man ti pose.
     E ti dicea: «La provvida.
     Morte ci meni a libertà, miglior.»
     Così movendo un riso
     Amaramente mesto,
     Via. ti rapì da questo
     Putrido ovil diviso,
     Le cui battaglie e i feretri
     La irridente natura orna di fior.
     Via ti rapì. Del modo
     Chi si turbò? Chi pianse?…
     De’ giorni tuoi si franse
     Quasi non visto il nodo.
     Muoion gli illustri; e il cupido
     Mondo li scote dalla mente, al par
     Che il vïator la foglia
     Che gli cascò sul crine.
     Son queste le divine
     Gioie che il Ver germoglia,
     Fin sulla tomba, ai flamini
     Trafitti a’ piè del suo difeso altar!
     Ma non sdegnarti, altera
     Ombra, di ciò. Tien gli occhi
     Sul nido tuo. Che il tocchi
     Scerni tu cosa?… Impera
     Querulo un tedio. E sfolgora
     Frattanto dalle plaghe artiche il ciel.
     Credi, beato è il punto
     In che si porta a riva
     Da triste acque la diva
     Anima stanca, e giunto
     Il navicello all’isola,
     Dietro si guarda al pelago crudel.
     Stuol di puledre infido
     Ver l’occidente incalza,
     Pel negro etere s’alza
     D’aquile ignote un grido,
     E agl’iperborei vertici
     Balena l’ombra del cosacco Re.
     Forse di scuri e brandi
     Vedrem connubio ancora;
     E la cruenta aurora
     Di secoli nefandi
     Rosseggerà sui maceri
     Frusti di un mondo che di Dio non è,
     Ma la tua parca valle
     Spero, e l’umil tuo sasso
     Non turberà nè il passo
     Di barbare cavalle,
     Nè il reo fragor de’ litui,
     Nè delle picche maledette il suon.
     Dormi. I superbi nati
     D’un secolo mendico
     Quei di sotterra, amico,
     Nomineran beati,
     Però che lassi, al termine
     Di tante larve, ebber la pace in don.
     Ma tu, or, che fai? Del cielo
     Qual loco è tuo? Gli eventi
     Sai tu predir? Ne santi
     L’arcano corso? Il velo
     Questa tua dolce Italia
     Coprirà della morte?… Alma gentil,
     Deh! se ti piacque un giorno,
     La conscia man serrarmi;
     E l’aura dei miei carmi
     Grata ti venne intorno,
     Migra nel dio che m’agita,
     E in profetiche vampe ardi il mio stil.
     Ardilo; e ch’io, salito
     Sulla vorago orrenda,
     Le nude braccia stenda
     A ogni terrestre lito,
     E le quaranta suonino
     Minaci aurore al pigro occidental.
     Poi la fulminea possa,
     Che un dì fu tua, m’insegua,
     Onde de’ morti io vegna
     Ad alitar sull’ossa,
     E là repente ondeggino
     Fiere selve di brandi. Altro non val.
     Ch’io pregherò, se alcuna
     Ti fu diletta mai,
     Che qualche rosa, a’ rai
     Dell’imminente luna,
     Sparga pensosa, e lacrimi
     Colà, non vista, del tuo salcio al piè.
     Ahi! se viviam deserti,
     Se il freddo cor non ama,
     Dite, che val la fama?…
     Che de’ begli anni i serti?…
     Tempio senz’ara ed ospiti
     È nostr’anima, Amor, priva di te.
     Tutto di fragil seme,
     Qua si distempra e solve.
     E colla varia polve
     Da mane a vespro insieme
     L’uom pur, levita e principe,
     Cade, come corroso embrice, al suol.
     Ma quell’assidua morte,
     Amor, tu rifecondi.
     E quando il sole e i mondi
     Si disfaran, tu forte,
     In bianchi abiti d’angelo,
     Ci aprirai nuovi mondi e nuovo sol.
     Sta’meco, Amor. Mi fiede
     Vario vulgar sussurro:
     Ma gli astri, i fior, l’azzurro
     Nessun mi vieta, e il piede
     Mover solingo ai margini
     Delle fide correnti; e meditar.
     Novissimo conforto,
     De’ tuoi prodigi il canto,
     E dar vïole a un santo
     Capo tradito o morto,
     E in quegli eccelsi palpiti
     Anche chi m’odia, vendicato, amar.



   ALLE CENERI DI CARLO ALBERTO


     Non serva agli antichi, nè ai novi potenti,
     Non serva alle plebi compresse o vincenti,
     Straniera ai sorrisi, straniera al furor,
     La musa romita col dio che la ispira,
     Per l’aure funébri d’Italia s’aggira,
     Piangendo la fede d’un tempo miglior.
     Piangendo le indarno conserte bandiere,
     I ponti varcati, le trombe guerriere,
     L’armato tripudio di cento città,
     Nei dì che una terra d’oppressi e traditi,
     Scordate le veglie, le danze, i conviti,
     Promise a sè stessa la sua libertà.
     Sentir fu creduta la intíma di Dio:
     «Cacciate l’estranio dal nido natío,
     Stringetevi tutti nel brando d’un Re.
     Palestra pugnata dai vecchi giganti,
     Delubro custode del patto de’santi,
     Più terra di schiavi l’Italia non è!»
     Oh sogni svaniti! Sull’arca di Roma
     Suonâr gli aquiloni. Recisa è la chioma
     Al Forte di Giuda, che Pio si nomò.
     Compulse dall’ira d’un volgo feroce,
     Divise e tremanti la spada e la croce,
     La stella dell’Alpi comparve… e passò.
     Ahi mesto tumulto di fughe e d’esigli!
     Ahi pianto di madri sul corpo de’ figli
     Trafitti e calpesti da un volgo stranier,
     Che vien preceduto dal suon della morte,
     Che ai vinti ripiglia le torri e le porte,
     Che ai deschi interrotti ritorna a seder!
     E ai campi lombardi la messe non langue,
     La messe che, tinta d’italico sangue,
     Par anzi che abbondi sul misero suol,
     Per far più giocondo l’avaro sorriso
     Del vil che la multa, che studia nel viso
     Dei servi multati la colpa del duol.
     Or dunque di novo, sventura! sventura!
     Salendo alle nozze, rimorso e paura
     La donna nei chiusi suoi talami avrà,
     Però che all’indizio del grembo amoroso,
     Respinta la gioia d’un palpito ascoso,
     «Concetto ho uno schiavo!» piangendo dirà.
     Or dunque, deserta la casa e la vite
     Dei mesti parenti, le assise aborrite
     La prole lombarda dovrà rivestir,
     Servendo una razza di furti pasciuta,
     Che un giorno dai patrii castelli ha veduta,
     Qual branco di belve, dispersa fuggir!…
     Per numero, oh prodi stranieri esecrandi,
     Che a Dio rincrescete, col dritto de’ brandi
     Tenendo una terra che vostra non fu,
     Qual fede, qual patto tra noi può legarsi?
     Voi molti, noi pochi; voi stretti, noi sparsi,
     Vegliamci pensosi… Ma patti mai più!
     A noi la Fortuna due giorni sorrise.
     Sleal meretrice per voi si decise.
     Le tempia briache vi cinse d’allòr.
     Nei vostri banchetti di giubilo e d’ira
     Danzò, lascivendo. Poi stanca e delira
     Dormì sulla notte del nostro dolor.
     E ier dal triclinio, dov’ebra si giacque,
     Volando alla spenta Regina dell’acque,
     L’anel delle nozze divelto le avrà.
     Vinceste, o felici. Ma stabile amica
     Sperar v’è negato la donna impudica,
     Che ad uno si giura, che a cento si dà.
     Salite alle rôcche, spandetevi al piano,
     Dal Garda all’Isonzo, dall’Adda al Verbano;
     Nei dolci presidii tornate a regnar.
     Ma, lungo i confini, nel cor delle ville,
     Potrete poi sempre le fulve pupille,
     Nell’ora del sonno, securi chinar?… —
     Badate; un iroso nasconde ogni tetto.
     Da ogni angolo arcano balena un moschetto.
     Compressi gli sdegni, ma spenti non son.
     La squilla lombarda v’ha messo una volta
     Nel cor lo spavento. Nè tutta è sepolta
     La stirpe, che ha desto quel lugubre suon.
     Badate; nel petto dell’arso bifolco
     Quell’aura di sangue, che esala dal solco,
     Travasa una rabbia, che mai non provò.
     Badate; il pastore le ciglia frementi
     Girò dalla china sui patrii torrenti,
     E anch’ei, nel conflitto, coi guardi pugnò.
     Nel cor della gleba, nel vento remoto
     Ricresce la forza d’un dio non ignoto;
     Conclaman d’Italia le querce ed i fior:
     «Il dritto e l’ingiuria tien campo distinto.
     Fur tratte le spade. La razza del vinto
     Divisa è in eterno dal suo vincitor!»
     Apostata antica, sfregiando i fratelli,
     Potrà qualche turpe progenie d’imbelli
     Baciar la catena del novo servir.
     Ma dietro quei terghi tapini e sommessi
     S’asconde una cheta famiglia d’oppressi,
     Terribili ammende parata a compir.
     Sementa, se cade sovr’ispide lande,
     La bruciano i soli. Se in pietra si spande,
     Levata è repente dei turbini in sen.
     Ma quando nell’urna de’ solchi s’induce,
     Fermenta, si rompe, germoglia, produce,
     Poi muscolo e sangue di forti divien.
     Talvolta, seguendo suo tristo destino,
     S’addorme, o di ciancie tormenta il vicino,
     Fermata la stiva, l’incauto arator.
     Ma quando s’accorge, sul far della notte,
     Che furon sì scarse le zolle che ha rotte,
     Pentito sull’alba raddoppia il sudor.
     Per ospiti climi, per lustre selvagge,
     Ci ha sparsi l’esiglio su tutte le spiagge,
     Ci ha tolto la mensa, la casa, il poder.
     Mal noti a noi stessi, di boria cresciuti,
     Nell’ora del pianto ci siam conosciuti,
     Purgato è dai sogni l’illuso pensier.
     L’avara promessa di genti straniere
     Non era che il patto del vile usuriere,
     Che studia l’evento per meglio tradir.
     L’evento ha chiarito l’iniqua parola.
     La misera Italia dee vincer da sola,
     O il capo nel manto celarsi, e morir.
     Ma ardente è di fede, ricinto è d’acciari
     L’altar, che è levato tra l’alpe e i due mari;
     Lo attornian tre mesti, ma santi color.
     Velata Iaele, si prostra, adorando,
     La tacita Italia. Col pugno sul brando,
     La guata pensoso l’estranio Signor.
     Oh Prenci (lasciate che il ver vi si gridi),
     Temuti o tementi, codardi o mal fidi,
     Tornate a quest’ara. La fiaccola è qui.
     Giurate nei sette segnacoli suoi.
     Parlatevi ancora. L’Italia è con voi.
     Del tristo dissidio la trista arrossì.
     Distinse i suoi figli, pur tepidi e tardi,
     Da’ suoi Saturnini feroci e codardi.
     Le orrende sue piaghe nel duol numerò.
     Non tutte le vide di stranio coltello
     De’ suoi parricidi conobbe il drappello,
     Che in pietra d’infamia locarla tentò.
     Legatevi, o Prenci, con santo coraggio,
     Facciamolo insieme quest’arduo vïaggio
     D’affanno e di fede, di forza e d’amor.
     Vel chiedon le culle dei bimbi innocenti,
     Vel chiedon le tombe dei vecchi parenti,
     Vel chiede, gemendo, l’Italia che muor!
     Pentita ella spezza l’orrendo pugnale,
     Che un giorno per l’aure del tuo Quirinale,
     Signor dei credenti, vedesti guizzar.
     Siam verghe di creta. Tu il dici. Tu il senti.
     Rinasci e perdona, Signor dei credenti.
     Conferma che a Cristo tu sai somigliar.
     Vuoi salda, o Fernando, sul capo agli eredi
     La doppia corona d’Arrigo e Manfredi?
     Disarma due genti. Ritorna alla fè.
     Corona è di polve corona spergiura.
     Nel cor dei vulcani s’espande e matura
     O l’odio, o l’affetto. La scelta è per te.
     Se un tempo ti piacque la vita serena,
     Tra i clivi dell’Arno, figliuol di Lorena,
     Se rose perpetue t’han fatto origlier,
     Sii forte. E la causa di quelle contrade
     Rescindi dall’elsa di barbare spade,
     Giudicii di pianto su te non voler!
     Se un vostro vedeste Fratel coronato,
     Dell’arme d’Italia coperto soldato,
     Calar sui torrenti, per l’erte salir,
     Cercar la battaglia con fiero diletto,
     Spronar sotto i bronzi, sentirsi all’elmetto
     Le palle omicide, fischiando, fuggir,
     Poi, vista, l’austero, con spasimo atroce,
     Domata due volte la bianca sua Croce,
     Gittar la corona che vil gli sembrò,
     Morir nell’esiglio col capo sul brando,
     L’afflitto e supremo suo grido elevando,
     Per questa infelice ch’ei vinta lasciò;
     Se il martire, o Prenci, vedeste, all’aurora
     Dell’alto suo corso, miratelo ancora
     Fantasma ravvolto nei bruno suo vel.
     Anch’ei fa ritorno sul margo natale.
     Ma cinto la fronte di lume immortale,
     Atleta incolpato d’Italia e del ciel,
     Migrò dalla terra. Rimasegli addietro,
     Di tanto suo fato reliquia, un ferétro.
     Ma il regno dei morti non muto è così,
     Che ALBERTO non gridi dà quelle riviere:
     «Rileva, o Piemonte, le afflitte bandiere,
     Non doma una gente la rotta d’un dì.
     Intorno a’ tuoi fianchi, d’Italia s’aduna,
     O Torre dell’Alpi, la nova fortuna.
     Paratevi in pace pel certo avvenir.
     La via dei dolori sereno ho discesa,
     Legando a Vittorio la nobile impresa,
     E un dolce trionfo mi parve il morir!»
     Sentite, o gementi dal Sarca all’Oreto,
     Sentite quest’aura del tempo segreto,
     Che soffia il Davidde del novo Israel?…
     Re, popoli, duci, leviti, guerrieri,
     Posate gli scettri, chinate i cimieri,
     Stendete le destre sull’augure Avel.
     Conserti in un patto d’amor più tenace,
     Foggiatevi l’arme nel dì della pace,
     Un’alba affrettando che lunge non è,
     Perché questa Italia, dal brando domata
     Di cento signori, da sè vendicata,
     S’assida una volta signora di sé:
     Signora di messi, di codici, d’armi,
     Di lingua, d’affetti, di fede, di carmi,
     Gagliarda e prudente, severa e gentil.
     E in fronte le sieda tal segno d’impero,
     Che ognun che la scontri sul lido straniero
     La inchini, sclamando: «Qual altra è simil?»
     Or chiusa nell’ombre quest’Eva dolente
     S’accusa e sospira, ricorda e si pente.
     Ma brando e vessillo deposti non ha.
     Nell’arduo Superga gli sguardi ella tiene.
     Le suonan sui polsi le ferree catene.
     Ma un lampo di fede nel viso le sta.
     VITTORIO! VITTORIO! Tu, giovine Anteo,
     Per questa dolente, nel fiero torneo,
     La lancia suprema sei nato a spezzar.
     Raccolta dal campo fatal di Novara
     La mesta corona, dei morti sull’ara,
     Di tanto suo lutto la dêi vendicar.
     La croce Sabauda, che ornò sette troni,
     Davanti alla furia de’ tuoi battaglioni,
     Raggiando sull’arme l’antico fulgor,
     Segnai di vittoria per gli occhi de’ forti,
     Segnai d’allegrezza per l’ossa de’ morti,
     Verrà, benedetta, sull’Adige ancor.
     Oh Prence! T’è noto quel cielo e quel corso.
     Non tôrre al cavallo nè cella nè morso.
     Ei dee di nitriti quell’aure ferir,
     Volar nella strage sovr’elmi e loriche,
     Scaldar colle nari le terga nemiche,
     Del Re che lo preme la gloria, gioir.
     Oh! insigne quel giorno, che tersi i sudori
     Dell’ultima pugna, fra’ tuoi vincitori,
     Curvati i ginocchi d’un feretro al piè,
     Serbando di prode l’altero contegno,
     Dirai colla gioia d’un vinto disegno:
     «Francata è l’Italia, mio padre e mio re!»



   LA PASSEGGIATA


     Lungo i platani, in cui vive
     Ogni fronda innamorata,
     Sotto l’aure fuggitive
     Della sera e del mattin,
     Su una sponda infrequentata,
     Fuor del volgo, che mi accora,
     Col tramonto e coll’aurora
     Fo soletto il mio cammin.
     Miro i fior; la volta azzurra,
     Guardo all’acque; ascolto il vento;
     E dal labbro, che susurra
     I fantasmi che ho nel cor,
     Vo esalando un fumo lento,
     Che coi vortici leggieri
     Accompagna i miei pensieri
     Di gaiezza o di dolor.
     Fisso gli occhi ai colli adorni
     Di verdura, e vo sclamando:
     Dove siete, o rosei giorni
     Della bella gioventù?
     Che veniste carolando
     Su’ miei prati in lieta danza,
     Col coraggio e la speranza,
     Colla fede e la virtù?
     Fresche aurore, oh! chi vi ha spente
     Quando sotto a’ miei balconi
     Mi destava la fremente
     Allegria dei cacciator,
     E del corno agli acri suoni
     Rispondea con varia legge
     Il tumulto delle gregge
     E la tibia dei pastor!
     Oh! notturni allegri fochi
     Del novembre, in mezzo ai solchi,
     Dov’io stava, ed altri pochi
     Fanciulletti ad ascoltar
     Dal più vecchio dei bifolchi
     Le prodezze e il vario marte,
     Quando insiem con Bonaparte,
     Scese l’Alpi e passò il mar!
     Il mio nome, ignoto ai cupi
     Tradimenti dei mortali,
     Quante volte per le rupi
     D’eco in eco udii morir;
     Nè d’incensi nè di strali
     Fu mai segno il fanciulletto,
     Che con Dante e col moschetto,
     Gìa le lepri a perseguir.
     Era il meglio un nome occulto
     Serbar sempre in mezzo ai monti,
     Che recarlo nel tumulto
     Delle querule città;
     Dove siede in sulle fronti
     Il timor, la noia oscura,
     Dove langue la natura,
     Dove muor la libertà.
     Miglior senno arar le glebe,
     O dar gli estri all’aura molle,
     Che versarli ad una plebe
     Scissa d’opre e di pensier,
     Che, ululando al par del folle,
     Gira il trivio e sempre sogna,
     E pasciuta di menzogna,
     Sfregia il bene, esiglia il ver.
     Oh mia musa! oh mia compagna
     Dell’età ridente e lieta!
     Quando in cima alla montagna
     I tuoi canti aprivi al ciel,
     Tu credesti il tuo poeta
     Cosa sacra infra le cose,
     Cinto l’hai delle tue rose,
     L’hai bendato del tuo vel.
     Ahi fatale, ahi tristo inganno!
     Sul destrier dei dolci incanti
     Ei s’assise; e il negro affanno
     Sul destrier gli cavalcò.
     Sfumar vide i sogni amanti,
     Come nebbie della valle,
     E, spossato a mezzo il calle,
     Di morir desiderò.
     Deh! ciò avvenga. A questa guerra
     Cupa, eterna, il cor mi cade.
     Letto angusto in poca terra
     Chiedo; e pace all’ombre in sen.
     Sotto il vel delle rugiade
     Dormirà la creta stanca,
     E ai dolor del dì che manca
     Sarà premio il dì che vien.
     Vïator, che sotto al faggio
     Pigliò sonno in tetra selva,
     E al rosato e fresco raggio
     Del mattin si risvegliò,
     Più non teme abisso o belva,
     Esce all’aure, al sol ridente,
     Ed un sogno è della mente
     Ogni rischio che passò.
     Come pia sarà la mano
     Che mi scavi il nido oscuro,
     Fuor degli uomini, lontano
     Da fastidio e vanità!
     Fregi e simboli non curo
     Sulla povera mia pietra,
     Senza lauro e senza cetra
     Tuttavia si dormirà.
     Quando solo il dì reclina,
     Quando è mesto il cielo e il core,
     Sull’avel mi porti Erina
     Il giacinto del suo crin;
     Poi la rosa, allegro fiore,
     Orni sempre i suoi capelli,
     E, sommersa in dì più belli,
     Pensi appena al mio destin.
     Così ognor passeggio e canto,
     E cantando il cor lusingo.
     Ride il volgo. Ed io frattanto
     Spiro vita a’ miei pensier;
     Col mio carme io vo solingo,
     Del mio carme il core ho lieto,
     Alle lucciole il ripeto,
     Come al gallo mattinier.
     E, in mirar la volta azzurra,
     E, in udire il vol del vento,
     Fuor del labbro, che sussurra
     I fantasmi che ho nel cor,
     Vo esalando un fumo lento,
     Che coi vortici leggieri
     Accompagna i miei pensieri
     Di gaiezza o di dolor.



   A FERDINANDO BORBONE


     Se mala signoria, che sempre accuora
     Li popoli suggetti, non avesse
     Mosso Palermo a gridar: Mora! Mora.
     DANTE, Paradiso, C. VIII.
     Mentre dell’ampia Napoli
     Il pescator mendìco
     Spesso le maglie inutili
     Getta sul mar nemico,
     E la nefanda Inopia
     L’ali sue negre stende
     Sulle selvagge tende
     Del calabro pastor,
     E l’abbruzzese ai pargoli
     L’ira col pan divide,
     E alla sicana vergine,
     Pur quando danza o ride,
     Balena una profetica
     Stilla sul ciglio oscuro,
     E regna ovunque il duro
     Trionfo del Dolor,
     Tu re nascevi all’alito
     Dei cedri, al suon dei carmi;
     Fur tue le vite, i codici,
     L’oro, le messi e l’armi:
     Tutto fu tuo. Dall’arbitra
     Sorte locato in trono,
     Per esser giusto e buono
     Che ti mancava, o re?
     E quando primo i liberi
     Voti d’Italia udisti,
     E sfolgoranti all’aere
     I tre color fur visti,
     Del lungo ceppo immemori
     D’ebra letizia ardenti;
     Dimmi, o signor, due genti
     Non ti vedesti al piè?
     Toccate allor le pagine
     Dell’Uno e Trino Iddio,
     Giuravi tu: «La folgore
     Piombi sul capo mio,
     Se quel ch’or dona ai popoli,
     Questa mia man riprenda!
     E al sacramento attenda
     Custode il mondo e il ciel».
     Or che hai tu fatto, o misero
     Spergiurator? Sull’ugne
     De’ tuoi corsier la polvere
     Delle lombarde pugne
     Veder tremasti; e al vindice
     CARLO il tuo brando hai tolto,
     Transfuga iniquo e stolto
     Dall’arca d’Israel.
     Tesi gli orecchi e pallido
     Sulla regal cortina,
     Stavi origliando il sonito
     Dell’Itala ruina,
     Come sparvier famelico
     Odora il pasto umano,
     Su cui dall’erta al piano
     Cupido avventa il vol.
     E quando il sol sui barbari
     Elmi splendea giocondo,
     E lacrimava al funebre
     Altar d’Italia il mondo,
     Ahi! tu, d’Italia principe,
     Sulle codarde piume,
     Tu congioisti al lume
     Di quel nefando sol!
     Va’; tenta Dio; poi chiedigli
     Ch’ei ti difenda e t’ami,
     Ei non placabil giudice
     Di quelle gioie infami.
     Guarda, se puoi, nell’impeto
     Dell’insanir feroce,
     Questa sabauda Croce
     Senza spavento in cor!
     Pensavi tu che il fremito
     Dell’anime secure,
     Sotto l’orrenda immagine
     D’un palco e d’una scure
     Cadria domato? Il libero
     Per codardie non muta;
     La libertà saluta,
     Pugna, sorride e muor.
     Là nelle turpi tenebre
     De’ tuoi castelli, o cieco,
     Ben tu insepolcri i martiri,
     Ma il lor martirio è teco;
     Però che là puoi vincere
     Poche languenti salme,
     Non i pensier, non l’alme,
     Non Dio che insiem le unì.
     Fisa le illustri vittime
     Tu, men di lor tranquillo.
     Dimmi, non senti i palpiti
     Di Mario e di Cirillo
     Sotto quei polsi, o despota,
     Che tu di ferri hai cinto?…
     Morto cadrà, non vinto,
     Chi da quel sangue uscì.
     Credevi tu che un’unica
     Benedicente mano
     Dell’atterrito Apostolo,
     Che piange in Vaticano,
     Sospenderia l’unanime
     Giudicio della terra?
     Ah! chi all’altar non erra,
     Schiavo al tuo scettro, errò.
     E i figli suoi, che il videro
     Darti i fatali amplessi,
     E all’oppressor sorridere,
     Lui padre degli oppressi,
     Tremâr per quei segnacoli
     Di ch’ei si noma erede,
     Tremâr per quella Fede
     Che Dio gli consegnò.
     Speravi tu nel cupido
     Furor del moscovita,
     Che verso noi le indomite
     Crimée puledre incita,
     Poi d’Oriente ai zefiri
     Cauto le briglie gira,
     Svegliar tremando l’ira
     Dell’Occidente alfin?…
     Forse lo attendi? A Dalila
     Offri, o Sanson, la chioma.
     Il boreal pontefice
     Non è già quel di Roma.
     Uno t’abbraccia e lacrima,
     Grato all’ospizio offerto;
     L’altro d’Arrigo il serto
     Ti strapperia dal crin.
     Va’, incresci a Dio: dell’Isola.
     Che osò gridar: «FERNANDO
     NON È PIÙ RE » ti vendica,
     Or che hai la legge e il brando.
     Ma sul terren di Procida
     Sangue di Francia stilla,
     E la tremenda squilla
     Non ha perduto il suon.
     Quando tra prence e suddito
     Tratto è l’acciar, la Pace
     Velasi e muor. Longanime
     L’odio resiste e tace;
     Tace, e nell’ombre edifica
     Coll’ignea man presaga
     Sulla terribil daga,
     Che non udrà perdon.
     Che speri or dunque? Un’opera
     D’insania e di sgomento
     È ogni tuo dì; la lugubre
     Notte t’insegue; il vento
     Parla e t’impreca; il gemino
     Mondo t’acclama infido;
     Sin l’innocenza un grido
     Ha di terror per te.
     Se i tuoi leali assiepano
     Folti la regia stanza,
     Dal fianco tuo si svincola
     L’Onore e la Speranza;
     E sin fra’ tuoi qualch’intimo
     Gentil pudor si sdegna.
     Dove Fernando regna,
     Regno di Dio non v’è.
     Me non lusinga il torbido
     Rumor di plebi inette:
     Mai co’ larvati Spartachi
     La musa mia non stette:
     Amo e cantai quel soglio,
     Dov’è del prence a lato,
     Con nodo immaculato,
     La sacra libertà.
     E non dal facil odio,
     Come lo senton gl’imi,
     Ma dai dolor che arrivano
     Là dai sebezii climi,
     E dalla man degli esuli
     Che lacrimando strinsi,
     Oggi quest’ira attinsi,
     Che mi parea pietà!
     A brun ti vesti, o povera
     Napoli bella. Intanto
     Io col fedel mio genio
     Penso d’Italia il canto:
     E per lenir gli spasimi
     Del cupo affanno, ond’ardo,
     Lascio vagar lo sguardo
     Dietro un regal destrier,
     Su cui la bella immagine
     D’EMANUEL s’accampa,
     E intorno a cui lo spirito
     Di mille prodi avvampa:
     Onde nel cor mi piovono
     Rai d’una nova aurora,
     E il Dio di Dante ancora,
     Sento ne’ miei pensier.



   ALLA LUNA


     Chiusa in vel di puro argento,
     Occhio e amor del firmamento,
     Tu m’allegri, e m’impauri
     Di tua gelida beltà.
     Colle lingue e coi pugnali
     Qua si sbranano i mortali,
     E tu placida misuri
     La celeste immensità.
     Tu che varchi i mari aperti,
     Tu che pendi sui deserti,
     Tu che assisti a tanta guerra
     Di superbia e di dolor;
     Tu conosci il breve nulla,
     Che ci attrista e ci trastulla,
     E passeggi sulla terra
     Senza sdegno e senza amor.
     Ben cortese e non pudica
     Ti sognò la fola antica,
     E di Latmo i mirti ombrosi
     Van parlando ancor di te,
     Quando, languida sul petto
     Dell’ardente giovinetto,
     Gli recavi i gaudi ascosi
     D’un amor che in ciel non è.
     Ma tu strania al fallo bieco,
     Tu ridesti il genio greco,
     Nè dell’ira il cupo istinto
     La vendetta t’insegnò;
     E sull’urne di Platea,
     E sui fior di Mantinea,
     E sui marmi di Corinto
     La tua luce ognor brillò.
     Né già visiti quei segni
     Di superbi e morti regni,
     Per un senso, qual che fosse,
     Di tristezza o di piacer.
     Esser pia non ti bisogna,
     Nè tal sei. Ma tal ti sogna
     Nelle fervide e commosse
     Sue fantasme il passeggier.
     Fredda sì, ma pur divina,
     La tua luce a noi s’inchina,
     E d’un palpito si scote
     Malinconico e immortal.
     Chi nol sente ha sterilito
     Il pensier dell’infinito;
     Stranio verme a cose ignote,
     Polve ed ombra in lui preval.
     Quante tele e quanti carmi
     Tu inspirasti, e bronzi e marmi,
     Senza amor che a noi ti stringa,
     Tu romita in grembo al ciel!
     Di Simonide la lira
     Al tuo lume ancor sospira,
     Là in Termopili solinga
     Tra le querce e il venticel.
     Pia non sei, ma non sei cruda
     Tu di sensi affatto ignuda;
     Pur la vergine ti manda
     La notturna sua canzon;
     Parla a te del chiuso foco,
     Di sospiri accende il loco.
     Ma la gelida tua landa
     Non contrista umano suon.
     Meglio a te. Se errar non godi
     Sulle antiche ossa de’ prodi,
     Che fregiâr d’un mondo infranto
     Col lor sangue i vani altar;
     Se il tuo raggio inerte scorre
     Sovra il Libano e il Taborre,
     Dove i cedri al fiero canto
     D’Isaia si conturbar;
     Non udisti almen le grida
     Del fuggiasco Fratricida,
     Nè d’Abel l’estinto viso
     I tuoi rai contaminò;
     E a Getsemani movendo,
     Ti fu ignoto il bacio orrendo,
     Che degli Angeli il sorriso
     In eterno addolorò.
     Ahi! quel bacio e quella piaga
     D’odio e sangue il mondo allaga;
     E tu scherzi, o fortunata,
     Co’ tuoi raggi in mezzo ai fior,
     Come fossero innocenti
     Delle colpe de’ viventi.
     Ma la rosa anch’ella è nata
     Rea coll’alba, e a vespro muor.
     Così armonica e sincera
     Tu sei là, nella tua sfera!
     Sulle nozze, inconscia luna,
     Sui feretri egual sei tu;
     Là, da secoli, risplendi;
     Nulla speri, a nulla attendi;
     Muta al mondo, alla fortuna,
     Al dolore e alla virtù.
     Muta sempre e sempre bella,
     Tu m’atterri, arcana stella.
     Ecco; in faccia al mar che romba.,
     Il Vesèvo urlando va;
     Due città la lava inghiotte:
     Tu ne illumini la notte,
     E d’un popolo la tomba
     Non ti veste di pietà.
     Strana dea, che valse mai
     Por su Erina i dolci rai,
     Sotto i platani tranquilli,
     Meco in grembo al gelsomin?
     Schiava ad altri, a me rapita,
     Ombra e pianto è la sua vita;
     E serena ognor tu brilli
     Tra quei fiori, e su quel crin.
     Tutto muor d’umane tempre;
     Tu sei bella e giovin sempre.
     Dunque il duol dell’universo
     Ti fu sempre ignoto duol?
     No. Tu pur, superba dea,
     Là nel ciel della Giudea
     Scolorasti, il dì che asperso
     D’atro sangue apparve il sol.
     Quando Cristo sulle spalle
     Tolse il legno, e ascese il calle
     Dei tormenti, e il capo afflitto
     Nella morte reclinò,
     In quell’ora irati e folti
     Si rizzarono i sepolti,
     E dei vivi il gran delitto
     Di terror ti circondò.
     Forse è ver. Da quel momento
     Ti fu dato il sentimento.
     E tu in ciel pensosa udisti
     D’ogni Solima il sospir.
     Forse è vero. Il cor temprando
     Al tuo raggio arcano e blando,
     Si può vivere men tristi,
     Meno rei si può morir.
     Cara luna, allor ch’io veggio
     Far le stelle a te corteggio,
     E il tuo passo in alto preme
     I sentieri del Signor;
     Teco parlo, e tu mi sveli
     Le armonie di nuovi cieli,
     E la cetera mi freme
     Di mistero e di splendor.

   Torino, 1851


   DISTRAZIONE


     Quand’ardo intento e fisso
     Nel vagheggiato arcano,
     E i lucidi fantasimi
     Sorgono a mano a mano
     Dal ben tentato abisso
     Dell’alma e del pensier,
     Se mi spïasse il mondo
     Sfallir la giubba, i cheti
     Libri scompor, la cabala
     Segnar sulle pareti,
     D’un risolin giocondo
     Mi schernirebbe in ver.
     Distratto, a un dio di gesso
     Or la ceffata accocco,
     Or dell’inverso zigaro
     La viva brace imbocco,
     Spesso il cappel, più spesso
     La testa obblìo così,
     Che se le tempia rotte
     Non vanno al muro è un caso.
     Quindi il sedil mi sdrucciola,
     O mi s’inchiostra il naso,
     O aspetto il sol di notte.
     O accendo i lumi il dì.
     Se varco in tra la gente
     Col capo nelle stelle
     Urto l’incauto gomito
     All’anca delle belle,
     O pesto irriverente
     D’un senator sul pié.
     Con petulanza rea
     Non bado a chi mi bada,
     Fo soste, e girigogoli
     Serpeggio per la strada;
     Così l’intenta idea
     Domina i sensi in me.
     Come di fuor son degno
     Del cittadino scherno!
     Però, sepolti fervono
     L’opra e l’affetto interno,
     E nella mente io regno
     Come in mio proprio ostel;
     E a sentir meglio imparo
     L’ore felici e corte,
     Gli arcani amor, le lacrime,
     La verità, la morte,
     Quanto ha d’immenso e caro
     La breve terra , e il ciel.
     Così son nati i canti
     Da quella strana incuria,
     Che par demenza all’anime
     Da fondaco e da curia;
     E ai glorïosi amanti
     Di poca polve d’òr.
     Deh! segui il tuo viaggio,
     O mente pellegrina.
     Meglio che un cor da feretro
     E un senso da fucina,
     Lo schietto ardir selvaggio
     Il canto ed il dolor.
     Siam nati in cima ai monti,
     Casti e sereni alberghi,
     Dov’è costume incognito
     Tanto piegar di terghi,
     E umilïar di fronti,
     E cupido mentir.
     Non è di noi, distratti,
     Il mondo e la sua gioia,
     Ma neppur l’ansie e il fracido
     Riso, e il cader di noia,
     Cadaveri disfatti
     Avanti di morir.
     Noi per le nostre selve
     Fieri squillando il corno,
     Sotto gli acuti crepiti
     Del pino a mezzogiorno
     Per rompere alle belve
     L’audace corsa, o il vol,
     Noi liberi, e raminghi
     Su per la frana ombrosa
     Colà scontrando i balsami
     Della montana rosa,
     O agli atrii casalinghi
     Il veltro e il rosignol,
     Noi non attrae la viva
     Gemmata aurqa de’ balli,
     Nè il petulante strepito
     Di cocchi e di cavalli,
     Noi per deserta riva
     Pensosi viator;
     Ma ben ci allegra e pasce
     L’interïor mistero,
     E in quella sacra, tenebra
     Muti adorando il vero,
     L’agile carme nasce,
     Come da sterpo il fior.

   Torino, 1851.


   AL MIO PICCOLO ORIUOLO


     Macchinetta gentile,
     Che la vita e la morte
     In tuo tacito stile
     Misuri all’uom, qual sorte
     Nel tuo breve abitacolo
     Oggi tornar ti fe’?
     Smarrito, o in man del ladro
     Già ti credei , mio vago
     Orivolin leggiadro.
     Reminiscenza e immago
     Di lieti dì, che l’indice
     Tuo numerò per me.
     Quando m’accorsi appena
     Del maladetto evento
     L’alma di cruccio piena
     Stetti; e poi dissi al vento
     Le male voci; e il vedovo
     Frugai nicchietto invan.
     Dagli iracondi sfoghi
     Pur non traendo frutto,
     Rifeci in mente i luoghi,
     Mi ripalpai per tutto.
     Ma sol pilucchi e collera
     Strinse la vacua man.
     Pensai che sull’aurora
     T’armai le corde, e presi
     Per te commento all’ora
     Meridiana, e scesi
     Teco a rifar la tessera.
     Del tempo che volò.
     Pensai che su me chiusa
     La giubba e il ferraiuolo,
     Colla selvaggia musa
     Uscii romito e solo,
     E che non piè, nè gombito
     Di ladroncel m’urtò.
     Dov’eri or dunque? L’ale
     Forse tu avresti messo
     Però che sai da quale
     Tristezza io giaccia oppresso
     Quando ti guardo, e rapida
     Veggo passar l’età?
     Lieve fuggendo, teco
     Forse avrai detto; «Or resti
     L’amico nostro al cieco
     Tempo indiviso; i mesti
     Occhi a un quadrante io dubito
     Che più non volgerà.
     Così gli erranti sogni,
     Le fantasie canore,
     Coi rigidi bisogni
     Delle fuggevoli ore
     Non urteranno; e al mobile
     Cocchio de’ suoi pensier
     Dato in balia, men negre
     Vedrà passar le cose,
     E forse con allegre
     Man fia che spanda rose
     Sulle milliarie lapidi
     Del suo mortal sentier.»
     Grazie ti rendo, amico,.
     Se ciò pensasti. Intanto
     Riedi al tuo nido antico,
     Tu mio compagno al canto,
     All’ira, al tedio, al giubilo,
     All’opra ed al dolor.
     Tu m’aspettavi, o mio
     Fedel, nella soletta
     Stanza, posto in oblio.
     Or dunque in premio accetta
     Del tuo cortese attendermi
     Questo fermaglio d’òr.
     Perdona, se la bella
     Tua libertà tu perdi
     Nella stagion novella;
     Ma è cauto, ai dì men verdi,
     Quando ogni laccio allentasi,
     Gli amici incatenar.
     Così più forte nodo
     Avessi a Erina ordito!
     Che in miserevol modo
     Tu non m’avresti udito
     Lungo le insonni tenebre,
     Frequente sospirar.
     Sta meco sempre. E poi
     Che di perpetui affanni
     Vittime ree siam noi,
     Per tanti miseri anni.
     Tre sole ore, ti supplico,
     Consentimi gioir.
     Dammi, coll’ora prima,
     L’amor d’una cortese;
     Coll’altra, i ferri lima
     Del mio gentil paese.
     E da quest’ombre insegnami,
     Coll’ultima, a partir.

   Torino 1851.


   IN MORTE DELLA FANCIULLINA
LIDIA VAGLIENTI ALLA MADRE


     La tua bambola vezzosa,
     Che giornate ebbe sì corte,
     Sai tu, madre, ov’ella posa
     Fuor del secolo infedel?
     Non in braccio della morte,
     Non sul letto della tomba:
     La tua piccola colomba,
     Guarda, o madre, è là nel ciel.
     Là nel ciel, che ti sorride,
     Del tuo pianto afflitta appena;
     Là nel ciel, che si divide
     Cogli arcangeli e con te:
     Dove l’aria è tutta piena
     D’armonie, di gioia immensa;
     Dove al mondo ancor si pensa,
     Ma ove noto il duol non è.
     Cessa, o Madre, il tuo lamento.
     Ella uscì da un tristo nido,
     Ove il riso è d’un momento,
     Poca e mesta la virtù.
     Non cercarne il dolce grido
     Nella vedova tua stanza;
     Solo in larve di speranza
     Rivederla ancor puoi tu.
     Quando i fior, giocondi figli
     Nasceran di primavera,
     Tu ornerai di rose e gigli
     Il suo freddo letticciuol;
     E dagli astri a te leggiera
     Volerà la tua bambina,
     O coll’aura pellegrina,
     O confusa a’ rai del sol.
     E una notte, sulla cuna
     Lacrimata e solitaria,
     Quando al lume della luna
     Imperlando il ciel si va,
     Tu vedrai calar per l’aria
     La tua Lidia ancor più bella;
     E il suo labbro una novella
     D’allegrezza a te darà.
     « Apri gli occhi! È sceso meco
     « Il tuo premio, o madre amante!
     « Io quest’angelo ti reco,
     « Cui sorella Iddio mi fe’;
     « Ti dimentica un istante
     « I miei ceri e la mia bara:
     « Fagli festa, o madre cara,
     « Come in ciel la fanno a me.»
     Tu, di giubilo rapita,
     Così fuor del mortal uso,
     Sentirai d’un’altra vita
     L’ebre viscere tremar;
     E del gaudio in te mal chiuso
     Suonerà l’allegro tetto,
     Come al giorno benedetto
     Delle nozze e dell’altar.

   Torino 1851.


   TEDIO E PRIMAVERA


     La cingallegra canta
     Sul ramuscel natio,
     Che april di verde ammanta.
     Con dolce susurrio,
     Come un’argentea zona,
     Brilla fra l’erbe il rio.
     La sua natal canzona
     L’errante savoiardo
     Sulla gironda suona.
     Esce un acuto dardo
     Tinto d’ebbrezza arcana
     Da ogni virgineo sguardo.
     Qual cervo alla fontana,
     S’abbevera d’amore
     Tutta la stirpe umana.
     Sol io, sol io nel core
     D’ogni terrestre gioia
     Ho disseccato il fiore.
     La solitaria noia
     M’assalta, come fiera,
     E la sua preda ingoia.
     Oh, allegra primavera,
     Come oramai mi sento
     Altro da quel ch’io m’era!
     All’occhio infermo e lento
     Si semina di stelle
     Indarno il firmamento.
     Son dissipate ancelle
     Dalla nativa casa
     Le mie canzon più belle.
     L’alma di tedio invasa,
     Vinta a nefande lotte,
     È come selva rasa,
     Sulle cui piante rotte
     Riposa il ladro, e rugge
     Il vento della notte.
     La mia ragion si strugge
     In campo d’ombre; e il senso
     Fin del dolor mi fugge.
     Or che son io? che penso
     A questo mondo in faccia
     E a questo cielo immenso?
     Ferrea catena allaccia
     Lo spirito infinito
     E le impotenti braccia.
     E son nocchier smarrito
     In barca, che si spezza
     Per mar che non ha lito.
     Dell’onde sull’altezza
     Il Tempo mi deride
     E a disperar m’avvezza.
     Perché, perché mi stride
     La livida tempesta
     Sul capo e non m’uccide?
     Ahi, la mercede è questa
     Del vagheggiato sole,
     Che m’è sepolto in testa!
     Sulle innocenti aiuole
     Io seminai sospiri,
     E non mietei che fole,
     Ah, nei suoi vasti giri
     Altro non è la terra
     Che un astro di martìri,
     Dove si piange ed erra,
     Sin che una zolla breve
     O un sasso vil ci serra!
     Nè la cadente neve,
     Nè la nascente rosa,
     Nè l’aura fresca e lieve,
     Nè fama gloriosa,
     Nè dei rimasti i lai,
     Nè ogni creata cosa,
     Nè il vasto ciel co’ rai,
     Nè il mar colla sua voce
     Ci sveglierà più mai.
     Questo è il pensier che coce,
     Questo è il calvario orrendo,
     Questa è l’orrenda croce.
     Io già su lei mi stendo,
     E nell’iniqua fossa
     Pria di morir discendo.
     E queste polpe ed ossa
     Si disfaran, siccome
     Fronda dal ramo scossa.
     Or che mi giova un nome
     E un maledetto alloro
     Sulle tradite chiome?
     Sogni e fantasmi d’oro
     Il mio guanciale han cinto,
     Dovrò sparir con loro.
     E sul caduto estinto
     Sorriderà la morte,
     Come al cader d’un vinto.
     Oh, mie superbie corte,
     Un’ombra inerme io sono,
     E mi credeste un forte?
     Oh, mente mia, che in trono
     Un dì seder ti parve,
     Sei vanità di suono!
     Oh, mie celesti larve
     Dell’anima fanciulla,
     Quando da voi disparve
     La luce della culla,
     Voi mi lasciaste adulto
     Col mio saper che è nulla!
     Studii del mondo occulto,
     Baldanze del pensiero,
     Io vi beffeggio e insulto.
     Trista rugiada è il vero:
     Altro non nutre e pasce
     Che il fior del cimitero.
     Beato è chi non nasce,
     O generato appena,
     Muor nelle bianche fasce!
     Ah, su quest’empia arena
     D’esilio e di peccato,
     Sola una larva è piena
     Dei raggi del creato:
     La larva che matura
     Sotto uno sguardo amato!
     Larva che poco dura,
     Ma che di fior coperti
     Ci mena in sepoltura,
     Della sua mano i serti
     Trasformano in altari
     I funebri deserti.
     Ella gli spasmi amari
     Del tormentato ingegno
     Rende soavi e cari.
     Ella di Dio dà segno
     In questa buia chiostra
     Dove ha Satàno il regno,
     Deh, se il mio cor si prostra
     A’ cenni tuoi, gran Dio,
     Deh, per pietà mi mostra,
     Scossa dal lieve oblio,
     La dolce larva ancora
     Del paradiso mio!
     Dai vesperi all’aurora
     Ben io la sogno, e l’alma
     Come il pensier l’adora.
     Simile a nivea salma,
     Ella talor mi brilla
     Per notte azzurra e calma.
     Talor la sua pupilla
     Il solitario foco
     Dal cor mi dissigilla.
     E allor celeste è il loco
     Dond’io la guardo e tremo,
     Divino è il tempo e poco.
     Allor l’inerte e scemo
     Vigor mi torna, e sento
     Tutto il mio ben supremo.
     E in mute ebbrezze intento,
     Fuor che il pensier, che l’ama,
     Di me tutt’altro è spento.
     Nulla il mio cor più brama,
     Perché rapito in lei
     Altri che lei non chiama,
     Nè ben narrar potrei
     Se sien di morte o vita
     I rapimenti miei.
     Ma so ch’è una romita
     Gioia profonda e strana,
     Ch’io non ho mai sentita.
     E forse ancor l’insana
     Mente delira, e crede
     A una fredd’ombra e vana,
     Ombra che vola e riede,
     Ombra che inutil vive,
     O ad altri amor dà fede.
     Cocenti e fuggitive
     Ore del nostro sogno,
     Perché si piange e scrive?
     Penna, che invan rampogno,
     Perché non ti rifiuti
     A questo reo bisogno
     Lampa, che guizzi e muti
     Gli ermi chiarori tuoi,
     Perché non mi saluti,
     Perché morir non vuoi?
     Segni d’inchiostro informi,
     Perché vivete or voi?
     Mente, perché non sciormi
     Dalle malíe fallaci?
     Pensier, perché non dormi?
     Cor mio, perché non giaci?
     Taci, indignata musa:
     China la testa e taci.
     La fantasia confusa
     Cinta è d’angoscia e d’ira,
     Come caverna chiusa,
     Dove il lion s’aggira,
     O dove, occulta a tutti,
     Crepita ardente pira.
     Ah! del pensiero i lutti
     Lo rodono e lo sfanno,
     Come la nave i flutti!
     E l’uom, vivente inganno,
     Altro non sente alfine
     Che il suo pensier tiranno.
     E voi, nelle divine
     Aure del ciel, che fate,
     Perpetue pellegrine
     Prima dell’uom create,
     Stelle d’arcane tempre?…
     Ah! voi di là ruotate
     Sull’uom che sogna sempre!…



   A UN ROSIGNOLO


     Covato nel materno
     Nido, spuntasti al dì. La molle piuma
     Ti crebbe al mite april. Modesto e solo
     Nella selvetta canti,
     Fantastico usignuolo,
     Canti all’alba, alla luna, al mezzogiorno,
     Or lieto, ora dolente,
     Se è ver che la natura,
     Come t’ha dato la canzon d’amore,
     Ti desse il cor che sente:
     Così, simile al fiore,
     Alla notturna luccioletta e al vento,
     Vita gentil, tu nasci,
     E vai cantando. Vai
     Via della terra; e forse
     Nulla comprendi, o sai.
     Quanta del nostro seme
     Parte che pensa e geme,
     Rosignol fortunato,
     Vorrebbe al par di te, cedere al fato!
     Vorrebbe, e non l’è dato,
     Chè ’l pensier l’affatica e il duol la scarna,
     E ’l tempo immane e morte la spaventa,
     Però che la comprende;
     Anzi par che la senta
     Prima ancor del suo dì. Tu sulla verde
     Tua frasca mattineggi;
     E non vedi che ’l ciel, le ripe intorno
     E il pastor colla mandra, a cui non badi;
     Chè te possiede il canto,
     Tua legge antica. Intanto
     Battagliano i mortali
     Sopra ogni plaga. In ciel qualche pianeta
     Consumando si va. Simili a foglie
     Cadon le umane vite. E indifferente
     Le insepolcra l’obblio.
     E la speme e l’error diversamente
     Mena le turbe. Addio,
     Addio cantor soave.
     Forse diman morrai privo d’affanno,
     E di sgomento. E il breve
     Loco de’ tuoi riposi
     Ignoreran le genti.
     Di te chi mai s’avvede?
     Nè il bosco rimarrà senza tuoi pari,
     Nè l’alba, nè la luna
     Senza i gorgheggi usati.
     Ahi! perché v’ami alcuna
     Alma gentil v’è d’uopo,
     Augelletti dell’aria,
     Perder la libertà: dal colorato
     Carcere alzar la voce, e a chi vi pasce,
     Il tedio consolar del dì che fugge.
     Allor carezze e baci
     Di bimbi e verginelle
     Vi piovon sopra. Chè l’avara schiatta
     Nulla dà mai per nulla.
     Nè forse il duol vi preme
     D’essere in ceppi! Ignoto
     V’è dunque il lutto della terra nostra?
     Veracemente? Io ’l credo,
     Perchè le melodie voi neghereste
     All’uom che v’imprigiona.
     O forse a voi natura
     Più che a noi, generosa indole dona?
     Ah! no. Non è la prole
     Dell’uom cui pianga o rida
     Il vostro canto. È quest’arcana immensa
     Beltà dell’universo.
     Oh rosignol, divino
     Flauto de’ boschi, avessi
     I tuoi notturni carmi,
     Come ho l’aura immortal del mio destino.
     Chi per selva, o cittade
     Disamar mi potría? chi somigliarmi?
     Ma desïar che vale?
     Io non ho le vostr’ale,
     Nè voi le mie. Cantiamo,
     Augelletti, cantiam, finchè la scura
     Notte chiuda su noi l’ultima porta,
     E Dio trasformi questa poca e morta
     In immortal natura.
     Allora, allor soltanto
     Volo perpetuo e canto
     Avremo e libertà. D’ira e di frode
     Troppo ci mette in gara
     Quest’aiuoletta avara,
     Che dalle savie lingue ha poca lode.



   IL DUBBIO


     Là di Lutezia assisi
     In un fiorito parco,
     Caldi dal nappo i visi,
     D’Egina il bel Nearco,
     Sir Dunistan brittannico,
     Il polonese Ermano,
     E Pedro il cordovano
     Fean brindisi all’Amor.
     L’Anglo sclamò giocondo:
     – Viva di Kent la rosa.
     Vince ogni donna al mondo
     La mia futura sposa.
     L’occhio cilestre ha simile
     All’onda de’ suoi laghi,
     Biondi i capelli e vaghi
     Come la luce e l’or. —
     – Viva, sclamò l’Ibero,
     Il fìor d’Andalusia.
     Nessuna ha il piglio altero
     D’Alma, la vergin mia.
     Le cade il crin sull’omero
     Come la notte bruno,
     Passa e non cura alcuno,
     Ma le son tutti al piè. —
     Quel di Polonia alzando
     Il nappo arrubinato,
     – Dal dì, sclamò, che al bando
     Lo Czar m’ha condannato,
     Geme in Varsavia un angelo
     Sotto virgineo velo,
     Sì altero e pio, che in cielo
     Uno simil non v’è. —
     E l’Eginese: – O stolti,
     Vedeste Argia d’Atene?
     Qual de’ femminei volti
     Al paragon le viene?
     Cinzia una volta e Venere
     D’Egeo sonaron l’acque,
     Ma quando Argía ci nacque
     L’inno alle Dee finì. —
     Dai paragoni offeso
     Ciascun nella sua cara,
     L’onor vantonne. E sceso
     Nella seconda gara,
     L’un punse l’altro. E avrebbono
     L’armi fors’anche tratto,
     Ma quel di Spagna a un patto
     Gli ebri discordi unì,
     – Balziam, compagni, in sella.
     Corta è d’Amor la strada.
     Tutti la nostra bella
     Ad impalmar si vada.
     Poi qui, fra un anno, i talami
     Vengano all’ardua prova.
     Chi indugia o non si trova
     Nota d’infame avrà. —
     Giuraron tutti. E in dorso
     Salito al suo destriero,
     Ognun lo spinse al corso
     Verso il nativo impero;
     Securo ognun di vincere
     In quel torneo cortese,
     Dove sarian discese
     La Fede e la Beltà.
     Baciâr le donne liete
     I ritornati amanti.
     Poi con un’ara e un prete
     Furon tranquilli i santi.
     Dopo le nozze, il tacito
     Destin gittò il suo dado;
     E, i dì raccolti al guado,
     L’anno fatal scoccò.
     Là di Lutezia antica
     Sul Parco il vespro scende.
     Di Venere pudica
     La stella in alto splende.
     Tre da un vïal comparvero,
     Ma scompagnati e in duolo;
     Tranne Nearco solo,
     Che Argía per man guidò.
     E con cipiglio oscuro
     Nearco ai tre si volse:
     – Così teneste il giuro? —
     E l’Anglo il labbro sciolse:
     – Splendea di Kent sui margini
     Cordelia, e mia divenne;
     Ma la sua fè non tenne,
     E di brillar cessò.
     Ella sul ghiaccio eterno
     Di Montebianco il passo
     Con me traea. L’inferno
     La spinse in orlo al sasso,
     E scompari. – Qui pallido
     Si fece l’Anglo in viso,
     E quel ch’ei tacque, un riso
     A rivelar bastò.
     Sclamò l’Ispano: – Il fiore
     Dell’Andalusia è spento.
     Lo sdegno del Signore
     L’ha dissipato al vento.
     Alma sorrise al giovine
     Don Diego in una festa;
     Ma l’onor mio v’attesta,
     Ch’ei sul mattin perì.
     Poscia, una volta, in mare,
     L’empia, a scomposte chiome,
     Tremò sognando, e urlare
     La udii nell’ombre un nome…
     Siedea sul vasto Atlantico
     La notte e l’uragano;
     Io non frenai la mano,
     E il mar se la inghiottì. —
     E anch’ei con un sogghigno
     Chinò la fronte oscura,
     L’Arcangelo maligno
     Sembrando alla figura.
     Allor con più terribile
     Riso proruppe il Greco:
     – Fior d’innocenza io reco
     La bella Argía con me.
     I vostri fior son morti;
     Il mio m’è sempre accanto,
     Sorridi, Argía. Tu porti
     Su tutte l’altre il vanto. —
     E ogni proferta sillaba
     Di tal velen fu tinta,
     Che ai piè cadergli estinta
     Era miglior mercè.
     Quel di Polonia allora
     Con mesto ardor gentile,
     Sclamò: – Felice Eudora
     Che non fu rea, nè vile.
     Ella pregò per l’esule,
     Pianse le notti e i giorni,
     Ne disperò i ritorni,
     E i suoi la seppellîr.
     Dormi in funerea veste,
     Mia povera solinga.
     Non più sorrisi o feste,
     Non più d’Amor lusinga.
     Sol quando i brandi s’alzino
     Per la natal mia terra,
     Sui patrii campi in guerra,
     Chiedo pur io morir. —
     I tre chinâr le ciglia
     Di reverenza in segno
     Alla defunta figlia,
     E di Sobieski al regno.
     Ma allor la illustre vergine
     Della contrada Argiva,
     Fatta di fiamma viva,
     Sorse, e così parlò:
     – Rea non son io. Da frodi
     E tradimenti altrui
     Son maculati i nodi,
     In che felice io fui.
     Beata, Eudora! All’Erebo
     Tu discendesti almeno,
     E d’un vivente i a seno
     La fede tua restò.
     Da Satana voi nati,
     E noi dal fianco d’Eva,
     Sempre sui nostri fati
     La vostra man si aggreva.
     E un sogno, un’ombra, un impeto
     Dell’ira o dell’orgoglio,
     A noi sovverte il soglio,
     Che un breve amor ci dà.
     Là in dorso al Montebianco
     E sui nembosi flutti,
     Quell’altre due fors’anco,
     Per accusarvi tutti,
     Al Dio che non ingannasi,
     Levan le fronti caste,
     E voi che giudicaste
     Quel Dio giudicherà. —
     Uno sghignazzo obliquo
     Dal bel Nearco uscía.
     Era Nearco iniquo,
     O menzognera Argía?
     Come due fredde immagini,
     Quegli altri due rimasi,
     Sentian de’ proprii casi
     Dubbio e spavento al cor.
     Quindi saliti in tergo
     Dei corridor focosi;
     Tutti al nativo albergo
     Volâr nell’ombre ascosi;
     Dietro seguiali Satana
     Per valli e per caverne,
     E sulle sfere eterne
     Gemea velato Amor.



   IL 2 DICEMBRE

 //-- A LUIGI NAPOLEONE --// 

     Hai vinto. Or ben, qual premio
     Dalla vittoria attendi?
     Sali. E l’antica porpora
     Di Clodoveo ti prendi.
     Ma la Fortuna, o Principe,
     Ha infami giochi. E bada
     Che può fallir la strada
     Pur di chi vince al piè.
     Se col vorace e barbaro
     Settentrion t’annodi,
     Perduto sei. La gloria
     Ti mancherà de’ prodi,
     E un’ignea palla, un vindice
     Pugnal senza perdono
     Rovescerà dal trono
     Il parricida e il re.
     Nè fra le morte tenebre
     Fia che dormir tu possa;
     Chè il civil sangue a vortici
     Ti bagnerà la fossa,
     E da ogni vacuo talamo,
     Da ogni disfatto lido
     Udrai levarsi un grido
     Di fremebondi al ciel.
     Bada. Chi ingiuria semina,
     Miete furor. Chi incesta
     Colla viltate, in triboli
     Posa l’infame testa.
     E al fulminato tumulo
     Quando d’accanto passa,
     Fin la Pietade abbassa
     Sugli occhi irati un vel.
     Bada che fai. L’attonita
     Terra, che dubbia or pende,
     Con un immenso palpito
     La tua parola attende.
     Bada che fai. Da Satana
     Oppur da Dio sei messo?
     Vuoi tu levar l’oppresso?
     Farti oppressor vuoi tu?
     Guarda le plaghe e i popoli
     Dell’Occidente. È bello
     Questo da sofi e màrtiri
     Glorificato ostello.
     Tutti, dall’alpe a Cadice,
     Tutti siam tuoi, se il chiedi.
     L’ora, che ha l’ale ai piedi
     Sai che non torna più.
     E l’ora è questa. Affrettati,
     Se tu sei l’uom. Signore
     Di due frementi eserciti,
     Osa, se hai grande il core.
     Destin del tuo più splendido
     Non ebbe il mondo. E il tieni
     Oggi in tua man. Far pieni
     Puoi d’ogni gloria i dì.
     L’Ungaro, il Belga, l’Italo,
     Il Lusitan, l’Ibero,
     L’Anglo, e del novo Atlantico
     Il liberal nocchiero,
     Tutto è con te, se l’anima
     Al suo destin non mente,
     Se gridi all’Occidente:
     «Un uom volesti: è qui.»
     Come de’ bruni arcangeli
     Alle tremende squille
     Ogni umil fossa, aprendosi,
     Darà i suoi morti a mille,
     Tal tu vedrai. Sull’aride
     Ossa il gran soffio spandi,
     E a selve a selve i brandi
     Il suol partorirà.
     Cinto è di sdegni il solio,
     Cinto è l’altar di lutto.
     Tutto è crollante. Ed unico
     Tu rinnovar puoi tutto.
     Col cor di Scipio e Cesare
     Manda sull’orbe spento
     Un redentore accento
     Di gloria e libertà.
     Fiero contendi ai despoti
     Le mal rapite glebe.
     Strappa possente ai cupidi
     Suoi traditor la plebe.
     Tu Gedeon sul Tempio
     Alza di Dio l’insegna,
     Vendica il Mondo; e regna
     Come nessun regnò.
     Vasta è la via. Puoi vincere
     Il sangue onde sei nato.
     Guai se tu manchi all’opera
     Per cui t’ha Dio mandato!
     O infame o grande. Il tacito
     Mondo ti guarda, e spera:
     Altro a chi vince e impera
     Vaticinar non so.
     Sol, pei materni visceri,
     Ti prego a giunte mani,
     Non obliar, nel turbine
     Del tuo fatal dimani,
     Questa obliata Italia
     Dal sangue tuo; quest’Eva,
     Che a te le braccia leva
     Consunte di dolor.
     Mille de’ suoi, che dormono
     Là tra le scizie nevi,
     Per chi tu ’l sai, fantasimi
     Tetri, placar tu devi.
     Pensa alla madre, al cenere
     Dell’Alighier. Nefando
     Di Bonaparte è il brando,
     S’egli altri numi ha in cor.



   CANTO D’IGEA

 //-- (Dall’Armando) --// 

     A chi la zolla avita
     Ara co’ propri armenti,
     E le vigne fiorenti
     Al fresco olmo marita,
     E i casalinghi dèi
     Bene invocando, al sole
     Mette gagliarda prole
     Da’ vegeti imenei:
     A chi le capre snelle
     Sparge sul pingue clivo,
     O pota il sacro olivo
     Sotto clementi stelle:
     A chi, le braccia ignude,
     Nel ciclopeo travaglio,
     Picchia il paterno maglio
     Sulla fiammante incude;
     A questi Igea dispensa
     Giocondi operatori,
     I candidi tesori
     Del sonno e della mensa:
     Le poderose spalle
     E i validi toraci
     Io formo a questi audaci
     Del monte e della valle.
     Nè men chi si periglia
     Coi flutti e le tempeste
     Del nostro fior si veste,
     Se il mar non se lo piglia:
     Nè men chi suda in guerra
     Porta le mie corone,
     Se, innanzi il dì, nol pone
     Lancia nemica in terra.
     Ma guai chi tenta il volo
     Per vie senza ritorni!
     Languono i rosei giorni
     Al vagabondo e solo.
     Perché, mal cauti, il varco
     Dare alla mente accesa?…
     Corda che troppo è tesa
     Spezza sè stessa e l’arco.
     Dal dì che il mondo nacque,
     Io, ch’ogni ben discerno,
     Scherzo col riso eterno
     Degli árbori e dell’acque;
     E dalla bocca mia
     Spargo, volenti i numi,
     Aure di vita e fiumi
     Di forza e d’allegria.
     Sul tramite beato
     Però più d’uno è vinto
     Per doloroso istinto
     O iniquità del Fato:
     Ma può levarsi pieno
     Di gagliardía divina,
     S’ei la sua testa china
     Nel mio potente seno.
     Dal sol che spunta e cade
     A voi nella pupilla,
     Dall’aria che vi stilla
     Il ben delle rugiade;
     Dai rivi erranti e lieti,
     Dal rude fior dei vepri,
     Dal fumo dei ginepri,
     Dal pianto degli abeti;
     Da ogni virtù che il sangue
     E il corpo vi compose,
     Rispunteran le rose
     Sul cespite che langue;
     E i liberi bisogni,
     Che risentir si fanno,
     Nell’ombra uccideranno
     Le amare veglie e i sogni.
     Salvate, oimè! le membra
     Dal tarlo del pensiero!
     A voi daccanto è il vero
     Più che talor non sembra.
     L’uom che lo chiese altrove
     Dannato è sul macigno,
     E lo sparvier maligno
     Fa le vendette a Giove.
     In voi, terrestri, mesce
     Vario vigor Natura;
     Ma chi non tien misura,
     Alla gran madre incresce.
     Destrier che l’ira invade,
     Fatto demente al corso,
     Sui piè barcolla, il morso
     Bagna di sangue… e cade.
     Perchè affrettar l’arrivo
     Della giornata negra?
     Ne’ baci miei t’allegra,
     O brevemente vivo!
     Progenie impoverita,
     Che cerchi un ben lontano,
     Nella mia rosea mano
     È il nappo della vita.



   IN MORTE DI ALESSANDRO MANZONI

 //-- I. --// 

     Dio ti guardi dal dì della lode,
     Che ogni labro, ogni cor ti rammenti!
     Anco fossi il più giusto, il più prode,
     Su te vivo non sorge quel dì;
     Converrà che tu polve diventi,
     Che tu lasci ogni cosa più cara,
     Perché tutti t’assiepin la bara,
     Idolatri del dio che fuggì.


 //-- II. --// 

     O ALESSANDRO, a te sol fu concesso
     Così novo portento di gloria,
     Non il capo per anco dimesso
     Sul guancial, che risveglio non ha.
     Contra l’uso una scabra vittoria
     Conseguisti nel mondo Tu solo….
     Ma il tuo spirto continua il suo volo
     E più ascolto alla Terra non dà.


 //-- III. --// 

     Quante larve stupende e soavi.
     T’accompagnan nell’ardua salita!
     Sacre larve che un giorno creavi
     Per Italia e or fan corte al suo re!
     Però teco migrar dalla vita
     Non potran queste larve fuggenti;
     Sigillate nel cor delle Genti,
     Sono eterne: son simili a Te.


 //-- IV. --// 

     Tu vedesti le altere possanze,
     Tu vedesti le orrende cadute;
     Seminato hai le verdi speranze
     Sulle vie della terra e del ciel.
     Poi le corde dell’arpa fur mute
     Quando venner le spade e gli oltraggi,
     Ma nei giorni o codardi o selvaggi,
     Fosti a Italia ed a Cristo fedel.


 //-- V. --// 

     Cara e nota allo strano e al natìo,
     Fu un altar la modesta tua casa;
     Fu il recesso d’un tacito iddio
     La villetta che in sen ti serbò.
     Là, romito, pensasti che invasa
     Non per sempre saria la tua terra,
     E, origliando, un accento di guerra
     Tu aspettavi da Sesia e dal Po.


 //-- VI. --// 

     Lo aspettavi: e un mattino i Lombardi
     Dier lo sfratto al fatal Barbarossa:
     E tu, fermi al Ticino gli sguardi,
     Mormorasti: «Il Sabaudo verrà?»
     L’hai veduto: e dall’alma commossa,
     Divin vecchio, t’usci questa voce:
     «Vien dall’Alpi una candida Croce,
     Ecco, Italia, la tua libertà!»


 //-- VII. --// 

     Da quel dì quanta storia d’affanni!
     Che ritorni alle colpe, ai furori!
     La mia voce non sorga e condanni
     In quest’ora che insegna a pregar;
     Ma tu hai visto, o gran vecchio, i colori
     Della Francia venir dal Ceniso,
     E i bei giorni del Mincio e l’eliso
     Rifiorito fra i monti ed il mar.


 //-- VIII. --// 

     Su que’ campi, a quell’ora, in que’ balli,
     La tua Patria il tuo Re gli hai veduti!
     Poi sentisti d’Arminio i cavalli
     Sovra i ponti dell’Elba nitrir:
     E poi quanti sul Reno i caduti!
     Che terror! che stupor! che destino!,
     E poi quanta sul Tebro divino
     La speranza del nostro avvenir!


 //-- IX. --// 

     Sarà lieto?… O fedel patriarca,
     Tu che guardi dall’alto del clivo,
     La colomba hai tu visto nell’arca
     Dall’abisso dell’acque tornar?…
     Hai tu visto la fronda d’ulivo
     In quel rostro fiorir più vivace,
     E poi chiusi in un arco di pace
     Dell’Italia la Reggia e l’Altar?…


 //-- X. --// 

     Nobil sogno!… Foss’egli una fede,
     O un inganno dell’egra pupilla,
     Questo sogno sì dolce a chi crede
     Le tue meste agonie consolò:
     Fu rugiada che tacita stilla
     Sopra un fior che già i lembi ha conserti,
     E già s’alza e profuma i deserti,
     Che di stelle il Signor seminò.


 //-- XI. --// 

     Roma eterna, l’Asil dei Baroni,
     Quel di Micca, Fiorenza cortese,
     Di san Giorgio e san Marco i pennoni,
     Del Carroccio le ardite città;
     Son qui tutti, col bruno alle imprese,
     Per dar lauri al funereo tuo calle:
     E a’ suoi bimbi chi fosti ogni valle,
     Ogni terra, ogni borgo dirà.


 //-- XII. --// 

     Verecondo tu fosti cogl’imi,
     Fosti degno coi Grandi ed umano:
     Le parole più dolci e sublimi
     Ti sgorgàr dall’ingenuo pensier:
     Cittadin d’ogni tempo lontano,
     Tu adorasti ogni forma del bello,
     In ogn’uom tu vedesti un fratello,
     Pur di lingua e di culto stranier.


 //-- XIII. --// 

     Dormi, o giusto. Non ira di parte
     Sovra l’ossa tue sante si leva:
     Degno figlio d’Ausonia e dell’arte,
     Uno in tutti è l’orgoglio e il dolor;
     E a te, sciolto dai vincoli d’Eva,
     Non increscan le pompe del rito,
     Non ti turbi, o celeste sopito,
     Quest’assalto d’umano splendor.


 //-- XIV. --// 

     So che pari a fil d’erba la fama
     Si scolora e che tutto è follía;
     So che il giusto non cerca e non brama
     Che una pace ben lungi da qui:
     Ma se un’urna gli spirti ravvia
     Ai concordi e solenni pensieri,
     Non dolerti, o fìgliuol d’Alighieri,
     Che l’Italia si mostri così.

   Roma 1873.


   IDEALE


     Ingenii custos, si vis tu nata Deorum,
     Si vis, non moriar.
     Io con te parlo, tu il sai, nell’ora
     Che il fatuo foco dentro la valle
     La tenue cima de’ giunchi sfiora
     E al pellegrino contrasta il calle:
     Al pellegrino che, bianco in volto,
     Dentro quel foco mira un sepolto.
     Io parlo teco, fanciulla, quando
     L’alba è vermiglia sulla montagna,
     E alla ginestra rileva il blando
     Capo e di fresche perle la bagna,
     Mentre negli orti la capinera
     Canta l’idillio di primavera.
     Io con te parlo quando la greve
     Aura le foglie semina al piano,
     O a larghe falde casca la neve
     Sovra il tugurio del mandrïano:
     Non spunta giorno, sereno o bieco,
     In ch’io, fanciulla, non parli teco.
     Parlo negli atrii, lungo la via,
     Parlo fra i campi, sotto le stelle;
     Geme col vento la voce mia,
     Scoppia sonora colle procelle;
     Nel santüario, prosteso all’ara,
     Sempre a te parlo, fanciulla cara.
     Dal grembo d’Eva tu non sei nata,
     Nè il crin ti veste rosa mortale;
     Tu non hai bruna verga di fata;
     Dea dell’Olimpo, non t’armi d’ale:
     Dolce, segreto, libero, intero
     S’apre il tuo mondo nel mio pensiero.
     Tu meco piangi, meco sorridi
     Di queste nostre favole oscure:
     Le tue speranze tu mi confidi,
     Io ti confido le mie paure;
     L’ora del tempo del par ci preme,
     Cara fanciulla, sognando insieme.
     Nel fresco raggio del tuo sembiante
     Innamorarmi non mi vergogno;
     Coi crin già bianchi, tacito amante,
     Io notte e giorno seguo il mio sogno;
     Sinché la Parca, forse domani,
     Non ne recida gli stami arcani.
     Questa parola d’un vel d’affanno
     Deh, non t’oscuri l’amabil viso!
     In tristi giorni vivere è danno,
     Pur consolati dal tuo sorriso;
     Eppoi, la gloria d’un grande amore
     Meglio si sente quando si muore.
     So ben che sopra defunta spoglia
     Brevi dell’uomo durano i lai,
     Come su pioppo di morta foglia
     Canto d’augello non dura assai;
     Chè chi dell’oggi segue le larve
     Raro sospira su ciò che sparve.
     Ma i’ credo e spero che, chiuse l’ossa
     In pochi palmi d’aiuola verde,
     Tu qualche giglio sulla mia fossa
     Darai piangendo; se non si perde
     Nell’infinito mar dell’oblio
     La navicella del canto mio.
     Però, in quel giorno, come tu stessa,
     Prenderò il volo per altri mondi;
     Tu me n’hai fatto la gran promessa,
     E tu, fanciulla, me ne rispondi,
     Alto levando la nivea mano
     Verso un pianeta lontan lontano.
     Dunque, o fanciulla, voghiam sull’acque,
     Voghiam cercando quel dolce porto;
     S’io t’ho seguita, come a te piacque,
     E tu mi guida, felice o morto,
     Verso la piaga dove tu dèi
     Stringerti meco d’altri imenei.
     Bella nocchiera, su questa barca
     La tua canzone cantami intanto:
     Oh come, oh come lievi si varca
     Dietro la nota del dolce canto!
     Oh come, oh come tutta s’infiora
     Di rose eterne la nostra prora!
     China il soave capo tuo biondo,
     Angiolo stanco, sovra il mio seno:
     Mentre alle mura di Faramondo
     Arminio i carri lancia dal Reno,
     Dormi, o fanciulla. Meglio è sognare
     Sulla stellata conca del mare.

   Viareggio, 1870.


   I MIEI VERSI


     Scandit et, instar avis, cantat super ilice Carmen.
     Come un nido d’uccelletti
     Che tu senti pispigliar
     Sovra i gelsi o in cima ai tetti
     Quando allegro il maggio appar,
     Van cantando i versi miei,
     Bruna figlia di Corfù;
     Belli no, come tu sei;
     Freschi no, come sei tu.
     Van cantando; ed uno vola
     Dentro un cespite di fior,
     E consegna all’agil gola
     L’allegria che chiude in cor.
     Dentro i rami d’un cipresso
     Si va un altro a rifuggir,
     E con murmure sommesso
     Dice all’ombra il suo martir.
     Sulla barca i patrii carmi
     Dice un terzo al timonier;
     Canta un quarto amori ed armi
     Sulla tenda del guerrier.
     E nei lutti e nelle feste
     Niun di loro ha nodi al piè,
     Nè darebbe la sua veste
     Per la porpora d’un re.
     San le glorie dell’Egèo,
     Sanno il riso del Velin,
     Sanno i riti del Pangèo,
     Sanno il carme Sibillin.
     Or le zuffe dei leoni
     Vanno in Roma a celebrar,
     Or negli attici odeoni
     D’Afrodite il bianco altar.
     Con le faune dormon lieti
     Tra le mente del ruscel,
     O coi silfi nei frutteti
     Quando Cinzia arride in ciel.
     Se una bianca margherita
     Foglia a foglia si disfà,
     Sulle sorti della vita
     Per saper quel che dirà;
     O se a Pasqua gioca al Verde
     Una bella ed un garzon,
     Essi trillano a chi perde
     Dal mirteto una canzon.
     Se le lepri a notte aperta
     Van danzando in gaio stuol,
     O la pallida lucerta
     Cerca i sassi a’ rai del sol;
     Questi miei pellegrinanti
     Fanno gli alberi stormir,
     E dai rami arcani canti
     Si cominciano a sentir.
     E poi van per la campagna
     Sui covoni al falciator,
     Van seguendo alla montagna
     La cornetta del pastor.
     Van nell’ombra delle valli
     Con le fate a conversar,
     Raccontando i freschi balli
     Delle naiadi sul mar.
     E van sempre, araldi eterni,
     Van lontano e più lontan,
     Van dal cielo ai foschi averni
     E van sempre e sempre van.
     O mal cauti, a tanto volo
     Non fidatevi così:
     Qui nell’atrio afflitto e solo
     Io v’attendo e notte e dì.
     Non c’è guardia sui confini;
     Procellosa è la stagion:
     Uccelletti pellegrini,
     Deh, tornate al mio balcon!



   LACRYMAE RERUM


     Saltem si, rebus fractis, mihi nomina restant!
     A voi, fior della terra, a voi, gioconde
     Stelle del cielo, i sogni e le speranze
     Della ridente gioventù son pari.
     Se non che l’astro e il fior passano immuni
     Da colpa e da castigo, e noi travaglia
     Pur giovinetti una tristezza arcana,
     Quando parliam col limpido pianeta
     E colle rose.
     Sulla verde cima
     Delle mie rupi, in margine a’ miei laghi,
     Nel silenzio dell’ombra, oh! quante volte
     Piansi pur io fanciullo, il ciel mirando
     Pien di tremoli fochi o il sottoposto
     Pendio stellato di silvestri gigli
     E di pervinche!
     In verità, si piange
     Dunque nel mondo, e sin la primavera
     Ha le lacrime sue. Forse non solo
     Piangon gli occhi dell’uom, ma la pupilla
     Pur dell’avida belva il pianto oscura.
     Mai non vedesti, Elisa, un errabondo
     Can, che ha smarrito il suo signor, corcarsi
     Malinconico in terra? O sotto l’ala
     Piegar la testa un povero augelletto
     In gabbia d’ôr? Dai perfidi spiragli
     Il bel verde de’ campi e il cielo ei guarda,
     E la perduta libertà sospira.
     Tutte piangon le cose; e i petti affanna
     Ciò ch’è nato a perir.
     Voi che venite,
     Pellegrini del mondo, a questa Roma,
     Non per recar nelle native terre
     Qualche santo rosario od amuleto,
     Ma per chinarvi a interrogar la spoglia
     Dell’olimpico Lazio, il pianto vostro
     Colle rugiade dell’eterna luna
     Qui spargerete, e in qualche ermo cespuglio
     Del Palatin la capinera al vento
     Lancerà la sua nota.
     Or io mi levo
     Sulle alture del Celio, e mentre l’ôra
     Nei sacri mirti come fa, si tace,
     Pellegrini del mondo, a voi favello:
     Questa Roma di Dardano, per molti
     Rischi di terra e mar, seco ha recato
     Colle ceneri d’Ilio il suo destino.
     Qua giunse larva nel pensier d’Enea,
     E qua crebbe e regnò. L’arido bruco
     Nel novilunio suo non altrimenti
     Fatto è farfalla. Un’intima possanza
     Trasfigura le cose, e dalla morte
     Nasce la vita, ed ambedue compagne
     Van per la terra, altar di maraviglie
     E di ruine.
     Ma perpetuo il falco
     Garrisce al monte, ma s’abbraccia il Sole
     Col perpetuo nettuno e col deserto,
     Mentre l’ora dell’uom va più veloce
     Che non la rota della sua fortuna
     Senza ritorni.
     Virïate, il prode
     Fulminator dai cantabri dirupi,
     Come passò? dov’è l’asta di Brenno?
     Dove il biondo cherusco e l’implacato
     Cartaginese?
     Io per le ripe indarno
     Cerco Cesare nostro e le vestali
     E i pontefici sacri: odo il galoppo
     Del caval d’Alarico, e penso e piango,
     Pellegrini del mondo, insiem con voi!
     Figlio d’Italia, in vetta alle nevose
     Mie tirolesi balze ebbi la cuna
     Come il camoscio, e le varcai cantando
     Fra’ miei vecchi pastori.
     E ancor la squilla
     Delle mandre disperse alla boscaglia
     Nel cor mi suona, e dalle chiese alpestri
     Gemere ascolto il passero solingo,
     E rivedo le vie che i battaglioni
     Vider di Francia ed or sotto l’accesa
     Ferza canicular son traversate
     Dal fulmineo ramarro.
     Agile e fresca
     Allor ne’ polsi mi correa la vita
     E nello spirto: allor caro soltanto
     M’era il mio borgo, e mi parea più noto
     Che non il Tebro, eredità di Giove,
     Il più ignoto ruscel delle mie valli.
     Oggi, affranto le membra e misto il crine,
     Me condusser le Parche alla fatale
     Città d’Ascanio; ed ospite pensoso
     Odo dalle disfatte are il lamento
     Dei numi d’Asia, e porto, a quando a quando,
     Sul Gianicolo sacro o l’Aventino
     L’alte malinconie del dì che fugge.



   MORBI


     Agrescunt animi, vel corpora: morbus et ipsa Mens est.
     «Malato è l’uomo di parecchio male»
     E l’aspra verità tutti ci smaga.
     La miglior delle cure in questo mondo
     È il non curar. Ricacciami, o fantesca,
     Il medico alla porta; udir non voglio
     Favole al letto mio. M’urge la tosse?
     Berrò tepido tiglio. Ho le tonsille
     Chiuse? Datemi ghiaccio. È il ventre in doglie?
     Non mangerò. M’assalgono i ribrezzi
     Della quartana? Ebben moltiplicate
     Sovra il povero mio corpo che trema
     Coltri e piumacci. Assai furono incise
     Le mie vene già tempo; e un zinganume
     Di farmachi passò per questa mia
     Casa di creta. Se al martel degli anni
     Or la casa comincia a screpolarsi,
     Che far ci posso?
     Ed anco all’intelletto
     Salgon del corpo i mali. Alcun ci narra
     Un triste sogno e ci turbiam: se il gufo
     Canta sui fumaioli, ha da colpirci
     Qualche infortunio. E a quei della natura
     Confondiam di sovente i mali nostri:
     Strani amor’ senza gloria e senza pace,
     Strane idee senza freno, ond’han poi vita
     Cabale, ubbie, malurie e un indefesso
     Gioco di spettri: e ci ostiniam la colpa
     A versar non su noi, ma sull’iniqua
     Fatalità: gli arguti!
     I morbi vanno,
     Ospiti come son di ogni dimora,
     Del pari all’alma: ove non sia di questi
     Il primo nido.
     Un dì, povero pazzo,
     Versai lacrime anch’io per mal d’amore
     E ululai sulle sabbie o in riva al mare,
     Vagabondo lipomane; e ne’ sogni
     Mi si corcò sull’anelante petto
     Il salvanello: anch’io tenni per sacro
     Quanto mi disse, in fe’ di galantuomo,
     Il gabbamondo; e mi restò l’inganno
     Come stampo di foco entro il cervello
     E ingiallii di corruccio. Il mal del grullo
     Questo si chiama. E mozzerai la mano
     Pria di far beneficio: in tetra gleba
     Tu spargi un seme da cui certo nasce
     Foglia di tosco. Nè per esser mite
     Scorda gli schermi: fra l’agnello e il lupo
     Non c’è patto qual sia: far l’uom del pari
     Vidi coll’uomo: chi ha più duro il pugno
     L’emulo atterra e son contenti i Numi.
     Ed io, ciuco! mirando il rugiadoso
     Fior della siepe, o la notturna stella,
     O il zampillo dell’acque, o in orïente
     La rosea luce, spiriti benigni
     In servigio dell’uom, che inferno è questo,
     Sclamai, dipinto in sì leggiadre forme?
     Oggi però, con lepido sorriso,
     I nomi appulcro alla saturnia prole
     E fo spallucce e più non mi dispero.
     Fors’è pur questo un morbo: e non di manco
     Ne so la cura; e vo pellegrinando
     Fuor della turba a ritornar poeta.
     Ma a quanti amici miei son fatti bianchi
     Nell’affanno i capelli: e a testa china
     Passan, com’ombre, per l’amara valle!
     Ridete, amici: il mondo è sempre stato
     Pari a se stésso: un bindolo da forca
     Che fa gran cose. È ver ch’egli a’ più destri
     Lambe le cuoia e i suoi più rari uccide:
     Ma come il coccodrillo a compensarli
     Quindi li piange. Non vi par codesta
     Gentil mercede? All’asino la soma
     S’addice, al savio il ben usato ingegno,
     Se c’è savio quaggiù sotto la luna.
     Vorrei quasi gridar: bravo a chi mente
     E scampa da rossor; bravo a chi ruba
     E scampa da bargello; e sette volte
     Bravo a chi sa giuocar dentro a quest’acque
     Con l’altrui barca e il suo nemico affoga
     E commisera in porto il suo nemico.
     Chi ha più dura la man l’emulo atterri
     E sien paghi i Celesti. Ora son pochi
     I mali miei: qualche innocente stizza,
     Che mi dà chi compila e chi rivende
     La farina ghermita all’altrui sacco
     E con ciò si fa dotto: o raspa e becca
     Sin che balza superbo alla curule,
     E sa l’arte dell’arte e al volgo piace.
     Qualche malinconia che colle nubi
     Viene e col sol dilegua, antica e cara
     Mia poetica insania: un tedio breve
     O un lungo sonno a udir sempre e poi sempre
     Le stesse ciancie ed a veder che in nulla
     Ciò turba i nervi ai simulacri e ai bronzi
     Che stan sulle colonne. Il resto è cosa
     Di nessun conto. Se non ho valsenti
     Non mi cruccia pensar com’io li spenda;
     Se più su non salii, son franco almeno
     Dal capogiro: l’unica rancura
     Che mi morde talvolta insino all’osso
     È non poter scordar quest’alfabeto
     Che mi scema il piacer d’essere un’erba
     Sconosciuta, fra tanto italo fiore.
     Candidi amici, ripetiam sovente:
     «Malato è l’uomo di parecchio male
     Nè poi certo è il guarir.» Per consolarmi
     Io conchiudo cosi: Tre son le Parche:
     Una fila, una tesse, una recide;
     E quest’ultima, parmi, è la più saggia.
     Di là riposerem; l’Ade ha due regni:
     L’Eliso e l’Orco: il primo apresi ai rari
     Ch’ebber l’aura di Giove; all’altro in seno
     Cade la ciurma che dal fango è nata.
     Ma poi, comunque sia, dolce è il riposo.



   BRINDISI GRECO


     Tuque, tenace pater, nunc adsis: ter pede terram
     Tundite nunc, pueri: fugiunt super aequora Persae.
     D’Ismara quando
     L’oro, sprillando,
     Sotto la spuma
     Si torce e fuma
     Nel mio bicchier;
     Col sole in fronte
     D’Anacreonte,
     Doventa allegro
     Fino il più negro
     De’ miei pensier.
     Nel dorio nappo
     Mi sprema il grappo
     La tua di rosa
     Man rugiadosa,
     Fanciullo Amor;
     E questo crine,
     Sparso di brine,
     Nel dolce rito
     Vedrai vestito
     D’idalio fior.
     E nell’arcano
     Simposio, in mano
     La sacra conca
     Dove si cionca
     Per la beltà;
     Nonchè i volanti
     Felici istanti
     Quei della pira
     La lesbia lira
     Mi tarderà.
     Sento alla chioma
     L’aura di Roma;
     Ma i rosei carmi
     Di Milo ai marmi
     Sempre io darò.
     Me il doppio ha vinto
     Mar di Corinto;
     E Tespi e l’onda
     D’Imetto bionda
     Scordar non so.
     D’ognun sul labro
     Suona il Velabro,
     Suona Laurento,
     Suonan le cento
     Vestali e i re;
     Ma più le belle
     Driadi sorelle
     Danzanti in giro
     Pel verde Epiro
     Piacciono a me.
     Nei pepli chiuse,
     Salvete, o muse;
     Salvete, o fiumi,
     Di ninfe e numi
     Cuna ed altar;
     D’Antella in vetta,
     Salve, o diletta
     Lacena prole,
     Gloria del sole,
     Festa del mar.
     Baia divina
     Di Salamina,
     Quand’io son teco
     L’aura d’un Greco
     Parmi vestir:
     Vivo giocondo
     Nel greco mondo,
     E con un riso
     Del greco Eliso
     Vorrei morir.



   PACHITA

 //-- Adpropera quo fata vocant: te regna sequuntur. --// 

 //-- I --// 

     Su un pilastro deposto il sonoro
     Tamburino, e le bende sue d’oro
     Alla chioma intrecciando, sentì
     La leggiadra Pachita assai cose
     Da un gentil caballero: e rispose
     Finalmente l’arguta così:
     «Caballero dell’alta Aragona,
     Se aver brami la nostra persona,
     Tre fatiche tu devi compir.»
     «Bruna fìglia dei cantabri lidi,
     Parla sempre e parlando sorridi;
     Le fatiche noi stiamo ad udir ».
     «Caballero, se il braccio ti vale,
     Non concètto da grembo mortale
     Qua tu devi condurci un destrier».
     «È l’inchiesta terribile e nova,
     Ma l’hai detto e siam pronti alla prova
     Per far pago il bizzarro pensier».
     «Caballero, c’è un’altra fatica:
     Qui recarci tu devi una spica,
     Non sui campi, ma nata nel mar».
     «Strana molto è l’inchiesta seconda,
     Che niun semina o miete nell’onda,
     Pur la spica giuriam di recar».
     «Caballero, se ciò ti conviene,
     Qui condurci tu devi in catene
     Quel superbo Don Pedro tuo Re».
     «Questa è poi la più rea delle imprese,
     Ma chi t’ama è tremendo e cortese;
     Noi trarremo Don Pedro al tuo piè».
     «Do tre giorni a ogni prova e t’aspetto;
     Batti a notte tre volte al mio tetto,
     Io la porta ad aprir ti verrò;
     E nell’ultimo di senza fallo
     Le mie nozze otterrai, se il cavallo
     E la spiga e Don Pedro vedrò».
     Col piè breve stellato d’argento
     Detto questo, girossi nel vento
     La Pachita dei cembali al suon.
     E per selve, per borghi e cartelli
     Ascoltavan le aurette e i ruscelli
     Di Pachita la gaia canzon.
     E il gentil caballero frattanto,
     Fosse mesto o pentito del vanto,
     Nè sapesse a che termine uscir,
     Gìa pensoso all’aperta campagna,
     Nè quel vago giardin della Spagna
     Dava tregua ai cocenti sospir.


 //-- II --// 

     Sul terzo vespro Pachita invero
     Della bizzarra celia stupia,
     Pur sull’intrigo del caballero
     Le galoppava la fantasia,
     Nulla aspettando. Ma in questo mentre
     Dati alla porta tre colpi udì;
     Quindi una voce: «Da mortal ventre
     Il non concètto cavallo è qui».
     Ell’apre e vede di marmo bianco
     Come scolpito fosse in Corinto
     Nè certo sceso da mortal fianco
     Il bel cavallo di Carlo Quinto:
     Fosse comunque, l’ardito ingegno
     Ella del ladro molto lodò,
     E il caballero, d’ossequio in segno,
     Curvo un ginocchio, si congedò.
     Dopo tre giorni facea gran vento,
     Facea gran pioggia: ma irrigidita
     Senza pur anco dare un lamento
     Al suo balcone sedea Pachita:
     E già tremava sul dubbio arrivo,
     Ma udì tre colpi, corse ad aprir….
     E alla Pachita d’un foco vivo
     Le belle guance si ricoprir.
     «Dolce mia dama, poco or mi resta
     Per ch’io consegua la vostra mano,
     Ecco la spiga che mi fu chiesta
     Non tolta ai campi ma all’oceàno.»
     Ed ei di perle straniere al mondo
     Trasse una spiga che la stupì,
     Poi con un riso lieto e profondo
     Il caballero se ne partì.
     D’amor frattanto Pachita accesa
     Nei dì seguenti non ha più pace:
     «Ahimè alla terza nefanda impresa
     Perché ho tentato l’anima audace?
     Cavallo e spiga certo ei mi diede,
     Ma il Re in catene come il potrà?
     E se ciò manca, m’è indizio e fede
     Che queste nozze Dio non vorrà».
     Così dicendo venia la sera
     Ultima; e in cielo sorgea la luna:
     E di Pachita per la costiera
     La insofferente pupilla bruna
     Giva spïando se mai vedesse
     O poca o molta gente arrivar,
     O almen due soli; ma dalle spesse
     Macchie sol uno vede spuntar.
     Quest’un conosce che incerto e lasso
     Alla sua porta sosta e non batte:
     Ella raddoppia, poi frena il passo
     E una gran pugna fra sé combatte:
     Vado?… non vado?… Ma poi… che temo?
     Tra noi, dirassi, celiato fu;
     E dopo alquanto che riso avremo
     Chiusa la porta nol vedrò più.
     Scese ed aperse: «Chè non picchiasti,
     Bel caballero?» «C’era un imbroglio;
     Le mani ho avvinte.» «La celia basti;
     Cavallo e spiga render vi voglio».
     Dolce mia dama, l’istante vola,
     Io le tre prove compiute ho già;
     Don Pedro è in ceppi: tien la parola
     Il Re Don Pedro quando la dà».
     Qui ginocchiossi. l’aria dei viso,
     Degli occhi il lampo, l’augusta voce
     Ruppe il mistero: con un sorriso
     Ella da terra lo alzò veloce
     Poi tutto tacque. Don Pedro a Corte
     Per quella notte non ospitò,
     E dopo un mese, cangiando sorte,
     Di Spagna al trono Pachita andò.



   RAMUSCELLO


     O ramuscel di mandorlo,
     Quando su te si posa
     Il cardellino, e ai limpidi
     Rigagni e al ciel di rosa
     Sparge la fresca e lieta
     Anima di fanciullo e di poeta;
     O ramuscel, per magica
     Arte io vorrei mutarmi
     Nell’augellin che dondola
     Su te, trillando carmi;
     Su te, che spargi al vento
     La molle nebbia de’ tuoi fior d’argento.
     E là, cantando il giovane
     Mio tempo e i dolci inganni,
     Le ingrate nevi e il cumulo
     Non sentirei degli anni,
     Ma ognun la sua fatale
     Stella ha sul capo; ed accusarla è male.
     Dunque, augellin, sul candido
     Ramo tu resta e trilla;
     Nella consunta lampada
     Io sveglio una favilla
     E seguo, al tenue raggio,
     Sonnambulo nell’ombra, il mio vïaggio.
     E ad una pietra celtica,
     A un ipogeo latino,
     O sotto un dorio portico,
     O un arco bizantino,
     Sogno; e domando al fiore
     Ciò che resta nel mondo e ciò che muore.
     Sogno; e domando ai zefiri
     Se, al dì della procella,
     Io seguirò la bussola
     D’Amalfi o la mia stella;
     E se il funereo altare
     Troverò sulla tolda o in fondo al mare.
     Se in fondo al mar le Naiadi,
     Dopo il virgineo ballo,
     Non mi daran sarcofago
     Di perla o di corallo,
     Ma, pari a mia fortuna,
     Un letticiuol di poca aliga bruna;
     Grato alle Dee, dal povero
     Sepolcro, a quando a quando
     Mi leverò, l’erratico
     Poseïdòn guardando;
     E mi parrà la vita
     Sentir nella sonante onda infinita.
     Onda, del tutto origine,
     Madre ed amante ignota,
     Al cui tripudio il mistico
     Gange e il divino Eurota
     E l’ilice dircea
     E il ramuscel di mandorlo si crea;
     Onda, che sorgi ai palpiti
     Di Febo innamorato,
     E al cardellino e all’aquila
     I nascimenti hai dato;
     Onda nettunia, è pieno
     Di sogni eterni chi ti dorme in seno.



   ANTONELLO DA MESSINA


     Croci, isolette e monti
     Bacia, cadendo, il sol;
     Radon canali e ponti
     Le rondinelle a vol.
     Sfiora il battel gli estremi
     Flutti d’un’ombra al par:
     Vedete! han l’ale i remi
     E son già persi in mar.
     Da voi, superba Annina,
     Fugge, chè offeso ei fu,
     E Antonio da Messina
     Non tornerà mai più.
     Antonio, che sui canti
     Del suo romito ostel,
     Quando colora i santi,
     Fa maraviglia al ciel.
     Perchè, mentr’ei dal seno
     L’occulto amor svelò,
     Pia gentilezza almeno
     Tacer non v’insegnò?
     Forse placato avreste
     Col timido pudor
     I fochi e le tempeste
     Di quel potente cor.
     Ma la parola irata
     Fu troppo lesta a uscir:
     «Pensa da chi son nata,
     E bada a rinsavir!»
     Di dogi e dogaresse
     Voi siete figlia, è ver;
     A voi ghirlande intesse
     Di Candia ogni guerrier.
     Chi vien da la Castiglia
     Seco pensando va:
     «Un fior la mia Siviglia
     Pari a costei non ha.»
     Sul Cassero sospira
     Ogni bendato Alì:
     «Non ha, non ha Casmira
     Più glorïosa Urì.»
     Chi vien di Francia in rada
     Dice co’ suoi: «Qual re
     Non pon corona e spada
     Di questa dama al piè?»
     Tutto v’arride, è vero;
     Ma del pittor sul crin
     Verdeggia un lauro altero,
     Che non avrà mai fin.
     Dite, superba, o dite:
     Quale dei due preval,
     Quando son posti in lite
     La gloria ed il natal?
     Egli a mestier villani
     Le man fanciulle usò;
     Ma quelle scabre mani
     Un dio trasfigurò.
     E un mondo a lui sfavilla,
     Che di portenti è pien:
     Un mondo che non brilla
     A niun de’ vostri in sen.
     Come alle sacre note
     Scende dal ciel quaggiù
     Nell’ostia al sacerdote
     La spoglia di Gesù;
     La più segreta parte
     Lasciò del ciel così
     L’arcana dea dell’arte,
     E disse a lui: «Son qui.
     I trepidi ginocchi
     Perchè non reclinar,
     Quando v’apparve agli occhi
     Quel nume e quell’altar?
     Chi potea darvi un riso
     Di più beato april,
     Mostrarvi un paradiso
     Più grande e più gentil?
     So ben, negarlo è vano,
     Che a voi pur oggi in cor
     Vive il fanciul Sicano
     Come un celeste fior;
     Ma dall’incauta Annina
     Troppo spregiato ei fu,
     E Antonio da Messina
     Non tornerà mai più.
     Però, tra queste liete
     Piagge e di là dal mar
     Voi ricordata andrete
     Del gran fanciullo al par.
     Nè già per nascimenti,
     Per oro o per beltà,
     Ma il mondo de le genti
     Di voi si sovverrà.
     Perchè un fuggiasco insonne
     L’ombra de’ chiostri amò;
     E ne le sue Madonne
     Soltanto a voi pensò.



   BACIO DI GIOVE

   … sunt laeva Tonantis
 Oscula.

 //-- Frammento antico --// 

     Corcossi Giove sulla madre Terra,
     Che di bellezza giovanil vestita,
     Dormia sommersa nell’ambrosia luce.
     Sotto l’insania del divino amplesso,
     Ella fu pregna e partorì la schiatta
     Dei futuri giganti. Eran dapprima
     Pargoli in grembo di petrose cune,
     Nutriti ai fochi dell’Olimpo e ai venti
     Della rigida selva. Orma di riso
     Però non apparia su quelle fronti,
     Non luceva in quegli occhi orma di pianto;
     E il dì che uscîr col giovinetto piede
     Tentando i passi, trepidâr d’intorno
     A quelli strani e nomadi fanciulli
     La montagna e la valle. E quando il giro
     Di più lune fu vôlto, essi in altezza
     Superaron le querce, e il minaccioso
     Tauro in possanza, e nelle tetre fauci
     La lupa e il tigre ne’ fulminei sdegni.
     Quindi tesero gli archi; e il primo sangue
     Stillante fuor dalla portata preda
     Scaldò del fiero cacciator le spalle;
     Fumâr nelle caverne e sulle rupi,
     Coronate di falchi e di bufere,
     Le mense enormi; e sui villosi petti
     De’ coloni le figlie e de’ pastori
     Imparâro il connubio. Indi risolta
     Tra i frassini del Pelio e dell’Olimpo
     Fu la perfidia, e cominciò la pugna
     Dei fulminati. E Prometèo sull’Ida
     La grifagna tormenta, e nel macigno
     Urla Encelado sempre, e Flegra tutta
     De’ combusti cadaveri nereggia.
     Questo fruttò dalle incestate nozze
     E dai baci di Giove. E non per tanto
     Ridon nell’aria le gioconde stelle,
     Ornano a’ fior le giovinette il crine,
     E ai vivi e ai morti le materne braccia,
     Mentre cantan le Parche, apre la Terra.
     Figli siam noi di questi padri! e pace
     A noi l’avara carità de’ Numi
     Consente appena in quello stesso grembo
     Che produsse il misfatto. O bella emersa
     Dalle spume del mar, bella Afrodite,
     Fior di Cipro e di Milo, i dì son brevi:
     Tu ce li allegra: della vita il nappo
     Sente d’amaro; e tu ce lo incorona
     Di molle ambrosia: a noi l’ultima luce
     Spunta imprevisa; non lasciar che il nembo,
     Del suo tristo color ce la dipinga
     Sul cristal della stanza ove domani
     Più non saremo. Benedetti i pochi
     Che s’alzaron nell’armi, e al ferreo squillo
     Delle trombe guerriere han dato in campo
     L’anima e il sangue. Nel felice Eliso
     Già raccolti son essi; e se non mènte
     La parola de’ tempi, al capo in giro
     Recan la fronda che i più degni eterna.



   PATRIA


     Non sonora abbastanza è la tua onda,
     O padre Adige.
     Sin che al mio verde Tirolo è tolto
     Veder l’arrivo delle tue squadre,
     E con letizia di figlio in volto,
     Mia dolce Italia, baciar la madre;
     Sin ch’io non odo le mute squille
     Suonare a gloria per le mie ville,
     Nè la tua spada, nè il tuo palvese
     Protegge i varchi del mio paese;
     No, non son pago. Chiedo e richiedo
     Da mane a vespro la patria mia:
     E il suo bel giorno sin ch’io non vedo
     Clamor di feste non so che sia.
     Cantai di gloria, cantai di guerra,
     Cantar credendo per la mia terra,
     Quanta ne corre da Spartivento
     All’ardue Chiuse di là da Trento.
     L’han pur veduta la festa loro
     L’altre del Lazio città reine!
     E tu, gran Madre, del proprio alloro
     Tu ne hai vestito l’augusto crine:
     Ma la mia terra negletta e sola
     Geme nell’ombra: chi la consola?
     Dai ceppi amari chi la disgrava?
     Chi l’aura e il lume rende alla schiava?
     Eppur, quand’era peccato e scorno
     Stringer la mano degli stranieri,
     Coi prodi figli d’Italia, un giorno
     Sorsero i figli de’ miei manieri;
     E ai patrî greppi gentil lavacro
     Diedero il sangue più puro e sacro.
     E il sa Bezzecca, sulle cui glebe
     Fiori di sangue brucan le zebe.
     Umile è certo la terra nostra:
     Archi, colonne, templi non vanta.
     Ma con orgoglio c’è chi la mostra,
     Ma con orgoglio c’è chi la canta;
     Terra d’onesti, terra di prodi,
     Cerca giustizie, non cerca lodi.
     Ti chiede, o Italia, se madre sei,
     Che il cor ti morda, pensando a lei.
     Ella il tuo sangue dagli avi assume,
     Ella negli occhi porta il tuo raggio;
     Ella s’informa del tuo costume,
     Pensa e favella col tuo linguaggio.
     Arde di sdegno, piange d’amore,
     Parte divina del tuo gran core!
     Qual colpa è dunque se non si noma
     Milan, Fiorenza, Napoli o Roma?
     Pia rondinella, che appender suoli
     A’ miei nativi frassini il nido,
     Da cielo in cielo stendi i tuoi voli
     Sin del Danubio sul verde lido:
     E al cor pensoso di due Potenti
     Bisbiglia un’eco de’ miei lamenti,
     Cader lasciando dal picciol rostro
     Un fior bagnato del pianto nostro.
     E se Belguardo si fa una gloria
     D’accôr la dolce Sabauda Stella,
     Col fiore azzurro della memoria
     Parla ai due Prenci, pia rondinella.
     Per me ad Absburgo, per me a Savoia
     Chiedi una patria prima ch’io muoia;
     Morire io possa libero e grato
     Nei verdi boschi dove son nato.
     Per quelle nude mie dolci lande
     Possa la sorte farmi indovino!
     Che plauso allora, che osanna al grande
     Fratello e amico del re latino!
     Allor da vero chiusi i gagliardi
     Saran nell’ombra de’ due stendardi!
     In cima all’Alpi, già vecchio danno.
     Le nuove stirpi s’abbracceranno!
     Sovra ogni torre, sovra ogni foce.
     Di sè rendendo l’aere giocondo,
     L’aquila bruna, la bianca croce
     Saran due segni di pace al mondo.
     Fervor di genti, silenzio d’armi,
     Fronde d’ulivo, festa di carmi,
     L’animo in alto, questa è l’aurora
     Che nel mio sogno balena ancora!



   MAB


     Mab vocor atque iocor: nigris me linquere corvis
     Gaudeo; subque dio teneros insector amores.
     Mentre ai gelidi passaggi
     Del crepuscolo s’abbruna
     La foresta, e si richiudono
     Nelle siepi i tenui fior;
     E fan tresca in cima ai faggi
     Gli scoiattoli alla luna,
     E i mastini intorno latrano
     Nello stabbio del pastor’;
     Mab, la piccola reina
     Delle fate, in veste azzurra,
     Che ha per cocchio un guscio d’ebano
     E due corvi per destrier’,
     Sulla fonte cristallina,
     Che fra l’eriche susurra,
     All’ombra d’un bianco mandorlo
     Va cantando i suoi pensier.
     Gira gira la tua ruota,
     Bella Parca;
     Lancia lancia, buon pilota,
     La tua barca;
     Passa lieve sul quadrante,
     Sfera errante;
     Metti nido nel mio core,
     Dolce Amore;
     Mentre d’astri il ciel s’ammanta,
     Noi si canta:
     «Da qual madre, a qual ora, in quali sponde
     Venni alla vita, indovinar non so.
     Nè lo sanno quest’acque e queste fronde,
     Nè questa luna, che va pellegrina
     Di collina in collina,
     E mai del mio natal non mi parlò.
     Mi rammento dell’Asia, e vidi i sassi
     Di Ninive e di Menfi, e udii nitrir
     Il cavallo di Ciro, e a tardi passi
     Mirai per le stellate arabe lande
     L’aspro cammello e il grande
     Dromedario le armate orde seguir.
     In margine all’Egeo vidi i misteri
     D’Ecate; e nei latini antri l’altar
     D’Ilia bendata; e i popoli guerrieri
     Spâurir colle truci aquile il mondo,
     E lunge il furibondo
     Odoacre l’enorme asta agitar.
     Quel dì non più nelle romulee cene
     D’allegra spuma il calice fiorì,
     E di Cinara e Cloe, dolci sirene,
     Bagnâr la chioma i molli unguenti invano,
     E sul triclinio arcano
     Il gemito d’Amor più non s’udì.
     Elmi di ferro ed orride zagaglie
     Vennero: e i numi non sentîr pietà.
     E fu misto l’incendio alle battaglie,
     E dalla verde tiberina valle
     Le barbare cavalle
     Vidi lanciarsi sulla gran Città.
     E poi monaci e re chiusi nell’armi
     Sorsero, e in cima al mar mi balenò
     La rossa croce; e di Sïon sui marmi
     Gli emiri in pugna disperata ho visto
     Coi cavalier’ di Cristo;
     E com’altro già vidi, altro io vedrò.
     Ma voi, stelle del ciel, voi foste, o rose,
     Voi, glauchi fiumi, il mio profondo amor;
     E, se patria o natal mi si nascose,
     Le verdi terre, i pampini fiorenti
     E il sibilo de’ venti
     E il lume ambrosio mi fu vita al cor.
     Quaggiù secoli molti ho numerati,
     Ma corallo m’è il labbro, ebano il crin:
     E di me senza posa innamorati
     Sono i falchi dell’aria, i tersi fonti,
     Il frassino de’ monti
     E il bianco silfo che mi sta vicin.
     Questo è il compagno mio. Spirito arcano,
     Sempre la notte e il dì canta con me:
     Egli sal sul mio cocchio, e andiam lontano
     Lontano a interrogar boschi e caverne,
     E delle cose eterne
     Rapir qualcuna, io gentil dama, ei re.
     Ei mi dice che Febo, il biondo e bello
     Signor dell’armonia, padre a noi fu,
     E mi giura che Marte è il mio fratello,
     E gli altri Dei la mia superba corte,
     E là dopo la morte
     Noi salirem per non lasciarci più.
     Anzi sarem due novi astri al notturno
     Padiglion dell’Olimpo: ed in beltà
     Forse a noi cederan Sirio e Saturno,
     I due Gemini, Urano, Espero e l’Orse
     E la gran Lira: e forse
     Men superba di sè Venere andrà.
     Qui frattanto nel mondo è nostra usanza
     Chiedere l’ombra a un mandorlo fedel,
     O sui rivi intrecciar magica danza,
     O sulle fosse dei fanciulli estinti
     Falciar rute o giacinti,
     Quando scintilla il plenilunio in ciel.
     È nostra usanza a mattutino il canto
     Spargere nella valle o sul burron,
     E di rosso vestita o azzurro manto,
     Sempre nel guscio d’ebano, mi piacque
     Girar le terre e l’acque,
     E dare ai miei fantasmi anima e suon.
     Ed ora il guscio d’ebano traete,
     Piccoli corvi, al nostro angusto asil;
     E voi, stelle del ciel, voi risplendete
     Sopra le chiome della selva bruna;
     E tu zampilla, o luna,
     Sul vestibolo mio sparso d’april.
     E tu, Silfo, mi canta; e nel vïaggio
     Salvami da procella o masnadier’;
     Sferza i cavalli, e coll’ardor d’un paggio
     Mordi del roseo pollice il liuto;
     O se non vuoi, sta muto,
     Ch’io già so quel che pensi, o mio Scudier.
     Tu pensi che su morbido guanciale
     D’odorate giunchiglie io giacerò;
     E tu, acceso, qual sei, d’aura immortale,
     Colle tue braccia mi farai catena,
     E là, di gioia piena,
     Come è mio l’universo, io tua sarò.»
     Così Mab cantando, vola
     Co’ suoi corvi piccioletti:
     Per gli arbusti il bianco Spirito
     Curva l’ali e a lei fa vel;
     Spuntan fiori in ogni aiuola,
     Le falene e gli augelletti
     Son ridesti, e sotto l’eriche
     Par che canti ogni ruscel.
     Oh grandezze, o maraviglie
     Della candida Natura!
     Quando saltan gli scoiattoli
     Delle stelle allo splendor,
     Ed un letto di giunchiglie
     Fa obliar la sepoltura,
     E gli affanni si addormentano
     Nelle braccia dell’Amor!



   PRIMAVERA


     Isis, vere novo, cunas thalamosque tuetur,
     Magna parens.
     Primavera non vien fuor che una volta
     A fiorir l’anno: e quando
     Dal canestro versò l’ultima rosa,
     La bella giovinetta in sè raccolta
     Parte da noi, lasciando
     Un soave ricordo in ogni cosa.
     Delle rugiade il pianto
     Resta all’alba: alla siepe un fil d’odore:
     A qualche gelso un canto
     Di solingo augelletto:
     E resta all’uman petto
     Una malinconia che sembra amore.
     Poi s’imbionda la spica
     Al povero colono:
     Sotto i cocenti lampi
     Di Febo s’affatica
     Il falciator pe’ campi:
     Di plaustri le callaie
     Stridono: e, misurato alle promesse,
     Ne’ portici e per l’aie
     Splende l’ôr della messe.
     E tutto questo è dono
     Dell’olimpica Figlia,
     Che va pellegrinando
     Sotto le terre; e non so come o quando,
     Dolcemente scompiglia
     I piccioletti germi e li conduce
     Fuor nella rosea luce.
     Indi s’avanza il dio
     Che aggioga al carro i pardi:
     E fiamme dagli sguardi
     Lancian Polinnia e Clio,
     Mentre il sacro licor ferve e s’affina
     Nell’anfora divina,
     E coi corimbi in testa
     Menan le madri sul Pangèo la festa.
     Poi gialliscon le foglie
     E cadono; s’accampa
     Di fuor la buffa; e nelle interne soglie,
     Mentre luce la vampa
     Sui vasti focolari,
     Novellando si va di cose arcane.
     Ha già varcato i mari
     La rondinella: senza vol rimane
     Il pecchietto alle siepi, e senza grido
     La cingallegra al nido:
     Con suo mugolo roco
     S’aggomitola al foco
     Il can sull’ora bruna
     O all’uscio, per entrar, raspa e si lagna,
     Fiori di gel sui vetri
     Ricama il verno; e gli alberi alla luna
     Paiono bianchi spetri
     Per l’immensa campagna.
     Ohimè! dagli occhi miei
     Per clivo o per riviera
     Ove fuggita sei,
     Fanciulla Primavera?
     Come attesi l’amante, al tempo verde
     Attendo io te: nè perde,
     Benchè tu mi sia tolta,
     La sua speranza il cor. Più d’una volta,
     È ver, tu, giovinetta
     Primavera, non vieni a fiorir l’anno.
     Ma quando se ne vanno
     L’ultime nevi e spunta
     La prima violetta
     Cantan tutte le terre: «È giunta, è giunta
     La fanciulla gioconda!»
     E il riso e il canto abbonda
     Per l’acque immense e per gl’immensi cieli,
     E in radïosi veli
     Sovra il Saturnio altare
     Sin la tacita e grande Iside appare.
     O Primavera, eterna
     Per l’arcana natura
     E sì breve per noi, chi ti governa
     Il virgineo pensier? chi prende in cura
     Le tue sembianze belle?
     Da qual poter tu mossa
     Vieni beata e vai? Forse tu vivi
     Al di là delle stelle,
     Al di là della fossa
     E in quel campo fiorito
     A te ci attendi privi
     Di fastidio e dolor schiatta immortale?
     Chè in verità non vale
     La poca ora di qua tanto infinito
     Delirar di dottrine e di speranze.
     E queste ambigue stanze
     Che per antico danno
     Abitiam colla Morte, un dì saranno
     Trasfigurate in una
     Primavera senz’ombra e mutamento,
     Ove nè sol, nè luna
     Nè mar d’acque, nè vento
     Nè nulla agiterà nostro intelletto,
     Tranne il proprio diletto
     D’amar senza confine.
     Primavere divine,
     Io vi sogno sovente: e il sognar mio
     Fa che talor nè invano
     Son primavera anch’io:
     E con gorgheggio arcano
     Qui nella mente il rosignol mi geme,
     Qui nella mente mi tremola il fiore,
     E una fresc’onda preme
     E una fresc’aura il core;
     E a quanto ascolto e miro
     Di grande e di gentile
     Con infinita voluttà sospiro
     Come a un eterno Aprile.



   VOCI


     Arcana interdum fert murmura cerulus aether
     Et mare purpureum.
     A rallegrarmi l’ore
     Che passano veloci,
     Misterïose voci
     Mi scendono nel core;
     E sotto il vecchio saio
     E’ tanto mi si affina,
     Che torna fresco e gaio,
     Com’acqua a le sue foci.
     N’è vero, Azzarelina?
     Dicon le stelle: «Oh! guarda
     Come siam glauche e belle».
     Ed io rispondo: O stelle!
     La mia pupilla è tarda,
     Ma sempre vi ritrova
     Nell’aria cilestrina,
     Dove nuotar vi giova,
     Lucenti navicelle.
     N’è vero, Azzarelina?
     Dicono i venti: «Schiudi
     L’orecchio: o non ci senti?»
     Ed io rispondo: O venti!
     Melodiosi o rudi,
     I vostri suoni ascolto
     Al monte e alla marina,
     E spesso ho da voi tolto
     Le collere e i lamenti.
     N’è vero, Azzarelina?
     Dicon le rose: «Oh! bevi
     Le nostre aure odorose».
     Ed io rispondo: O rose!
     Comunque incerte e lievi,
     Quando più l’ora imbruna
     V’ho cêrche a la collina,
     E il raggio della luna
     A me vi disascose.
     N’è vero, Azzarelina?
     Dice la fonte: «Irroro
     Io le tue labbra al monte».
     Ed io rispondo: O fonte!
     Pur io, pur io t’infioro
     Di libere canzoni
     Nell’ora mattutina,
     Quando su’ tuoi burroni
     Mi batte il sol la fronte.
     N’è vero, Azzarelina?
     E tutto con me suona,
     Ed io del par con tutto:
     L’astro, la rosa, il flutto,
     Il vento in me ragiona:
     E qual da un’arpa immensa,
     La melodia divina
     Esce, favella e pensa,
     E ciò d’un sogno è il frutto.
     N’è vero, Azzarelina?
     Dunque sogniam. Crudeli
     Son gli uomini e le sorti:
     Son solamente i morti
     Benevoli e fedeli:
     E, dopo lor, la maga
     Natura, che incammina
     Quest’errabonda e vaga
     Nostra barchetta ai porti.
     N’è vero, Azzarelina?
     Sogniam. Di noi sorride
     Chi numera e chi pesa,
     Ma la villana offesa
     È scorpio che s’uccide.
     Di là dal nostro verno
     Quest’anima indovina
     L’aiuola e il fiore eterno,
     Che ai più non s’appalesa.
     N’è vero, Azzarelina?
     I più son erbe uscite
     Da margine selvaggio:
     Scabre, villose, al raggio
     Del sole inavvertite:
     E il mandrïan non falla;
     Le falcia e le destina
     Ai capri della stalla:
     E questo è il lor passaggio.
     N’è vero, Azzarelina?
     Ed or ch’io ti commisi
     Il mio fedel pensiero,
     Le anella del crin nero
     Ti vesto a fiordalisi,
     E nel romito speco
     Su morbida cortina,
     M’è dolce il sognar teco,
     Come tu fai. N’è vero?
     N’è vero, Azzarelina?



   INCANTESIMO


     Magnis parva sonant; resonant et maxuma parvis:
     Mensque animusque favent et Dî portenta loquuntur.
     La maga entro la rena
     Girò, cantando, l’orma:
     Con frasca di vermena
     M’ha tôcco in sull’occipite
     Ed io mi veggio appena in questa forma.
     Sì picciolo mi fei
     Per arte della maga,
     Che in verità potrei
     Nuotar sopra dïafane
     Ale di scarabei per l’aura vaga.
     O fili d’erba, io provo
     Un’allegria superba
     D’essere altrui sì novo,
     Sì strano a me. Deh! fatemi,
     Fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.
     Minuscola formica
     O ruchetta d’argento
     Sarà mia dolce amica
     Nell’odoroso e picciolo
     Nido che il sol nutrica e sfiora il vento.
     E della curva luna
     Al freddo raggio, quando
     Nella selvetta bruna
     Le mille frasche armoniche
     Si vanno ad una ad una addormentando;
     E dentro gli arboscelli
     Si smorza la confusa
     Canzon de’ filinguelli,
     E sotto i muschi e l’eriche
     L’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;
     Noi, cinta in bianca vesta,
     La piccioletta fata
     Vedrem dalla foresta
     Venir nei verdi ombracoli,
     Di bianchi fior la testa incoronata.
     E dormirem congiunti
     Sotto l’erbetta molle;
     Mentre alla luna i punti
     Toglie l’attento astrologo,
     E danzano i defunti in cima al colle.
     I magi d’Asia han detto
     Che quanto il corpo è meno,
     Più vasto è l’intelletto
     E il mondo degli spiriti
     Gli raggia più perfetto e più sereno.
     Infatti, io sento l’onde
     Cantar di là dal mare,
     Odo stormir le fronde
     Di là dal bosco; e un transito
     D’anime vagabonde il ciel mi pare.
     Da un calamo di veccia
     Qua un satirin germoglia,
     Da un pruno, a mo’ di freccia,
     Là sbalza un’amadriade:
     E in parto ogni corteccia ed ogni foglia.
     Lampane grazïose
     Giran la verde stanza;
     E, strani amanti e spose,
     I gnomi e le mandragore
     Coi gigli e con le rose escono in danza.
     Del mondo ameno o tetro
     Com’è che ai sensi tardi
     Mi piove il raggio e il metro?
     E nè cornetta acustica
     Mi soccorre nè vetro orecchi e sguardi?
     Com’è che le mie colpe
     Non anco all’olmo e al pino
     Latra la iniqua volpe?
     Nè il truculento martoro
     Mi succhiella le polpe a mattutino?
     Sono un granel di pepe
     Non visto: ecco il mistero.
     L’erba sul crin mi repe,
     Ed è minor che lucciola
     Nell’ombra d’una siepe il mio pensiero.
     O fata bianca, come
     Un nevicato ramo,
     Dagli occhi e dalle chiome
     Più bruni della tenebra,
     E dal soave nome in ch’io ti chiamo;
     O Azzarelina! in pegno
     Dell’amor mio, ricevi
     Questo morente ingegno,
     Tu che puoi far continovi
     Nel tuo magico regno i miei dì brevi.
     L’erbetta ov’io m’ascondo,
     So ch’è incantata anch’ella;
     Nè vampa o furibondo
     Refolo o gel mortifica
     Lo smeraldo giocondo in ch’è sì bella.
     So che, d’amor rapita,
     In un perpetuo ballo
     Mi puoi mutar la vita
     O su fra gli astri, o in nitide
     Case di margherita e di corallo.
     Sien acque, o stelle, o venti,
     Dove abitar degg’io,
     Per primo don m’assenti
     Il bacio tuo: per ultimo,
     Dei rissosi viventi il pieno oblio.
     Ascolta, Azzarelina:
     La scïenza è dolore,
     La speranza è ruina,
     La gloria è roseo nugolo,
     La bellezza è divina ombra d’un fiore.
     Così la vita è un forte
     Licor ch’ebbri ci rende,
     Un sonno alto è la morte;
     E il mondo un gran fantasima
     Che danza con la Sorte e il fine attende.
     Vieni ed amiam. L’aurora
     Non spunta ancor; gli steli
     Ancor son curvi; ancora
     Il focherel di Venere
     Malinconico infiora i glauchi cieli.
     Vieni ed amiam. Chi vive,
     Naturalmente guada
     Alle tenarie rive:
     Ma chi è prigion nel circolo,
     Che la tua man descrive, a ciò non bada.



   INIDE E IL SATIRO


     E fuor balzò dal rugiadoso arbusto
     Sui margini, l’obliqua aura d’un nume
     Con sè recando, in nudità di fiera,
     Il Caprigena insigne.
     Ei quel viluppo
     Reggea di strane inopinate forme
     Su due tibie di becco: irta dal mento,
     Quasi fastel d’acuminati spini,
     Gli uscìa la barba; gli lustravan gli occhi,
     Com’usa agli ebri: e mal dissimulate
     Fiorian le corna dalla scabra chioma.
     Pria, cupido, cercò negli odorosi
     Ginepri e fra le dense alghe del rivo
     Qualche driade o napea, forse in quel punto
     Dalle labbra villose e dai lacerti
     Ita in fuga del nume. E dopo indarno
     Ritentata la frasca e corsi in giro
     I verdi calli, a’ piè d’un giovinetto
     Salcio ei corcossi e in un profondo sonno
     Giacque sommerso.
     Allor due belle e bianche
     Ninfe da una vicina elce a quel loco
     Venner danzando: ed una esser l’ancella
     Parea dell’altra, che sospese a tergo
     Le frecce d’oro, il portamento e il viso
     Palesavan reina.
     «Ecco il soave,
     Dïana madre, rapitor futuro
     Del mio cintiglio! E sarà ver ch’io deggia
     Mescolarmi a costui?»
     «Giove lo ha detto,
     E nè il ciel nè l’averno, Inide cara,
     Espugnò mai la volontà di Giove.
     Quando in candido cigno a te converso
     Fu il Re de’ Numi, e ti velò coll’ali,
     Perché indignarlo? e ai talami divini
     Esser ribelle? Da quel giorno al fiero
     Satiro il padre dell’Olimpo in donna
     T’ha destinata: e da costui tu fuggi
     Vanamente, o fanciulla. Io, che conobbi
     Le tue caste vigilie e la tua fede
     All’arcano mio rito, io però farti
     Posso un incanto e la tua forte pena
     Disacerbar».
     «Non indugiarmi, prego,
     Madre, l’aita».
     «È in questo bosco un’erba,
     Che qual la chiude in bocca e va sognando
     Nove parvenze, in verità le mira
     Come le sogna. E tu non il deforme
     Satiro, ma il desio della tua mente
     Abbraccerai».
     «Dov’è quell’erba, o madre,
     Dov’è quell’erba?»
     «In questa siepe. Allunga
     La nivea mano a quei due muschi: or vedi
     Il fil vermiglio che su lor si piega?
     Tu l’hai già côlto. Addio».
     Così disparve
     Dïana madre, e il Satiro le ciglia
     Slegò dal sonno.
     Il glorïoso intanto
     Apolline di Frigia era nel vivo
     Pensier della fanciulla affigurato,
     Della fanciulla, che tenea già chiuso
     Il filo d’erba nella rosea bocca.
     E, veduto il Caprigena levarsi
     Colle forme di Febo ed assalirla,
     Sparso d’un lume che parea celeste,
     Gli cascò nelle braccia.
     Ahi, breve inganno!
     Ma breve, ahi quanto e lacrimabil sempre!
     Chè, mentr’ella sentia nel grande amplesso
     Perir di sua virginità la rosa,
     Ed insana l’obblio dell’universo
     In un bacio d’amore iva suggendo,
     Le fuggì dalle labbra, incustodita,
     La magich’erba. Un gemito ella mise,
     Gemito orrendo, a contemplarsi avvinta
     Col mostrüoso Iddio. Nelle pupille
     Sentì nuotar la moribonda luce,
     E più non vide nè il lascivo amante,
     Nè il bel riso de’ cieli.
     Ivi, sui muschi,
     Dormì la dolce estinta insin che il raggio
     Di Febo, il raggio che sì mal le piacque,
     Vestì, morendo, di purpureo lume
     La nivea spoglia: e, quando umide a valle
     Calaron l’ombre e la falcata luna
     Posò sui monti, alla funerea gleba
     Venne Diana colle ninfe, e al clivo
     Portar la giovinetta e di giunchiglie
     Le formaron la fossa.
     Il detestato
     Satiro, intanto, s’ascondea nel cavo
     Sen d’una quercia, a contemplar le bianche
     Sacerdotesse in quell’amabil rito.
     Quanto al Saturnio Giove, ei nel sereno
     Regno d’Olimpo si facea la tazza
     Colmar d’ambrosia; e al bevitor celeste
     Nome ignoto sonò d’Inide il nome.



   ASPASIA


     Nec demum potoris famulae committere cynthum
     Purpureum et debitas Veneri laudare calendas.
     Quando la prima ruga
     Ti manda il riso in fuga,
     Quando la prima brina
     Le chiome d’ôr ti tocca,
     E nella rosea bocca
     La prima perla fina
     Comincia a vacillar;
     Chieder che giova, Aspasia,
     Gomme ed unguenti all’Asia?
     Nè il musico di Teo
     Co’ suoi giocondi fiori,
     Nè co’ suo’ dotti amori
     Il vecchio del Pireo
     Ti può ricompensar.
     Fioristi rugiadosa,
     Ed or non sei più rosa;
     Non più, lentato il freno
     Al lin che ti circonda,
     Or viene or va, com’onda,
     Il giovinetto seno
     Che Fidia innamorò.
     Le due ridenti stelle,
     Vago sospir d’Apelle,
     Sotto le ciglia brune
     Han perso anch’elle il foco
     E con nefando gioco
     Te delle ambrosie lune
     Sin l’aura abbandonò.
     Se per allegri calli
     Mena Polinnia i balli,
     Tu più non lanci, a modo
     Di fresco fior, le membra;
     Che più obbedir non sembra
     L’agil caviglia e il nodo
     Del giovinetto piè.
     E se Talìa s’aggira
     A suon di tibia o lira,
     E tentatrice intorno
     L’altrui canzon ti vola;
     Entro la rosea gola,
     D’usignoletto un giorno,
     Langue la voce a te.
     Cedi corona e trono,
     O Aspasia, a quante or sono
     Sul florido Cefiso
     Schiave d’amor leggiadre.
     Tu sai che d’Ega il Padre
     La gioventù del viso
     Due volte a noi non dà.
     Depon’ sull’ara in pace
     La moribonda face:
     Lieta, se pria che il vento
     In cenere la mandi,
     I raggi ultimi e blandi
     Dal tripode d’argento
     L’Olimpo accoglierà.



   FORESTA


     Numina per sylvam ludunt: vos carpite flores,
     Nymphae.
     Come è fuor dell’usato
     Tacita la foresta!
     Non allegro latrato
     Di cani o tibia di pastor tu senti:
     Nelle sue verdi chiome
     Pur non giocano i venti.
     O come strana, o come
     Ell’è, senz’esser mesta!
     Se tu intendi l’udito,
     Mia dolce Azzarelina,
     Ti fere un mormorio
     Sottil, vago, infinito:
     Non altro. È la divina
     Iside che s’asconde
     Sotto i muschi e le fronde?
     Od è un più dolce Iddio
     Che qui sospira? Io nol so dir, ma parmi
     Che una potenza arcana
     È qui. Son forse i carmi,
     Che il fauno e la silvana
     Van susurrando lieti
     Dentro il crin degli abeti,
     O sotto le rugose
     Felci che il lume della luna imbianca?
     Dalle segrete cose
     Io qualche nota so rapir talvolta:
     Qui mi t’assidi a manca,
     Azzarelina, e ascolta.
     In questa verde selva
     Tutto è laccio d’amore:
     L’erba favella al fiore,
     Il fior favella all’albero,
     E l’albero alla belva,
     E la belva feroce o la gentile
     Al ritornante aprile.
     In questa selva bruna
     Le deïtà più belle
     Favellano alle stelle,
     Parlan le stelle all’etere,
     E l’etere alla luna,
     E la luna alla Notte e questa ai tanti
     Suoi pensierosi amanti.
     Nell’alto verde io teco
     Favello, Azzarelina;
     E una cara indovina,
     Che ti ripete il murmure
     Delle mie voci, è l’Eco;
     E l’Eco parla all’aura, e l’aura lieve
     Parla al tuo vel di neve.
     E il candido tuo velo
     Parla al tuo core, ed io
     Parlo con ogni iddio
     Di questa selva, e il pelago
     Parla di noi col cielo;
     E, più che giunco il rivo o foglia il ramo,
     Azzarelina, io t’amo.
     È questa selva eterna,
     Perchè ritorna maggio,
     Perchè degli astri il raggio
     Molle ne irrora i cespiti,
     Pur quando gela e verna:
     Perchè fresco un umor, come in noi due,
     Stilla nell’urne sue.
     Qui sorgerà la festa
     Dei bruni veltri ancora;
     E alla ridente aurora,
     Dei mandrïani il cantico
     S’udrà per la foresta:
     E numi e ninfe nelle conscie grotte
     Invocheran la Notte.
     Sui talami muscosi
     Quanti sospir’ sommessi,
     Quanti teneri amplessi,
     Mentre usciran le amabili
     Ore danzando! O ascosi
     Baci rapiti ai sacri boschi in seno,
     Chi vi pon legge o freno?…
     Non ha dolcezze uguali
     Fior d’Ibla o fior d’Imetto,
     O nel divin banchetto
     Ciò che invermiglia il calice
     Al Re degli immortali;
     Nè ottien poi sempre chi ha corona e trono
     D’un di quei baci il dono.
     Azzarelina, oh! bada
     Che alata è la terrena
     Letizia. A me catena
     Fa’ di tue braccia: è limpido
     Il ciel, nella rugiada
     Spira l’ambrosia, son fioriti i dumi:
     Questa è l’ora dei numi!
     . . . . . . . . . . . . . . . . .
     Com’è, com’è profondo
     Il silenzio del bosco
     E quel degli occhi tuoi!
     Dimmi: è scomparso il mondo
     O il mondo è qui con noi?
     Io più non mi conosco,
     E in me stilla un languor che sembra morte.
     Le tue braccia rattorte
     Al collo mio, come fiorenti rami
     Di mandorlo, colora
     Col suo raggio la luna,
     Ma riso o voce alcuna
     Sul tuo labbro non fiora.
     Giaci pallida e muta e al ciel somigli,
     Che è muto a riguardar l’opra sua rara.
     Scomposta abbruna l’erba
     La tua treccia superba;
     Due rugiadosi gigli
     Son le tue tempia, o cara:
     Potessimo dormire,
     Senza più risvegliarci, in questa riva!
     L’anima nostra è viva,
     Poscia che amò, per una cosa sola,
     Alta, gentil: morire.
     Però che il tempo vola,
     Vola e non torna più. Svegliarsi è grave
     Dopo un sogno d’amore;
     Dormi, fanciulla mia, dormi soave.
     Come ti batte il core!
     Che profondo sorriso
     Ti spunta in fantasia?
     Ah! tu sogni l’Eliso,
     Azzarelina mia.
     O nuvole che andate
     Improvvise per l’aria,
     La bella solitaria
     Vi commova a pietà. Deh! non turbate,
     Aquiloni del ciel, la sognatrice.
     È maligno talento
     Invidïar la breve ora felice
     A noi schiatta percossa,
     A noi che andiam, come fogliette al vento,
     Nella cupida fossa.
     Dormi, amor mio. Chi sa ciò che tu miri
     Sotto il vel delle ciglia e in che sospiri
     Tu spargi la infinita
     Ridente anima tua fuor della vita.



   AL MIO CALZOLAIO MAESTRONE


     Ut tibi dat crepìdam, mihi Pallas condere versus
     Si dederit!
     Alfin trovato ho un paio
     Di scarpe così prode,
     Che non c’è premio o lode
     Ch’io neghi al calzolaio.
     Fango pestando e ciottoli
     Di queste vie romane,
     Or le caviglie ho sane
     E a sghembo il piè non va.
     Salgono molti in fama
     Con men perizia e merto
     Di questo fabbro esperto
     Che Maëstron si chiama:
     Che con ispago e lesina
     S’impanca in via Ripetta
     E non fa l’arte in fretta
     Ma da par suo la fa.
     Leggicchia, ad ora brulla,
     Il Conte della Mancia,
     Guerino, I Re di Francia,
     La Voce od il Fanfulla.
     Non so s’ei va col secolo
     E mutar vesti sogna,
     O nel suo nicchio agogna
     Di rimaner così.
     Non so se uscì da balia
     Fior d’anice o di rapa,
     Non so se sta col Papa
     Oppur col Re d’Italia:
     So che da onesto artefice
     La tassa egli non nega,
     E spunta alla bottega
     Allo spuntar del dì.
     Al numero Quaranta,
     Ei fiuta il suo tabacco;
     Ama l’altar di Bacco
     E di Noè la pianta:
     A sera gli s’imporpora
     Il peperon del naso,
     Gli ridon gli occhi. È il caso
     D’offrirlo ad un pittor.
     Corta ha la chioma: è secco
     Di Lomellina il figlio:
     Nodato ha sul cintiglio
     Il suo zinnal di becco:
     Mozza la turpe gocciola
     Che dalle nari è in corso,
     E delle mani al dorso
     Commesso è questo onor.
     Ma con che forza ei cuce,
     Ma con che garbo ei mette
     Le stringhe e le bullette
     E in sodo il piè riduce!
     Or coi due forti sandali
     Posso lanciarmi al ballo
     Senza che un’unghia o un callo
     Mi faccia delirar.
     È rude un po’ la forma,
     Ma punto i’ non mi sdegno;
     Se un calcio altrui consegno
     So che ci lascio l’orma.
     Con tali schermi transito
     Lungo le vie contento
     Più che uccelletto al vento
     O più che triglia al mar.
     Un giorno anch’io portai
     Scarpe lucenti e snelle,
     Ma i muscoli e la pelle
     Eran più freschi assai:
     E Amor mi dava a prestito
     I suoi lucenti vanni,
     Gloria de’ miei verd’anni
     Che non mi tenta più.
     Com’era allegro il piede
     Sotto le ambrosie lune,
     Molli le chiome e brune
     E giovenil la fede!
     Ma queste dolci favole
     Lasciar degg’io da parte,
     Oggi le lodi all’arte
     Meglio ascoltar puoi tu.
     Di scarpa angusta e fina
     Tu non m’hai fatto schiavo;
     Bravo, tre volte bravo,
     Figliuol di Lomellina.
     Più ferma sul suo zoccolo
     Non è del corpo mio
     Statua di greco iddio
     O di latino re.
     Di sette ormai calende
     Oggi suonata è l’ora
     E fan servigio ancora
     Le scarpe tue stupende.
     Grazie, o maestro. Un’orrida
     Scogliera è il calle umano
     E scarpe da Titano
     Tu fabbricasti a me.



   L’ULTIMO SOGNO

   Il letto del sepolcro è pieno di luminose visioni.
 LOPEZ DE VEGA


     Mentr’io degli Astri notturno amante
     Nei lumi eterni cerco la sorte,
     Coll’aurea sfera sul mio quadrante
     Cammina il Tempo verso la Morte:
     Cammina sempre nè cangia moto,
     Cammina e batte nell’orïuol;
     Batte la marcia verso l’Ignoto
     Dal sole all’ombra, dall’ombra al sol.
     Marciam, soldati dell’ora breve,
     Marciam; chè gli astri cadendo vanno
     E giù dai monti porta la neve
     Il freddo vento che chiude l’anno.
     Marciam, soldati, marciamo a squadre
     La nostra bruna fossa a ghermir.
     Dove son chiuse l’ossa del padre,
     Quelle dei figli debbon dormir.
     Mandan le rute colle verbene
     Pallida vampa, pallido fumo.
     Rime funeste, rime serene,
     Qui vi depongo, qui vi consumo.
     Addio, di gloria stupendo nome!
     Addio, soave spettro d’amor!
     Sento che casca dalle mie chiome
     L’ultimo lauro, l’ultimo fior!
     Però corcarmi da te diviso
     Non posso, o cara, nè tu lo puoi:
     Voglio inondato sentirmi il viso
     Dalle tue chiome, dagli occhi tuoi.
     La tenue sfera non cessa un punto
     Sul mio quadrante di circolar;
     Corcati, o cara, chè il tempo è giunto.
     Nelle tue braccia voglio sognar.
     Sognar le verdi mie primavere,
     Sognar le feste del mio villaggio,
     L’irte mie balze, le mie riviere
     E de’ tepenti miei soli il raggio:
     Sognar la vita, sognar la fama,
     Sognar la dolce mia libertà:
     Con te la fossa, mia bella dama,
     Letto di fiori mi sembrerà.
     Se a noi d’intorno la neve fiocca
     E tu gelata sarai dimani,
     Col molle soffio della mia bocca
     Scalderò il gelo delle tue mani.
     Corcati, o cara; prendi il tuo loco,
     Folte son l’ombre; ma non temer:
     Portato ho meco lampada e foco,
     Perch’io ti voglio sempre veder.
     Povera amica, le tue palpèbre
     Come l’orrendo sonno affatica!
     Come nell’ossa t’arde la febbre!
     Oh, come tremi, povera amica!
     Prendi coraggio, fatti più presso,
     Dimmi che m’ami, che mia sei tu…
     Gran Dio! l’ardente bacio promesso
     Sulle mie labbra non sento più.
     Ben sulla volta di questa fossa
     Sento che il negro Salmo si canta;
     Giù giù filtrate cascar sull’ossa
     Sento le gocce dell’acqua santa.
     Ma tu ti svegli, ma tu rinasci,
     Ma tu sei bella, ma dal tuo crin
     Spira un profumo come se a fasci
     Bruciasse il nardo col belgiuin.
     Ve’ come splende sul nostro tetto
     Collo smeraldo misto il zaffiro!
     Che drappo d’oro ci copre il letto
     Che molle effluvio di rose in giro!
     Dea circondata di tristi larve
     No l’amorosa Morte non è;
     Sentire il cielo mai non mi parve
     Come in quest’ora vicino a te.
     L’organo echeggia: s’alzan gli spenti:
     Portan le faci con gl’incensieri:
     Candide insegne s’aprono ai venti,
     Ci fan corona bimbi e guerrieri.
     Mia dolce estinta, prendi l’anello,
     Guarda che festa d’angioli è qui:
     L’ultimo sogno dentro l’avello
     È il più bel sogno dei nostri dì.



   FRAMMENTO D’ELLADE

   Et mare fatigerum et claras veneremur Athenas;
 Nata Jovis.


     Ospite all’onde sacre, e pieno gli occhi
     Del greco sole, armilucente Atena,
     Già non vedrò, come bramai gran tempo
     Nel sogno mio, le tue beate rive
     Prima di morte. Ma quel dì ch’io ponga
     Questo duro mio fascio, anima amante
     Volerò, tu vedrai con che sospiri,
     Verso il tuo cielo a visitar le belle
     Fontane d’Ascra e i ricordati al mondo
     Attici campi. O Venere divina,
     Tu, precedendo, al pellegrin quel giorno
     Mostrerai di Citèra e d’Amatunta
     I giocondi roseti e su per l’erba
     Rugiadosa di Teo le danzatrici
     Candide Grazie. E tu degli occhi azzurra
     Palla cecropia il tèssalo macigno
     E la funerea Maratonia proda:
     Sentirò di Talìa novellamente
     Sull’aristofanèo labbro l’arguta
     Celia e vedrò le olimpiche quadrighe
     E i vincitori e il garzoncel di Tebe
     Che col libero alato inno li eterna.
     Me Clio traëndo pel diverso lido,
     «Qui, mi dirà, fu Prometèo da immani
     Vincoli attorto e il fegato immortale
     La funesta gli rode aquila ancora.
     Qui ruppe i veli della Sfinge arcana
     Edipo triste: e qui giurâr gli Atrìdi,
     Mentre rompea l’infame Elena i flutti,
     Lo sterminio dell’Asia: e il patrio ferro
     Qui truce al cor d’Ifìgenìa discese,
     E dal virgineo gemito placati
     Fûro della nembosa Aulide i venti.
     A questi intorno benedetti sassi
     Arder fu vista la gentil battaglia
     Di Mantinèa quando il Teban dal petto
     Trasse la freccia e di superba morte
     Impallidì. Son queste Itaca e Pilo,
     Argo e Micene. Il telamonio Aiace
     Qui fulminò. Da quelle auguri selve
     Calar le travi per le frigie antenne
     Che trassero l’arcana Ilio ai promessi
     Saturni campi onde fu Roma».
     Oh! quando
     Veder m’avvenga i vesperi soavi
     Di Tempe e il Sunnio radïoso; Oh! quando
     Spirar mi tocchi sulla sacra Cea
     L’aura d’Omero e nei mirteti io senta
     Il sommesso tubar delle colombe
     E baci in fronte la mia madre antica
     Ellade grazïosa, Ellade prode.
     Ma te fra tutte le sognate larve
     Del greco Eliso cercherò piangendo,
     Figlia di Lesbo. Ti diè Giove il canto,
     Non la bellezza: e tu perivi. Ha pochi
     La umana sede impavidi e gentili
     Che allo sfregio d’amor san far risposta
     Qual tu la festi, I morbidi Fäoni
     Coronati di fior cercan ridendo
     Molli cene e triclinio, e dalle brune
     D’asfodillo e di rosa anfore avvolte
     Bevon l’oblio dei talami traditi.
     Ma chi in ira de’ Numi il dì natale
     Ebbe, diverte dall’ambrosia luce
     Le imperterrite ciglia e abbrevia il passo.
     «Addio, stelle; addio, mar; questa cocente
     Fiamma che m’arde spegnerò nell’acque
     Del vasto Egèo. Ma te, sia che ti porti
     Nave o corsier per le città maligne,
     Seguirò pallid’ombra insin che spenta
     La bella gioventù delle tue forme
     Tu il capo imbianchi e favola sii reso
     Alle greche donzelle. Allor la piaga
     Ch’oggi all’Orco inestinta ahi m’accompagna
     Sentirò vendicata: e prego i Numi
     Sin d’or che l’erba dove morto giaci
     Sia pastura di corvi e fior non nasca
     Che a nutrir le ceraste».
     In questa forma.
     Ti restò dietro la nefanda rupe,
     Misera!, e il gorgo dell’Egèo ti chiuse.
     Or di te che riman ? Qualche frammento
     Dell’Odi innamorate: uno o due segni
     D’italo carme e d’italo scalpello,
     È poi, Lesbia divina, un ingiocondo
     Stupor di pappagalli a cui non punge
     La memoria di te se non quel tanto
     Che punge una zanzara in roseo dito.
     E fors’anco il nocchier ch’oggi fa vela
     Dove moristi, nel cristal dell’acque
     Mira lo scoglio, ma sbadato il varca.
     Sul vecchio mondo la faccenda nova
     Sorge arrogante e il suo gran dì non spreca
     Dietro a fantasmi.
     Dei cerulei flutti
     Deh! posa in grembo, o naufraga divina:
     Non veder, non udir t’è gran ventura.



   FIRENZE


     L’aure sovente della fosca Atene
     Ne’ più mesti pensier sento spirarmi,
     Aure misterïose, aure serene,
     Che infuser gloria alle pitture e ai marmi.
     Vien l’arguzia del Berni e con lei viene
     D’Allighier la parola a ricercarmi,
     E come il sangue nelle ambrosie vene,
     Fresca zampilla in me l’onda de’ carmi.
     E risospiro alla fiorita riva,
     Alla stirpe cortese: e mi sei fatta,
     Fiorenza, oh quanto, nel pensier più viva!
     E un dì la zolla mi parea men verde,
     Sì morti i padri, e sì minor la schiatta!
     Che amara luce ha il ben quando si perde!



   GIOCO


     Giocano sotto al mio balcon, chiassando,
     I romani monelli a pila e croce:
     Nè già mite è la turba o il gioco è blando,
     Ma ogni moto è battaglia, ira ogni voce.
     «Che tu muoia ammazzato!» è la feroce,
     Profezia che si fanno a quando a quando,
     E m’arde il viso e il fegato mi coce
     L’abbominoso a udir voto nefando.
     In duro ozio salvatico cresciuti,
     Che saran questi pargoli che sorda
     Han l’alma a ciò, che sin fa forza ai bruti?
     Io non oso guardar di là molt’anni,
     Perché temo veder carcere e corda
     E vecchie madri in disperati affanni!



   PAESE ARCANO


     Sinchè la fantasia tristi o giocondi
     Mi darà spettri, come altrui non suole,
     Sinchè la mente sui segreti mondi
     Starà pensosa per condurli al sole;
     Sinchè l’anima al fresco aere fecondi
     Quant’è più degno in queste morte aiuole,
     E nei recessi dello spirto abbondi
     L’ambrosio lume alle nascenti fole;
     Non il chiasso illeggiadro o il tempo vano
     Mi darà cruccio. Pur che a me rimanga
     Questo paese de la mente arcano
     In ch’io sorrida co’ miei sogni o pianga,
     D’un’alta securtà mi riconsolo,
     Che a vivere e a morir basto a me solo.