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| Giovanni Prati
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| Poesie scelte
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Giovanni Prati
POESIE SCELTE
RITRATTO FISICO DELL’AUTORE
Alto e giusto di forme, e brun di volto;
Nero di ciglia; intento occhio che splende;
Fronte mobile ed ampia; il crin mi scende
Giù per le spalle abbandonato e folto.
Sotto i mustacchi impallida o s’accende
Il labbro; agil la voce, il piede ho sciolto;
Pronti i gesti; talor l’abito incolto;
Ecco il visibil che di me si rende.
I pochi o i tanti che non m’han veduto,
Come leggendo suol crear l’affetto,
Mi fingono sottil, macro e sparuto;
Ma in viso il fior della salute io mostro.
Che importa mai? Si scrive carmi; e il petto
Fuor manda sangue a colorar l’inchiostro!
RITRATTO MORALE
Or che pinto è il di fuor, l’intimo sguardo
Tenti l’intima vita, e tragga il vero.
Son uom; dunque ier prode, oggi codardo;
Guato il mondo, al ciel penso e di là spero.
Mesto e gaio in brev’ ora; umile e altero;
Subitano al concetto, all’opra tardo;
Vago di lode, indocile d’impero;
Soave, e un po’ talor brusco e beffardo.
Ma simulato mai. Credo al ben; tento
Di farlo; amo chi il fa; spregio la ingrata
Genìa de’ vili; ardite cose io sento.
E come sento, arditamente dico.
Che val s’io batterò via sconsolata?
Son più del ver che di me stesso amico.
LA MIA CRONACA DI POETA
Ognun ha il suo diavolo all’uscio.
Prov.
Uno stess’orto germina
L’arancio e la cipolla,
Stampa uno stesso artefice
Il vaso illustre e l’olla;
E incido anch’io, poeta,
Nel marmo o nella creta
Febo con Marsia, e Cesare
Da lato a Calandrin.
Ma è sogno da nottambuli
Piacere al mondo. Or odi,
Savio lettor, la cronaca
Del tuo poeta. E godi,
Godi, chè Dio ti fece
Per la viuzza, invece
Che sotto a’ nembi avvolgerti
Su pel dirceo cammin.
La libreria dell’avolo
Là nella mia Dasindo
Mi cominciò gli oracoli
A bisbigliar di Pindo;
Ma l’irto pedagogo
Gittommi il Dante al rogo,
Tonando dal suo tripode:
Pane il cantar non dà.
Pur gli uccelletti cantano
E trovan pane anch’essi,
Io mi diceva; e incorrere
L’ire tremende elessi,
E, con sul petto il peso
Di quel mio Dante acceso,
Dissi alle rose e ai zeffiri
La negra iniquità.
Ma il buon curato, il sindaco,
Lo spezïal persino
Piangean co’ miei le indocili
Follie del birichino,
Ed eran pie soltanto
Del birichino al canto
Le cingallegre, i taciti
Venti e il fiorito april.
Scesi alla dotta Padova
Col fardellin dei carmi,
Lode cercando; e rigido
Nessun volea lodarmi.
Chi con la lente al naso
Mi ruppe il segnacaso,
Chi mi gualcì l’epiteto,
Chi mi castrò lo stil.
Dafni una volta e Fillide
Cantai, del Zappi a modo,
E il molle ovil dei Titiri
Si liquefece in brodo.
Ma dai novelli troni
I torbidi Platoni
Sentenzïâr che pecora
Nacqui e dovrei morir.
Allor destai de’ pallidi
Fantasmi la famiglia,
E l’antro de’ romantici
Muggì di maraviglia.
Ma i Pindari e gli Orfei
De’ logori Atenei
Colle titanie folgori
M’han fatto impallidir.
Poi sulla terra apparvero
Scole, congressi, asili,
Metodi ed altre olimpiche
Buffonerie simili.
E allor perdei la scrima
Del verso e della rima,
E in quel concilio d’aquile
Nessun mi numerò.
Belava un’effemeride:
«Volgi ad amor gl’inchiostri!»
Ruggiva un periodico;
«Vendica i dritti nostri!».
Sclamava una rivista:
«Canta materia mista!».
E il suo bastardo simbolo
Ognun mi balbettò.
Io, spinto fra le cattedre
Di Caifa e di Pilato,
Che far potea? Sugli omeri
Mi son ravviluppato
La veste d’Ecce homo,
E, pubblicando un tomo,
Spiegai, bruchetto incognito,
L’ali iridate al sol.
Greche e romane forbici
Fûr su quell’ale in guerra.
Quanto superbo scandalo
Fra i Danti di mia terra!
Dalle laringi dotte
Schiattâr pustéme e gotte;
Diede itterizie e coliche
Di quel bruchetto il vol.
Senza sentir più redine,
Senza voler più freno,
Corsi a Milan col rotolo
Di Edmenegarda in seno,
E a ricercar mi mossi
Manzoni, il Torti, il Grossi,
E assunto al tabernacolo,
Fissai la trinità.
Ed ella, austera e candida
Come le sante cose,
Al novo catecumeno
Covò le prime rose.
E, quando acuta e fina
Me ne ferì la spina,
Ebbi alle piaghe i dìttami
Talor della beltà.
Povero pazzo! i memori
Fogli sigilla e taci.
Fatti allo specchio, e merita
Sol della musa i baci.
Così non dissi allora
Che mi ridea l’aurora;
Or che s’infosca il vespero,
Comincio ad insavir.
Ma intanto accuse e strepiti
Mi si moveano intorno.
Oh! fosse morto, al nascere,
Della mia fama il giorno?
Petrarchi e Tassi frusti,
Caproni e bellimbusti
Fêr sinagoga il despota
Monello a maledir.
Uno inventò le favole,
Un altro le diffuse;
Chi sporse il monosillabo,
Chi pronto lo conchiuse,
E dietro al dâlli! dâlli!
Gl’insulsi pappagalli
Sul trivio ancor cinguettano
Le ree stupidità.
Sino frugâr nel tumulo
Dove tu dormi, Elisa,
E ti compianser vittima
Da’ miei tormenti uccisa;
Sorgi dall’erma bara,
Ombra sdegnata e cara;
E del compianto ipocrita
Possa arrossir chi ‘l fa.
Tal m’apparì lo splendido
Mio mondo. E il pan che fransi,
Pan tossicato al lievito,
Gittai per terra e piansi;
E imprecai quasi al nume
Che mi vestìa di piume,
Onde agitarle in etere
Livido e reo così.
Poi mi riscossi. E l’anima
Fatta matura e il piede,
Ebbi dal duol più libere
Note, più forte fede,
E camminai. Le spalle
Portâr la croce al calle,
E il cireneo del Golgota
Per me non apparì.
Meglio. Chi pensa e spasima
E non consente al duolo,
Per nude pietre e triboli
Dee camminar da solo.
E camminai. Sul viso
De’ manigoldi ho riso,
E di più bei fantasimi
Il cor mi scintillò.
Addio, febei mirmidoni,
Macre spennate piche,
Addio, volanti retori
Per forza di vesciche:
Latrami contro, o grulla
Prosopopea del nulla;
Fuor di tua riga i cantici
Erato mia pensò.
Ruppe le sacre tenebre
D’Antèla e Mantinea;
Conobbe il sasso e i salici
Di Leutra e di Platea;
Del Simoenta al margo,
Là sulla polve d’Argo,
Sentii di Smirna l’angelo
E per l’Egeo tuonar.
Tu, musa mia, la cenere
Del Ghibellin baciasti;
Tu solitaria visiti
La cameretta d’Asti,
Vaga di freschi allori,
Le antiche glorie onori,
Pensi all’Italia, e vigili
De’ padri miei l’altar.
Lasci una vil politica,
Rosa da tigne e tarpe,
A chi la vende e compera,
Come l’ebreo le ciarpe;
E, in bassi ed alti scanni
Fisando i tuoi tiranni,
Ogni giustizia vendichi,
Fai sacro ogni dolor.
Chiuso nei polsi un rivolo
Del sangue d’Alighiero,
Armi di meste collere
Il tuo civil pensiero,
E, quando il dio ti spira
Fra i nervi della lira,
Tu squarci alla fatidica
Delfo i silenzi ancor.
Deh! non cader. Se un ebete
Vulgo t’offende, oblia.
Lanciò la fatua Solima
Le pietre in Geremia,
E la dardania prole
Rise le illustri fole,
Che pur carpia la vergine
Cassandra all’avvenir.
E fu Sionne un cumulo
Di sassi e di vergogna;
E sugli iliaci ruderi
Sta il corvo e la cicogna.
O musa, i fior, che a nembo
Lasci cader dal grembo,
Possan sull’atrio ai posteri,
Non su macerie olir!
E voi smettete il mugolo,
Spadoni imbrattacarte,
Ch’ella con veglie e lacrime
Fe’ sua la fede e l’arte,
E già da voi ghirlanda
Non sogna e non dimanda,
Perché di malve e d’alighe
Non vuoi fregiarsi il crin.
Canta; e cantando arridimi,
Tu de’ miei dì sorella;
Astro nel ciel; sul pelago
Volante navicella;
Al petto inerme e nudo
Gentil lorica e scudo;
Nome al mio nome; e lampana
Sul mio sepolcro alfin.
EDMENEGARDA
CANTO PRIMO
Per le vie più deserte, in doloroso
Abito bruno e con un vel sugli occhi,
Passa la bella Edmenegarda, – e al queto
Lume degli astri si raccoglie in una
Romita barca e con le sue memorie
Vaga piangendo.
Misero! che speri,
Se ti percote Iddio? Non è già il mondo
Grandemente pietoso. Egli al banchetto
Della tua casa volentier si reca
E ne sparge di rose i penetrali;
Ma se il cupo dolor veglia alla porta,
Non aspettare il solito conviva,
Ei non verrà!
La bella Edmenegarda
Gioì superba i maritali amplessi,
E sulla fronte di due biondi figli
Depose un dì senza terror le sue
Non colpevoli labbra: e chi sa quante
Donne quei baci invidiâr tremando!
Ella era lieta nel felice stato.
Ma il geloso Avversario d’ogni bene
Consumò la sua gioia; e il fatal giorno
Che si sentì la misera per l’ossa
Serpere il novo affetto, e la battaglia
Troppo forte le venne, a Dio si volse
Delirando e sclamò: «La tua tremenda
Volontà sia compiuta!» – Era la canna
Dal turbine già franta, e sotto ai morsi
Del livido colùbro il fiorellino
Si sperdeva alla terra.
Oh! sull’afflitto
Giovine capo la terribil pietra
Non lanciatela voi, che tante volte
Perdonati cadeste! e nella polve,
Così percossi dal dolor, vi parve
Anco la gioia dei felici insulto! —
Ricco era e bello di viril bellezza
Lo sposo a Edmenegarda. Un incolpato
Nome d’Anglia recava; i suoi silenzi
Lunghi; forti gli affetti; accostumata
A non mutar propositi la mente,
S’anco gemesse la ragion del cuore.
A molte donne della sua contrada
L’altera e disdegnosa indole piacque.
Ei non curò.
Ma nella dolce terra
D’Italia nostra un dì fisse gli ardenti
Lampi degli occhi a Edmenegarda in viso.
Era il loco romito, il sol morente
E inchinevoli l’alme alla tristezza.
E’ le piacque e fu suo. Parea tessuta
Dal paradiso la gentil catena.
Ed ei l’amò di quell’amor che vince
Ogni memoria di passata gioia,
Ogni speranza di futuro bene!
Tremendo amor, che, quando fugge, insolca
Profondamente l’anima di sangue!
Deh, custodite, miseri! il bel sogno,
Che sì celere passa. Ispido verno
(Né sarà tardi) occuperà le vostre
Vedovili giornate, e orribilmente
Vi farà scarni, vipera dell’alma,
La rimembranza. Miseri! suggete
L’ultima stilla del celeste nappo.
Chi ve la turba… impenitente spiri!
– Ben t’avvenga, o dei dogi inclita sposa,
Lïonessa terribile dei mari!
Eri pur or sul tuo letto di rose
Come un’egra gentil, cui sotto l’ombra
Di dolorosi salici, a rilento
Si consumano i dì. Ma un fresco e nuovo
Alito ancora i belli occhi morenti
Ringiovanisce, e sulle forti chiome
Ti splende un raggio della gloria antica.
Oh! tu sei veramente il più leggiadro
Fior dell’Italia, a cui la riverente
Malinconia dello stranier s’inchina,
Mistico fior che in mezzo all’acque vivi!
Ben meritava Edmenegarda bella
Di sorriderti appresso, e, sul materno
Petto serrando le soavi teste
De’ suoi fanciulli giocondar la fiera
Alma d’Arrigo!
– «Oh, vedi come azzurro
Il ciel, placide l’acque! Mi lusinga
Un desiderio di recarmi a Lido.
Ci verrai tu?»
«Non posso.
«Oh che? tel vieta
Qualche dolce ritrovo?» – (e sorridendo
Gli accarezzò le chiome).
«Edmenegarda,
Va’ tu».
«Sola?»
«Che temi?»
«È tristo il mondo
Ed io fragile troppo! – E ancor sorrise
La infortunata). – E poi… da te disgiunta
Andar m’accora».
«A rivederti. Il cielo
E il mar t’inebrii di sue forti gioie;
Poi riedi a me. Mi troverai, tel giuro,
Sposo recente!»
«In ver? Novo portento
Già non sarebbe!»
«La superba!… Addio.
Fatele guardia, o fanciulletti!…» —
A questo
Scherzoso favellar termine pose
Un’armonia di baci. In aspettando,
Canticchiava il nocchier sulla sua barca.
Arrigo strinse la diletta al core;
I bambini traendosi per mano,
Edmenegarda scese.
Onde del mare,
Contrastatele il varco! Aure del cielo,
Convertitevi in turbine! Non possa
La infelice, non possa! Urti piuttosto,
Sdruccioli, cada il remator nell’acque…
Le muoia un bimbo!… Ma che val? – Terrena
Prece non muta i preparati eventi.
Ride il ciel, ridon l’acque, i due bambini
Ridono anch’essi, il gondolier prosegue
La sua canzone; Edmenegarda pende
Sul negro abisso. E son tutti d’amore
E son tutti di pace i suoi pensieri.
Dalle molli rapita ale de’ venti,
Tocca a Lido la prora. E se non fosse
Prepotenza de’ fati, un’altra volta
Io pregherei che ti spezzasser l’onde,
Malvagia barca, tutti tranghiottendo
Questi innocenti – a dissipar le fila
Dell’orrendo peccato. A te da canto
Susurra, o donna, l’angelo caduto
Tenebrose lusinghe; e una fatale
Malinconia nel core insinüarsi
Tu senti già. Meglio per te sarebbe
Un tempestoso delirar di sensi,
Che ti gittasse al marinaio in braccio.
Schifosa e breve durería la colpa!
Ella prese i fanciulli e lentamente
Venne sul lido. Nuda e desolata
È quella terra; e di romite pietre
Sparsa all’intorno. Non le onora un segno,
Non le guarda una croce: eppur custodi
Stanno colà d’una progenie estinta.
Eternamente le percote il vento,
Eternamente le flagella il mare,
A ricordar che su quel cener pesa
La sentenza di Dio. Ma l’uom superbo
Guai se calpesta quelle pietre e ride.
Dopo l’ora mortal non ha la creta
Verità di giudizio; e agonizzante
Cristo pregò dalla sua croce a tutti
Il perdono del Padre!
Inculte rose,
Pochi e pallidi gigli erano intorno
A quei nudi sepolcri.
Oh dilicata
E arguta e forte cortesia di donna!
Edmenegarda il piè dei fanciulletti
Rimovea da quei fior seco pensando:
«I figli miei non vi torranno, o meste
Urne, l’unica gioia, onde si mostra
Liberale alle stanche ossa la terra!»
E sospirò come chi pensi al prezzo
D’una cara pietà nei faticosi
Dí del dolore.
Un suo bimbo, seguendo
Con trepido desío per quella costa
Il vol d’una solinga farfalletta,
In una zolla incespicò.
Vi narro
Comuni istorie: ma son questi i lievi
Stami che annodan l’avvenir.
Sorgiunse
Tempestiva la madre e il vispolino
Trepidando garrì. Ma in quelle strette
Paurose dell’anima, non vide
Che disciolto da’ polsi un vezzo d’oro
Nelle morbide zolle era caduto.
Con certo vago non curar dipinta
Su vi splendea l’immagine d’Arrigo,
Bruno, superbo, dispettoso e bello.
Giorno e notte compagno ella si tenne
Quel diletto ornamento! ed or tra l’erbe
Miste d’un giglio egli smarrito giace
Presso l’avel di giovinetta ebrea,
Morta d’amore. Ricomposti alquanto
I conturbati spiriti, s’accorse
Edmenegarda della rea ventura,
E ne tremò come di lungo affetto
Che improvviso si rompa. E il suo fanciullo
Riguardò corrucciata.
– «Oh tu perdesti,
Mamma, il tuo vezzo!»
«E tu cagion ne sei.»
«Si, veramente» (con voce di pianto
Proruppe il bimbo).
«Non turbarti, o caro:
Il troverem. Ma voi vi trastullate
Là su quell’erbe. Cercherollo io sola.
Il buon Iddio già non vorrà che io peni
Più lungamente». —
Spensierati al gioco
Obliarono tutto i due bambini.
Edmenegarda con rotti sospiri
E tormentosa avidità cercava.
Avrìa gemuto ogni più scabro petto
A contemplar quella dolce persona
Di qua, di là gittarsi incertamente,
Curva, carponi, e con le mani bianche
Frugando in mezzo all’erbe e per le spine,
E tra il vel delle lagrime le ardenti
Pupille sulla terra affaticando.
Non lontano da lei terribilmente
Batteva un core a rimirar quegli atti.
«Eccola! E indarno, indarno sempre il sogno
Della mia vita io seguirò! Né un guardo,
Né un sol guardo di lei questa profonda
Febbre, che m’arde, acqueterà! Che spero?…
Vedi iniqua fortuna? Ella ha smarrito
Qualche sua dolce cosa, e gli affannati
Occhi volge alla terra. Oggi soltanto
Le son sì presso… e non mi vede! Oh sia
Maledetta la cosa che a sè tira
Le ostinate pupille e inganna il lungo
Mio desiderio! Mordere le possa
I bei diti una serpe, onde sollevi,
Almen gemendo, quell’amato capo!
Una volta, una volta ella mi veda
Così scarnato e misero per lei!»
In queste voci di dolor proruppe
Il giovine Leoni.
Era di casa
Patrizia nato. Tra follie consunse
L’età ridente. Nelle bische, ai balli
Splendea su tutti e beffeggiava il casto
Sospir dei fidi o non felici amanti.
Ma nel viso gentil d’Edmenegarda
Un dì scontrossi e ne tremò. Del suo
Turbamento si rise, e non pertanto
Anelò rivederla: e una cocente
Torbida fiamma al fatuo cor s’accese.
Da quell’ora solingo egli passeggia;
Non più lieti convegni, orgie notturne,
Riso e feste d’amici. Arde il leggiero
Schernitor degli affetti; arde. La cerca,
La perseguita ovunque, e se per caso
Un lampo de’ suoi belli occhi rapisce,
Gela ed avvampa di convulsa ebbrezza.
A lui la notte, in pria fredda e deserta,
Or tutta è un sogno del celeste viso,
E il giorno un’acre voluttà superba
Di ricomporlo nell’ardente idea.
E come in quell’istante ogni movenza
D’Edmenegarda, e le fuggenti trecce,
E il fluttüar degli scomposti veli
Ei divorava!
– «Quanta cura!… Or dunque
Smarrito ha il paradiso?»
E anch’ei si pose
Sdegnosamente a ricercar. Né appena
L’orme e gli occhi per caso avea sospinti
Presso l’avel della fanciulla ebrea,
Che sotto al gioco dell’obliqua luce
Un lampo uscì dalle non peste zolle,
Il vezzo è già nella sua man. Vi scôrse
Le sembianze d’Arrigo. A Edmenegarda
Volò.
– «Guardate!… Io lo trovai!… Guardate
Aman tutti, – ed io solo, io senza amore
Passerò dalla terra!»
E nei convulsi
Moti dell’ira il fatal vezzo infranto,
Gittollo ai piedi della donna e sparve.
Fu l’opera d’un punto. Ella non seppe
Domar gli occhi; il mirò; di nessun’altra
Cosa le calse; piangere l’intese…
E a goccia a goccia come piombo ardente,
Nei tumulti del core impäurito
Sentí stillarsi quel terribil pianto.
Ne gemettero gli angeli. Percossa
Quell’infelice dall’orrendo caso,
Si stringe a’ figli; ma sudor le gronda
La chioma e il volto, e gelido è l’amplesso.
Tenta pensar d’Arrigo; ma turbata
Le traballa l’imagine alla mente;
Tenta pregar; non puote. Intorno gli occhi
Slancia tremando; li raccoglie ai figli.
Gli apre, gli chiude, misera! non puote,
E gli apre ancora avidamente e cerca…
Chi?… Piangetene, o cieli!
Consumata,
Consumata nell’anima è la colpa.
Ed ahi sí presto!
Che misteri asconde
Di dolor, di fortezza e di peccato
Questa superba e lagrimabil creta!
Tu pregherai, tu spererai, ma indarno.
O Edmenegarda, il demone con molte
Fatiche ha comperato la sua preda;
Per anni molti ei la vorrà. Che importa
Se tu ti slanci al tuo legno fuggendo?
Che importa, se la bruna navicella
Va come lampo, e pur gridi affannata
Al remator che acceleri la corsa?
Che val, se il tempo col desío divori?
Tendi gli orecchi. Non ti fêre un novo
Romor nell’acque? Volgiti! non odi?
Come larva notturna, che persegue
L’agitato pensier del viandante
E gli fa tardo il passo, il respir greve,
Or rotti or doppi i battiti del core,
Presso il navil d’Edmenegarda un altro
Venía solcando; e la medesim’onda,
Che dall’uno, dall’altro era percossa.
O Edmenegarda, volgiti! non odi?…
Ahi, che duro pallor t’ha ricoperta!
Che abbandono di sensi!
I tuoi fanciulli
Ti credono dormente, e si fan cenno,
Ponendo il dito sulle rosee bocche,
Di non turbarti quell’amabil sonno.
CANTO SECONDO
Sfiora le eccelse cupole, tra gli archi
Vagola e trema sugli azzurri flutti
Con la pietà d’un fuggitivo amante
Il sol che muore: ed un suo raggio estremo,
Ferendo i vetri alla romita stanza
Posa sul crin d’Edmenegarda.
Oh sole,
No, non lasciarla. Anche su lei risplendi;
È bella ancor questa colpevol fronte.
Simigliante ad un naufrago, che manda
L’ultimo grido, e vinta la persona,
Le disperate mani incrocia al petto
E piega il capo sotto l’onde e spira;
Così la combattuta Edmenegarda
Col suo dolce peccato ahi! s’addormenta.
«Tutti son lungi; ed io qui sola il noto
Rumor sospiro degli amati passi!
E ancor non viene! Ei non dovria lasciarmi
Il mio Leoni a questo tetro sogno.
Non teme ei forse ch’io svegliar mi possa?
Sì consumata nel fallir sarei?…
Oh infame il giorno che mi fûr recate
Queste note d’amore!!»
E su dal seno
Una lacera carta ella traendo,
V’infisse i lumi; la baciò; la strinse
Tra le palme e gemette.
«Io ben rammento
Che, appena l’ebbi, la gittai nel foco…
Ma estinto il soffio del dimòn l’avea.
Lungo era l’atto a lacerarla intera…
Io nol potei!»
Che sogna la demente?…
Arsa l’avrebbe?… Ah, se stridea la fiamma
Lí pronta a divorarla, indi ritorti
Avrìa gli occhi la misera. E se un primo
Impeto pur ve la traea, sparmiato
Già non avrebbe le sue belle vesti
E le man dilicate, onde salvarla
Dalle subite vampe.
Oh! qual periglio
Può rattener la donna innamorata,
Quando la punge quell’acuto immenso
Empio patir?
Deh, non parlar di queste
Crëature sì fragili e possenti,
Tu non nato ad intendere che il vile
Gaudio d’averle e d’oblïarle sempre!
«Duro è l’indugio. E ancor non vien!»
Si desta
Da lunge un’eco: Edmenegarda ascolta
Avidamente; le si fan le gote
Porpora viva… Il suo Leoni è giunto.
«– Addio, diletta!»
Ella si tacque; e un lungo
Sospir traendo, con le molli braccia
Gli cinse il collo e lo baciò.
– «Divina
Sei veramente! Durassero eterne
Quest’ore! Stolto! io non credea che tanta
In sé chiudesse voluttà la terra!…
Dov’è sembianza che alla tua somigli?
Chi non daria per queste chiome un regno,
Per baciar mille volte, com’io faccio,
Queste tue chiome, e a forza di baciarle
Stemperarsi d’amor, com’io mi stempro?…
Sì, Edmenegarda!… Piega la tua testa
Qui sul mio cor!… Deh, senti come batte
Un cor d’Italia… Ah, questi miei non sono,
Non son gli amplessi del superbo Inglese…»
«– Leoni mio, non proseguir!… Ti prego
A mani giunte, non mi far morire!…
Troppa è l’ebbrezza che nel cor mi versi;
Ma per pietà non proferir quel nome!…
Io non ho forza a sostenerlo!… Taci!…»
«– Ei ti disama; non t’amò giammai.
Co’ suoi gelidi modi ei ti contrista,
Gentil rosa d’amor! Ben meritava
D’aversi a moglie una rubesta donna
Delle carniche rupi, e non la dolce
Edmenegarda mia!»
«Deh! più non dirne;
Mi son pugnale avvelenato all’alma
Le tue parole! Ei sì ancor mi ama Arrigo,
Troppo umano e cortese a questa sua
Miseranda colpevole!… Che fora,
S’ei risapesse?… Oh mio Leoni!… Un serpe
Mi rode il core!… Io lo disamo, io sola;
E si tormenta il misero a vedermi
Tramutata così!»
Può far portenti
La pietà nei gentili. Ed ella intensa
La sentia per Arrigo. Arse Leoni
In quel fiero sospetto: e sulle labbra
Dal core offeso gli suonâr parole
Sino allor non proferte.
– «E cieca or tanto
Fatta sei tu?… Veder ne lo potessi
Sotto i vecchi palagi, com’io ‘l vidi,
Passeggiar sorridendo! Egli divora
Tutte degli occhi queste nostre donne,
E, immemore di te, forse possiede
Nel suo vil desiderio altre sembianze,
Che un raggio, un’orma della tua non hanno».
«– Leoni, è tempo di tacer!»
«Non anco,
Edmenegarda!… Lasciali i rimorsi
A lui che vola a comperati amplessi,
E svergogna cosí questo suo dono.
Non meritato dal Signor!» —
Le guancie
D’Edmenegarda in una calda fiamma
Si tramutâro.
«Ascoltami, Leoni!
Tu menti; è vano il dubitar; tu menti!
Deh, così basso non cader! Non farmi
Più pesante la colpa! Almen mi lascia
Questa alterezza, che in vulgar persona
Io non locai l’affetto. Intender tanto
Non credea dal tuo labbro. Arrigo è fiero,
Arrigo mio, più di quant’altri alberga
La vostra Italia. Ei non sapria macchiarsi
Di gelose menzogne. Egli, il mio sposo,
Pria di mentir, morrebbe. Or via, mi guarda;
Gli occhi ho pieni di lagrime!… Sei pago?»
«– Edmenegarda!… Se le atroci ambasce,
Che mi schiantano il cor le risentisse
Una fragile donna, ella saria
Sepolta già. Dissimular che giova?…
Voi l’amate, l’amate!»
«Oh così fosse!…
Perchè trarmi dal core anche il rimorso?»
«—No, Edmenegarda, non lo dir!… Ma vedi!…
Vedi come per te cieco son fatto!
Questa indomita febbre è la mia parte
D’aria e di sole. Io morirei senz’essa.
Credi, non sente amor chi lo divide!…
Edmenegarda mia, vile io non sono!
Questi crudi, che a voi povere e frali
Insegnaron la colpa, e poi non sanno
Sentir la gioia dell’avervi intere,
Paghi d’un bacio che a sbramar li venga,
Questi tutti son vili!» —
Dallo sguardo
D’Edmenegarda, ai concitati accenti,
Lampeggiò l’allegrezza; e intorno al collo
Gli ripose le braccia; e figli e sposo
Svaniron lenti dalla sua memoria
Sotto il vel dell’oblio, che il novo affetto
Continuatamente iva tessendo
Più fitto sempre.
Ma sorrider lieta
Già non sapeva.
– «Oh mio Leoni! Infauste
Giornate il cor mi presagisce. Ah sempre
Amami, sempre com’io t’amo; e queste
Parole mie non oblïar. La terra
Mi tesserà dolori, avvilimenti;
Io sarò forte a sostenerli. In core
Mi languirà la prece, e disperata
Io non cadrò. Se mi mancasse il pane,
Non saliranno i miei lamenti a Dio;
Me l’avrò meritato!… Ma, se mai
Tu… mi lasciassi…»
«Angiolo mio! Quai fole
Per la mente ti passano? Sorridi,
Edmenegarda. Or via; caccia dall’alma
Queste vaghe paure!… E non ti basta
L’amor mio tanto?…»
«Oh sì, mi basta!… E vedi
Ch’io son tranquilla. Ma tu pur, diletto,
Non affannarmi; non voler ch’io tremi
Dell’ire tue! Qual gloria indi n’avresti?…
Che resta a noi, se non amarci?» —
A queste
Voci d’affetto sospirò Leoni
Di profonda amarezza, ed esitando
La man le porse, come con quell’atto
Perdon le dimandasse dello averla
Contristata così.
Sul core afflitto
Ella serrò la cara mano… e tacque!
Molti dolori chi molto ama oblia!
Sceso era già dall’orizzonte il sole
E in grembo alle romite aure del loco
Movea un suon di reconditi sospiri
Rotti da qualche inebrïato accento.
Ma quella sera sulle dolci mura
Calâr tetri i crepuscoli; alle imposte
Mugolarono i venti; e sembrò voce
Quasi di pianto il mormorar de’ flutti.
Anche l’addio delle tremanti bocche
Alla forzata ilarità del volto
Non rispose quel dì.
Nelle fatali
Soglie si nascondea la preparata
Ira del Nume; un innocente bimbo.
Il sottil laccio tra la siepe al falco
Ghermisce il collo, e la invisibil goccia
Colmo alle ripe l’Oceàn travolve.
Per quelle sale con aerei passi
Trasvolando Leoni, non s’avvide
Del fanciulletto che di là per caso
Passava. Urtollo; e il poverino a terra
Giacque ferito nella bella fronte.
Leoni come lampo gli si tolse
Dagli occhi. Accorse alle dolenti strida
La madre.
– «Oh santa Vergine! Rispondi;
Rispondi; angelo caro. Che hai tu fatto?…»
«Mamma, non io; ma quel signor del Lido…»
«—Taci; t’inganni; non è ver. Non deve
Un bel fanciullo lagrimar. Se taci
Se non parli ad alcuno, io ti prometto
Che un bell’abito avrai, ma de’ più belli
Che si veda in Venezia.» —
Ed asciugando
Il poco sangue del picciolo viso,
Molte feste gli fece. Alle carezze
Inusitate da gran tempo, e al gaio
Promettere, il fanciul serenò gli occhi
Subitamente; e non finìa la madre
Di carezzarlo.
Una crudel tempesta
Da molti giorni si mescea frattanto
Nell’anima d’Arrigo.
Ove fuggito
Era quel dolce, quell’amabil riso
D’Edmenegarda sua? Perché sì mesto
Il sonar della voce e sì frequente
Lo scolorir del volto? onde quel vago
Svïarsi de’ pensieri e quel profondo
Compatir delle colpe?… e se festiva
Talor si mostra, perché mai traluce
Dalle note e dai gesti un doloroso
Sforzo dell’alma? la cagion del fiero
Mutamento qual era?…
Ella altre volte
D’Arrigo a canto procedea superba,
L’ondeggiar delle vele e il varïato
Gioco de’ raggi e il luccicar dell’acque
Lietamente notando. Ai vaghi aspetti
Era gelida adesso e di mirarli
Rifuggìa quasi. Nel leggiadro core
Altre volte un desio caldo la punse
Di visitar le insigni opre dell’Arte
In compagnia d’Arrigo; or da gran tempo
Non vedea quelle sale; e senza cura
Abbellìa la persona; e senza affetto
Educava i suoi fiori.
«In che le spiacqui?
Talor diceasi Arrigo. E donde nasce
Quel tormentoso infastidir di tutto?…
Quei rotti sonni?… Quel tremar talvolta
Nelle mie braccia?… Oh che?… Forse?…»
E dal bruno
Fronte gocciava qualche fredda stilla.
Poi, ripensando alle celesti gioie
Da Edmenegarda avute; e a quella tanta
Vita d’amor pei figli; e a sè guardando
Giovine e bello e da tanti anni amato
Con timida allegrezza, ebbe vergogna
Di dubitar.
Né sì profondo infitta
Gli restò come pria dentro al pensiero
Una persecutrice ombra, che sempre,
Con la sua dolce Edmenegarda uscendo,
Su’ lor passi incontrava.
– «Oh l’importuno!
Che pretende costui?» proruppe un giorno
Con la sua donna Arrigo.
«E che?… Vorresti
Impedirgli la via?» —
Si ricambiaro
Ambo un sorriso; e fu sì casto e pieno
E confidente, che potea di mille
Sospettose paure esser compenso.
Ma quando acuta i visceri penètra
La vipera del dubbio, ella consuma
Fieramente la vita, e non è forza
Ch’indi la tragga. Nel fervor dei prandi,
Nella vicenda de’ convulsi giuochi,
Tu crederai di seppellir quel mostro;
Ma sorgerà. Nelle sonanti corse,
Tra i tumulti del dì, nella notturna
Melodia d’un’angelica canzone
Che di tepido oblìo l’anima incanta,
Tu crederai di seppellir quel mostro;
Ma sorgerà. Né sull’altar di Dio,
Dove si placa ogni tempesta umana,
La prece e il pianto t’usciranno in pace.
– «Vieni, Adolfetto mio: dolce è la sera;
Vieni a San Marco. Vi vedrai di molti
Vispi fanciulli. Tu sta’ ritto e bello.
Fa’ loro invidia».
Vezzeggiando al padre,
Battè palma con palma il fanciulletto
Tutto contento, ed abbellir si fece.
Nero il turbante, come neve il collo,
Ceruli i guardi, cerula la veste,
Biondi i capelli, inanellati e lieve
Per l’omero scorrenti, era Adolfetto
Un angelico incanto. E parea nato
Quel soave fanciullo a render miti
Con la tanta bellezza anche le fiere.
– Sei pur vaga, o Venezia, e lungamente
Memorabile e cara alle pietose
Fantasie del mio cor! Chi porta gli occhi
La prima volta sull’eterne torri
Del tuo San Marco e non sospira, è degno
D’assiderarsi alle perpetue brume
Del Boristene. Chi trascorrer lascia
Le gentili tue donne e non si sente
Rapito all’aria de’ leggiadri aspetti,
Non merta mai bacio d’amante. E quando
Al grazïoso favellar festivo
Non esilara il cor, l’ultima Islanda
Io ben dirò che gli fu madre.
Al cupo
Tempestar della mente e agli odii ingrati
Della terra natale, e a qualche arcano
E tremendo peccato, in queste tue
Ospiti rive, dopo lunga guerra,
Trovò riposo un esule; e talvolta
Brillò la gioia ne’ fulminei sguardi
Del poeta d’Aroldo.
Alle solinghe
Ore di quella travïata i canti
Del poeta d’Aroldo eran compagni.
E quella sera le correan a forza
La mente e gli occhi sui dolenti casi
Di Parisina. Alla fatal lettura,
Ecco repente tramortir la lampa,
Stridere i vetri: ella riapre e chiude
Più volte il libro, e pallida, d’intorno
Sguardando, le parea dalla oscillante
Parete lampeggiar l’ombra del duca.
Popolata è la piazza, e sotto il doppio
Ordin degli archi in allegria passeggia
La varia gente. Assiso era col padre
Il fanciullin da un canto. E con le bianche
Dita sfogliava una recente rosa
Che la gentil fioraia, in trapassando
Data gli avea. Dal doloroso petto
Sospirò Arrigo a contemplar divelta
La beltà di quel fior.
– «Perchè sospendi,
Adolfetto, il tuo giuoco?… A chi riguardi
Sì fisamente?… Di’; conosceresti
Quel signor bruno?…»
«Se il conosco! e molto
Male ei mi fece!…»
«Che?»
«Spinsemi a terra».
«Dove?»
«Fuggendo per le nostre sale».
«Tu sogni?»
«Babbo mio, deh! non guardarmi
Sì corrucciato».
«Parla, angelo, parla!…»
«La mamma corse ed egli era scomparso.»
«Ed è quello?»
«Sì, quello.»
«In lontananza
Forse t’inganni!»
«Oh no.»
«Quando ripassa,
Guardalo attento!» —
– Ripassò Leoni. —
– «Dunque?…»
«Gli è quello!» —
«Arrigo si coperse
Di mortal pallidezza! i polsi un tratto
Gli si allentâro; e sotto alla vergogna
Sospirò di morire. Il paradiso
Della sua vita si chiudea per sempre!
Ma dopo gli urti di quel primo affanno,
Che ogni forza, ogni senso gli scompose,
Dell’aere diffuso al refrigerio,
Pietosamente assursero in Arrigo
I secondi pensieri.
«Ella tradirmi!…
Ella sì amante, che parea vivesse
Del soffio mio!… Tradirmi ella, mendìca
E allo splendor delle mie nozze assunta!
Ella che sempre io nominai coi nomi
Più giocondi e soavi!… Arrigo, acqueta
L’anima ardente… e non potria quel folle
Essersi appena avventurato un giorno
A tentar le mie soglie, e così offesa
Edmenegarda dispregiar quell’atto,
Da non curarne o vergognar tacendo?
Talor maestro di sospetti è il caso
Perfido e vile. Ma… quel novo stato
Di tristezza che l’occupa!… Parlarle
Uopo è una volta. Oh incanutir le chiome
Mi possano oggi! Mi diserti il cielo
D’ogni ricchezza, un misero sepolcro
Copra i miei figli… ma non sia l’orrendo
Fallo; non sia!…»
Da una lampada d’oro
Sul letto nuzïal d’Edmenegarda
Una timida luce si diffonde
Velatamente.
Ella è soletta, e il capo
Stanco reclina tra le ardenti palme.
E pensava, pensava!… E in quei pensieri
Era un torbido assalto di paure,
Di rimorsi, d’amor, di pentimenti,
E indomato un desio di sovvenirsi,
E un lungo sforzo d’oblïar.
Da quella
Mutua battaglia alfin scosse la testa.
Arrigo entrò. Lieve un tremor sul labbro,
Lieve un pallor; non altro. – E a lei vicino
Si pose.
– «Arrigo!»
«Edmenegarda! È tempo
Ch’io vi favelli. Rammentate i giorni
Del nostro amore? Ei furon lieti!… e forse
Non torneranno più!…»
«Tristo è il presagio,
Arrigo mio! »
«Sentite, Edmenegarda.
Qualche mistero di dolor vi siede
Nell’anima profonda. Io non vorrei
Aver fatto una misera. Quel giorno
Che legai la mia fede (oh così amaro
Non credea mi tornasse il ricordarlo!)
Quel giorno come adesso, io tenea stretta
Nelle mie la tua mano… e questi accenti
M’uscîr dal core: Edmenegarda, eterni
So che non duran sulla terra affetti.
O inesorata li spegne la morte,
O li lacera il mondo. Io credo e spero
Che mi amerai… Ma… se una volta stanca
Di me tu fossi… se al tuo cor non pari
Trovassi il mio… se di tristezza e noia
I tuoi giorni languissero… prometti
Che parlerai, prometti! – E a te piangente
Parve strano quel dir; tu non credevi
Che quest’ora arrivasse…. Edmenegarda,
Tu nol credevi! – Or via; parla una volta:
Che ti contrista?… Questa lunga e dura
Serie di giorni desolati – è troppo.
Parla; ti versa nel mio cor. Non sono
L’amico tuo?…» —
Fu dieci volte spinta
Quella infelice a rivelar la colpa.
Ma il terror, ma l’amor, ma quella stessa
Bontà d’Arrigo, a cui tanta ferita
Già recar non sapea, miseramente
La rattennero – e tacque.
«Oh più non dirmi
Di sì dolenti cose! A te ben noto
Esser dovria perchè sì mesta ho l’alma!…
Son questi i giorni che a’ miei dolci colli
Gir mi lasciavi; e della madre in seno
Io deponeva i verecondi arcani
Del mio felice vivere! – Da un anno,
Sai ch’ella… è morta!…» —
E, a quella pia memoria,
Le cadeva una lacrima, confusa
Col rossor di meschiar l’urna materna
Alla prima menzogna.
– «Edmenegarda!…
Null’altro?… Questo… veramente questo
V’amareggia?… Null’altro?…»
«E perchè fiso
Così mi guardi?» —
Tutto in quell’occhiata
Edmenegarda intese; e la sostenne
Imperterrita.
– «Ascoltami!… Un atroce
Dubbio m’agita l’anima. Più a lungo,
Viltà sarebbe il mio tacer. – Conosci…
Certo Leoni?…» —
Un gelido trabalzo
Urtolle il core, ma passò qual lampo.
– «Lo conoscete? »
«Arrigo mio, perdona
Se ti sorrido… Io sì che lo conosco
Quello scortese. Un dì, male avviato,
D’ignote genti a dimandar qua venne;
E, nel partirsi, inavvertito, a terra
Spinse Adolfetto nostro.»
E, proferendo
Le mendaci parole, un’aria assunse
Di maraviglia, d’innocenza e pace.
Ei la guardò; ma l’ineffabil riso
Tuttavia nei sereni occhi brillava.
Caderle ai piedi, stringerla, baciarla
E ribaciarla; e non finir di dirle
Mille accorate e mille dolci cose
Fu per Arrigo un punto. Era oblïato
L’orgoglio inglese in quegli atti d’amore!
E l’abbracciava il misero!…—
Un istante
Che allentato si fosse il tempestoso
Urto di quella ebbrezza, avria sentito
Tremar sotto gli amplessi orribilmente
Le colpevoli membra, e sotto i baci
Farsi di gelo la convulsa bocca.
CANTO TERZO
O giovinette, gioia vereconda
Delle case materne, a cui dovrebbe
Vergin campo d’amori esser la terra,
Quand’io vi veggo rotear ne’ balli,
Di rose e gigli incoronate il crine,
Quand’io v’ascolto ne’ giocondi crocchi
Le memori narrarvi ore del chiostro,
O le speranze del futuro amante,
Non vi sorrido; ma pietà mi stringe
Dolorosa di voi, che imprenderete
La dura via tra poco. Una celeste
Larva è l’amor, che spanderà d’ebbrezza
La vostra notte; ma sull’alba gli occhi
Vi nuoteran, senza saperlo, in pianto.
Deh, se più tarda del desìo vi splende
La visïon delle ridenti nozze,
Deh non v’incresca, o giovinette, il vostro
Vergine asilo e il queto orto materno!
Deh non vi punga di mutar la pace
Di quelle mura col rumor del mondo!
Guai se una volta lacrimaste i tempi
Non redituri! E se di spose e madri
A quel tremendo ministerio eccelso
Dio vi destina, di più forte gente
Fate ricca la terra! Incliti amori
E pietose virtuti al secol novo
Date una volta; e la gentil fortezza
Degli atti vostri avrà corone e canto.
Ma fra quanta di rei turba infelice
(ahi poche e stanche) i verginali capi
Riposerete alla fiorita landa
Voi, coraggiose martiri, venute
La frale ad espïar anima d’Eva!
E tu, mio Genio, pellegrin ti reca
Sul precipite abisso. E quando ascolti
Altre misere incaute approssimarsi,
Alzati e grida col furor negli occhi
D’Edmenegarda il nome. E se la turba
Dall’impeto è travolta, allor dell’ali
Fatti un velo alla fronte, e piangi e prega.
Passan l’ore sull’uom, passano i giorni
Che triste o lieto, irremutabil sempre,
Numera il Sol. Ma le speranze, i sogni,
Gli odii, gli amori, e l’incalzarsi eterno
Delle memorie, e l’avvenir celato,
E i durissimi tedii, e il faticoso
Dibattersi dell’alma, e il trovar pace
Dopo fieri cimenti, ahi tarda e breve
E guerreggiata con orrenda gioia
Da Satàna e dall’uom; questi misteri
Non li numera il tempo. Anni ed istanti
Con pari vol misurano. Nessuno
Quei dell’altro indovina. Han vita e moto
E sepoltura in noi; sin che lo strale
Fischia della suprema ora nell’alto,
Guizza il lampo di Dio sulle tenèbre…
E quell’ambage non è più.
Chi tenta,
Poichè la rea fra le tradite braccia
Tremò, chi tenta penetrar gli abissi
Dell’anima sviata?… Ella sorride;
Chiama, con voce più soave, il nome
De’ suoi figli e d’Arrigo; e in una tinta
Lieve di rosa s’incolora il lungo
Pallor del volto. Più profonda è fatta
La battaglia del cor, che nessun vede,
Ma che improvvisa ad or ad or balena
Da un sospir divorato e da una fredda
Stilla di pianto.
E Arrigo?… Egli si sforza
D’esser lieto, e non può. Ben come un dolce
Fantasma, che talor passa per l’ombre
D’un sogno tormentoso, ei si dipinge
La fè d’Edmenegarda; e l’accarezza
Come il dormente quella bianca imago.
Ma, quasi mesta del notturno gelo,
Fugge la bella forma, e risepolto
Nelle tenèbre il sognator sospira.
«Perchè quest’ombra di sospetto a tergo
M’incalza sempre?… Ma, se rea foss’ella,
Come potrebbe sostener sol uno
De’ baci miei, nè di rossor morirne?
Avria sconvolto le sue leggi eterne
La natura ed il ciel? Come in sì breve
Ora mutar l’angelico costume?
Io demente l’accuso; e chi sa quanto
Ella si strugge, e se de’ miei s’accorse
Dubbi codardi! Io vigilai già troppo,
Nè mai l’aspetto di colui m’apparve,
Nè ombroso un gesto, un moto io mai non vidi
D’Edmenegarda mia, di quella mite
Anima che talor si fea tremante
D’un mover lieve di notturna foglia,
D’un fior che le cadesse. Oh questa è colpa,
È colpa in me, ch’io vo’ punir.»
Siffatti
Son d’Arrigo i pensieri. E cerca ovunque
Disvïarne la mente. Ecco; alla sua
Leggiadra donna d’abbellirsi a festa
Amabilmente impera.»
– «Il gaio mondo
Vola a’ teatri. Edmenegarda, altero
Fammi di te, tra tutte quante bella!
Sentirai la virtù delle immortali
Melodie di Rossini in bocca a questo
Angelo ispano! Tutt’Europa ai canti
Della Garcìa sospira.» —
Allegra accolse
E timida l’invito. Eran più giorni
Che nol vedeva, consigliero a entrambi
Il prudente timor. Forse tra’ mille
Ritrovato coi destri occhi amorosi
Quella sera l’avria.
Quanta vaghezza
D’abiti e forme! e che tesor si spande
Di profumi e di luce, e che diffusa
E terribile e mesta onda di note
Per la bella Fenice!
Inni di gloria,
Canti d’amor, selvagge ire dal petto
Fulmina Otello, e solitario cade
Di Desdemona il pianto, e sotto i salci
Freme l’arpa divina.
Oh! chi non arde,
Chi non gela a le lunghe e disperate
Note d’amor, di gelosia, di morte?
Suonano le commosse aure di grida;
Palpita Arrigo; ed ella, in quei tumulti
Soffocando il terror, giù nella folla
Furtivamente il suo Leoni affisa,
Che, chiuso in altre voluttà, non plaude,
Ma profondo sospira.
I canti estremi
Lacerarono Arrigo; e quando Otello
Con le sue mani furïose estinse
Desdemona infelice, inorridito
Pianse l’inglese e ricercò sul volto
D’Edmenegarda una pietà segreta…
Ed ella?… Indarno la chiedea dal cielo!
Da molti giorni era composto in pace
Il cor d’Arrigo; e carezzava i figli
Festevolmente, e sulle sue ginocchia
Se li togliea, facendoli amorosi
Messaggieri di baci alla lor madre.
E alfin, quel dubbio ad espïar, risolse
Per qualche dì, con dilicato affetto,
D’abbandonar la sua dolce compagna
E le venete spiagge; anche a rapirsi
Da quei duri pensieri.
A voi più volte,
O frïulane valli, inebrïato
Tornava Arrigo col desio; che un’orma
In voi trovar della natal sua terra
Gli parea sempre; e il vostro aere cortese
Gli custodiva il più soave arcano
Degli anni suoi; però che sulle sponde
Del Tagliamento un dì vide una mesta
Giovinetta vagar pensosamente,
Al mite raggio delle prime stelle
E ai fioretti del margo acconsentendo
Qualche sospiro; e dimandò chi fosse;
E più d’ogni altro gli fu caro il nome
D’Edmenegarda. E ancora una vaghezza
Lo pungea di mirar quelle divelte
Torri, che la solinga edera allaccia.
Campo una volta a baronal fortuna,
Or son nicchia notturna alle selvagge
Volpi, e per gli atrî, ove suonâr le spade,
Passa a staccar qualche frantume il vento,
Mentre in alto la bruna aquila ondeggia,
E il fulmineo serrando arco dell’ale,
Precipita alla preda. A quei castelli
Lambe le falde impäurito e passa
Il vïandante, e i colpi della scure
Sull’erma balza il legnaiuol sospende
Ad or ad or: chè dentro alla solinga
Magion de’ Savorgnani ode un feroce
Ballo di morte, e lungo quelle sale
Vede traverso i colorati vetri
Passar rossi fantasimi, agitanti
Fiaccole e spade.
Anche il pensier d’Arrigo
Dietro quelle sognate ombre correa.
Poi riposando a fantasie gentili,
Rammentava, o gagliarda Utino, l’opre
Del tuo Giovanni, che attingea dai labbri
Del divin Raffaello il benedetto
Soffio dell’arte che d’amor si pasce,
E cielo e terra, innamorando, crea.
E del merlato Spilimbergo intorno
Udìa sull’aura reverente i nomi
Del Vecellio e d’Irene, ambo immortali.
E là trovar tra i memori oliveti
Già gli parea la giovenil sua vita,
E di là, le marine onde solcando
Pregustava nel cor la inaspettata
Voluttà dei ritorni.
E così volle,
E a la sua cara ne parlò. Sostenne
Edmenegarda, tra la gioia e il pianto,
Quella battaglia: e ch’ei si rimanesse
Tremava; eppur lo scongiurò di starsi;
E gioì del rifiuto; e insiem rimorso
Di quel gaudio sentì.
Misera! il fato
Già ti chiuse ogni via, tranne quell’una
Che d’abisso in abisso ti sprofonda.
Povera foglia alla bufera in preda!
«– Dunque tu parti!… Anche per me saluta,
Arrigo mio, quei colli, e le dilette
Rive del Tagliamento, e quei beati
Campi! ma lungo il tuo restar non sia!» —
E di vera tristezza eran parole.
– «Noi ci vedremo in pochi dì. Scrivetemi,
Edmenegarda!»
«Arrigo mio, m’è nuovo
Questo tuo far. Perché nell’abbracciarmi
Non mi chiami del tu? Tetra una nube
Ti sta sul volto, nè stanotte il sonno
Ti consolò. Che hai?»
«Nulla, mia cara.
Prendi cura di te, pensami e scrivi.
Addio, fanciulli!» —
Al sen tutti li strinse
E si partìa. Ma la rinata spina
Laceravagli il cor. S’era ingannato?…
O quella notte Edmenegarda in sogno
Proferse un nome?… E ancor, per quelle sale
Passando, acuto un brivido lo colse.
«Quanto son vile! Non è ver. Sì, vile…
Sì, demente son io.»
Ma, ad ogni passo
Verso la ripa, una gelata mano
Sentia calar sul divampante petto,
A respingerlo addietro. Egli räuna
Ogni sua forza, quell’incubo orrendo
Per debellar. Nè vinta era la pugna.
«Tornarmen’io?… Pormi in agguato?… All’arti
Del sospetto discendere?… Follia!
Ma inumano è lo strazio. E in un dì solo
Io quest’inferno dissipar potrei.
Tanto è ch’io peno! E in un sol dì la vita
Potrei mutarmi in paradiso eterno!»
Lieve una piuma a traboccar bastava
Quella bilancia, e non tardò la sorte
A gittarvela su.
Già il piè d’Arrigo
Monta la prora; già la corda è sciolta;
Ei volse il capo… e fu per caso; e sopra
La man passovvi; e vide… e non s’illuse…
Vide colui, che con pupille ardenti
Lunge, in agguato, a contemplar lo stava.
Leoni sparve. Arrigo si raccolse
Un istante: ha risolto. A terra scese;
La via rifece; per ignota parte
Entrò; salì non visto: in una stanza
Orba di lume si celò; la fronte,
Quasi per molto faticar, gli cadde
Sull’ansio petto; e un’onda di pensieri
Lunghi ostinati gli muggìa d’intorno.
Immenso amor, vergogna, ira, sospetti,
E terrori e speranze, eran commiste
Quasi in un vario e vorticoso nembo
Di tenèbra e di luce; e dentro a quella
Tempestosa meteora – spïando —
Stava l’inglese all’infernal tortura
Ogni piè, che sonasse alle sue scale,
Gli era un colpo nel petto; ogni persona
Che arrivasse, una morte. E in pochi istanti
Ore ed ore passarono. Arrossiva
Già di sé l’infelice… allor che un’ombra
Rapida intese. Ei trema; la pedata
Si ferma all’uscio; e l’uscio s’apre; ei guarda,
Misero! guarda; e vede un’ombra… un uomo…
Vede Leoni trapassar!
Le fibre,
Le vene, l’ossa gli divampan tutte.
Ma sbarrata e di vetro è la pupilla;
Cadaverico il volto; e sol la vita
Da un tremor lieve delle labbra appare.
Inchiodato così stette un istante
Indi sorrise; e due gelate stille
Dagli occhi morti gli colar sul petto.
Stette ancora un istante. Alfin si mosse
Quel pallido fantasma; ad ineguali
Passi arrivò sulla tradita soglia;
E l’aperse – e li vide – e d’uno sguardo
Li fulminò. – Poi chiuse.
Annichiliti,
Trascolorati, come fredde pietre
Restäro entrambi. Edmenegarda tenta
Trar dalla gola un solo accento; è indarno.
E, a forza sollevando la convulsa
Testa, gli accenna di partir. Leoni
La man ghiacciata le serrò.
«Congiunti,
Donna, per sempre!…»
E a proseguir non valse:
E, sovra il gel delle livide labbra
Non baciato baciandola, col capo
Vertiginoso, a strascico le membra
Disviluppando, di colà si tolse.
Arrigo il vide ripassar. Fu un punto,
Ch’ei non pose sovr’esso l’omicida
Mano a strozzarlo. Ma, serrati i denti
E incrociate le braccia, ei si contenne.
E quando il seppe dileguato, un cupo
Urlo mandò qual di ferito tigre;
E sull’infame limitar, di nuovo
Ritto, immobile, apparve.
La tapina
Nol vide già: chè le cadea la fronte,
Quasi con peso d’agonia, sul petto.
Ma pur – senza vederlo – a sè davanti
Lo sentia, lo sentia, muto e tremendo.
E si sforzò di sollevar le braccia,
E congiunte le palme, senza pianto,
Senza parola, verso lui le stese.
«Non pregate, o signora. Ospite io v’ebbi
Sett’anni; or basta. Ad altre mense, ad altri
Talami andrete.»
Uscir quelle parole
Fulgoreggiando. Traboccò riversa
Edmenegarda, e una schiumosa riga
Mista di sangue sui guanciali apparve.
Un urto!… un urto ancora… e a terminarla
Sarìa bastato.
Ma il Signor non volle!
CANTO QUARTO
Vedesti mai della Città fatata
Sulle sponde amorose, ove s’innalza
Perpetuo il canto tra l’oceano e il Sole,
Vedesti mai le lucide sembianze
D’un’angelica forma ir diffondendo
Fascini arcani, e dietro lei confusi
Mille cuori agitarsi, e in rapimento
Scintillar mille sguardi, a cui dinanzi
Ella verrà nei sorridenti sogni?
Mai non vedesti una leggiadra donna
Col suo dolce compagno irsene altera,
E preceduta da due biondi figli,
Qual da una coppia di nascenti rose?
E non ti parver quelle anime amiche
Irradïate da un medesmo affetto
Quattro corde sonanti e risonanti
Sotto il ciel che le ascolta e s’innamora?
Qual core è mai che non esulti a queste
Melodie, che morir su le perdute
Soglie del paradiso, e a far men triste
La fulminata razza, un giorno ancora
Sotto le dita dell’Amor son vive?
Le sollecite madri alle fanciulle
Quella donna additavano, esclamando:
– Beate voi, se avrete una, sol una
Parte dei giorni avventurati! —
Oh certo,
Senza molto indagar, tu la vedesti
La invidïata crëatura amante
O nel rumor d’un ballo avvilupparsi,
O star composta ad una sacra pompa,
O lungo il mare vagolar solinga;
Tu la vedesti; e la più cara stella
Del felice Adriatico ti parve.
Or leva gli occhi all’ultima finestra
Di quel palagio, a cui lambe la luce
Le fondamenta brune, e, digradando
Via digradando, sul canal si perde.
Quel palagio il conosci? – È di Leoni. —
Conosci or tu quella femminea forma
Col crin dimesso, con le mani scarne,
Con la febbre nel cor, con le pupille
Macchinalmente immobili sull’acque?
Ahi! come poco ella ti par diversa
Dalla gelida pietra a cui s’appoggia!
Sol l’ignominia d’un ripudio puote
L’umano aspetto tramutar cotanto.
Invan tu cerchi nella tua memoria
Di quella donna indizio. E se una traccia
Lontan, lontano al tuo pensier balena,
È un lieve sogno qual di cosa morta
Da lunghissimo tempo, a cui tornando,
L’anima tenta di rifarne intera
La somiglianza – e più e più s’attrista.
Or, l’hai trovata?…
Quel crollar del capo,
Quel doloroso tuo lungo sospiro
Mi rispondon che sì.
– Quanta pietade
Sentirà dell’afflitta anima il mondo! —
Oh nol pensar!
Questo rettile abbietto
Non ha voci per piangere. Egli manda
Sull’infelice il suo grido di scherno,
E lo dispera col livor dei morsi,
E nell’ora del mal fischia di gioia.
Così, quando scoppiò l’orrido nembo
Sul fragil capo alla reietta, i labbri
Verecondi di mille, a cui non note
Son le vie del peccato, amaramente
Fecero il ghigno; e da quei labbri il nome
D’Edmenegarda si gittò nei crocchi,
Senza vergogna; e fu divelto a brani
Con maligna pietà dalle opulente
Peccatrici, che menano a trionfo
La tolleranza del codardo sposo.
E se qualche pudica anima ai casi
Sospirò miserata, ebbe il dileggio;
E fin si diede a quel gentil compianto,
Con demente rigor, la scellerata
Nominanza di colpa!
Ed or che il nappo
Ella finì sino alla feccia, il mondo,
Pietoso o stanco, l’obliò!…
– Che importa,
Se precipita un’alma e senza madre
Gemon due figli e pesa il vitupero
Dove rise la gioia? Ordine è questo
Di natura e dei fati! —
Or esce appena
Qualche rea celia, a ricordar la nuova
Ospite di Leoni.
Egli da canto
Caramente le siede:
«– Alza la fronte,
Ti consola, amor mio! Su quel feroce
Si scagliarono tutti. E se anco l’ira
Ti ferisse de’ tristi, io la divido
Con te, dolce amor mio! Tu la mia vita,
Tu la mia gioia; tu di me possiedi
Il giocondo avvenir. Come esser puote
Se non giocondo?… Che ci cal di questa
Così ampia terra? Anco in angusto asilo
Amor compone il paradiso!… Io tanto
T’amerò e tanto, che potrai, (lo spero!)
Dimenticare il doloroso sogno
Del tuo passato!…»
«Oh! mio Leoni…»
«Arresta —
Non turbarti, non piangere!… E se d’uopo
N’hai veramente, non badarmi; e piega
Qui la tua testa, poveretta, e piangi!…
Merto ben io che mi trafigga il dardo
De’ tuoi dolori!!» —
Edmenegarda il capo
Riscosse alquanto, e con più lunga stretta
Serrò Leoni tra le braccia:
– «Amico!…
Vedi se i giorni del patir son giunti!…
Io tel diceva!… Ma tu sempre meco
Resterai, non è ver?… Tu questa mia
Misera vita non vorrai coperta
Di più dure vergogne. Io farò forza
Per oblïar; per non ti dar mai segno
Che ti contristi!… Ma se tu mi vedi
Sospirar qualche volta… oh! non dolerti,
Te ne prego a man giunte… Io già non penso
Che a’ miei poveri figli!…»
«Angelo amato!
Perchè dirmi così?… Pria che una sola
Lieve pena costarti, io mille volte
Vorrei morir!… Ma tu… mi amerai sempre?»
«– Sin che il cor batterà. Deh così presto
Questa febbre mortal non mi consumi!»
«– Sei ben crudele, Edmenegarda!»
«Oh ridi,
Leoni mio. Ma… così piena ho l’alma
Di tanti sogni! Ed un di loro è bello;
E mi par che s’avveri; e già lo sento
Nell’esser teco!»
«E lo sarai, diletta
Compagna mia, nel dì dell’allegrezza,
Lo sarai nel dolor!…»
«Taci! Assopite
Reminiscenze tu nel cor mi desti.
Non sono ancor molto lontani i tempi,
Ch’ei così mi parlava!…»
«Or via, se m’ami,
Tu dèi lo spirto allontanar da queste
Sconsolate memorie. Odi la brezza
Che via pei flutti vagolando spira?…
Vieni a goderla.»
«Il tuo voler m’è caro,
Caro più d’ogni ben che un dì mi avesse
Potuto dar la terra!» —
E lungamente
Favellaron coi baci, entro la bruna
Lor navicella errando.
In quella sera
Fu giocondo spettacolo a vedersi
Agili gondolette, una sull’altra
Scivolanti alla corsa, e un muover chiuso,
Come di campo, e un dar vario ne’ remi,
E un urtar nelle prue con meditata
Frode leggiadra, e poi tutte svagarsi,
Come nere isolette, in seno all’acque,
E seguitarle de’ nocchieri il canto.
Ma in quella gaia compagnia, la loro
Gondoletta non venne. E tu la miri
Colaggiù, solitaria, in lontananza,
Abbandonarsi alla balìa del vento,
Come svïato pellegrin che pianga
Per lo deserto.
In quelle cento prore
L’aperta gioia sfolgorò. Qui siede
Il dolor e l’amor, fiori di tempra
Passionata e gentil, che cercan sempre
Gioie romite.
E quando quella turba
Di navicelle, dai percossi flutti,
Una ad una, scomparvero, a misura
Che il ciel più sempre si vestìa di stelle,
Quel remoto battel venne alla riva.
I languidi occhi Edmenegarda spinse
Dietro la folla che dai curvi ponti
Diradata calando, iva in dileguo.
E sgombero di genti era già il lido…
Se togli un uom, che si tenea per mano
Due fanciulletti, con le fronti chine
E vestiti a gramaglia.
Ahi, che parola
Di tremendi dolori, indossar lutto
Di persona vivente!!
Ella conobbe
L’anime offese, e serpeggiar la morte
Sentì nel cor; ma si contenne. E volti
Gli occhi sul mare, al suo tacito amico:
«Come è bello, dicea, questo lucente
Solco, che sotto all’agitar dei remi,
Qual per magica verga, esce dall’acque!»
Così volaro i tempi. E le congiunte
Anime solitarie, come due
Rondini amanti che fuggir dal falco,
Guardavano il lor nido, allontanate
Dalla guerra del mondo.
Edmenegarda,
Dopo lagrime lunghe, e procellose
Preci, e torbide gioie, e rivocati
Proponimenti, e divorar con fiero
Sforzo quell’onda di martìri, e pace
Dimandar dalla morte, e sul futuro
Spinger ratto la mente e poi ritrarla
Impäurita, e desïar che tutte
Precipitasser le create cose,
E due spiriti soli issero erranti
Sulle vaste ruine… alfin quetossi
La desolata e stanca in quel fallace
Sonno d’amore.
O Amor! come trasmodi
Nostra natura, e dentro v’intenèbri
La scintilla di Dio.
Velo d’inganni
Tesse prima il rimorso; e il cor s’avvede,
Ma, pago d’ingannarsi, il cor non bada;
O se vi bada, di badarvi ha sdegno;
E, poco a poco, il misero costume
Rende l’inganno a verità simìle.
Come fu? Come avvenne?… Indarno il chiedi.
Stanco s’addorme il bambinel tra i fiori,
E si risveglia col velen nell’ossa.
E così fu di lei, buona già tanto!
Credette pria; poi dubitò; poi disse:
«Non è ver, non è ver! – Qual fede io ruppi?
Su quale altare io lo giurai? Qual Dio
Presiedette al mio giuro? Esser non puote
Che un monarca sì grande oda ogni vano
Bisbigliar de’ mortali. Un re sì giusto
Esser non può che a servitù condanni
Questo fuoco d’amor, che da lui parte
Libero tanto ed è movenza e luce
Del suo creato! L’avvenir?… Chi ‘l vede?
Chi può giurar sull’avvenir?… Chi giura
S’ei domani vivrà? Se questo sole
Splenderà sulla terra? Ama la tigre
Il suo compagno; ma se amor la volge
Naturalmente ad altre gioie, è stolto
Chi ne la incolpa. E l’uom misero ardisce
Emendar la natura? Ama il selvaggio
La donna sua; ma talamo è la rupe,
Talamo il lido ai non vietati amplessi,
Che fan forte l’amore. E senza lacci
Sono i turbini e l’onde. E chi le doma
Starà sempre in catene?… Oh è ben scaduta
Questa di belve incivilita plebe!»
Lette in infauste pagine, e dai labbri
Del suo Leoni mille volte udite,
Tai cose ed altre a sé dicea la donna.
Non qual chi pensa in sicurezza il vero,
Ma qual chi tenta, con la mente ardita,
Suadere al cor che ogni paura è tolta.
E non sapea che quell’incerto moto,
Quel senso vago, quella nube arcana,
Che le errava sull’alma, era il più grande
De’ mortali spaventi, era l’occulto
Sentimento di Dio.
Fu di Leoni
Così cortese, delicato, intenso,
Previdente l’amor, che al caro volto
Rifioriron le rose, e un novo raggio
Vestì gli occhi diletti; e le rivenne
Desiderio dei fior.
Furono in breve
Quelle stanze un profumo, una celeste
Musica di colori, un inusato
Tesor di pompe. E qua serici drappi
E lucenti ottomane, e sulla terra
Morbide pelli a render muto il passo;
E sulle mura le dipinte imprese
Di dame e cavalieri; e di Gulnara
Sulle ginocchia del Corsaro il pianto,
E il bel crociato che in un roseo nembo
All’amoroso susurrar dei rivi
Bacia i grandi e lascivi occhi d’Armida;
E pendule dall’alto a mezzaluna
Lampade vaghe a illuminar le mense,
E argentei vasi, e d’alabastro e d’oro
Splendide conche, e bei volumi e fiori
Sparsi, confusi, ondoleggianti… e un molle
Aere indistinto, una fragranza intorno,
Un’armonia da rinnovar l’Eliso.
Fra tanti vaghi e graziosi aspetti
Ella felice si credea. Ma sempre
Quella nube fuggevole, quel moto
Misterioso, che la fea per forza,
Tornar crucciata sui passati tempi.
Indi l’acre piacer dell’adornarsi
Le rïassalse il cor.
Donna, per quanto
Scaduta sia dalla sua bella altezza,
Anco nell’onda di cocenti affetti,
Serba sempre un amor per la sua veste.
Fors’è quel senso di pudico orgoglio,
Che le insegna onorar la più gentile
Delle create cose.
Il desir novo
Indovinò Leoni; e benedette
Fur le ricchezze dal felice amante.
E ondosi drappi e gonne agili e bianche,
Come piuma di cigno, e argentei veli
E malinesi e batavi trapunti,
E lane arabe e perse, e nastri e gemme,
A ornar le trecce d’ebano e i nitenti
Omeri e il collo e le nudate braccia,
Tutto, qual per incanto, a sé davanti
Vide la bella fata; e il cor di donna
Con precipiti palpiti battea.
Ma non molto durò; chè come piombo
Le pesâr quelle vesti, e interrogarne
Il perchè non ardiva.
Una rancura
Vigile sempre nel profondo petto
La tormentava, la scotea dall’ebro
Assopimento: le dicea:
– Tu dormi,
Ma teco io sono!
Edmenegarda fece
Per non udir quell’importuno grido.
Ma, qual punta di dardo in piaga viva,
Ei riveniva.
Disperata pianse,
Meditò, corrucciossi, e forza a forza
Apertamente oppose.
– «Hai ben ragione,
Leoni mio. Noiosa è questa vita
Di servitù, chiusi dall’onde. Io stessa,
Che vivrei teco ne’ deserti, or sento
Che dritto n’hai, se la disami. Eguali
Qui gli strepiti, sempre egual la pace;
Gondole eterne e gondolieri e ciance.
Mai quell’ampio e vibrato aere, quel sole
Che non si franga dalle pietre in fiamma;
Mai quel vario veder, quell’agitato
Scalpitio de’ cavalli e quel de’ campi
Dolce tumulto; mai quelle segrete
Melodie che fa l’ôra in tra le fronde;
Né un fil d’erba, né un fior, né una dolce ombra,
Che queti il cuore! E non poter da un cocchio
Splender coll’uom che s’ama; o sulla sponda
Seder d’un rivo e udir per la pianura
Limpidi canti, e nella folta siepe
Il rosignol che piange! In mezzo all’acque
Morrebbe certo l’amator gentile!…
Oh la terra! la terra!… Ai primi padri
Già non fur le pesanti onde marine
Prima stanza d’amore!»
«E non tel dissi,
Edmenegarda mia, che ti verrebbe
Questo vivere a noia? Esserti caro
Quel che a me spiace?… Hai detto ben. La terra,
La terra è stanza dell’amor; non questa
Prigion dell’onde. Cresce, nel sonante
Tumultuar, la vita. A questo pigro
Nido di pesci abbandoniam le stolte
Anime di costor. La non curanza
Con lo spregio si paghi. Edmenegarda!…
Alla terra, alla terra!
«O mio Leoni,
Mi batte il cor di questa ebbrezza!… » —
Han d’uopo
Quei due miseri ormai del tempestoso
Romoreggiar del mondo!
E un agil cocchio,
Tratto in balìa di palafreni ardenti,
Per le città, tra il sonito e la polve,
Già li rapisce; e invidiata splende
La bellissima donna. E or le vetuste
Vie d’Antenore varca; e tu la miri
Seder superba e sfolgorante in quelle
Marmoree maraviglie, onde ai futuri
Inclito andrà del mio Japelli il nome.
Or su i berici colli, in mezzo a tanta
Allegrezza di verde, alle rugiade
Mescon dell’alba i solitari amplessi;
Or volano al beato Adige in riva,
E tra i penduli salci, ove s’estinse
L’armonia di Catullo, un molle accordo
Par che ai lor baci tuttavia risponda.
Poi de’ piani lombardi e delle valli
Cercarono il sereno aere, e la ricca
Popolosa città.
Ma il gelsomino
Sotto i vampi del sol, senza una fresca
Ala di vento che lo irrori, a terra
Debbe un giorno languir!
Sai tu le gioie
Amare e forti della bella figlia
Del Caramano, nei dipinti arémi?…
Oggi il fervido sir preme sul petto;
Pensieroso diman vede il monarca,
E sente il peso delle sue catene.
Un dì, regno sull’alma. Indi è procella
Di tetro amor – di voluttà – di sdegno —
Di fastidio – d’oblio – di rinascenti
Gioie – con vano ritornar sui tempi
Che più non sono.
Di Leoni è fatto
Nebbioso il cor. Qualche benigno accento,
Qualche cura gentil, qualche soave
Sorriso vi splendea, come una queta
Ma fuggitiva luce. Il resto è lampo,
Che vien coll’oragano a illuminarne
Gli schianti e la ruina.
O Edmenegarda,
Che cor fu il tuo – quell’amator sì umano
E caldo e mansueto or lo veggendo
Così diverso!
Gli favella?… È un dono
Inaspettato, s’ei la man le stringe,
O sorridendo le ricambia il detto. —
Gli si pone d’appresso? Ei sfoglia un libro
Sbadatamente e legge. Osa mostrargli
Qualche rancor? S’infuria; e le fa pieni
Gli occhi di pianto. Allor, come accorato,
La vien baciando; e un vivo sol repente
Le si spande nel volto, e muta in perle
Quelle rugiade del dolor.
Ma il crudo
Velen della memoria ogni conforto
D’amarezza le tinge; e più non sente
Edmenegarda, come pria, quei caldi
Impeti passionati, e l’indiviso
Nuvol dell’alma le si fa più tetro.
Aridi i fior, l’aria pesante, ingrato,
Dispettoso il tumulto, aspra la vista
Delle cose e dell’uom, torbidi i giorni,
Trangosciate le notti… e il suo compagno
Non curarsi e tacer! Questa è la spina
Più sanguinosa.
Il forvïato tralcio
Trova un olmo, e s’appoggia. Ahi! se quell’olmo
Stanco sarà di sostenerlo!…
«Oh Arrigo!…
Oh miei poveri figli! Oh mia perduta
Casa! Oh speranze della vita infrante!»
E profondo gemea. Ma nella voce
Del suo Leoni un refrigerio ancora
Sapea trovar.
Necessità od affetto,
Gli era avvinta e bastava. Anzi, in quell’alma,
Necessità ed affetto, onta e rimorso,
Pentimento e peccato era una cosa.
«Ahi, son fiere amarezze! Ecco il fedele
Prometter suo! sola mi lascia. E quando
Alta è la notte, io pallido mel veggio
Comparir, non so donde. E fa risposta
Alle parole mie con disdegnosi
Gesti, o muti sospiri, o vïolento
Suon di dolcezza… e d’ingannarmi ei crede.
Mio Dio! quanto mutato! Oh s’io sapessi
Quel ch’ei cela nel cor! Gli tedian forse
Queste rive del Garda?… O ch’io gli costo
Qualche grave pensier?…»
Sì fatte cose
Tra sé volgendo, abbandonò le stanze,
Nel giardin si recò.
Pallidamente
In grembo alle argentate acque del lago
Lucea la luna. Era diffuso il cielo.
Placida l’ôra si movea tra i rami;
E d’un novo color, sotto le stelle,
Si vestivano i fiori. Entro un cespuglio
La gentil capinera innamorata
Modulava le sue dolci canzoni.
Or sì or no, tra il folto delle piante,
Qualche lucciola intorno iva raggiando.
E vivo e terso, come argentea zona,
Mettendo un soffio di sottil frescura,
Luccicava tra l’erbe un fiumicello.
E, a compir quella pace, il caro e mesto
Suon della sera si spandea dagli alti
Campanili del Sirmio; e in una sola
Armonia fervorosa, a mille a mille,
Salir limpide voci; e cielo e terra
Pareano intesi a quel sublime accento:
«Santa Madre di Dio, prega per noi!»
Sola, non vista, in un segreto calle
Di quel giardino, la colpevol donna,
Compreso il cor d’un subito ribrezzo,
Incurvò le ginocchia, e, giunte in croce
Le ceree mani, sovra cui profuse
Giù cadevan le lagrime del volto,
Lungamente pregò.
Furon parole
Rotte, confuse, inebrïate, amare;
Furon moti e singulti.
Alfin la prece
Le uscì lucida e calda. Era pei figli
E insegnata dal core:
«O santa Madre
Dei dolorosi, non a me guardate,
Non a me, così rea! Ma i tribolati,
Ma gli innocenti, gli orfani son vostri!
Per le piaghe di Lui, che vi amò tanto,
Proteggeteli sempre. E se una volta
Sapran di me, che li lasciai nel mondo
Sì crudelmente, oh! fateli benigni
A questa loro travïata e trista,
Che aspetta pace dalla morte.»
E china
Ad un salcio la fronte e sotto i raggi
Mesti del ciel, pareva un decaduto
Spirito che pensasse al paradiso,
Quando più pesa la crudel memoria
Del commesso peccato.
Un’orma suona —
Si disperde – s’approssima – s’aggira
Pei torti calli – si raccosta – È lui.
– «Ma che fate voi là, stesa sull’erbe
Umide della notte?… Or via; sorgete.
Quel non è loco da pregar. Dimani
Torneremo a Venezia. Avrete cento
E mille chiese eternamente aperte,
Per stancar questo Dio.»
«Taci, Leoni…
Ma che ti feci io mai?… Forse gioisci
Di vedermi tremar?… Dillo una volta;
Che ti turba così?…»
«Nulla.» —
Da un cespo
Ella colse due gigli; ed un lo pose
Con umil vezzo al suo Leoni in petto.
Ma quei senza badar, foglia per foglia,
Lo stracciò con le labbra; e il nudo stelo
Lasciò cadersi, sospirando. Anch’essa,
A quella vista, il suo bel fior distrusse,
Con riboccante d’amarezza il seno,
E nessun più parlò.
Che lungo sogno
Quella notte la assalse!
In pria, da lunge,
Come in vaghi ricordi, una dimora
Nota le apparve, e due giovani amanti
E due vispi fanciulli avvicendarsi
Baci e carezze di celeste affetto.
Indi una barca, uno smaniglio infranto.
E colpevoli fremiti e fulminee
Voci dai labbri d’un fantasma uscite.
Poi mutò quella scena. E patimenti
Lunghi intravide, e care cortesie,
E ritorni alla vita, e ricambiati
Baci d’amor; ma tra quei baci un ghigno
Che le scagliava senza posa il mondo.
E ancor novi fantasmi. E il fragoroso
Suonar d’un cocchio; e nell’obliqua fuga
Città, ville, castella e colli e monti
E pianure e torrenti. Alto un tripudio
Di cacce e prandi; libera una pompa
Alle danze, alle corse; e in quella vita,
Che parea venturosa, il verme arcano
A corroderla sempre. Uno spavento
Fea trabalzar sulle agitate piume
La sognatrice; ma durava il sogno,
Che del futuro le squarciò il velame.
E sotto al raggio d’un fanal notturno,
Cinto di bari, in una cava oscura,
Scoperse un uomo (e le parea Leoni)
Gittar convulso l’ultima moneta
Sopra una carta; e stringere le pugna,
Bianco dall’ira; e bestemmiar la sorte
E giurar contro Dio.
Mise ella un grido,
Ma non seppe destarsi. E quella stanza
Maledetta fuggìa. Ma un’ampia landa
Le si pose davanti; e misurarla
Vedea quell’uomo a giganteschi passi,
E lunge lunge, oltre i morenti lembi,
Onde si distendeano, onde ed altre onde,
Senza riposo. E una raminga prora,
Come penna di corvo entro alle nebbie,
In quelle vaporose indefinite
Lontananze del mar si disperdea.
Trambasciata, sudante, ella si scosse.
Aperse gli occhi, le rivenne il senso;
Sul cor tremante delle viste cose
Ne passaron mill’altre; un gel la strinse;
E disperatamente, tra le coltri
Chiusa la testa, più pensier non ebbe.
Taciti e soli, sul venir dell’alba,
Mosser dai campi alle natie lagune.
Rifecer quelle vie senza parola;
Risolcaron quell’acque.
Egual rimasta
Era la terra. Eguale il mar. Partiti
Eran col riso dell’april; col riso
Dell’april ritornavano. Ma il core?
Ah! sui campi del core a disertarli
Era passato il vento della morte.
Quel riveder, risalutar gli alberghi
Consci di tante voluttà segrete,
Ben fu com’aura, che vagasse intorno,
Cercando i fiori dell’eliso antico.
Ma non trovò che nude alighe e pruni,
E dileguò, gemendo.
Alfin dei tempi
Destinati da Dio l’ora è suonata.
Leoni ha risoluto. Aspre le pugne,
Fieri i tumulti, amaramente mista
La vergogna al dolor, morto il passato,
L’avvenir senza speme, e messi in fondo
Il nome e la fortuna, ha risoluto.
Strascinerà vituperato i giorni,
Sotto altro ciel.
Più volte quel codardo
Meditò di morir. Ma amor lo vinse
Della misera creta ond’era cinto,
Non terror del misfatto; e ruppe il ferro.
Non fugge infamia. Dell’infamia il nome
Sol può mutar.
«La stolta ira del mondo
Mi percota. Che importa?… Non è campo
Tra noi per misurarci. Ahi! la perduta
Giovinezza del cor! Questa è la spada
Che ferisce profondo. E i lieti giorni
Non potran più rinascere… Ed io solo
Fui, che li uccisi!… Ed altre vite, ed altri
Estinti amori: e lacerato il nodo
D’anime mansuete… e la materna
Felicità d’un angelo!… Ah, la morte,
Ch’io non so darmi, saria pur pietosa,
Se mi venisse a liberar da queste
Dure battaglie! Ancor quest’oggi il pane…
Ancor quest’oggi. E poi?… No, no. Sull’onde
Getterò la mia vita. Io più non voglio
Ascoltar quella voce. È orrenda cosa
Ascoltar la sua voce! Oh le tempeste
Inghiottir mi potessero!… L’Eterno
Benedirei. Leoni! anco un istante,
E poi… lunge per sempre.»
Era soletta
Su un veron del palagio Edmenegarda
Co’ suoi mille pensier; torbidi, incerti,
Rapidi, intensi, paventosi, amari;
E, tra quelli, un occulto, un ostinato
Presentimento… ma di tal sventura,
Che nome non avea nella sua mente,
E già stavale in cor.
«Dio degli afflitti!
Non sia ver, non sia ver!»
Morta la luce
Era d’intorno. Ribattevan l’ore
Dalle squille notturne. Ella un acuto
Strido mandò – ché un rumor lieve intese;
E lieve un bacio le sfiorò le chiome.
Vede un’ombra; poi nulla. Intorno getta
Gli occhi smarriti; nulla. A fievol voce
Chiama Leoni; ma nessun risponde.
Era sogno?… Nol sa. Vero?… Ella sente
Sul capo ancora il gel di quelle labbra
Che la baciaro. In sé tutta si stringe
Impäurita; un orrido deserto
Par che la cinga… e il cor le si discioglie,
A groppo a groppo, in un dirotto pianto.
Quante cose in quel punto ella si disse!
Quante più ne pensò! Non è linguaggio,
Non è forma o color che le dipinga.
S’incrociano; si sciolgono; van ratte;
Rivengono più ratte entro la mente
Disperata e confusa; e, in geli e vampe
Tramutandosi, assalgono gli abissi
Miserandi dell’alma, ove al fin regna
In solitaria e paurosa notte
L’insensato dolor. Fûr pochi istanti;
Ma tremendi, ineffabili, nascosi
A umana idea. Traverso a quello spirto
Errava ancora un negro insuperabile
Turbine di memorie, e di pensieri.
Poi languiron le forze della vita;
E sui guanciali in un sopor profondo
Piombò.
Da quel sopor chi ne la desta?
Chi la riscote? – Non è lui. – Lo guarda…
Ma non è lui. Si risovvien di tutto.
Quegli un amico è di Leoni, e sorge;
«E’ dov’è, grida: ditelo! Non monta:
Lo sapea da gran tempo. Or via: parole,
Non sospiri; parole vi dimando!
Non mi fate morir!…»
«Egli vi lascia
Per mia bocca un addio. Di perdonargli
I patiti dolori ei vi scongiura;
E così solo e povero… veleggia
Verso la Francia!»
La misera donna
Soffocò un urlo; e rassegnata al cielo
Alzò le mani, e non avea parole
Altre che queste:
«Il meritai! Doveva
Esser così. Sotto il giudicio vostro
Io m’inchino, o Signor. Contro vi venni,
Mal nata polve, e voi saliste in ira
E m’avete percossa…
Il meritai!»
CANTO QUINTO
Deh, venitemi intorno, estri gentili
Della terra del Sol, dalle gioconde
Belle odalische, voluttà promessa
Del paradiso; e freman le ricurve
Arpe, miste al romor delle fontane
Correnti in letto di corallo e perle;
E della mesta Rosellana al canto
Dall’ardue torri lo stambùl risponda,
Mentre scherzano i silfi entro al fogliame
Delle mistiche palme, e i flessüosi
Giovinetti rosai dell’Ellesponto
Levano un nembo di celesti odori!
Deh, venitemi intorno, innamorate
Fantasie di quei cieli, a consolarmi
La mente e il carme, per sì lungo pondo
Di dolor contristati!
Io così prego,
Ma renitenti alle invocate gioie
Non rispondon le corde, e dalla triste
Anima il vivo imaginar dilegua.
Alla fuggente prora apresi il mare.
Così fuggisser le memorie infami
Che lasciasti o Leoni, avvinte al lido!
Altri, cui tocca la pietà profonda
Della misera donna, a te daranno
Di tristissimo il nome; altri, cui l’uso
D’abbandonar necessità crudele
Fe’ parer l’abbandono, un motto appena
Sibileran dai labbri, e sarà incerto
Se sia pietate o scherno, o indifferente
Rumor di voce che col vento passa:
Pochi dal cor sospireran tacendo,
Pochi tremanti della propria polve,
Che il giudicio dell’uom lasciano a Dio.
Quando si seppe di quel novo caso,
Misto a vili racconti, onde sul capo
D’Edmenegarda ripiombâr gli oltraggi,
In ferite s’aperse, e grondò sangue
L’anima altera, affettüosa e degna
Di quel misero Arrigo.
Egli tradito,
Privo per lei delle più sante gioie
Che dispensa la vita, accompagnato
Da perenni vergogne, egli l’amava…
Ancor l’amava! Era la sua fanciulla,
Vista sì bella sulle consce rive
Del Tagliamento; era la dolce amica
Del segreto suo talamo; la madre
Di quei due fanciulletti, ultimo bene
Ch’egli avesse nel mondo; or così sola,
Così deserta, e misera, e percossa
Dalla terra e da Dio!…
Battea d’acerba
Gioia e d’orrido affanno il cor d’Arrigo
Confusamente, e prorompea;
«Son giunti
Questi giorni una volta! Edmenegarda,
Li volesti; e son giunti; e non è dritto
Che nessun te li tolga. Il lutto e l’onta
Nella mia casa hai seminato; or cogli,
Cogli, ché è tuo, di quella dura pianta
Il durissimo frutto. Oh pienamente
Vendicato son io; ma troppo, ahi! costa
Quest’amara vendetta. E chi sa come,
Come, adesso, ai fuggiti anni ella pensa!
Quante lacrime sparge; ed una mano
Non aver che le terga, ed una voce
Non udir che la chiami e la consoli!
Povera infortunata!… Io, che dovrei
Maledirti, oblïarti, io sento il peso
De’ tuoi dolori, io solo! Oh questo pianto,
Che frenai da gran tempo, uopo è che scorra.
Così bastasse!»
E in furïosi e torvi
Pensamenti quel suo spirito errava
Dietro al vil fuggitivo; ed arrivarlo
Avria voluto, e dirgli: Hai lacerato
La vita mia; quel vago fior m’hai tolto,
L’hai lasciato languir – perfido! – rendi
Conto col sangue.
E l’aspre alle dolenti
Cose mescendo, rasciugava gli occhi,
Che tornavan per forza a inumidirsi,
E divorava i fremiti, e in disparte
Torceva il capo. E que’ suoi due angioletti,
Quasi con senso di pietà celeste,
Senza parole, gli piangean da lato.
Ma una più tetra e desolata stanza,
E ben diversa dal palagio antico,
D’ombre s’avvolge, e da quell’ombre un cupo
Gemito insorge, e in una febbre ardente
Trangoscia un core che morir non puote.
E tra due mani discarnate e stanche
Langue il lavoro, sovra cui s’incurva
La debil vita a guadagnarsi il pane.
O Edmenegarda in così verde etade,
Ormai per te sì miserabil fatta,
Che la stessa Pietà non ha più accento
Per consolarti! Orribili pensieri
Ti si volgono in mente, e a quando a quando
Incapace ti senti a soggiogarli:
Sì turbinosi assalgono.
Infelice!
Da quell’orlo sacrilego rimovi
Gli ammalïati sguardi. All’acre punta
Di quel pugnal non accostarti. Il nappo,
Che cercavi di mescere, percoti
Alla parete; ché dei tanti falli
Sepolcro infame una viltà non sia.
Ed ella veramente era tentata
Di finir quegli spasimi. Ma il forte
Pensier de’ figli, e una continua speme
Che il digiuno e la febbre avria consunto
Quelle estreme reliquie, e il provvidente
Terror di Dio nel comparirgli innanzi
Così com’era; e non chiamata; – un freno
Posero a quella bramosia di morte.
Ma per quanto ella di pregar tentasse,
Più pregar non sapeva. Era la sua
Vita un torbido mar corso dai nembi
Senza un filo di luce.
A lui pensava,
Che credea d’obblïar; pensava a un altro
Che obblïar non poteva; e con veloce
Ricordanza crudele e detti e sguardi
Ricomponendo, e patimenti e gioie,
Stupida e lassa al suo lavor tornava.
Degli aurei fregi e delle ricche vesti
Non possedea più nulla: in sacrificio
Lieto le offerse, a liberar le fedi
Da Leoni tradite. E dopo tanto
E sì intenso patir, – venne quel giorno
Aspettato e terribile, che all’opra
Cadder le membra, e il cibo che non manca
Al più mendico – le mancò. Soccorsi
Limosinar dal mondo? Oh! pria di farlo
Era meglio morir. Morir non era
La gioia sua?…
Ma la mordente fame
Vinse i fieri proposti; e ripensando
Che del molto fallir pena e riscatto
Esser potea la vita, ella ne volle
Trangugiar l’amarezza insino al fondo;
E, offenditrice, il pan del pentimento
Dimandar dall’offeso.
«Alle sue soglie
Ben mi sta ch’io ritorni: ei così smunta
Mi vedrà!… così debole!… alla terra
Curvata e supplicante! – Io fui la dolce
Compagna sua! Gli parlerò d’un tempo,
Ai nostri cuori memorabil troppo.
Non dirò nulla; piangerò. Che importa,
Se quel mio Arrigo io non potrò guardarlo?…
Parole acerbe ei mi dirà! – ma al prezzo
Di risparmiar nuovi peccati – il pane
Non vorrà rifiutarmi. Io non gli chiedo
Altro che il pane!»
Alla più dura croce
Oggi la miseranda anima è posta.
Ben merita, o Signor, quando ella giunga
Nel tuo cospetto, che coi tanti giorni
Di spavento e di colpa, anche quest’ora
Ella trovi notata.
In ampio velo
Chiuse la fronte, e con gli sguardi a terra
Sforzatamente a quella volta mosse.
Dopo quattr’anni ripassò per vie
Non obbliate! da lontan scoperse
Quella dimora! – entrò per quella soglia!
Quelle mura conobbe! Ad ogni sguardo
Una fiera memoria; ad ogni passo
Un sorvenire, un assalir d’affetti;
Un acceso disordine; un tumulto
Vertiginoso. Entrata era felice;
N’uscìa reietta; vi tornava quasi
Moribonda di fame. Il cor materno
Si dilatava, si stringea, spirando
L’aura spirata da’ suoi dolci figli;
E così a stento, finalmente venne
Alle stanze d’Arrigo.
In fondo egli era,
Solo e pensoso. Alzò gli sguardi e vide…
E credea d’ingannarsi; e in piè balzando,
Un tremito contenne, immobil stette.
E la guardò.
La misera prostrata
Gli era davanti ad aspettar.
– «Chi siete?…
Che cercate da me?»
Levò tremando
Edmenegarda la consunta faccia,
E – «Guardatemi! disse. Un dolce nome
Io portava una volta; a voi dinanzi
Più recar nol poss’io… Ma ho fame, Arrigo!…
Sì, guardatemi!… ho fame!»
«Ah! che i sepolti
Non han più desiderii; ed è gran tempo
Ch’ella è sotterra, e disertati e soli
Qui restiam noi. Vedete quelle stanze?
Là mi venne rapito, ahi! così presto
Quel mio tenero fiore. E questi cari
Li vedete? – appressatevi, infelici
Orfani miei!» —
La disperata madre
Stese le braccia; ma li strinse Arrigo
Forte sul petto, come per salvarli
Da quell’amplesso.
– «Sono miei! Non sono
D’altri che miei! Partitevi: alle vostre
Gioie fate ritorno… e non turbate
Questa dimora ove obblïar si tenta.» —
Così dicendo, e accortosi che i figli
Eran vicini a rannodar le sparse
Reminiscenze dell’amato aspetto,
Li strappò seco; e si perdea nel vuoto
Aere il romor dei concitati passi.
Quella larva s’alzò; segno non fece,
Non proferse parola; uscì più ratta,
Qual s’ella avesse il suo vigore antico.
Gelido un riso le movea dai labbri;
Sotto l’urto precipite del sangue
Non vedea più le cose; – e camminava
Camminava convulsa e strascinata
Da un’orribile idea.
Vide una striscia
D’acque terse e lucenti. Era il canale;
La meta sua. Con un’ebbrezza intensa
Girò lo sguardo; misurò quell’acque;
Doppiò le forze; si cacciò sull’orlo;
V’inarcò la persona… e già il mortale
Tratto mancava. – Quando, ai disperati
Occhi una luce balenò; dischiusa
Vede una bianca soglia; ode un soave
Salmodïar di voci; un infinito
Scoramento la vince; una speranza
Vien come lampo; quel disegno orrendo
Torna, cede, rincalza, è dileguato! —
Inneggiate, o celesti! Ella è nel tempio
Col suo dolce Pastor l’agna perduta;
Rifiutata dal mondo, ella è raccolta
Nelle braccia di Dio.
Godi, infelice,
Questo bene supremo. Ogni vivente
Ch’oggi stolto scendesse a contristarti,
Senza misura irriterìa l’Eterno. —
E là, dinanzi al più remoto altare,
Non turbata pregò; pregò pei figli,
Per Arrigo, per sé, per quel ramingo
Ch’era lunge, per tutti; e non potendo
Quel ramingo scordar, chiedea dal cielo
Che gli dèsse fortuna; indi pentita,
Il periglio sentia di quella prece;
E pensando ad Arrigo, in sé chiudendo
Qualche rancor pel rifiutato pane,
Non finiva di piangere – e col pianto
Dimandava che Dio le perdonasse.
Indi, tornata alle deserte case,
Trovò dell’oro. Il generoso ignoto,
Arrossendo, conobbe.
«Or dunque estinta
Son io per lui, senza riparo?… Estinta
Sarò per tutti.»
Ma venìa frequente
Quell’amor tenebroso a conturbarla,
E pensava al lontano – e aver novelle
Pregava sempre – e sempre era delusa.
Più sperar non volea; dopo un istante
Ritornava a sperar.
– Misera! acqueta
La tormentata anima tua; da lui,
Se ti è concesso, ogni pensier distogli.
Amor che nasce e si matura in colpa,
Che col rimorso e col terror s’annoda,
Senza voto né legge, infausto fiore
Lungamente non dura. Aprir le foglie
Alla vampa del sol, chiuderle ai baci
Rugiadosi dell’alba, abbandonarle
Non vigilate ai venti – ed una sera
Inchinarsi e morire, ecco la sorte
Di quell’infausto fiore.
Egli – il cui nome
T’è rimprovero al cor – d’ogni allegrezza
Essiccate ha le fonti, e intensi amori
Più custodir non puote. Egli oggi obblia
Quel che ieri adorava, ed oggi adora
Quel che domani obblïerà.
Malvagia
E steril landa è di costor la vita.
Solitari la passano; e l’estrema
Necessità di morte li sorprende
Nudi d’affetto; e non han figli, o sposa,
Non un caro superstite, che doni
Lagrimando alle fredde ossa una croce!
Edmenegarda umilïar la fronte
Tra le genti non seppe. E se talvolta
Qualche compagna dei giocondi tempi
Spïò da lunge, in altra parte mosse
Delicata e superba.
Uscian le turbe
Agli allegri tumulti? – Ella nell’orto
Restava, ore con ore, contemplando
Una vïola del pensier, diletto
Fiorellin ad Arrigo. O di feroci
Note di sdegno o d’armonie d’amore
Sonavano i teatri? – Ella con mesta
Voce sommessa modulava un canto,
Che ad altri tempi in calda estasi Arrigo,
Arrigo suo rapì. Poi quando i raggi
Languian nell’occidente, e qualche stella
Scintillava nel ciel, sulla solinga
Finestretta venia guardando al mare;
Perchè ogni sera alla medesim’ora
Una barca radea l’eremo lido,
Non a’ suoi dolorosi occhi straniera.
Ella da lunge la vedea sull’acque
Avvicinarsi; le tremava il core;
Le rivolgea qualche romito accento;
La seguìa sospirando; insin che il breve
Suo fanaletto si perdea tra l’ombre.
Un dì, scendendo a visitar nell’orto
Quella vïola del pensier… curvata
Sul tenue gambo e pallida la vide
Presso a esalare i moribondi incensi
Nell’etere materno. Anche quel caro
Memore fior languiva! Al vedovato
Vasellino lo tolse, in cor pensando
Di lasciarlo cader sull’aspettata
Navicella fuggente.
«Oh tu, pietoso
Messaggio almen, sulla corolla estinta
Recherai loro questi caldi baci!»
Aspettando ella sta. Che roseo sogno
Le si dipinge nel pensier! – Non sempre
Volgon dure le sorti, e il duolo in parte
Fu riscatto alle colpe, e la memoria
Di quel lontan si discolora e passa.
Chi sa che un giorno la pietà non parli
All’anima d’Arrigo, ed ei non voglia
Dimenticar, – e le rïapra il seno,
E monda dalle lacrime la chiami
Novellamente sua! Dio che perdona
Più che l’uom non fallisca, eternamente
Lascerà l’odio nella sua fattura?
Aspettando ella sta. L’acume intende
Delle pupille ad esplorar le vaghe
Lontananze; non ode urto di remo.
L’ora è trascorsa; ancor silenzio. Addoppia
Gli occhi e l’udito; e il navicel non giunge.
Ahi! la viola del pensier, funesto
Vaticinio è di mali.
Una pedata
Ode; si volge; un sigillato foglio
Le si reca; lo guarda, impallidisce;
La man d’Arrigo lo vergò; tremante
L’apre e vi legge… (Misera! dagli occhi
Quante lacrime ancor ti gronderanno!)
«Edmenegarda! I tuoi miseri falli
Rimetta Iddio! Ma non sperar parole
Di perdono da me. Tu mi rapisti
Tutte le gioie; maledir m’hai fatto
Questa tua bella Italia, ov’io sperava
Viver lieto e morir; privi di madre
Tu rendesti i miei figli. Alla natale
Inghilterra io mi reco a seppellirvi
Il dolor, se m’è dato; e pensa come
Lieta avrò l’alma nell’udir taluno
Che di te mi dimandi. Ahi! sarà duro
Il dover dirgli: La mia donna è morta. —
E quando il guardo io volgerò dagli erti
Miei colli al sito ove si spande questa
Terribil terra, imagina se gli occhi
Avrò giocondi! Oh sì, fibra per fibra
Tu m’hai lacero il core, e più non posso
Parlar di pace. Ma per tutti un’ora,
Edmenegarda, arriva; ed io la sento
Più di tutti vicina. All’appressarsi
Di quell’ora di Dio fuggon dall’alma
I corrucci e le offese, e bisognosi
Di perdono siam tutti. O Edmenegda,
Spera in quell’ora. Io non dimando al cielo
Che d’obblïar, di crescermi vicini
Sempre i miei figli, e sostenere in pace
Le agonie della morte… e perdonarti!».
Di man le cadde il foglio; alla parete
S’appoggiò; le grondò larga una stilla
Giù pel pallor del volto, e senza speme
Tra le genti si vide; e allor l’acerba
Coppa sentì d’aver vuotato intera.
Sì! la vuotasti. Ma il divino Amico
Ti vestì di coraggio, e del tuo lungo
Patir l’offerta, festeggiando, accetta.
Sola e pensosa il cammin novo imprendi,
Come chi parta da dilette cose
Per un lungo viaggio.
Incontrerai
Sterpi e tenebre e gel; ma non ti colga
Scoramento né tema!
In lontananza
S’apre una dolce, una serena plaga,
Dove la pace i combattuti accoglie
Come una madre, e della vita il sogno
Lene si solve in una santa luce.
L’UOMO
Terra, dall’ime viscere
Manda di gioia un grido;
Svegliati, e leva un fremito.
Mar dall’immenso lido;
Angelica coorte,
Inneggia e ti prosterna;
Sulle celesti porte
Brilla ineffabil dì;
L’uom dalla mano eterna
Colmo di vita uscì.
Più arcano delle tenebre,
Più delle belve truce
Più libero del turbine
Più bello della luce,
Nel portentoso istante
Al Crëator converso;
Di gloria sfolgorante
Egli già move il piè…
O suddito Universo,
T’apri davanti al re.
Figlio di Dio, recandosi
L’alta promessa ei viene:
«Di nati avrà miriadi,
Come astri e come arene!
A un cenno di quel fonte
Sarà l’oceano aperto;
Quasi lapillo, il monte
A’ piedi suoi cadrà;
La tigre del deserto
Sul dorso il porterà!»
E già gagliardo e nomade
Corre la giovin terra;
Ode i ruggiti, e indomito
Sfida le belve in guerra;
Per mezzo alle foreste
Fiero la tenda inalza;
Cinge l’orribil veste
Dei pardo e del lïon;
Sui geli della balza
Suona la sua canzon.
Ma da quei geli un’intima
Voce soave il chiama:
Scende fratello incognito,
Trova i fratelli… ed ama!
Oh santo il primo amplesso,
Che rannodò i mortali!
Non gemito d’oppresso,
Non ira d’oppressor:
Ma liberi ed eguali.
Con un sei patto in cor!
Ecco una fiamma eterea
In mille spirti è giunta;
L’occhio di mille in candida
Pietra angolar s’appunta.
Curvo sostien le braccia
L’uom verso l’alto immote;
Gli scende sulla faccia
Misterïoso un vel…
È nato il sacerdote,
Stretta è la terra al ciel!
Muto si prostra il popolo
A lui, che vaticina;
Ode i proferti oracoli
Dalla fatal cortina;
E adora un dio; de’ campi
Nella virtù feconda,
Dei päurosi lampi
Nell’infiammato vol,
Nel fremito dell’onda,
Nella beltà del Sol!
Allor le destre in memori
Patti la Fè compose,
I genii del connubio
Si cinsero di rose,
L’uom tra le monde mani
Tolse l’occulto lare,
Negli aditi più arcani
Tremando il collocò,
E a quell’ignoto altare
Questa parola alzò:
«È mia la casa: i pargoli
Sangue del sangue mio!
Noi coronò di talami
Casti e felici Iddio!
Qui fu la nostra cuna,
Qui sorge il nostro avello,
Ciascun di noi per Una
Sentir qui debba amor…
Oh! non m’è più fratello
Chi non m’intende ancor!
«Pera chi tenta volgerti
In giorni bassi e rei,
O patria del mio cantico,
Terra de’ figli miei;
Sin le verginee voci
Daran tremendi suoni,
E contro alle feroci
Idre converse in te
Vigileran leoni
Delle tua mura al piè».
Oh come bello e splendido
Fu l’uom serrato in arme!
Si sollevò dall’orrida
Siepe de’ brandi un carme.
Si scossero i gagliardi,
Come rumor di venti,
La pugna dei codardi
Un breve lampo fu…
Sostarono i fuggenti,
E già non eran più
Inni al trionfo! Ei reduce
Pien di beltà guerriera
Sul petto con un fremito
Stringe l’ostil bandiera;
L’elmo, l’acciar la maglia
Fiammeggiano di gloria,
Il Dio della battaglia
A lui d’accanto sta…
– Incurvati, o vittoria,
Tolto lo scettro ei t’ha!
Santa è la pace! – Ai teneri
Nati il vestir festivo
Componi, o madre, e intrecciane
Il biondo crin d’ulivo!
O veglio, a’ tuoi racconti
Riedi sereno ancora;
Soldato, i patrii monti
Ritorna a salutar;
Sali, o nocchier, la prora,
E t’abbandona al mar!
Non più gli avversi spiriti
Suon d’oricalchi preme;
Santa è la pace! albergano
Gli agni e le tigri insieme.
L’uom non obblìa l’antica
Virtù; ma giace ascoso
L’elmetto e la lorica,
La lancia ed il corsier…
– È un altro il luminoso
Volo del suo pensier.
Fremente al par dell’aquila
Cui la bass’aria duole,
Egli s’avventa a togliere
Una favilla al sole!
Entra d’intatti regni
Nell’intime latèbre,
Misterïosi segni
Gli schiudono il cammin;
Ei rompe le tenèbre,
E interroga il destin!
«Di me che fia?… del fragile
Ente, che pensa e muore?…
Come s’incende l’aëre,
Come si pinge il fiore?…
Perchè senz’urto posa
Questa materia inerte?
Che è mai la forza ascosa
Che tutto volve al suol?
Di poche piume aperte
Come si libra il vol?
«Qual è virtù, che il vortice
Ferocemente desta,
Che annegra e muta il nugolo
In ira di tempesta?…
Della tua luce adorno
Non mi. mandasti, o Dio?
Dell’universo un giorno
Fatto non m’hai signor?
Dunque allo sguardo mio
Perchè lo celi ancor?….
Questo dolor, quest’impeto
L’uom sitibondo ardeva.
Era il poter dell’angelo,
Nella fralezza d’Eva!
E non tremò. Nei veli
Si spinse del mistero;
Schiuder le porte ai cieli,
Tentar l’abisso ardì…
– E incoronato il Vero
Dalla sua tomba uscì!
Tripudia, o forte! – Al sonito
Della tua voce ei venne;
Or lo suggella in pagina,
Che debba star perenne;
A lacerarti il seno
Gli stolti. sorgeranno;
Tu, martire sereno,
Esulta e va a morir!
Impero essi non hanno
Sui dì dell’avvenir!
Entro i non nati secoli,
Del gran giudicio è l’ora!
Per te venuta i posteri
Confesseran l’aurora;
Redimeranno i vati
Le non colpabili ossa;
E l’onta, che i passati
Sul marmo ti stâmpar,
Verrà nella sua possa
La gloria a cancellar!
Ma per qualunque tramite
Muover tu pensi l’orma,
Dimmi, qual mai ti seguita
Cara, celeste forma,
Che ti carezza il viso,
Che mormora il tuo nome,
Che di un fraterno riso
Consola il tuo cammin,
Che intreccia alle tue chiome
Le rose del suo crin?….
Oh! le ti prostra; e venera
Dio nelle sue sembianze!…
Spargile in sen le lagrime,
Le gioie e le speranze!…
E quando ogni altro amore
T’avranno tolto i fati,
Stringiti allor sul core
Quest’angiol di pietà:
– Tesori inaspettati,
La tua miseria avrà!
LA DONNA
Tu, che sull’ali d’angelo
Scendi alla nostra vita,
E dentro gli occhi hai lacrime
E rose in tra le dita,
Misterïosa forma
Di luce e di profumi;
Bella, se movi l’orma
Per calli di splendor;
Santa, se ti consumi
In un occulto amor;
Eva e Maria nel vincolo
Del fallo e del perdono,
Levata dalla polvere,
Posta a raggiar sul trono,
A te mi prostro, e miro
L’opra animata in cielo
Col più cocente spiro
Che dall’Eterno uscì;
Mi prostro.… e teco anelo
Dividere i miei dì.
Dividerli in un tacito
Di sguardi rapimento,
Nella terribil estasi
D’un posseduto accento,
Sempre sederti appresso,
Cingerti al crin ghirlande,
Pianger, chinar l’oppresso
Mio capo in seno a te,
E di un amor sì grande,
Non chieder mai mercé!
Alle tue braccia io palpito
Come a promessa antica:
T’amo bambina e vergine,
Madre, sorella, amica!
T’amo siccome l’ara
Dove fanciul pregai,
Come la prima e cara
Vittoria in gioventù,
Come quel dì che amai
La fede e la virtù! —
Vieni, invocata! e illumina
Questi anni miei dolenti;
Vieni e di Dio favellami
Se vacillar mi senti!
Fa che un indizio io scerna
Nella gentil sembianza
Di quella luce eterna
Che rivelando il ciel,
Mi vesta di speranza
Il dubitato avel!…
Io crederò! men torbida
Mi correrà la vita
Confusa co’ tuoi gemiti,
Colle tue gioie unita.
Io crederò! – Dal vano
Riso mortal disciolto,
Stringendo la tua mano,
Spirando il tuo respir,
Col paradiso in volto
Tu mi vedrai morir!
Che se una tua fuggevole
Aura del crin mi tocca,
Se tu mi dai di giungere
La mia con la tua bocca,
Non io su molli strati,
Sotto ozïose tende,
I giorni inonorati
Non io consumerò…
Ben altra fiamma accende
L’uom che da te si amò! —
Qual è più dolce numero
Di lira o di liuto,
Che si assomigli a un tenero
Suono del tuo saluto?
Qual è dovizia d’oro
Che valga un solo vezzo
Composto sul tesoro
Dell’innocente crin?…
Empio chi tenta un prezzo
Porre sul tuo destin!
Deh! non voler che in tenebre
Muoia la tua bellezza;
Guai se del casto soglio
Tu perderai l’altezza!
Cara, ogni tuo lamento
Sarà dall’uom reietto,
Nessun per te un accento
Misericorde avrà,
Sovra ogni tuo concetto
Un’onta incomberà!.…
No, povera! Non piangere;
L’uom prega, e non t’offende!
Non sai che oscuro ed esule
Ei per te sola splende?
Che l’ombra di un pensiero
Lo stringe di paura?
Che mentre di mistero
Ti cerca avviluppar,
O frale crëatura,
Sempre lo fai tremar?…
Eppur sì frale, a gloria
Nova tu l’hai risorto! —
Tua forza Iddio lui nomina,
Te suo fedel conforto. —
Come di bianchi gigli
Circondasi un altare,
Tu d’innocenti figli
Serto gli fai gentil;
E a voi la vita appare
Quasi un eterno april!
Deh passa, amato spirito,
Tra gli scorati e i mesti;
E i labbri lor ti lascino
Un bacio sulle vesti! —
Tu placane i martíri;
Soffri per essi, e prega!
Nel ciel co’ tuoi sospiri
Precedi il pianto lor…
Grazia giammai non nega
Agli angeli il Signor.
Oh! qual è mai tra gli uomini
Cui tanta luce adorni,
Che vinca il sacrifizio
Degli umili tuoi giorni?
Qual è, che a rimertarti
Di così santi affanni,
Lieto non voglia darti
L’aura che spira e il sol,
Non si contristi gli anni
per risparmiarti un duol?
Per te, per te la splendida
Nota che il genio desta,
La gioia del convivio
L’applauso della festa;
Per te l’amor, la gloria,
L’ora di gaudii piena,
La più gentil memoria
Del tempo che fuggì,
La speme più serena
Degli aspettati dì!
T’ergano un’ara i popoli,
E i forti nel tuo nome
Dopo la pugna esultino
In coronar le chiome!
Celeste messaggiera
Di chi nel fango giace,
Reca la sua preghiera
A chi sul trono sta:
Porta clemenza e pace
Tal come Dio la dà!
Donna! non cerchi il pargolo
D’una sua madre invano;
Al solo e mesto veglio
Non manchi la tua mano;
T’ascolti il moribondo
Quando ogni labbro è muto;
Anche all’uscir dal mondo
Trovi sul passo un fior…
Non può morir perduto
Chi a te d’accanto muor! —
PERDONATE
Ignosce illis quia nesciunt quid faciunt.
Parlo a voi, che, amici a Dio,
Del dolor vi fate un trono;
Parlo a voi, dolente anch’io,
La gran voce del perdono.
Questa voce sulle penne
Dell’amore a Dio s’alzò,
Voi sapete donde venne,
E qual labbro la mandò.
Perdonate! – Sulla terra
È disceso anch’ei terreno,
A combattere una guerra
Senza esempio – il Nazareno.
Egli nasce, all’uom ridona
Il suo serto di splendor…
E si compra la corona
Dello spregio e del dolor!
Oh! lo spregio ei l’ha sofferto,
Ei senz’ombra di peccato!
Era amante, e fu deserto;
Era giusto, e fu negato:
Sino al labbro dello stolto
Che venivalo a tradir
Rese il bacio… e il santo volto
Abbassò con un sospir!
O voi tutti, a cui l’offesa
Crudelmente incise il core,
Perdonando si palesa
D’esser figli del Signore!
Perdonate! – i dì più belli
Della vita a sé rapì
Chi poteva i suoi fratelli
Amar sempre, e li abborrì.
Pace, amico! – Un uom che offende
Scemo od ebro ha l’intelletto.
Tutto certo ei non comprende
L’atto proprio, il proprio detto.
Dopo un duol, che ad altri crebbe,
Quante volte ei sospirò,
E ritorto in sé vorrebbe
Quello stral, che altrui lanciò!
Pace, amico! – Un riso, un gesto,
Una voce inavvertita
Può ferirti… e non per questo
Volontaria è la ferita!
Il fanciul, che piuma a piuma
L’augellin nudando va,
Lentamente lo consuma
E d’offenderlo non sa.
Soffri sempre, e l’odio ignora;
Fratricida ei l’uomo ha fatto:
Ei la fronte ti divora
Come il marchio del misfatto.
Questo mostro a modo d’angue
Senza posa il cor ti assal;
Stringe un calice di sangue
E sta sempre al tuo guancial.
Che fai tu fra quelle frondi?…
Sciagurato! il piè ritira.
Se dagli uomini t’ascondi,
Omicida, Iddio ti mira!
Tutti i giorni che tu prendi
Dalla vita d’un fratel,
Tutti salgono ai tremendi
Tabernacoli del Ciel.
Spezza l’arme, e nei consigli
Della mente ti riposa!
Chi tu aspetti ha molti figli,
Madre amante, e dolce sposa;
Ha una fede svigorita,
Uno spirto che non muor,
Che ha bisogno della vita
Per rifarsi nel Signor.
«M’han confitto a questo legno,
Padre mio!… ma stolti sono;
Manda a lor dal nuovo regno,
Per me compro, il tuo perdono!» —
Questa voce egli ha disciolta
Quando il Padre l’obbliò!…
Abbracciatevi una volta
In colui che vi salvò!
Abbracciatevi! – S’oscura
Della terra il dì fugace,
Si guadagna il dì che dura
Coll’amplesso della pace.
Chi perdona Iddio lo serva
Per la santa eredità,
Lascia l’anima proterva
Al giudicio che verrà.
O Signore, – Ah’io le fransi
Del rancor le ree catene;
Fui piagato, offesi e piansi;
Or la pace al cor mi viene.
Ripercotimi, se credi
Che sia giusto e salutar:
Solamente mi concedi
D’amar sempre e perdonar.
Siam fratelli in un’amara
Solitudin di dolori;
L’un coll’altro si prepara
L’acqua e il pan che lo ristori!
Posseduto è da Satano
Chi coll’ira al desco vien;
Maledetta è quella mano
Che vi mescola il velen.
Siam fratelli nell’insulto,
Donde venga e dove suoni,
Siam fratelli nel tumulto
Delle libere canzoni!
Oh! vi torni e v’affatichi
Quell’amor che vi fuggì!
Date bando agli odii antichi,
Se bramate i nuovi dì.
IL POETA E I SUOI PENSIERI
L’anima, che s’abbraccia col mondo fisico
e coll’immateriale, va alla sua meta.
Per la tua bassa ténebra
Non move un’aura blanda;
È senza stelle, o povera
Notte, la tua ghirlanda;
Non una dolce tibia
Di solitario amante
Lungo le verdi piante
Lieve ascoltar si fa.
Ma pur da me s’espandono
Suoni di fresco amore;
Più che le stelle e l’etere,
Grandi linguaggi ha il core:
Pensoso accetta il giubilo,
Lieto il dolor riceve,
E risonante e lieve,
Dov’è chiamato ei va.
Come chi parte a compiere
Pellegrinando un voto,
Tiene, piangendo, agli ultimi
Tetti lo sguardo immoto;
Poi nel trovar non cognite
Siepi e solingo piano,
Torna cogli occhi invano
Ai campi che lasciò;
Tolto così da un fulgido
Sentier di sogni, anch’io,
Movendo in solitudine
Chiedo i ritorni a Dio;
Ma un imperante spirito
Su’ passi miei cammina,
E l’alma pellegrina
Più ritornar non può.
Dunque provato ai triboli,
Rinverginato al pianto,
Come i ruscelli al murmure,
Dio mi destina al canto?
Vieni, o mia lira, abbracciami,
Giacché per fede antica
Forte e modesta amica
Dio ti congiunse a me.
Detti superbi o pavidi
Tu sul mio labbro attuta;
Quel che non sente l’anima,
Di modular rifiuta;
Non abborrir del povero
Per vil pudor le stanze,
Per misere speranze
Non inchinarti al re.
Vieni. Onoriam di lagrime
L’umanità che è mesta.
Sul nudo suol degli esuli
Santa rugiada è questa.
Con la speranza accostati
Ai tribolati ingegni,
Vinci gl’iniqui sdegni
Col doloroso amor.
Ma non però del candido
Riso fuggiam la luce,
Che a solitari palpiti
Le fantasie conduce,
Perchè del riso i balsami
Sul cor ce li diffuse
La stessa man, che schiuse
Le fonti del dolor.
Ella che pose ai turbini
L’ale e distese i cieli,
Die’ pur la vita all’alighe
E incolorò gli steli;
Tutto, dal serpe all’angelo,
Mi leva intorno un coro;
Tutto egualmente adoro,
Dal filo d’erba al sol.
Sotto l’ombrìa dei platani
Molli del novo incenso,
Assorto il cor nell’estasi
D’un viso amato, io penso
Subitamente al profugo
Se un uccellino io miro,
Che mova mesto in giro
Per rami ignoti il vol.
Con voi, fanciulle, i facili
Poggi odorosi ascendo
Lieto nell’alma, e reduce
Ripenso a voi piangendo;
Ma non così ch’io tolgavi
In quelle dolci feste
Un vezzo da la veste
O un gaio fior dal crin.
Ben saprò dir le provide
Speranze a la tradita,
Che i tenebrosi assalgono
Spaventi de la vita:
Io mi porrò degli umili
Sotto le verdi tende,
Dove più forte splende
La fede al pellegrin.
E tu, mia man, le nobili
Voci del cor tu scrivi,
Del cor che abbraccia i tumuli,
Che vagola coi rivi,
Che di sorrisi illumina
Le sue mestizie arcane,
Che le allegrezze umane
Circonda di sospir.
Più che per altri il fervido
Tumulto del convito,
A me fia caro un vergine
Pane cibar romito:
Poi, qual fuggente rondine,
Verso la patria vera,
Coll’anima che spera,
Recarmi all’avvenir.
E tu, mia lira, insegnami
Come svagato io corsi,
E, col pensier, dell’opera
Si scontino i rimorsi.
Spandi così tra gli uomini
L’aura del tuo perdono,
Se non udito il suono
Da le tue corde uscì.
Come per l’alto un zefiro,
Si passerà dal mondo,
Ma lasceremo un cantico
Non vil né inverecondo:
E i sorvolanti effluvi,
Forse nei rovi ascosa,
Riveleran la rosa,
Che nel dolor fiorì.
LA PAROLA
La contemplazione dell’universo insegna
All’anima la parola che lo rivela.
Nell’ombra, ai malinconici
Occhi velata ancora,
Arde una sacra fiaccola
Che la mia mente adora;
Ben qualche raggio io sento
Riverberar da lunge,
Ma troppo tenue e lento
Mi penetra nel cor,
E d’una brama il punge,
Che è simile al dolor.
Che val che in me discendano
Da non mortale altezza
Caste e possenti immagini
D’amore e di bellezza,
Se tra quel mondo arcano
Rapido il verbo gira,
Perseguitato invano
Dal cupido pensier,
Che rivelar sospira
Ne la parola il ver?
In me dai sensi all’anima
Passa un divin linguaggio,
Che unisce il fior col turbine,
Che mesce l’ombra al raggio,
Che d’un’occidua stella
Mi ferma agli splendori,
Che un’umile acquicella
Lungo mirar mi fa,
Esca a quei forti amori
Che a tutti il ciel non dà.
Ma la parola!… O povera,
Che speri, o tenti mai?…
L’arcano dello spirito
Tutto non s’apre, il sai.
Un vago regno ascoso
Con noi germoglia insieme,
Lo abbraccia il cor pietoso
Che col pensier lo amò,
Ma inutilmente geme,
Perchè svelar nol può.
Dunque passate, o candidi
Visi, o leggiadre vesti,
Labbra arridenti e pallide,
Occhi sereni e mesti:
Date, o gioconde lire,
Bando all’inutil verso;
Inchinati a morire,
O benedetto sol;
Non suoni all’universo
Che un’armonia di duol.
A me talor l’oceano
Povera stilla appare,
Talor nell’umil gocciola
Sento diffuso il mare,
E l’atomo che in calma
Lieve per l’aere vola,
Cose infinite all’alma
Comunicando vien;
Ma la fatal parola
Mi muor consunta in sen.
Cieca e superba polvere,
Dunque m’ha Dio percosso,
Un mondo rivelandomi,
Ch’io rivelar non posso?
E questo senso, e questa
Aura del cor romita,
Libera, ardente e mesta
Un’arpa non avrà,
Che spanda un fior di vita
Per la ventura età?
Mio Dio, quest’arpa oh datemi,
Squilla ai dormenti petti:
Non di lusinghe, armatela
Di coraggiosi affetti;
E accomunati in loro
I mal divisi amanti,
Suoni una corda d’oro,
Che ai figli del Signor
Renda animosi i canti
E valido il dolor.
Oh mobili onde! oh libere
Aure! oh campagne aperte!
Anche nel verno vedove
D’astri e di fior deserte,
Voi la parola avrete,
Che cerca il mio pensiero,
E, a temperar la sete
Che il cor mi consumò,
Sovra l’altar del vero
Tutto svelar saprò.
Tutto, dai gioghi inospiti
Ai sorridenti calli,
Dal campo dei cadaveri
Allo splendor dei balli,
Tutto che impera il senso
E che lo spirto insegna,
I mondi che l’immenso
Alimentando va,
L’uom che obbedisce e regna,
Dio che sorride e sta.
Dio sentirò nel barbaro,
Che d’uman sangue ha voglia,
Ma festeggiando all’ospite,
Gli dorme su la soglia:
Nel pellegrin, che assonna
Sotto le palme assiso:
Ne la selvaggia donna,
Che insegna al suo figliuol
Di tener vôlto il viso
Là dove nasce il sol.
Oh! nell’intatta tenebra
Saprò trovarti allora,
Misterïosa fiaccola,
Che la mia mente adora:
In quell’eccelso loco
L’arpa con Dio s’accorda;
Ben l’immortal tuo foco
Mi farà polve il cor,
Ma la morente corda
Sarà sonante ancor!
IL POETA E LA SOCIETA’
Terra, crudel, se in vincoli
Possenti a te mi lega
Pensier, che abbraccia e lacrima,
Cor che indovina e prega,
Tranne gli ardenti cantici,
Altro da me che aspetti?
Tranne i pietosi affetti,
Altro che vuoi da me?
Le tue speranze io mormoro,
E tu mi nieghi ascolto:
Io modulo i tuoi gemiti,
E tu mi chiami stolto:
S’io vo solingo e torbido
E chiudo ai canti il core,
Un riso acerbo è il fiore
Che tu mi getti al piè.
Ahi troppo duro e valido
Sento de’ tristi il regno
Per säettar le folgori
Del concitato ingegno:
È troppo rea sui deboli
Questa ragion del forte
Che fa sentir la morte
Necessità del cor.
Dimmi, che cerchi, o perfida
Noverca, ond’io ti piaccia,
E tu mi possa stendere
Le perdonanti braccia?
Vuoi ch’io mi curvi ad opere
Cui Dio non mi compose,
E che all’eccelse cose
Si tolga il mio sudor?
Terra! se tu sei giudice,
Pesa la mia parola;
Ella, se il ver la suscita,
T’è sacerdozio e scola;
In questa fiamma io m’agito,
Di questa vita io vivo,
Per onorarti scrivo,
Altro operar non so.
Cruda! tu senti il debito
Del pane all’operaio
Che ti racconcia i sandali,
Che ti rattoppa il saio,
E a questo forte povero
Che per te pensa e suda,
Sempre rispondi, o cruda:
«Pan da gittar non ho».
Non hai tu pane? E al facile
Mutar d’una carola
Profondi l’oro, e al limpido
Trillo d’un’agil gola;
Stolti! e tra voi la divite
Turba d’onor s’ammanta,
E l’anima che canta
Nuda di gloria va.
E sia così! Quest’esule
Va dove pensa e vuole,
Selvaggia come l’aquila,
Ardente come il sole.
Ma pur, divisa, un nobile,
Secreto amor nutrica.
E la respinta amica
Voi maledir non sa.
Datele almen che vergine
Possa serbar la lira,
Ch’ella non mesca gli aliti
Santi ove l’odio spira,
Che un non curar sacrilego,
Che un guerreggiar codardo,
Non le contristi il guardo
Non le recida il vol.
Voi la ponete in tenebre,
Ella vi dona il giorno;
Voi la dannate a piangere,
Ella vi canta intorno.
E nel fiammante nuvolo
De’ suoi divini incensi
Ella vi leva i sensi
Là dove regna il sol.
Ah, potess’io far cognito
Quanto in lei vive e siede:
Gli odii, gli amor, le torbide
Gioie, la dubbia fede,
E i rapimenti e gl’impeti
Soltanto a lei concessi,
E i suoi potenti amplessi
Dati a la terra e al ciel.
Oh a me compagni ed emuli
Nel carme e nel dolore,
Tutti in un solo uniamoci
Nodo d’eccelso amore:
Oda la Terra unanime
Quest’armonia di canti
E a’ suoi celesti erranti
Apra il materno ostel.
Così quest’arpe italiche,
Queste fraterne voci
Espïeran l’obbrobrio
Dei roghi e delle croci,
Quando di sé fu martire
Ogni intelletto sacro,
Ed ebbero lavacro
Di sangue i turpi dì.
Espïeran gli stolidi
Ozi e la boria vile,
E l’arroganza barbara
E l’adular servile;
E sarà duce ai popoli
Quest’armonia scettrata,
Che coll’Italia nata
Dal cor di Dante uscì.
CHI AMI?
Pria venne un conte, e con sospiri accesi
Mi porse un vago fior:
Del suo dono gentil grazia gli resi:
Ma non gli diedi il cor.
Poi venne un duca, e nel panier mi pose
Un braccialetto d’ôr.
Dissi anche a lui cento leggiadre cose,
Ma non gli diedi il cor.
Poi venne un re; del suo gemmato serto
M’offerse lo splendor:
Tremai superba del gran dono offerto!
Ma non gli diedi il cor.
Alfine un pensieroso giovincello
Venne, e mi chiese amor;
Era mesto, era povero, era bello:
Ed io gli diedi il cor!
LA MADRE E LA PATRIA
– Teco vissi; or tra le squadre
Son chiamato a militar;
Tu mi guardi, o dolce madre,
E non fai che lacrimar.
Monti e valli e piani aperti,
Madre mia, varcare io so;
Se tu brami ch’io diserti,
Madre mia, diserterò.
– Che mai dici, figliuol mio!
Non mi dar questo dolor.
Sia di me quel che vuol Dio,
Ma non farti disertor.
Infamato al patrio lito
Non recar l’incauto piè:
Figlio mio, t’ho partorito
Per la patria e non per me. —
TUTTO RITORNA
– Fanciulla, che fai qui sulla porta
Guardando da lontan per quella via? —
– Ah se sapeste! Quando la fu morta
L’han portata di là la madre mia;
M’han detto che di là debbe tornare,
E son qui da quattr’anni ad aspettare. —
– Oh povera fanciulla! tu non sai
Che i morti al mondo non ritornan mai! —
– Tornano al vaso i fiorellini miei,
Tornan le stelle… tornerà anche lei! —
VENDETTA
– Conosci, quell’Immagine di santo
Sulla muraglia con quel lume accanto?
Sotto quel lume sette pugnalate
Una volta tu desti al padre mio…
Prendi questa e quest’altra… Insanguinate
M’ho le man del tuo sangue; or va con Dio. —
– Mandami almeno un prete a confessarmi!
– Prendi anche questa!.. Io non vorrei salvarmi
Se andasse in salvamento la tua vita!…
Non gli batton più i polsi. Ora è finita. —
Stolto! Chi versa l’uman sangue, il sente
Odorar nelle mani eternamente
Dopo l’ora mortal, tutta la vita
Non è finita!
GIAPO
– Mi chiamo Giapo, chi saper lo vuole. —
Gli anni belli ho già varcato.
Di mia strada or tocco al fin;
Qui tra ’l verde pergolato
Del mio picciolo giardin
Tremola il sole!
– Son di Sicilia, chi saper lo brama. —
Ebbi il riso de’ miei piani,
La dolcezza del mio ciel,
Il fervor de’ miei vulcani;
E si tenne a me fedel
Più d’una dama.
– Ho settant’anni chi saper lo chiede. —
Ma lanciato in zuffe orrende
Perigliai la mano e il cor.
Vil, per Dio chi non difende
La sua patria, ed al suo amor
Rompe la fede! —.
Qui un fremito successe alle parole.
La rugiada avea bagnato
Già del vecchio il raro crin;
E sul verde pergolato
Del suo picciolo giardin
Moriva il sole!
IL DELATORE
Le orecchie intente, gli sguardi bassi,
Tu come un’ombra segui i miei passi:
Se un lieve accento muovo al compagno,
Ratto ti sento sul mio calcagno,
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!
Ma, quando mangi pan guadagnato
Con l’abbiettezza del tuo peccato,
La bieca larva del tradimento
Non ti sta presso? non n’hai spavento?
Va sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!
Il sol la luce dovria negarti;
Mai col tuo nome nessun chiamarti,
Ma con quell’altro che ti dispensa
Pane e vergogna sull’empia mensa.
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!
Talora il ladro chiamo infelice;
Degna di pianto la meretrice;
Da me un’ascosa lagrima ottiene
Sin l’omicida stretto in catene:
Ma tu, tu solo mi metti orrore;
Sei delatore!
Va, sciagurato; cala il cappello,
Ti ravviluppa nel tuo mantello,
E se un istante sul cor ti pesa
La mia parola, cerca una chiesa,
E piangi, e grida: – Pietà! Signore,
Son delatore! —
Là solamente, presso a quel trono,
Può la tua colpa trovar perdono;
Impäuriti de’ tuoi tranelli,
Più sulla terra non hai fratelli,
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!
CAMPAGNUOLI SAPIENTI
Lavoriam, lavoriam, dolci fratelli,
Sin che molle è la terra, e i dì son belli.
Lavoriam, lavoriam; quanto ci mostra
Di ricco il mondo, è passeggiero spettro;
Il crin sudato è la corona nostra,
Il piccone e la marra il nostro scettro.
Qui si tradisce; là s’affila il brando;
Dappertutto si piange e si fa piangere;
Noi lavoriam cantando.
Lavoriam, lavoriam, dolci fratelli,
Sin che molle è la terra, e i dì son belli,
Qui tra il susurro delle fonti e il verde,
Preghiam che lunge stia l’arso e la bruma.
Chi possiede tesori il sonno perde;
Chi possiede intelletto il cor consuma:
Quanti mila infelici errano in bando
Senza conforto! Tra le spose e i pargoli
Noi lavoriam cantando.
Lavoriam, lavoriam; l’ora che avanza
Di lavor sia tessuta e di speranza.
Se questi ricchi, che ci dan le glebe,
Qualche volta con noi miti non sono,
Noi, dolorosa ma non trista plebe,
Rispondiamo con l’opra e col perdono.
E così, nel silenzio, ammäestrando
L’umile cencio a rispettar del povero,
Noi lavoriam cantando.
Lavoriam, lavoriam: l’ora che avanza
Di lavor sia tessuta e di speranza.
Volando e rivolando s’affatica
Il suo nido a compor la rondinella;
Sugge l’ape alla rosa e la formica
Porta il cibo del verno alla sua cella,
Nel codice di Dio l’opra è comando.
Non per noi, ma pei figli è l’edifizio
Su! lavoriam cantando.
LE MIE SIMPATIE
Voi mi accusate che i miei concenti
Nuotano in nembo di troppi fior;
Sì, mi son cari questi innocenti,
Queste opre belle del Crëator.
In lor si vela tanto mistero
D’amor, di pena, di voluttà,
Che ogni movenza del mio pensiero
Armonïosa con lor si fa.
Se miro un volto di giovinetta
Dimesso e mesto, puro e gentil,
Mi trema in mente la vïoletta,
Che orna le siepi del novo april.
Quando alle spine del nostro esiglio,
Caro fanciullo, tu avvezzi il piè,
Svolto dall’urna d’un bianco giglio,
Sospira il canto d’intorno a me.
A una sembianza d’allegra sposa,
Che in mezzo ai balli gemmata appar,
Dall’ondeggiante sen d’una rosa
Profumi e carmi sento esalar.
Ricchezza occulta del trovatore
È un fior rapito da un nero crin,
E quante volte si cela un fiore
Nell’amuleto del pellegrin!
Il fior, ricordo d’una fanciulla,
Vive tra l’armi, vola sul mar.
Rose e ligustri copron la culla,
Rose e ligustri l’urna e l’altar.
Un giorno fugge, l’altro s’avanza,
Fiorisce il duolo come il gioir;
Ha un fior la vita per la speranza,
Ha un fior la morte per l’avvenir.
Spargono l’aria, l’ombra e la luce
Perle e colori sul tenue vel;
Curvo alla terra, che li produce,
Notturni amori mormora il ciel.
In lor si vela tanto mistero
D’amor, di pena, di voluttà,
Che ogni movenza del mio pensiero
Armonïosa con lor si fa.
GELOSIA ORIENTALE
Coperto la fronte di mirti e d’allori,
Tra l’arme e il tripudio di compre beltà,
Cinquanta odorose stagioni di fiori
Mirò sulla terra Braimo pascià.
Eppur su quel crine non fiocco di neve,
Non velo di nebbia nell’occhio seren;
Al nappo d’amore quel labbro non beve
Che pronta non arda la fiamma del sen.
La bella Odalisca fra tutte le belle,
Zorama di Gaza, con tacito piè
Al pallido varca fulgor delle stelle
La soglia gelosa del vago suo re.
E quando sull’alba rimira vestite
Le punte dei chioschi d’un dolce color,
Le coltri abbandona sì lungo gioite
Ancor colle labbra stillanti d’amor.
E irride superba le vinte rivali
In duri abbandoni dannate a languir;
Chè pende la gioia de’ baci regali
Da un sol di Zorama segreto sospir.
Ma sono due sere che lenta Zorama
S’interna fra l’ombre d’occulti sentier,
Che all’opere usate le ancelle non chiama,
Che ha grave la fronte d’un tetro pensier.
Volando una notte, con petto più anelo,
A’ gaudi promessi da un cenno del dì
O vide, o le parve, trascorrere un velo
Che lungo tra gli archi, qual nebbia, svanì.
Fu larva? fu donna? Zorama non crede
Le storie che il buio spavento sognò;
Eppure in quell’ora dimanda una fede,
Che il duro suo fato più darle non può.
Or dunque, fu donna!… Repente quel viso
Smarrì la celeste nativa beltà,
Fu il gel della tomba sul morto sorriso,
Ma quel che è nell’alma nessuno lo sa.
Ancora una notte del sire all’amplesso
Ritorna; si scontra nel velo fatal;
Seida, Seida! L’ha vista dappresso;
Tentò, ma non trasse l’occulto pugnal.
Non grida, s’avventa. La serra alla gola,
Si svinghia Seida, s’afferrano ancor;
Ormai di due vite s’è fatta una sola,
Son strette due tigri da mutuo furor.
Ma un gemito acuto quell’aure percosse,
Ma un corpo sul calle riverso piombò.
Non chieder se amasti, l’estinta qual fosse.
Star contro alla serpe la rosa non può.
Zorama la guata. Raccoglie le chiome:
Nel vel di Seida si terge la man
Cospersa di sangue; la chiama per nome,
La scuote alla vita con scherno inuman.
– Tu di fata hai l’orma lieve,
Rubi il canto all’usignuol;
Il tuo volto è come neve,
Il tuo sguardo è pari al sol.
E perchè non ti risvegli,
O degli angeli il più bel?
Ricomponi i tuoi capegli,
Vieni in braccio al tuo fedel. —
. . . . . . .
E via la trascina sin presso alle soglie
Fatali; sul marmo la gitta; e perchè
Ancor di bellezza un raggio s’accoglie
Sul volto a Seida, la sforma col piè.
E ancor non è paga. Gelosa, furente
Ne interroga il core, lo sguardo, il respir;
Non cerca se è morta, la brama vivente
Per anco poterla vedere a morir.
Poi tra la luce e i balsami
Dell’amoroso loco
Entra Zorama. Indocile
Per inusato foco
La invita alle sue coltrici
Il bello e infido Sir.
– Zorama, oh! perchè pallida
Mi guardi e non rispondi? —
– So che nel petto i gaudii
D’un altro amor nascondi;
Che in abbandono e lacrime
Il mio dovrà perir. —
– Oh, che di’ tu, se l’unico
Grande amor tuo mi dona
Più che i miei cento popoli,
Più che la mia corona?…
Calma l’incerto spirito,
Cara, e t’affida in me.
– Sì; ma v’è tal, che il palpito
D’un impudico affetto
Non cela… e se ti nomina
Ti chiama il suo diletto. —
– La invereconda accennami;
Parla, Zorama, ov’è? —
– Ma è dolce come un roseo
Sorriso del tramonto;
È vaga come un zefiro
Tra i fior dell’Ellesponto… —
– Ella è più rea d’un demone
Se pianto a te costò. —
– Gran pianto!… E qui pesavami
Sempre un’orrenda idea.
Ogni mia fibra, a scorgerla,
Furiosamente ardea.
M’ascolta; i tuoi vestiboli
Ella pur or calcò.
Noi ci scontrammo: – «Amabile,
Bella Zorama, addio.
– Che fai Seìda? – Io vigilo,
E penso all’amor mio. —
Parti, gelato è l’aere. —
– Gelo non sente amor.
Qui vo’ restarmi. – Appressati,
Braimo; ancor v’è forse.
Così Zorama. E subito
S’alzò, la man gli porse;
Sentì Braimo un brivido
D’incognito terror,
. . . . . . .
Si schiude la porta; del sire lo sguardo
S’affigge in un corpo; fremendo ristà;
Prorompe Zorama con riso beffardo:
– Paura del gelo l’amore non ha. —
Il resto è mistero. Ma d’urla mortali
Quegli archi segreti suonarono allor;
E i bianchi pilastri di larghi e fatali
Vestigia di sangue rosseggiano ancor.
RILLA
«Addio, notti serene! addio beate
Coste, ricche di mirra e belgiuin.
Addio bei soli! Addio splendide fate,
Dalla immortale gioventù del crin.
Impallidite ormai son le ghirlande
Che il lucente Azraello un dì mi diè!…
Ecco la nube d’Arimàn si spande
Sopra la fossa apparecchiata a me!
Tholmàr, la mia sorella ha chioma bionda,
Occhio di stella e bocca di coral,
E qual d’un rivo sigillato l’onda,
Move la voce lenta e verginal.
Bella è pur tanto! E non un’ora ai lieti
Garzoni aperse il verecondo cor.
Serba fede d’amante a’ suoi roseti,
E consumata morirà con lor.
L’altra mia suora Ircana ha capel nero,
Che giù sul cinto in doppia lista vien;
Sguardo ha di foco; ma un fatal mistero
Orrendamente le disfiora il sen.
Sovra una culla or s’inginocchia e geme,
Or esce il mar da lungo ad esplorar.
Ma alla feroce angoscia che la preme
Sorda è la culla, e senza vela il mar!
Povere entrambe! E fin quella pietosa
Che le vostre venìa pene a blandir,
Oggi al sepolcro dà la man di sposa,
Chiede un guancial di pietra, e vuol dormir.
Cosvelto! Arabo mio! Dal cielo aperto,
Tre dì ti chiesi, e dall’immenso pian:
Ho varcato le sabbie del deserto
Tre lunghissime notti… e sempre invan!
Impallidite ormai son le ghirlande,
Che il lucente Azraello un dì mi diè…
Ecco la nube d’Arimàn si spande
Sopra la fossa apparecchiata a me.
Orsù, Jago! ti sveglia!» – Un moro sorso
Dal nudo suol: guatolla: indi abbassò
Gli occhi infiammati: fieramente morse
Le dure labbra… e a Rilla s’accostò.
– Con bianca fede m’obbedisti, o Moro,
Sino a quest’ora. Per la tua virtù
Io ricchezze non ho. Ma, invece d’oro,
Guarda la terra! Libero sei tu.
Sol da te chieggo una pietà suprema.
Jago! Tempo è di morte. O mio fedel
Qui batte il core… A te la man non trema…
Or via. Mandami in braccio ai mio Cosvel! —
Così vela la fronte, e immobilmente
Aspetta il colpo che le tronchi i dì…
Ma il foco in vece d’una bocca ardente
Sul casto petto, e un gemito sentì! —
Si volse. Ahi vista!… Fino all’elsa ascoso
Il pugnal disperato ei s’ha nel cor.
Preme una man sul varco sanguinoso
E un fil di vita vi rattiene ancor.
– T’amai, Rilla, t’amai!… di tale un senso,
Che mai nol capirà petto mortal;
Fier come il sol, come l’oceano immenso,
E, vedi! occulto come il mio pugnal.
Ma… Cosvello… è sotterra! – E appena il disse
Si svelse il ferro e l’anima esalò.
Rilla, curva sul Moro, i guardi affisse…
E in un riso frenetico scoppiò.
– T’ho trovato, t’ho trovato,
O di Rilla disertor!
Quasi, o caro, s’è spezzato
Pel gran piangere il mio cor!
O Cosvello, della guerra
Più non correre al fragor
Vivi e morti una egual terra,
Tutti e due ci debbe accôr!
Ma il crepuscolo è già presso:
Vieni meco, o mio tesor!
Questa notte in un amplesso,
Scorderemo ogni dolor.
Che fai tu che guardi il mare?…
Che fai tu, che baci i fior?…
Su, venitelo a mirare
Come è splendido d’amor!
. . . . . . .
. . . . . . .
. . . . . . .
. . . . . . .
Rilla così da quell’istante orrendo
Corre il deserto. E quando s’affacciò
Alle pallide suore, una gemendo
Svelse i roseti, e l’altra il mar lasciò!
E la baciano e piangono al suo fianco!
Ella sorride. E fiuta ad or ad or
Lieve una macchia sul suo velo bianco.
È schietto sangue… ma la crede un fior.
CONVEGNO DEGLI SPIRITI
Ecco là sotto di quel tiglio verde
Compajon le due anime affannate,
Chiuse in eterno son le labbra lor.
Spiriti, o voi, per cui goccia non perde
Di sue rugiade il fior che nol sappiate,
Ditemi voi di quell’ignoto amor.
– Se da noi saper tu aneli
Di quei due che muti stanno,
Quel che fêr, non quel che fanno,
Sarà pago il tuo desir.
Hanno amato quando i cieli
Biancheggiarono all’aurora;
Hanno amato, amato ancora
Delle stelle al comparir.
Seppelliti in antri cupi
Hanno amato, allor che nera
S’ascoltava la bufera
Per le selve imperversar.
Sulla punta delle rupi
Han compiuti i loro amori,
Li han compiuti in grembo ai fiori,
Li han compiuti in mezzo al mar.
Sia che l’arso o la moria
Disertasse e case e colti,
O i mortali avari e stolti
Fosser tratti alla tenzon;
Legò sempre un’armonia
Le due vite oscure e sole;
Parlâr basso…; e fur parole
Che ancor note a voi non son.
E talvolta nell’ebbrezza
Del baciarsi e viso e chiome,
Sui lor labbri il dolce nome
Dell’Italia risuonò;
Ma per dir che la bellezza
De’ suoi cieli e de’ suoi mari
A un lor bacio non è pari:
Tanto forte amar si può!
I color vivaci e schietti
Si tramutano alle fronde,
Si tramuta il letto all’onde,
Si tramuta all’uomo il cor.
Cangia il tempo a mille oggetti
Usi e forme e nomi e tempre;
Ma i lor baci eguai fur sempre,
Sempre eguale il loro amor.
Quando il mal li ha sopraggiunti,
Si guardaro e pianser tanto:
Ma ogni stilla di quel pianto
Dai lor baci astersa fu.
Cadder pallidi e consunti:
Lor dimora è tra gli spirti;
Noi di più non possiam dirti,
Tu non puoi saper di più. —
E intanto giù nel basso a un romorìo
Di foglie e delle stelle al lume incerto,
Ecco tremar la compagnia fedel;
Poi surge un suon di disperato addio;
Ei s’inabissa giù nel suolo aperto,
Ella gemendo si dilegua in ciel.
« O fate vergini,
Voi che abitate
Gli astri e le tenebre,
L’aure ed i fior;
Voi rivelatemi,
Vergini fate,
Questa recondita
Storia d’amor.
E un roseo nuvolo
Sulle veloci
Piume dei zefiri
Ecco venir;
Ecco un insolito
Rumor di voci,
Poi queste limpide
Note n’uscir:
– Vissero insiem; ma la fanciulla amante
Volea prostrarsi sulle verdi zolle
A supplicar per le sue colpe tante…
Ed ei non volle.
Molto l’amò; ma la fanciulla, senza
Pace vivendo, volea far satolle
Dei miseri le fami, in penitenza…
Ed ei non volle.
Spuntava l’alba; e la fanciulla oppressa
Giù in quell’erma chiesetta, a piè del colle
Scender volea per ascoltar la messa…
Ed ei non volle.
Fuggiro un dì dopo contrasti e guerre;
E la madre di lei diventò folle:
Chieder volea novella alle sue terre…
Ed ei non volle.
E molto i suoi voleri eran tenaci,
Ma in lei sola fu lieto, in lei si piacque;
E i suoi voleri confondea co’ baci…
Ed ella tacque!
Piangeva un dì con disperato affetto
Un fanciullin, che per morir le nacque:
Ei se la strinse lungamente al petto…
Ed ella tacque!
Pensava un tratto alle natie riviere
Nei lunghi dì quando malata giacque;
Ei la vegliò per cento notti intere…
Ed ella tacque!
E i più bei fiori ell’ebbe, i più bei frutti;
L’amò sui monti, l’adorò sull’acque.
Ei fu tutto per lei, nulla per tutti…
Ed ella tacque!
Moriro, e in premio dell’amor profondo,
Posson trovarsi nel giardin natìo;
Se due morti ritornano nel mondo,
Così vuol Dio.
Ma il pensiero di lui fu travïato;
Ella versò d’amari pianti un rio,
E in ciel fu tolta; ed egli è condannato;
Così vuol Dio.
Che se aveva egli pur, siccome ell’ebbe,
E terrori e rimorsi e sentir pio,
Anche forse per lui stato sarebbe
Pieghevol Dio.
E invece di venir sulla tacente
Ora a scambiarsi il tormentoso addio,
Vivrebbero abbracciati eternamente
Lassù con Dio. —
Via per le tremule
Volte stellate
Più malinconica
La luna errò,
E il lieve e lucido
Stuol delle fate
Nel mar dell’aere
Si dileguò.
Solo uno spirito
Sotto quel tiglio
Dov’ei posavano
S’udia cantar:
– « Ahi! tra le lagrime
« Di questo esiglio,
« Che importa vivere,
« Che giova amar? » —
UNA CENA D’ALBOINO RE
Fervean di canti, fervean di suoni
Di re Alboino l’ampie magioni;
E, in mezzo ai duchi giunti al convegno
Dal vasto regno,
Sparsa di gemme, lucente d’oro,
Di quelle mense fregio e decoro,
Più dell’usato bella e gioconda,
Sedea Rosmonda.
Gli orli spumanti di vino eletto,
Volan le tazze per il banchetto;
Fumosa ai capi l’ebrezza ascende;
E trema e splende
Di fosca luce l’occhio regale
Come la punta del suo pugnale;
Scoppian le risa, lunghe e feroci
Stridon le voci.
Disser di queste belle contrade
Oppresse e vinte dalle lor spade;
Plausero a questi colli vestiti
Di tante viti.
Fragili fiori più che colonne
Chiamâr, codardi! le nostre donne;
Le disser liete, superbe e belle,
Ma tutte ancelle!
E al vil susurro dell’orgia rea
Rosmunda bella forse gemea,
Per colpe orrende non ancor fatta
Di quella schiatta.
– Prenci e baroni, paggi e scudieri,
Ecco il più bello de’ miei pensieri. —
(Così, nell’ebro furor del vino,
Parla Alboino).
– Vedete questa, che ho qui d’accanto,
Lieta, superba? che mi ama tanto?
La vera gemma quest’è, per Dio,
Del serto mio.
Vuoi tu trapunta d’oro ogni veste?
Trecento all’anno banchetti e feste?
Ricca è l’Italia, ma ricca assai:
Chiedi, ed avrai.
Ma, poichè denno questi miei prodi
Nei lor castelli dir le tue lodi,
E notte e giorno render gelose
Fanciulle e spose;
Sien dunque istrutti d’ogni tuo merto.
Che tu sei buona, frate Roberto
L’ha predicato. Che tu sei casta,
Io ’l dico, e basta!
Agil di forme, sottil di piede,
Che tu sei bella, ciascun lo vede.
Or via, Rosmunda, dà loro un saggio
Del tuo coraggio. —
E a lei porgendo con un sorriso
Il nudo teschio del padre ucciso:
– Or via, Rosmunda, forte esser devi:
Rosmunda, bevi!
Per me il suo sangue, per te il mio vino;
Bella Rosmunda, questo è destino:
Tu l’hai baciato prima ch’ei mora;
Bacialo ancora.
E tu, spolpato re Cunimondo,
Addio. Tu vieni dall’altro mondo.
Ecco la stella di mia famiglia:
Bacia tua figlia. —
Del re briaco piacque lo scherno,
E un lungo eruppe plauso d’inferno.
– Re Cunimondo, bene arrivato!
Dove sei stato?
Perchè la mano più non ci tocchi?
Per Dio, che avvenne? Tu hai perso gli occhi!
Oh sconsacrato figliuol di Roma,
Dove hai la chioma?…
Real cugino, lancia smarrita,
Dammi novelle dell’altra vita.
Poi di due cose rendimi istrutto,
Tu che sai tutto.
Pingui di cibo, scarsi di guerre,
Starem molt’anni su queste terre?
E a quali patti Dio ce la dona
Questa corona?
Ospite bianco mutolo e cieco,
Bacia la rosa ch’io tengo meco,
Ve’ che i tuoi baci pallida aspetta
La poveretta. —
E il re briaco, così dicendo,
Giocherellava col teschio orrendo;
E a lei, che gli occhi fremendo torse,
Ratto lo porse.
– Ferma, Alboino, da’ labbri miei
La prova infame voler non dèi.
– Bevi, Rosmunda; non più parole!
Così si vuole. —
Bevea Rosmunda. Ma con lo sguardo
Parea dicesse: – Re longobardo,
Se la vendetta qui non mi langue,
Berrò il tuo sangue! —
E dopo un anno da quel convito,
Dormiva solo l’ebro marito.
Aprì una notte l’erma sua cella
Rosmunda bella…
E con un forte vago soldato
Il regicidio fu patteggiato…
Ed ecco all’alba sommessamente
Picchiar si sente.
– Sei tu, Almachilde? – Son io. – Che porti? —
– Che un lungo sonno dormono i morti! —
Ond’ella, tratto l’aspro cimiero:
Dal suo guerriero:
– Questa corona, dolce mio bene,
Questa corona più ti conviene.
Ella era turpe; rendila degna;
Baciami, e regna. —
Se iniqua storia vi raccontai,
Quello ch’è storia non cangia mai.
Nel torbid’evo, quando l’Italia
Fu data a balia,
Di casi atroci ne avvenner molti:
Ma ai nostri tempi, civili e colti,
Spose e mariti, popoli e troni
Son tutti buoni.
SOLITUDINE E RACCOGLIMENTI DELLO SPIRITO
//-- I. --//
Che mi giovò peregrinar per tante
Terre, temprando i mesti carmi e i lieti?
Sotto l’ombra de’ gelsi e degli abeti
Or sogno i dì quand’io sorrisi infante.
Cara città del Tanaro sonante,
Patria d’imperadori e di poeti,
Molli prega per te l’aure e i pianeti
La nostra Musa della pace amante.
La nostra Musa, che un romito albergo
Or chiede al cielo, d’ascoltar già lassa
Tanto vacuo rumor stridersi a tergo.
Rumor di biasmo che matura affanni,
Rumor di lode che col vento passa.
Oh, i cari sogni de’ miei giovani anni!
//-- II. --//
Nei cari sogni de’ miei giovani anni
Vidi una mesta creatura bella,
E sul cammin de’ cominciati affanni
Per man la presi, e la chiamai sorella.
Or basso giace! E piacque alla mia stella
Riconfortarmi con illustri inganni;
Ond’io sclamai: Gloria, ti cerco. Ed ella
Mi rispose: Figliuol, cerchi i tuoi danni!
E ben fu il ver: perchè ho consunti gli occhi
Per tante veglie lacrimate, e sento
Su per l’aspro cammin rotti i ginocchi.
Sui fior già tristi la imminente neve
Si versa, e picchia ai morti rami il vento.
Primavera dell’uom quanto sei breve!
//-- III. --//
Primavera dell’uom quanto sei breve!
Perciò natura con pietoso affetto
Fece uscir di sue mani il fanciulletto
Così ridente, spensierato e lieve.
Son rose i lini del suo picciol letto,
Rose i baci che dona e che riceve;
È rugiada del ciel l’acqua che beve,
Divina è l’aura che gli scorre in petto.
Lasciamo in grembo al luminoso incanto
Questo picciolo re dell’allegrezza,
Che in breve diverrà schiavo del pianto.
Oh rimembranza dell’età fanciulla!
Chi serba amor di quella prima altezza
Sospira, e torna a ribaciar la culla.
//-- IV. --//
La culla a ribaciar torna e sospira
Chi per suoi dolorosi esperimenti
Apprese l’arti, onde si volve e gira
Questa torbida razza de’ viventi.
Chi vide uscir dai ben orditi accenti
L’opre disformi, e il viver dolce in ira
E poderosi i rei sugli innocenti,
La culla a ribaciar torna e sospira.
Io l’amo sì, dal vulgo inavvertita
Quest’umil casa, ove sognar si ponno
Le larve più soavi della vita.
Ma al par di questa, che con dolci tempre
Chiama sugli occhi ai pargoletti il sonno,
Amo quell’altra ove si dorme sempre!
//-- V. --//
Amo quell’altra ove si dorme in pace,
Ove allo stanco figlio del dolore
È pio conforto una solinga face,
Una stilla di pianto, un mesto fiore.
Colà dentro sepolto, il rumor tace
Di tanti sogni, che fêr nodo al core.
Oh, ben s’apre ai dolenti la tenace
Porta onde vassi all’ultime dimore!
Io quando sento come si consuma
In me il vigor della nascosta vita,
Visibil cosa alle persone accorte,
D’una subita luce si ralluma
L’anima vagabonda; e un’infinita
Gioia mi prende in vagheggiar la morte.
//-- VI. --//
Sì tu verrai; verrai, morte invocata,
Ultimo dono che il Signor dispensa.
E: «Vieni, amico, mi dirai, la mensa
Nuzïal che volesti, è preparata.
Vieni meco alla piaggia avventurata,
Ove da lunga cecità rinsensa
Questa misera polvere, che pensa
Pensieri ed opre che non han durata».
Ed io verrò, cortese ultima amica,
Verrò nella tua pace. E il vïatore
Chi sa che alla modesta urna non dica:
Dorme là dentro un infelice ingegno
Consumato da sè nel più bel fiore.
Ma sofferse, e di pace egli era degno!
//-- VII. --//
Quel dì che dentro agli occhi moribondi
Mi nuoterà la fuggitiva luce,
Della barchetta mia chi sarà duce
Sul mar che mena negli eterni mondi?
Rimembro io ben d’un cherubino il truce
Brando, e la pena delle offese frondi;
E so che a quei perduti orti giocondi
Nessun merito mio mi riconduce.
Pure ho speme, buon Dio, che tu sia mite
Ad un che amò, che delirò cercando
Suo bene in terra, e non trovò che duolo.
Ahimè! Signor, da tenebre infinite
I’mi sento cerchiar, sino da quando
Il buon angelo mio mi lasciò solo!
//-- VIII. --//
Il buon angelo mio fu quella cara
Che, or è il quart’anno, s’è da noi partita,
Tramutando le rose della vita
Negli oscuri giacinti della bara.
Di quella donna affettuosa e rara
In noi la ricordanza illanguidita
Par talvolta alle genti; e la romita
Nostr’alma il riso dei felici impara.
Ma, Dio! Qual riso d’amarezza pieno,
Riso che sfiora i freddi labbri appena,
E dentro al cuore in lagrime si muta!
Ond’io gli occhi sollevo, e chiudo al seno
Le braccia, e tra me dico: Or la serena
Stagion volga per altri: io l’ho perduta.
//-- IX. --//
Volga per altri la stagion serena,
Che a me rise negli occhi, or nella mente
Sì mi travaglia, che da mesta vena
Spuntar sempre i miei carmi ode la gente.
E tuttavia l’afflitta anima sente
Anco una gioia; ed è che fatta piena
Sia la speranza di veder possente,
Come un tempo già fu, l’itala arena
D’una schiatta animosa, alta e gentile,
Che si rammenti degli antichi padri,
Stelle fiammanti in procelloso nembo;
E fiorisca una volta il forte aprile
Dai fiori eterni; e sentano le madri
Con gioia il peso che lor vive in grembo
ALLA MALINCONIA
//-- I. --//
Vieni, dolce compagna alla pensosa
Anima, che pur volge ove tu sei;
E non molto tardar, se alcuna ascosa
Simpatia di dolor t’annoda a lei.
Vieni soletta, e accanto mi riposa,
Poiché tutto in custodia io mi ti diei;
E dolce parla, e dimmi alcuna cosa
Che dia pace una volta a’ pensier miei.
Tedio m’occupa l’alma e l’intelletto
Per sè già stanco nel rumor, che mena
Tanto popol che ciancia e che non sente!
Talchè ogni lume di soave affetto
Mi si fa gel di dentro, e ne ho gran pena.
Provvedi, amica, il mio viver dolente!
//-- II. --//
Provvedi, amica, sì com’è tuo stile,
Che di soavi godimenti mesti
Fai tremar l’alma e in animo gentile
Ogni pensier più desolato vesti;
Se alcun mio canto, in che ti manifesti,
Dritto ti parve non tenerlo a vile,
Provvedi, amica (e non sia tardo), a questi
Ultimi dì del mio cadente aprile.
So che da te si move ogni armonia
Di verità, che come il tempo dura
E come la immortale anima mia.
E so che, se i begli occhi in me tu giri,
Rimarrà forse nell’età ventura
Qualche parte di me ne’ miei sospiri.
//-- III. --//
Qualche parte di me; però che il vano
Desio, la folle speme e il cieco amore
Dormiran muti nel funereo piano,
Come questa infedel creta che muore.
Spero soltanto che con senso umano
Talun di me favelli. E quando il core
Gli anderà mesto dietr’un ben lontano,
Goda di conversar col mio dolore.
Dolor vestito in abito diverso,
Ma mio pur sempre, e in me riverberato
Dal vario lacrimar dell’universo.
Talchè il mio nome non andrà lodato
Per la dolcezza del leggiadro verso,
Ma forse per quell’aura ond’egli è nato.
//-- IV. --//
E se anco eterne imperversasser l’ire
Della sorte, che in noi volge sì dura,
E accorresse la turba a seppellire
Meco i miei carmi, (infausta sepoltura!)
Veramente la mia trista ventura
Non sarà piena; chè gli udran ridire
Da quella, or piccioletta creatura,
Che Elisa mi lasciò pria di morire.
Lunghesso un rivo, al tramontar del sole,
Ella verrà piangendo; e in quell’affanno
Canterà i carmi che le piacquer tanto.
E gli uccelletti e l’aure e le vïole
Con pietosa dolcezza esclameranno:
Come è gentil la cantatrice e il canto!
//-- V. --//
Com’è gentil la cantatrice e il canto!
Così diran di quelle dolci note:
E tu repente sulle rosee gote
Sentirai, figlia mia, scorrerti il pianto.
Se un curïoso, che ti passa accanto,
Di ciò s’avvegga, interrogar ti puote;
E tu le inchieste di responso vuote
Non lasciar, nè ti pesi il suo compianto.
Ei tutto e presto obblïerà. Ma quando
(E ciò s’avvera), al tempo ahi! non più vivo,
Gli anderà mesto e intenerito il cuore,
Fia che rammenti, e forse lacrimando,
Una pia giovinetta in margo a un rivo,
E un sol morente, ed un canto d’amore.
//-- VI. --//
Tutti di rose a te rideran presto
Gli anni di gioventù, cara angiolella,
Nè molto andrà che sentirai quel mesto
Turbamento gentil, che amor s’appella.
O figliuoletta mia! poiché da questo
Mondo è fuggita la materna stella,
Il tuo povero cor fa manifesto
A me, che per me t’amo, e più per quella.
Io parlerò col tuo povero core,
E alcun conforto, o dolce anima cara,
Stillerò forse sulla tua ferita;
Perchè l’uom che negli occhi ebbe il dolore,
O figliuoletta, agevolmente impara
La mesta intelligenza della vita.
OMBRE E LUCE
Tu che il giovane capo orni di rose,
Le hai ridenti sull’alba e a vespro morte!
Tu ne’ balli t’avvolgi, all’amorose
Vergini arridi, e al piè compri ritorte.
Piangerà chi la lieve anima pose
Dietro larve di bene, ahi! così corte;
Chi non ha senso dell’eccelse cose
Avrà il tedio custode alle sue porte.
Oh! inver beato il pellegrin, che il piede
Mette per questa landa orrida e grama,
E gli è cibo l’amor, tenda la fede
Verso le torri, e la città che il chiama!
Poco intende quaggiù cor che non crede,
Nulla intende quaggiù cor che non ama.
A UGO FOSCOLO
//-- I. --//
E tu, caldo di gloria e libertade,
Ahi! d’Albïon sotto le rupi brune,
Dove il raggio del sol sì pigro cade,
Teco traesti l’ultime fortune.
E hai dovuto varcar l’atre lacune
Pria di veder le maledette spade,
E i rei turbanti e le falcate lune
Dar volta dalle tue belle contrade!
Chè Zante no, ma il riso tutto quanto
Di Grecia a te fu patria, Ugo, che avesti
Di Pindaro e Tirteo l’anima e il canto.
E pur nudo e ramingo, in piagge estrane.
Ahimè! non lacrimato i dì chiudesti.
Ecco, ingegni frementi, il vostro pane!
//-- II. --//
Ma lungo il fiume dell’elisia valle
La verde riva appena ebb’egli presa,
Che sentissi gridar dietro le spalle:
«Ugo, qua rompe ogni terrena offesa!
Guarda come di fior, d’erbe e farfalle
Tinta è l’aria e la terra, e con che accesa
Trepidanza gentil vincono il calle
L’anima di Ricciarda e di Teresa,
E tua madre con lor». Baci e saluti
Fûr molti; e arrise la immortal pianura,
Quand’ei narrò, senza dolor nè sdegno,
Rea mercede del canto, i combattuti
Anni e l’ira e l’esiglio, e quanto dura
Nelle memorie d’un afflitto ingegno.
A G. PLANA
M’odi, signor. Quand’io m’innamorai
Di te, come per fama avvenir suole
D’uom, che da queste miserande aiuole,
Batte l’ale all’altezza ove tu stai,
Veramente in quegli anni io non sperai
Vederti in viso ed ascoltar parole
Di quel pensier che sta cogli astri e il sole,
E inutilmente, non li tenta mai.
E or t’assidi al mio letto; e mi favelli
Con tal riso d’amor, come faresti
Con un dei tuoi lucenti astri più belli.
Oh ben t’avvenga, illustre alma pietosa,
Che cittadina delle vie celesti,
Cerchi il dolor come celeste cosa.
A GIORGIO BYRON
Nato nel grembo di nebbiose lande,
Bello apparisti e formidabil tanto,
Che spesso i lauri delle tue ghirlande
Andar bagnati del femmineo pianto.
Varia del viver tuo per varie bande
Suonò la fama, e talor fosca, ahi! quanto.
Ma chi t’intese, ti compianse, o grande
E giovin re del desolato canto!
Uomini, fede ei vi chiedea, e tacque
Lo steril mondo. Amor gli fu venduto.
L’ebbe senz’oro e non gli die’ conforto.
Allor lanciossi dell’Egèo sull’acque.
Non vi giovi indagar com’è vissuto;
Pensate sol dove il poeta è morto!
A M….
//-- I. --//
Donna! Se gli occhi recherai su questi
Carmi infelici, ch’io vado cantando,
Perchè di me qualche memoria resti,
Di me, che or vivo da ogni gioia in bando
Chi sa che il cor non ti si turbi, quando
Vedrai come per segni manifesti
Di te parla talora e lacrimando
L’anima mia, che tu non conoscesti.
Credei che il mondo non avesse eguale
Al tuo cuor nessun altro; e t’amai come
Cor nessun altro amar non ti potea.
Oh! non prevista mia piaga mortale!
Oh! lusinga terribile d’un nome!
Oh! in angeliche membra alma sì rea!
//-- II. --//
Però senti, se viva è nel mio petto
Di te la rimembranza! Allor ch’io m’era
Così presso alla morte, e l’intelletto
Già delirando in misera maniera,
I’ pur sempre correa (così m’han detto),
Sempre del Lario alla gentil riviera,
E ti parlava con quel grande affetto,
Che si ha per donna infortunata e altera.
Ed eran teco i due bimbi innocenti;
E profonde dal cor lacrime sparsi,
Lungamente baciandoli nel viso.
Poi desto della vita ai sentimenti,
Vedea tutte le cose incolorarsi
D’un soave color di paradiso!
//-- III. --//
Pace, o memorie dell’età fiorita!
E gioisca ella, se altro amor le adorni
D’altri sogni il pensier. Ma se romita
Trascorre in solitudine i suoi giorni,
Comprenda allor come una volta uscita
Dal cor la gioventù rado è che torni;
E come e quanto alla deserta vita
Pesino questi inutili soggiorni.
Inutili, se il cor tutta aveva posto
La sua dolcezza in una larva cara,
E che poi se ne andò miseramente!
Ahimè! come dal sogno è il ver discosto.
Ahimè! come nel tempo si prepara
L’acerbo disinganno della mente.
//-- IV. --//
Sentimi, o donna. Su quest’ampio vano,
Che diciam terra, ove i presenti guai
Fan gemer l’alme a qualche ben lontano,
S’io ti scontrassi un’altra volta mai,
Sarò nel viso amicamente umano
Pensando al dolce tempo che t’amai.
Ti porgerò senza terror la mano,
E tu senza terror la stringerai.
Forse negli occhi nostri alcuna stilla
Verrà di pianto a ripensar qual’era
L’antica speme e il bel tempo fuggito.
E a quella mesta visïon tranquilla
Avrem compagne l’aure della sera,
E il sor nell’occidente impietosito.
SONETTO
I’ vo con l’aria fresca e con la piova,
Coll’alba azzurra e il vespero rosato,
Modulando armonie qual chi non trova
Altro usbergo miglior contra il suo fato.
E mi conforta nella varia prova
La mesta musa che mi vien da lato;
Musa in ira ai codardi, e a cui sol giova
Gir raminga e cantar senza peccato.
Ch’ella tien salde le ragion del vero,
Nè cala a tregua coi potenti, o lega
Mobili patti con la vil fortuna.
Tal che, fragile giunco, o cedro altero,
Può spezzarsi ella sì, ma non si piega.
Di tal tempra, perdio! fatta è quest’una.
LA MORTE
Dolce pittor, dipingimi costei
Non circondata di spavento e d’ira,
Come gli sciocchi se l’han finta e i rei;
Ma quale il mesto mio pensier la mira.
In bianca veste avvolgila, e le spira
La serena bellezza degli dei;
E tolta in guardia la fedel mia lira,
Chiuda soavemente gli occhi miei!
Così, nell’alto fantasie del core,
Sempre mi piacque immaginar la morte;
Amica e madre ai figli del dolore.
Perchè vestirla di sì tetro velo,
Scarno fantasma sulle nostre porte,
Quand’ella è cosa che ci vien dal cielo?…
UN GIGLIO
Oh il più soave e il più gentil tra i fiori,
Che pur divelto al povero tuo stelo,
Su un nero crin modestamente odori,
O in fra le pieghe d’un virgineo velo;
Ti dà la terra i suoi tepenti umori,
Lo schietto lume e le rugiade il cielo,
E ahimè! sì presto, o fiorellin, tu muori
Per poca vampa o lieve orma di gelo.
Così passa la bella giovinezza,
Vergini care. E il nappo oggi ripieno
D’ambrosia, all’alba del diman si spezza.
Tal che quand’io ne’ chiusi orti vi miro
Correr gioconde con un giglio in seno,
Come a dolente visïon, sospiro.
ZULIA
Sull’incantato Bosforo,
Passeggiava Zulìa, la rosellana,
Rapita in mesto fantasie d’amor.
Un dì la vide il giovane
Sir di Bisanzio, e la creò sultana;
Ma pria di tutto aver voleane il cor.
Ambre, alabastri e porpore
Sparse dovunque; e agli occhi di Zulìa
Mostrò d’ori e di gemme ampio tesor,
E dalla intenta vergine
Il bellissimo re della Turchia
Ottenne gli occhi, ma non n’ebbe il cor.
Volò in battaglia; e i perfidi
Vinse fratelli di Zulìa: ma festa
Non menò de’ caduti il vincitor:
Tolti alla morte e liberi
Anzi li volle: e dalla vergin mesta
Ottenne i baci, ma non n’ebbe il cor.
Dimenticò le vigili
Cure del regno; e in erma navicella
Errò con lei degli astri allo splendor;
Pianse alle sue ginocchia,
E dalla frale giovinetta bella
Ebbe gli amplessi, ma non n’ebbe il cor!
Ecco, una sera i portici
Dell’assopito Arème
Suonar di grida, e un turbine
Di spade, e cento fiaccole
Per le agitate tenebre
Confusamente errar;
E il regnator che freme
Cieco, e l’orrenda sciabola
Sfonda de’ suoi giannizzeri
Nel petto; e quasi l’angelo
Dello sterminio appar!,
Che fu?… Zulìa, la tenera
Zulìa deluso ha tutti.
E quella notte naviga
Dell’Ellesponto i flutti,
Fuggendo alle inamabili
Cortine e ai minareti
Lieti – di luce e fior,
Per ricercar men cerule
Onde, men dolci venti,
Ma più serene e libere
Gioie, e più santi gemiti,
E non spïati accenti
E non temuti amor!
E questi amori arrisero
Alla fuggente?… E il roseo
Labbro di lei s’aperse
Più molle vita a suggere
Da meno ardente ciel?…
No. Sue parole agli alberi
Selvaggi, alle stellate
Tenebre, al mar proferse,
Ma sempre inascoltate.
E un bruno e mesto viso,
E un core e un intelletto,
Che indovinasse i subiti
Misterii delle lacrime
E i lampi del sorriso
Con delicato affetto
D’amante e di fratel
Mai più non ebbe. Oh povera
Zulìa, tu passi e canti
Lunghesso le fantastiche
Riviere di Granata:
E le fanciulle amanti
Ti credono la fata,
Che giunge a vol dai floridi
Paesi delle Urì
Per rivelare ai forti
Le pugne e le vittorie,
E sulle aperte e timide
Palme spïar le sorti,
E solvere i segreti
Dal calice dei fiori,
E derivar gli oroscopi
Dal raggio dei pianeti,
E a quïetar gli ardori
Notturni delle vergini,
Vaticinarne i talami
Allo spuntar del dì.
Così tu passi; e il crine hai sempre in fiore.
Ma il povero tuo core
Vuoto è d’amore!
E vai pregando. che il dolor ti porti
Giù nell’anguste e forti
Case dei morti!
Pur ti credon felice allor che suoni,
O meni danze, o doni
Filtri e canzoni;
Ma nessuno, del mondo a esplorar viene
Di che rea febbre piene
T’ardon le vene.
Nessun vede, cogli occhi, il miserando
Stral che ti piaga, quando
Passi cantando,
E miri un giovincel, che l’orme affretta
Sull’orme alla diletta
Sua giovinetta,
E tra le siepi e le solinghe aiuole,
Al tramontar del sole,
Cerca vïole,
Per poi deporle dolcemente nelle
Mani odorose e belle;
Due gigli anch’elle.
«T’amo,» ella disse al venticel segreto,
«T’amo,» al lucente e lieto
Fior del roseto:
Ma un triste grido il venticel rispose,
E curve e dolorose
Pianser le rose.
Allor con quella brama intima acuta
Del cor che risaluta
L’età perduta,
Pensò la mesta al suo golfo lontano.
E sospirò, che in vano
Piacque al sultano.
Dell’incantato Bosforo
Ai palmeti tornò la rosellana.
Ma non più accesa in fantasie d’amor.
Ben la rivide il giovine
Sir di Turchia. Ma un’altra era sultana,
Che insiem cogli occhi gli avea dato il cor.
Ambre, alabastri e porpore
I sogni della povera Zulìa
Turbano adesso, e i drappi assiri e l’ôr:
Ma gli ebbe un’altra vergine
Dal bellissimo re della Turchia,
Che insiem coi baci gli avea dato il cor:
Mesta Zulìa rivisita
I noti calli, e va soletta a sera,
Or sospirando al roseo color
D’una fuggente nuvola,
Ora al vol d’una rondine leggiera,
Ora alle foglie pallide d’un fior.
Oh fiorellino! oh rondine
Cara! oh rosata nuvola fuggente!
Fate un canto di morte e di dolor:
Poi lo cantate al gelido
Origlier della vergine, che sente
L’amaro tedio della vita, e muor.
GALOPPO NOTTURNO
Ruello, Ruello, divora la via;
Portateci a volo, bufere del ciel.
È presso alla morte la vergine mia;
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
Se a forza di sprone li fianchi t’ho aperti,
Coi lunghi nitriti non dirmi crudel;
Son molte a varcarsi pianure e deserti,
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
Non senti nell’aria che perfido riso?
Non senti che fischi d’orrendo flagel?
L’odor dei sepolti mi soffia nel viso,
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
Ah! questa, ch’io sento, sarebbe la voce
Del coro, che mesto la porta all’avel?
Dio santo!.. che veggo!.. la bara e la croce!..
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
T’arresti, Ruello?… Coraggio e speranza!
Per Dio, vuoi tradirmi, cavallo infedel?..
Laggiù la tempesta ruggendo s’avanza;
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
Galoppa, Ruello; più forte, più forte;
Dio santo, che foco! Dio santo, che gel!..
Ormai sulle ciglia mi pesa la morte:
Galoppa… galoppa… galoppa… Ruel.
E qui cadde orribilmente
Fulminato sul sentiero;
E il cavallo, che non sente
Più lo spron del cavaliero,
E che ha libera la groppa,
Vola vola e non galoppa.
Scossa al vento la criniera,
Va più sempre inferocito.
Animata è l’ombra nera
Da una pesta e da un nitrito,
Egli ha libera la groppa,
Vola vola e non galoppa.
Sbuffa ansante. Il fumo s’alza
Della febbre e del sudore;
Polve e ghiaia in alto sbalza
Sotto i piè del corridore,
Egli ha libera la groppa,
Vola vola e non galoppa.
Dal dirupo alla boscaglia
Cento leghe ha divorato.
Finalmente a una muraglia
Batte i fianchi il disperato…
Sta la morte sulla groppa,
E il caval più non galoppa!..
E frattanto sulle pallide
Scarne guance alla morente,
Che sussurra un dolce nome,
L’agil tinta ricompar;
E levata in sulla coltrice
La persona amabilmente,
Le bellissime sue chiome
Ricomincia a inanellar.
«Madre mia! sì forte l’anima
Tu non sai chi mi riscosse,
Oh! dell’abito più bello
Io mi voglio rivestir!
Questa notte per le tenebre,
Non so dir come ciò fosse,
Ma la pesta di Ruello
M’è sembrato di sentir.
Guarda, o madre, tra quegli alberi
Dove accenna la mia mano!…
Non ti par che un picciol punto
Si avvicini?… Osserva ancor.
Ah!… non vedi quella polvere
Che s’innalza di lontano?…
Non conosci?… È giunto! è giunto!
Madre mia… mi fugge il cor.»
Poveretta! in giro i languidi
Occhi aperse un’altra volta;
Cercò il sole; e uscì di guerra
Nominando il suo fedel.
Poveretta! ai casti talami
Lo aspettava… e fu sepolta.
Oh speranze della terra!
Voi finite in un avel.
SOGNI D’AMORE
Canto di Rodolfo.
Poiché le stelle, o incognita
Amica, lor più bella,
A visitar ti vengono
Nella magion novella,
Non senti un malinconico
Spirto vagar tra i fiori,
E i suoi notturni amori
Gemer, pensando a te?
Odilo: ei canta. Un esule
Dal ciel son io. Nessuna
Gioia m’allegra. Ai pallidi
Riflessi della luna
Erro solingo; e memore
Che il mio destino è questo,
Vo modulando il mesto
Canto che Dio mi diè.
Oh, potess’io d’un zeffiro
Lene vestir le tempre!
Il molle crin baciandoti,
Con te vivrei pur sempre.
E per terror d’intendere
Qualche crudel richiamo,
Non ti direi che t’amo.
Ma gemerei d’amor.
Fossi una rosa, un umile
Bruno giacinto almeno!
E si affrettasse a portelo
Anche un amante in seno,
Purché suggessi gli atomi
Dei mio romito incenso,
Lieto del dono immenso
Ti languirei sul cor.
Nel dì d’un’agil rondine
Mutassi i giorni miei!
Sempre dall’alba al vespero
Sul tuo balcon sarei,
E respirando l’aere
Della tua dolce stanza,
Di pena e di speranza
Là bramerei morir.
Ma tutto indarno. Un esule
Spinto dal ciel son io,
Che di dolenti musiche
Rivesto il pensier mio.
La ingrata solitudine,
L’ira, il dolor sostenni:
Come nel mondo venni
Dovrò dal mondo uscir.
Ah! se nel grembo a un’isola,
O in un remoto speco
Chi die’ la vita agli angeli
Ti facea nascer meco!
Stati sarien partecipi,
In quelle verdi chiostre,
Delle allegrezze nostre
Il mare immenso e il ciel.
Noi passeggiando il pelago
Lunghesso i fior del lito,
Ebri di gioie insolite
Avremmo sempre udito
Tutto d’amor sorriderci,
D’amor parlarci tutto,
La luna errante, il flutto,
La barca e il venticel.
Quando alle dubbie tenebre
Chiuso tu avessi gli occhi,
T’avrei raccolto, angelica
Donna, su’ miei ginocchi,
Rasciutto avrei le roride
Stille dei tuo sudore,
T’avria battuto il core
Sotto una conscia man.
T’avrei chiamata in lacrime;
E tu, gentil, da tanto
Sonno d’amor svegliandoti,
Terso m’avresti il pianto.
E le tue labbra, indocili
E per pudor tenaci,
Dai prorompenti baci
Sarian fuggite invan.
Terribil Dio, rispondimi;
Perchè a crearmi questi
Vani fantasmi un lucido
Strano poter mi desti?
Ah, le gioconde imagini
Hanno un balen di vita,
E l’anima assopita
Ritorna a lacrimar.
Addio, fanciulla. In tramiti
Contrari il ciel ne pose.
Spine sul mio germoglino:
Sul tuo fioriscan rose.
La gondoletta i placidi
Seni attraversi ancora,
La fulminata prora
Nuoti in balìa del mar.
Addio, fanciulla. Un intimo
Di me pensier ti resti.
Lontani ancor ricordati
Che son fratelli i mesti.
Altri pur sua ti nomini
«Ne’ tuoi felici giorni,
«Purché tu mia ritorni,
Quando il dolor verrà.
Oh! se dispersi fossimo
Anche alle plaghe estreme,
L’orme affrettiamo e i palpiti,
Per ricercarci insieme.
Questa, tremando, è l’ultima
Ch’io t’oso dir parola,
Questo pensier consola
La mia raminga età.
IL CALUNNIATORE
Sai tu chi sei, che livido
Per tenebrosi studi,
Nel ferraiuol di Satana
Le brutte membra chiudi,
E con lo sguardo d’aspide
Metti ribrezzo al sol?
O dalla bella immagine
Così di Dio scaduto,
Tra i più codardi spiriti
Che placan l’ire a Pluto,
Va. Con la bava e gli aliti
L’aure avvelena e il suol.
Va. Nella dubbia tenebra
La rea caldaia accendi.
Gittavi l’erbe, adunale,
Spremine i sughi orrendi;
E l’infernal tuo farmaco
Distilla, o traditor.
Indi col ghigno e il facile
Motto e l’ambiguo riso,
Spruzza le turpi gocciole
All’innocente in viso,
Che passeran dall’intimo
Sangue mortali al cor.
Giuda! Co’ tuoi satelliti
Tu al fatal orto ascendi,
E accenni; l’incolpabile
Sangue d’un giusto vendi.
Giuda tre volte!… Accelera
Via per la selva il piè;
Cerca tremando un albero,
Poiché perduta hai l’alma,
E da quel tronco spenzoli
La disperata salma,
E la bufera e il turbine
Fremano intorno a te.
E i fiori e gli astri e i placidi
Rivi tramutin tempre
E come trombe squillino
Per maledirti sempre,
Giuda, che avesti i perfidi
Occhi gelati in don,
Non a mirar la florida
Beltà de’ campi, e il velo
Ampio de’ mari, e i liberi
Monti, e l’immenso cielo;
Ma a tossicar le vergini
Gioie, che tue non son.
Giuda! che non a sciogliere
Detti giocondi o mesti,
Non a cantar di gloria
La infame lingua avesti,
Ma tenebrosi e memori
Menzogne a modular;
Che rechi il piè di demone
Pel calle obliquo e muto
Nell’aure sacre a compiere
Opre, ch’io dir rifiuto,
Perchè la terra e l’aere
Non s’abbia a macular.
Senti! Se pena in carcere
Un ladro, un omicida,
So che la fame o l’impeto
Cieco al fallir fu guida,
E un’indulgente lacrima
Forse dal cor, mi vien.
Quando una trista femmina
Dalle native glebe
Reca l’infamia e transita
Fra la ghignante plebe
Che la fa rea del tenero
Bimbo che chiude in sen;
Io chino il capo e medito
Che donna ella pur nacque,
Come colei che in Magdalo
Troppo fu bella e piacque;
E pentimento e venia
Spero all’infausto error.
Qualunque fallo un gemito
Risveglia nel cor mio,
Sento il dolor dei miseri,
Perchè lo impose il Dio
Che visse in mansuetudine,
E comandò l’amor.
Ma te ribaldo e livido
Per tenebrosi studi,
Che nel mantel di Satana
Le brutte membra chiudi,
E con lo sguardo d’aspide
Metti ribrezzo al dì,
Te maledetto artefice
Di filtri all’aer cieco,
Te solamente abbomino,
Te veramente impreco:
E Dio perdoni al cantico
Che nel dolor m’usci.
A LUIGIA ABBADIA
Cara e gentil penisola
Nel riso dei pianeti,
Nel bacio delle vergini,
Nel canto dei poeti;
Cara e gentil, siccome
Il musical tuo nome
Proferto in ogni barbara
Lingua con dolce suon;
Ama costei, che ogn’intima
Aura di tua favella
Sente, e la fa dall’agili
Corde vibrar più bella;
Ama costei, che tanto
Coglie sorriso e pianto,
Quant’è dall’Etna al Vèsulo,
E te lo reca in don.
Ella vagì tra i liguri
Fior, sotto l’ombre care
De’ cedri. E i malinconici
Venti, le stelle, il mare,
Il turbine, la calma,
Tutto sonò in quell’alma;
E una spontanea musica
Furono i suoi pensier.
Si fe’ narrar le istorie
D’Imelda e di Giulietta.
E, in voluttà fantastiche
Chiusa la giovinetta,
Il doloroso arcano
Pensò del pianto umano,
E in quella facil estasi
Pianse, e conobbe il ver.
Con tutti allora il parvolo
Suo cor tremò diviso.
Ebbe pei mesti un gemito,
Pei fortunati un riso,
E da quel vario moto
Agile, ardente, ignoto,
Come da sacra tenebra,
L’arte, raggiando, uscì.
Così questa ineffabile
Forza, che sente e crea,
Chiude in eterne immagini
La fuggitiva idea;
Ed è vittoria e regno
Dell’ispirato ingegno
Quella parola artefice,
Che al mondo e al ciel rapì.
Ed è parola il gelido
Marmo, la pinta tela;
Questo color, quest’impeto,
Che il mio pensier rivela,
E la canzon d’amore,
Che pria ti nasce in core,
Poi sulle ardenti porpore
Delle tue labbra vien.
Canta, sì, canta; e provoca
Col musical tesoro
Le rigid’alme. Immemore
Di chi l’invôlga, onoro
L’arte del canto unita
Con un pensier di vita,
Come fremea sugli attici
Campi a Tirtèo nel sen.
Italia mia, di martiri
Divino asil, bagnato
Dalle immortali lacrime
Di Dante e di Torquato,
Misera e sacra terra
Piena d’orrenda guerra,
Che die’ retaggio ai popoli
D’ignavia e di dolor.
Su te si volve un secolo
Lieto di molta speme.
Ma nel tuo sen combattono
Avverse forze insieme.
Voleri accesi e lenti,
Coraggi e pentimenti,
Pie le parole, e indomito
L’acre desío dell’or.
Forse un immenso palpito
In questo dubbio mondo
Desterà Dio. Dell’inclite
Acque eridanie in fondo
Fors’è la gemma ascosa,
Che all’indolente sposa
Più glorïosi talami
Desiderar farà.
E tu, fanciulla, indocile
Degli evirati accenti,
Cantar tu possa il cantico
Che aspettano le genti!
E in quell’eccelso agone
Raccoglierai, corone,
Quai non fioriro al libero
Sol della greca età.
ULTIME ORE DI TORQUATO TASSO
Era la notte d’un morente aprile,
Ben remota da noi, ma con eterne
Lacrime degna che la pianga il mondo.
Sovresso i campi dell’eccelsa Roma
Ridea tutto di stelle il firmamento.
Biancheggiavano in lungo ordine i templi.
Eran l’urne de’ Cesari percosse
Dalla imminente luna. E i sette colli,
Cui si curvò la trïonfata terra,
Come sette giganti eran sepolti
In altissimo sonno. E per l’immenso
Aër nulla s’udia, fuorchè il sonante
Precipitar del Tevere divino.
Dai mordaci dolori e dalle colpe
Han requie nella notte imi e superbi.
Sul suo greppo natal l’aquila posa.
Giace tra i giunchi della siepe il verme.
E con le gigantesche ombre cadenti
Sotto l’interminato arco dei cieli
Dormon tutte le cose. Unica vive,
Custode eterna della razza umana,
La Sventura. E con lei, coronatrice
Degli afflitti, la Morte.
Ahi! verdeggiava
Un bel ramo di lauro in Campidoglio
Per il crin di Torquato; e dai convessi
Padiglioni del ciel questi pianeti
Non fuggiranno, che la illustre chioma
Si stenderà sui miseri guanciali
Dalla man della morte irrigidita.
Oh nuvoletta, che laggiù rispunti
Nell’azzurro occidente, apri e dilata
Pietosamente il grembo, e tanto chiudi
Lume di ciel, che i mesti occhi mortali
Non offenda così! Però che al mondo
Volge un’ora di lutto; e della sua
Più nobil pianta rimarrà diserto
Il giardin della terra.
Eccolo!… Ahi quanto
Da quel di pria diverso! Or non più vita
Cavalleresca e splendida; non alto
Di destrieri nitrito, e pompe e giostre
E baldanze magnanime, e superbe
Glorie di giovinezza. Una parete
Squallida; il raggio d’una dubbia lampa;
Una povera coltre, e pochi intorno
Pii fratelli d’un chiostro. – Ardono i polsi;
Ardon le fibre; e nel consunto aspetto
Lampeggia l’occhio immobile. Non batte
Palpebra; e in vaghe visïon rapito
Par tuttavia l’infermo. E gli s’infiora
Tra le pallide labbra un dolce riso,
Come accenni al disio d’altro elemento
Più dei nostro felice
«Oh quegli schermi
(Supplicò dolcemente il moribondo
La finestra affisando) oh! quegli schermi,
Che mi vietano il bel lume del cielo,
Apritemi, fratelli!… Io veder voglio
Anco una volta le mie dolci stelle,
Compagne agli estri dei passati tempi.
Anco una volta le mie dolci stelle!»
D’un pietoso la man subitamente
Schiuse le imposte. E le sue dolci stelle
Vide Torquato; e per lo scarno volto
Una cocente lacrima gli scese.
«Come soavi brillano!… Che pace,
Nel firmamento!… Che dolcezza ignota
Tutto quanto mi penetra!… Fratelli,
Meco resti un di voi!… Sento una forte
Necessità di favellar con Dio.
Meco resti un di voi.» —
Sommessamente
Si ritrassero gli altri. E il più canuto
D’anni e di senno alla mortal cortina
Taciturno rimase.
Alzò Torquato
La mano a stento, e si segnò. Poi chiuso
Come in lungo pensier parve; nell’alma
Sentì venir le ricordanze; aperse
Le labbra indarno a favellar; sul fronte
Che ardea cacciò la destra… e in disperate
Lagrime ruppe.
– Ve le conta il cielo
Queste lagrime, o Tasso. Or via; conforto
Datevi e pace. Misero i mortali
Vi fecer, sì; ma Iddio v’ha dato un’alma
Libera e grande. —
«Una terribil croce
Ei m’ha dato… e null’altro. Oh mia materna
Casa!… Oh felice oscurità degli anni
Senza gloria vissuti!…»
– Il sacrosanto
Dono di Dio non maledite in queste
Ore, o Torquato. Ei ve lo diede; Ei seppe
Cui dato era un tal dono; e vi ha creduto
Di possederlo degno. Oh vi rimembri
D’Alighieri infelice! —
Arse Torquato
Di vergogna a un tal nome; e si. ristette
Dal penoso lamento.
«È ver!… Codarda
Debolezza mi vince. Oh! ma non era
Così la tempra del mio spirto. I lunghi
Odii, gli sfregi, il carcere, la morte
D’ogni idea più sublime, e il mio settenne
Non udito lamento, ecco i feroci
Percussori del mio misero spirto!
Ah!… Non era così!…»
– Tasso, gli sguardi
In quel svolto affissate: Egli v’insegni
Il calice a votar dei patimenti
Voi sapete Chi fu! —
Giunse la mani
In silenzio il poeta; e con ardente
Confidenza pregò:
«Re dei dolori,
E Dio della fortezza! A un travïato
Spirito infermo che domanda pace,
Perdona omai questo corruccio. In petto
Tu mi ponesti una terribil fiamma:
Ella arder volle: ma da me non venne
Custodita abbastanza; e in lampi d’ira,
E in pensieri d’orgoglio, e in ardimenti
Insensati ella ruppe. Il tuo cammino
D’umiltà, di coraggio e di dolcezza
Io seguitar non valsi; e al cor ne sento
Penitenza amarissima. Sublime
Era il patir tacendo; e vil mi parve;
E non seppi domar la insofferente
Anima; e caddi da quell’alto loco,
Donde forse io potea schiudere al. mondo
Più gran tesori d’armonie, più nova
Luce di carmi, e d’opere gentili
Più mirabile esempio.»
– Ecco, Torquato.
(Il monaco proruppe.) Ecco l’eccelso
Spirito che ti sente e ti confessa,
O Artefice dell’alte intelligenze,
Dio, signor della gloria e della morte.
Ben è questi il cantor della tua santa
Gerusalemme. —
«Si! son io. (Proruppe
Il poeta infiammandosi.) Due lustri
Piansi; due lustri meditai; la mente
Per due lustri m’accese una potenza
Glorïosa, indomabile, divina.
Sognai campi e battaglie, armi ed amori;
Le infernali falangi e le celesti
Mi lampeggiâr nel concitato spirto;
E in quell’ore fantastiche e sublimi
D’abbracciar mi parea secoli e mondi
Non conosciuti… e confidai che un giorno
Qui sulla fronte mia, qui deporrebbe
Italia il premio di tant’anni, il lungo
Desiderio dei vati, il glorïoso
Lauro di Dante. Oh sogni miei! Cadeste,
Come fior, nella polve; e le mie corde,
Non risposer le mie corde infelici
Al pensiero di Dio!…»
– V’inganna il troppo
Delirar della mente, o sventurato,
Nei febbrili tumulti. E non vi è noto
Quanti plausi dall’Alpe all’Appennino
Mandi Italia a Torquato… e come pianga
Però che sa che il conceduto alloro…
Forse… —
«Il mio crin non cingerà. Lo sento
Che al mio letto s’approssima la morte.
Meglio così! Qual dono inaspettato
La ricevo da Dio, che questo peso
D’ira, di tedio e di dolor mi toglie.
Da Dio, che m’apre (i’ n’ho speranza) un loco
Di salvamento a’ miei liberi affetti,
Che l’odio umano incatenò. Fra tanti
Angeli al limitar del paradiso
Un mi sorride e le amorose braccia
In me tende… e mi chiama. Ahi… che vaneggio?
O fratel, proteggetemi. Profano
Pensier di colpa è questo mio!… Non posso
Veramente domarlo! Io ben sospiro
Al cielo, io sì; ma per colei sospiro,
Per colei, che nel mondo ebbe la parte
Di me più viva; per colei che accese
I malinconici estri del mio canto;
Per colei che mi fa dolce la morte.
Ah, senz’essa, per me lume non splende
Di Paradiso!»
– Acquetati, infelice!…
Anche di questo il Dio misericorde
Perdonerà l’anima tua. Fu grande,
Alto l’affetto che ti vinse, ed ella
Fatta è celeste; e la vedrai co’ prodi
Che tu cantasti. —
«Oh mio Tancredi! oh mio
Valoroso Rinaldo! oh mia Clorinda!
Oh Elëonora mia! Vi risaluto
Io vostro un tempo, eternamente io vostro.
Quanti dolori, Elëonora, in quella
Bolgia terrestre! E come piansi in dura
Solitudin rimaso! E che cocente
Disío di rivederti, e d’aver pace!
Sorridi, amica; il tuo Torquato è giunto.
Giunto?… Via quegli sgherri! Oh mi togliete
Dal piè questa catena! Oh questo cencio
Strappatemi! Smovetemi dal fronte
Queste chiome che m’ardono! La mia
Gerusalem rendetemi!… Non voglio
Supplicar. Non ho colpe. Ho spasimato;
Ho lacrimato lacrime di sangue!
Vil, per Dio! quella terra ove si nasce
O deboli, o feroci; ove si debbe
Chiudere gli occhi o martiri, o codardi!» —
Orava il frate perchè requie avesse
Quel tormentato spirito. Rinvenne
Pur finalmente l’infelice; e molto
Affermò di patir.
«Grazie vi rendo
Della vostra pietà!… Mi liberaste
Da terribili aspetti, ond’ebbi l’alma
Sì travagliata!… Quel gentil conforto
Che porgete a chi muor, vi sia renduto
Nell’ora vostra! Io benedico il cielo,
Che qui compio la mia. Qualche momento,
In ver, sperai di sollevar le accese
Membra da queste spine, e bever l’aura
Libera… e il passo per gli aperti campi
Riportar novamente. Oh!… fûr pietose,
Ingannatrici fantasie. Che intensa
Febbre passa qui dentro e mi consuma!…
M’arde Il cerebro! Ho sete!»
Il venerando
Vecchio porgendo il refrigerio all’arse
Labbra del moribondo, e consolato
Veggendolo così per quelle poche
Stille ottenute, ripensò l’orrendo
Spasimo di Colui, che invan le chiese
Sulla rupe del Golgota.
«Fratello!…
Ch’io vi stringa la man. Riconoscente
Ha l’anima Torquato. Ha, se non altro,
Questa ricchezza. E d’una grazia ancora
Dato mi sia di supplicarvi. Un giorno,
Se mai da questi solitari chiostri
Voi moverete a visitar tant’altre
Città d’Italia, e vi verran negli occhi
Le dolci rive della mia Sorrento…
Salutate quell’aure. Indi cogliete,
Cogliete, in nome mio, da quelle sponde
Pochi fior dolorosi; e con gentile
Reverenza versateli, in mio nome,
Sul materno sepolcro! Indi alla dolce
Sorella mia raccomandate pace
Nell’infortunio. E ditele che questo
Dolor della mia morte ella riceva
Da quella man, che tutto dona e toglie,
E sa perchè.»
– Queste parole vostre,
Questi pii desiderii obbligo sacro
Per me saranno. —
«E ven ricambi il cielo
D’ampia mercede!… E ancor di questo io voglio
Supplicarvi. Se mai vi si conceda
Di veder l’Eridàno, e la superba
Città d’Alfonso… la fatal Ferrara…
Colà vedrete il carcere nefando
Ov’io giacqui tant’anni; e i maledetti
Ferri, e le turpi vesti onde coperto
Venni. Vedrete; e piangerete, io spero,
Ricordando l’amico a cui si volle
Toglier persino l’intelletto, il dono
Sacrosanto di Dio. Però, non sento
Odio o rancor per essi. Il mio perdono
Ampiamente recate! E così possa
L’età ventura perdonar… nè avanti
Al suo giudicio, come suol, dall’urne
Trarre i sepolti!… Perocchè Torquato,
In quell’ora remota, assai più grande
Sarà dei prenci.» —
Lampeggiaron gli occhi
Del poeta, e si tacque. – Indi, più sempre
Si fèr pallidi i labbri; e una divina
Aura spirògli nell’aperta fronte,
Che da un alto pensier parve occupata.
Era una fantasia dolce e potente,
Che per l’ultima volta il sospingea
Pietosamente a delirar.
Sorrise
Non umil troppo, nè superbo il vate,
Ma pien di nobiltà gli occhi e l’aspetto.
Indi, siccome il commovesse un alto
Rapimento di gioia, ei bello apparve
Fuor del costume di mortal persona,
E sui cubiti ergendosi:
«Vi sento,
Aure del Campidoglio! (egli proruppe)
Come è dolce spirarvi in questa altezza!…
Come rapido ascesi!… Io vi contemplo,
Divine onde del Tebro!… Oh! che diffusa
Moltitudine intorno! È del mio nome
Che la città dei sette colli esulta!…
Son per me questi canti!… Anch’io mi posso
Del mio trionfo inebriar!… Quel lauro
Datemi!… È mio!… Non è potenza in terra
Che rapirmelo possa!»
Brancolando
Pel vuoto aêr stese la man. Gli parve
Di possederlo. Lo baciò. Sul fronte
Se lo depose. —
Addio, Torquato. Il tuo
Secol ti piange e avrà lacrime e canti
Per te sempre la Terra.
Dai convessi
Padiglioni del cielo ivan fuggendo
Le bianche stelle; e quella illustre chioma.
Nereggiando scendea sull’origliero
Dalla man della Morte irrigidita.
CONTRASTO
//-- (Canto di Rodolfo) --//
Io di due femmine
Schiavo son fatto,
D’occhi fantastiche,
Brune di crin:
In così misera
Forma è distratto
Questo dell’anima
Senso divin.
Ma in me la candida
Fede non langue,
Chè ad esse io prodigo
Diverso amor:
Ad una i fremiti
Del caldo sangue,
All’altra i palpiti
Del mesto cor.
Se una, com’edera,
A me s’implica,
Sull’altra un nuvolo
Veggio cader;
Se rido e lacrimo
Coll’altra amica,
La prima involasi
Dal mio pensier.
Io così m’agito
Fra due diviso,
Or piuma all’aëre,
Or pietra al suol:
Una mi provoca
L’ore del riso,
L’altra mi genera
Quelle del duol.
Quando una candida
Nuvola lieve
Sfiora le cerule
Vôlte del ciel,
Penso a quell’angelo,
Che un vel di neve
Porta sull’agile
Suo corpicel.
Ma quando un subito
Baglior celeste
Di fiamme il vespero
Tingendo va,
Penso alla fervida
Fata, che veste
Di fosche porpore
La sua beltà.
D’una mi parlano
Gli astri lucenti,
Le aurette celeri
Men del suo piè;
Dell’altra il lugubre
Fischio dei venti,
Le selve e i turbini
Parlano a me.
Così quest’anime
D’opposte tempre
Di gaudio o collera
Muse a me son;
E in me coll’italo
Canto pur sempre
Suona la nordica
Buia canzon.
Ma quando spasimi,
Con varia vice,
Nelle delizie
Del doppio amor,
Su via, rispondimi:
Sei tu felice,
Felice, o povero
Svïato cor?
Dio! che terribile
Smania ti frange,
Se il grido elevasi
De’ tuoi pensier!
Dio! di che lacrime
Fra noi si piange
Nella inamabile
Ora del ver!
Ma non ti parvero,
Con rossor molto,
Di ferro i vincoli
Più che di fior?
E perchè, improvido,
Non dare ascolto
Ai fieri gemiti
Del tuo rossor?
Spesso da torbida
Malinconia
Mi sento rodere
L’intimo sen;
E allora il calice,
Sì dolce pria,
Di amari aconiti
Mi sembra pien.
Ah! il solitario
Ben degli affetti
Sparge di balsamo
Questi egri dì;
Perchè col tossico
Di rei diletti
La mente e l’anima
Tradir così!
Ma quelle d’ebano
Funeste chiome
Mi stan com’aspide
Rattorte al piè;
E invan le misere
Potenze dome
Gridano al suddito
Che torni re.
Oh caccie! oh vertici
Montani! oh clivi!
Oh ingenuo vivere
Che dileguò!
Oh selve! oh memori
Campi nativi,
Quando quest’anima
Voi soli amò!
Dai tetri fascini
Per liberarmi
Stendo alla docile
Arte la man;
E come un profugo,
Cantando carmi,
Dai patri margini
Mi svio lontan.
E il mio fulmineo
Corsier galoppa,
Nuove mostrandomi
Ville e città;
Ma dell’inutile
Corsiero in groppa
Sempre il mio demone
Seduto sta.
Talor negl’impeti,
Rotta la briglia,
Le membra insanguino
Sul duro suol;
Ma il bieco spirito
Di là mi piglia,
E per la tenebra
Mi porta a vol.
Pari a quel nomade
Giudeo fuggente,
Che sol coi secoli
S’arresterà,
Forse il mio demone,
Forza inclemente,
Vuol ch’io precipiti
D’età in età.
Signor, che debole
Così m’hai fatto,
Di me sovvengati,
Dolce Signor;
Pensa alla gloria
Del tuo riscatto,
La mente solvimi
Da tanti error.
Per sabbie inospiti
Cieco e malvivo,
Lunga mi stempera
Sete crudel.
Deh! scopri il murmure
D’un picciol rivo
A questo esanime
Novo Ismael.
Signor, le nebule
Da me disgombra,
E col tuo cantico
Ti canterò,
Sinchè dei salici
Paterni all’ombra,
Tranquillo e libero
Morir potrò.
ALLA SANTITÀ DI PIO IX
Guardia dei santi oracoli,
Re del più nobil soglio,
Posto a seder dai secoli
Sull’angolar tuo scoglio,
Del superato inferno
Visibil segno eterno,
Propagator dei Golgota
Per quanti ha lidi il mar;
Uno tra quei che pregano
Nella magion di Dio,
Padre a: tutti i popoli,
Un de’ tuoi figli anch’io,
Pei crismi e per la fede
Giustificato erede,
Poste le man sui codici
Del tuo perpetuo altar;
Confesso il Dio che predichi
Dal duro Trace al Moro,
Credo alle sue vittorie,
I suoi potenti adoro;
Soavemente doma
Dalla ragion di Roma,
Figlia de suoi segnacoli
La mia ragion si fa.
E reverente e supplice
Della tua gloria al trono,
Chieggo le fresche e vivide
Acque del tuo perdono.
Ribenedici il figlio,
Che dall’incerto esiglio
Torna alle fonti e ai margini
Della immortal città.
Quel mite Iddio, che l’umile
Cor dei credenti affida,
Nell’incorrotto e mistico
Tempio, che è tuo, mi guida:
Ma con un’altra speme
Che favellar non teme,
Padre di quei che piangono,
Io m’inginocchio a te.
V’è tra te genti un’Inclita
D’ogni miseria al fondo,
Le cui frementi lacrime
Toccan d’affanno il mondo;
Porta di gemme e spine
Un duro fregio al crine,
E sul regal suo lastrico
Trae catenata il piè!
Madre di tanti martiri,
Nido di tanti eroi,
Casa dei gran Pontefici
Data per patria a noi,
Su tutti i campi e i mari
Fe’ balenar gli acciari,
Croce e parola al barbaro
Figlia di Dio portò.
Ma Dio che versa il giubilo
In chi da lui s’appella,
Con egual destra il calice
Versò dell’ira; ed Ella
Dove l’acciar portava
Sentì ’l cordon di schiava,
Usa a vestir le porpore
Carca di cenci andò.
Così, dannata a scendere
Coi barbari mariti,
Giacque tremante adultera
Sui talami abortiti;
E ier piangea peranco
Stesa sull’egro fianco,
Rimemorando i floridi
Tempi che Dio le diè,
Quando sui vasti oceani
Fe’ navigar le prore,
E all’orba Terra inospita
Rese la mente e il core,
Rese le tele e i marmi,
Gl’inni, le leggi e l’armi
Confederata ed arbitra
D’una legion di re.
Ahi, nell’amaro incorrere
Delle memorie, il cielo
Guatò fremendo e al pallido
Viso fe’ il pianto un velo!
Ma nella Donna, offesa,
Qual nova forza è scesa?…
Dal Tebro insuperabile
Che novo grido uscì?…
Sui quattro fiumi ei valica,
Dai quattro venti suona;
L’ode ogni lingua; inchinasi
Ogni europea corona;
Dall’afre selve ai poli,
Dove ha pur Dio figliuoli,
Quel nuovo grido inaugura
Più benedetti dì.
Pio, ti nomasti. E il memore
Pallio regal s’è messa
La eterna primogenita
Del tuo gran tempio anch’essa:
Sulla disparsa prole
Oggi è risorto il sole,
Oggi il promesso arcangelo
Dato è all’Italia in cor.
Pio, che la casa incardini
Dove ruggiano i flutti,
Nave del mondo ed ancora
Della speranza a tutti
Il cor deh! poni in Questa,
Che i tuoi sigilli attesta:
Pensa ch’è il fior più splendido
Degli orti del Signor.
Da lei Tu nato, e principe
Vero, tu regni in lei,
L’opre tue sante annunciano
Chi ti mandò, chi sei.
Dove fremea lo sdegno
L’augusta pace ha regno,
Cantan letizia i pargoli
Col mite ulivo al crin.
Padre, più assai che giudice
Pensando a Cui somigli,
Sceso il perdon sugli esuli
Tu li nomasti figli:
Dal Tevere alle genti
Getti le strade ardenti,
Perchè più presto arrivino
Nel tuo gran tempio alfin.
Ma tu, che all’ira, e all’odio
Mite pastor fai guerra,
Che annodi i prenci ai sudditi,
Sappi che in questa terra,
Nella fedel tua vigna,
Un seme d’odio alligna,
Che la contrista e macera,
Ma ch’estirpar non può.
Padre, ella piange, o supplica
Le tue ginocchia sante:
Tu che possiedi i folgori
Della parola amante,
Che col segnal che porti
Puoi favellar coi forti
Nel nome o nella imagine
Del Dio che ti mandò;
Pensa che questa Vittima,
Tesor della tua Chiesa,
Snidò l’infausto pungolo
Che l’ha tant’anni offesa;
Pace del lungo scempio,
Pace ella chiede al tempio.
Stringere i brandi abbomina
Non benedetti in ciel.
Padre, chi sangue semina
Messe di sangue coglie.
Pace vogliam. Presentati
Sulle tue sacre soglie;
E al possessor straniero,
Che ha già sì largo impero,
Prega che cetre e Solima
Ridoni ad Israel.
Pensa che un altro apostolo
De’ fregi tuoi s’è cinto,
Servi tra i servi; e il barbaro
Flagel di Dio fu vinto.
Di quel Lione eletto
Tanto fra noi s’è detto;
E ne diranno i posteri,
Fin ch’abbia lume il sol.
Prostrato sui vestiboli
Della tua casa o Santo,
Come il sentii con l’anima
Posi alle labbra il canto:
Ma s’io dicendo errai,
Opra tu sol, che sai,
Più della rea mia polvere,
Quel che da Dio si vuol.
A CARLO ALBERTO
CARLO, che sotto ai liberi
Venti dell’Alpe antica,
Le arcane sorti armarono
Di scettro e di lorica,
Pei crismi e per le vivide
Fontane della fede
Fatto di Cristo erede,
Figlio d’Italia e re;
Quando cavalchi intrepido
Per le tue file ardenti,
Dimmi: l’assalto all’anima
D’un gran desio non senti?
E il breve suol che scalpiti,
L’aura natal che spiri,
L’arco di ciel che miri
Non è minor di te?
Oltre il Ticin, due popoli
Posti a fatal tributo,
Che s’han, nell’ozio, il calice
D’ogni dolor bevuto,
Ei, che una volta spinsero
Fra suon di tube e lampi
Uno i destrieri ai campi,
L’altro le tolde al mar:
A ogni romor che elevisi
Sulla regal tua via,
L’avide orecchie intendono
Per ascoltar che sia:
«Fossero mai le vindici
Ugne de’ suoi cavalli?
Fosser le tende e i valli,
L’aste e i percossi acciar?»
Poi se nell’aura immobile
Quel suon si perde e muore,
Non sa ristarsi il pungolo
Del generoso errore;
Speran che s’oggi un facile
Varco è al desio mancato,
Saprà domani il fato
Un altro varco aprir.
Côlti così due profughi
Per boschi incerti e neri
Dalla crescente tenebra,
Fanno e rifan sentieri;
Chè un’acre infaticabile
Speranza li conduce,
Sin che vedran la luce
Dai patrii tetti uscir.
Ah! se a costor che il chieggono
D’un tuo pensier fai dono,
CARLO, mio re, due splendide
Gemme tu innesti al trono:
Dio degli eventi è l’arbitro,
Ma sul regal tuo fiume
Tu le frementi piume
Tien preparate al vol.
Odi a quell’Alpe! Il barbaro
Eco de’ brandi e i passi
Suonano ancor sul vertice
Di quegli eterni sassi:
Di là son giunte, o principi,
Le avare torme estrane
Per assaggiar che pane
Fioria sul vostro suol.
E l’assaggiaro! e dissero:
«Prenci, la terra è nostra:
Bene avrà scettro e porpora
Ognun che a noi si prostra;
Ma saran nostri i codici,
Nostre le messi e i brandi,
Farvi tapini o grandi
In nostra forza è già!»
E voi taceste. E despota
Sin dalla trista aurora
V’è la fatal progenie
Sulla cervice ancora.
Ma ognun di voi consolasi
Almen, tenendo un regno;
E il vecchio giogo indegno
Su noi gementi sta.
CARLO, se è ver che l’itale
Ire nel cor tu covi,
Se con l’antica ingiuria
Senti gl’insulti nuovi,
Se quel desio, che t’agita
Fiero e gentil, non langue,
Se de’ tuoi padri al sangue
Degna ragion vuoi far;
Co’ mille tuoi presentati
Alle lombarde prode;
Vieni a snidar quest’aquila
Che il senno e il cor ci rode;
E non temer che al folgore
Della regal tua spada
S’abbia d’ostil rugiada
Italia a imporporar.
Spaventa i consapevoli
De’ brandi tuoi la possa:
San la occupata Ausonia
Per qual bandiera è mossa;
Pende la spada a tedio
Dai femori alemanni,
La ruggine degli anni
Il fil ne consumò.
Pria che pugnar, da un provido
Alto terror disfatti,
Ei scenderanno a chiederti
La pia ragion dei patti;
Allor tu sai, magnanimo,
Alla sant’opra accinto,
Quali abbia dritti il vinto
Che al vincitor pregò.
Sai che un’illustre vergine
Del sangue lorenese
Con umil gioia al talamo
D’un de’ tuoi figli ascese:
Da una gentil vittoria
Il grande augurio prendi,
Tu ch’ogni altezza intendi
Di prence e di guerrier:
Alza la mano al Brennero
Che qua tant’odii ha scarchi,
Grave intimando all’ospite,
Che in pace lo rivarchi;
Indi a sperar confortalo,
Che Dio, cui toglie un trono,
Forse più largo dono
Serba nel suo pensier.
E se nel cor gli penetra
Quel facil detto umano,
Onora il vinto e stringigli,
Qual debbe un pio, la mano;
Ma s’ei ti porta indocili
Ire e querele intorno,
Digli che questo il giorno
Del lamentar non è:
Digli ch’ei tolse un inclito
Serto alla sacra chioma
D’Italia, e in cambio barbaro
Le diè catena e soma;
Digli che a lui toccarono
Le gioie, ad essa i lutti;
E che il Signor di tutti
Due leggi all’uom non fe’.
Tenacemente memori
Dei lieti e persi luoghi,
Rivarcheran le teutone
Schiere torrenti e gioghi;
Pur affrettando i torbidi
Passi dell’ira oh quanto!
Per non udir quel canto,
Che a CARLO echeggerà.
Sarà canzon di vergini,
Inni di pii soldati,
Fragor di trombe e d’organi,
Sacra armonia di vati:
Vedrà l’Italia assurgere
Dopo la gran vittoria
Un nuovo sol di gloria
Sopra le sue città.
Rinati i cor, gli spiriti,
Liberi i campi e i mari,
Stretti in amor coi nobili
Troni saran gli altari;
E questa umil Penisola
Posta dei mali in fondo,
Farà temuta al mondo
La sua bandiera ancor.
Di conculcato palmite
Resa mirabil pianta,
Braccio de’ suoi pontefici,
Sarà guerriera e santa.
CARLO! per te dai secoli
Fatta è la via che vedi;
Credi una volta, oh credi
Nel tuo possente cor!
ARMI! ARMI!
Popoli! La speranza anco ci splende
Con allato il trionfo e l’avvenir,
Armi in subita furia, or che le tende
Scellerate atterrò l’ungaro ardir.
Armi! Chè in sen della lombarda terra
Torna il cupo vulcano a rimugghiar
Principi, a voi. La benedetta guerra
Riscota l’Alpe e risollevi il mar.
Su le bandiere. Chi un’Italia brama
Scordi il dissidio delle sue città.
Intento è il mondo sulla nostra fama.
Quest’è un’ora di gloria o di viltà.
Svegliati, Alberto. Alzatevi, per Dio,
Popoli tutti della nostra fè.
So dal sonno ti desti. alma di Pio,
La cattolica Italia è ancor con te!
Di Goito e Curtaton sacri soldati,
Ricingete la spada. Eccovi il dì.
Sento i destrier della battaglia. Irati
Tuonano i venti. La vittoria è qui.
Volve il Danubio furibondi i flutti,
Scintillano per voi l’Adige e il Po;
Voi questo giorno l’attendeste tutti,
E per tutti il Signor ve lo creò.
Nella città, del maledetto impero
Il Tumulto e la Morte ospiti stan:
Chi non torna a gridar: Via lo Straniero,
Stringe nell’ombra allo stranier la man.
Siepe feroce di fraterne spade
Chiuda la spaventata oste infedel.
E l’orbe madri delle pie contrade,
Svestan la chioma del funereo vel.
Qua convengano i vecchi e i sacerdoti
I drappelli furenti a benedir,
E sui vessilli caramente noti
Scrivan le donne: Vincere o morir!
Vincere. È questa la parola, o forti,
Che v’è tuonata dall’ausonio suol,
Perchè sott’esso è una legion di morti.
Che invendicata riposar non vuol.
Armi! V’è chiesta una battaglia ancora.
Armi freman le piazze, armi gli altar.
Chi crede a un brando, chi una croce adora,
Chi una patria desia, scenda a pugnar.
Mandi ogni monte un fremito. Ogni villa
Faccia il suo bronzo all’altre ville udir.
Popoli, in arme, dal Cenisio a Scilla!
Non lasciam la seconda ora svanir.
È infido il tempo, o Principi. Nè possa
D’uom lo ripiglia quando in fuga egli è.
Principi! Italia che di sangue è rossa,
Può chieder conto a chi versar gliel fe’.
E guai se indarno e’ fu versato. Ahi, tetra
Veggio un’imago dei futuri dì,
Se il vostro passo, o paürosi, indietra
Dai sacri campi che li Signor v’aprì.
Regie fughe, man ladre, anime oscene
Veggio, orrendi fantasimi. Non più
Viver civil; non queta ora di bene:
E, ultim’ira di Dio, la servitù.
Quindi tolta la fè; spento l’amore;
Velati a bruno la giustizia e il ver.
Notte rea di spavento e di furore…
Questo, questo mi varca entro al pensier.
Come a mendichi mal sofferti, il pane
Ci fia gittato; poi l’insulto vil;
Poi la verga; l’esilio; e le lontane
Carceri; e il palco, per mondar l’ovil.
E dirà il mondo: «Neghittosi e ignavi!
Non han saputo esser concordi un dì.
Ponghiam le spade; e non curiam gli schiavi!»
T’allegra, Italia. Parleran così.
Deh! non sia ver che la terribil voce,
Come foco di Dio, piombi su te:
Tu che aduni nel brando e nella croce
Sofi, vati, guerrier, popoli, e re.
Armi, o prenci d’Italia, anco una volta,
Armi, o leoni del sabaudo sir.
O Italia grande, o parricida e stolta.
Eleggere v’è d’uopo. Armi, o perir.
Maladetto colui che non oblia
Torti patiti, o chi li torna a far.
Maladetto chi vanta, o chi per via
Mena il sospetto e il cicalio volgar.
Tra l’aule e i fôri, tra i sepolcri e l’are
Tuoni un sol grido italico e guerrier;
«NOSTRA È LA TERRA DALLE REZIE AL MARE!
VIA LO STRANIER, PERDIO, VIA LO STRANIER!»
Armi!! E la stirpe che’ verrà. da noi
Possa aver detto a chi da lei verrà:
Giacque l’Italia per tre giorni; e poi,
Come Cristo, è risorta a libertà.
DOLORI E GIUSTIZIE
Elegia
Emilio mio,
Ti scrivo col tramonto del sole; quando l’anima torna per dolce istinto di una sua tristezza dagli oggetti del mondo nella sua intima vita. Di me dunque ti parlo: e, non so perchè, ma una voce misteriosa mi dice di consegnarti questa pagina, come si consegna il rotolo al mare nell’ora del naufragio.
Come son fatto, tu il sai: impetuoso, malinconico, bizzarro; ma schietto e buono. Sai che mia suprema ricchezza è il mio canto; e ch’io riposo nella benevolenza di pochi, come in asilo più sicuro dalle tiepidezze e dai mutamenti umani. Non son poverissimo, nè infelicissimo, perché ho modesti desiderî e coscienza pura. Pellegrinando passo di terra in terra: e raccolgo le esperienze degli uomini e delle cose; esperienze che quasi sempre si conchiusero per me con un segnalato dolore. Non mi lagno però: alcuni uomini somigliano alle pietruzze poste in riva all’Oceano: le fascia il sole un momento, e poi son travolte dai cavalloni del turbine. Chi sa se torneranno più al lido, e se di nuovo il sole le fascierà? Per me lieve preoccupazione è cotesta. Credo saldamente in Dio; adoro la verità; aspetto il regno della giustizia; parlo con la consapevole natura; e penso e vivo poetando. Fieramente assetato di libertà, giocai a quel gioco nei dì del pericolo: e per il profondo amore di essa non mi duole di aver patito; o dirò meglio, mi duole di non aver patito di più. Ma certe superlative novità mi conturbano, e non le comprendo. Ciò vuol dire che la mia giovinezza è passata. Nella guerra italiana mi eccitò una profonda e riverente simpatia Carlo Alberto, magnanimo ed infelice: mi parve un re cavalleresco della grandezza antica: e lo cantai come si canta la virtù, la lealtà e la sventura. Ciò spiacque ad uomini di partito; anime tormentate dalla diffidenza, dalla superbia e, dall’odio; e mi guardarono con sospetti degni di loro. Contento del mio cammino, non mi son cacciato sulla via delle volgari ambizioni. Il poeta non può averne che una sola ed insigne; quella di vivere concittadino dei posteri. Se ciò gli è conteso, canti e si spenga come il rosignolo sulla frasca del suo boschetto natale. Non amico di tumulti e rabbie di popolo, credetti sempre italiana virtù il condannarli. Quando la parola del coraggio mi parve più debito che ostentazione, parlai senza paura; quando il silenzio mi fu consigliato da sdegnoso pudore, tacqui senza viltà. Questo bel regno della concorde Italia era la mia fede e il mio voto; fede e voto veramente degni della persecuzione d’uomini nati in Italia! Quando parlai del Piemonte, come della gente più forte e virtuosa della penisola, e ne parlai con quell’omaggio che inspira la grandezza de’ sacrificii, parecchi dottori pubblicani e farisei del mondo politico, mi ghignarono intorno; nè il lutto delle madri e il sangue dei martiri valse a impor loro, non dirò il debito dell’ammirazione, come a giusti fratelli, ma neppure la dignità del silenzio, come ad emuli offesi. Oh astiosi e superbi; quanti mali infliggete alla patria, e quante piccole atrocità consumate contro chi vi è spina e martello! L’uomo schietto tra voi è l’uomo importuno. Io mi onoro di esservi importunissimo. Non repubblicano in Venezia repubblicana, ebbi il carcere; non democratico in Firenze democratica, ebbi l’esilio. Quell’idea di repubblica era in Venezia un error di buon senso e una colpa d’ingratitudine: larva di democrazia era in Firenze un assurdo di fatto e una cagione di scandalo. Combattei l’una e l’altra, come valsi, col diritto del mio libero pensiero; e mi risposero di tal mercede quei repubblicani santi e democratici puri, che ne avrebbe arrossito il più impudico sgherro imperiale. Ma l’uom fa le ingiurie e il tempo le vendica. Io però benedico ed amo Venezia che persiste, generosa Termopili, contro al barbaro; ringrazio ed amo Firenze che fece italianamente suo l’oltraggio a me fatto. Gli uomini che governano queste due nobilissime città passeranno come l’ombra. Lasciamoli passare. Troppo gravi cose maturano nelle convulsioni del mondo, per insistere sui ricordi d’un proprio dolore, o d’un’altrui vergogna. Emilio mio, amari giorni corrono agli onesti che tacciono per sdegno, e agli sdegnosi che parlano per onestà. Con audacie dolorose si contamina tutto. Si grida fede, libertà, popolo, patria; e poi alla fede si vela l’altare, alla libertà si toglie il pudore, al popolo s’insegna il tumulto, alla patria si ribadiscono le catene. Se andasse perduta la fiducia nell’Onnipotente, che resterebbe oggi agli uomini? Addio; sovvengati dell’amico tuo, che recherà nel sepolcro i canti, il volto e la coscienza immutabili. E tu sta più solo che puoi. Oggi la solitudine è dignità di sè stessi.
Firenze, 21 dicembre 1848.
DOLORI E GIUSTIZIE
Dunque sui sacri margini .
Velati dalla bruna
Ombra dell’Alpe, il languido
Mio capo adagerò,
Svegliando ai consapevoli
Silenzii della luna
Di melodie fantastiche
L’onda regal del Po?
Grazie a’ miei fati. Un intimo
Desio, come d’amante,
Di voi pur sempre, o memori
Plaghe, mi punse il cor;
Tornerò dunque a premervi,
Piagge dilette e sante,
Che un dì sull’orme al profugo
Lauri cresceste e fior.
Come la bruna rondine,
Fida del mar veliera,
Drizza pur sempre al cognito
Trave l’affetto, e il vol;
Io vi drizzai la trepida
Piuma del cor leggiera,
Più che alle stelle e ai zeffiri
Dei mio materno suol.
Chè voi mi amaste: e un gelido
Cor non amaste. O giorni
Miei desolati! oh vedove
Notti del mio pensier!
Oh ingrate veglie! oh inutile
Sogno de’ miei ritorni!
In che nefandi calici
Dio mi costrinse a ber!
Le fresche aurore, i limpidi
Miei vespri alla collina,
L’eco de’ corni e il fervido
Moto de’ veltri al pian,
Gli antri, le coste, i floridi
Boschetti e la marina
Sul mesto cor dell’esule
Versâr lusinghe invan.
Sin di due trecce il morbido
Nerissimo volume,
E il canto, per la tenebra
Ignea colonna a me,
Mai più rifar non seppero
Agli estri miei le piume,
Dacché il poeta, o libere
Alpi, l’addio vi die’.
Oh, quante volte, un arido
Crespo mirando, un fiore,
Sveglie bizzarre al cupido
Latente sovvenir,
Di procellosi palpiti
Sentii balzarmi il core,
E il pronto viso in porpora
Mutarsi e tramortir!
Oh, quante volte, armigero
Nido di prodi antico,
Di te parlando, un gemito
L’anima mia levò,
Siccome avvien nei facili
Momenti, che all’amico,
Si vuol narrar d’un misero
Nodo che Dio spezzò!
Con sì fiero tormento io t’amai;
E negli occhi dell’esule, oh credi,
La letizia non venne più mai!
Solitario nell’erme mie sedi,
Non curando la infida ventura,
Ai pensosi silenzii mi diedi!
E là presso alla pia sepoltura,
Che raccoglie il mio dolce parente,
Lacrimai colla mesta natura!
Ma pur sempre dal petto fremente
Misi un grido sul molto e nefando
Cimiterio dell’itala gente.
E il ben vigile sgherro esecrando
Per quel grido mi ordì la catena,
Poi le tetre miserie del bando.
Ti ringrazio, o mia gloria e mia pena,
Fedel musa, che meco hai diviso
Gli ardui giorni, costante e serena;
Ti ringrazio, chè il mesto mio viso
Più ti valse dell’intima acuta
Ricordanza del tuo paradiso.
Ahi! la fede dell’uom si tramuta,
Non la tua; così splendida e forte
Come l’ora in ch’io t’ho conosciuta!
Dolce amica, alle pallide e corte
Mie giornate, te sola vogl’io,
Dolce amica, al mio letto di morte.
Ché in te sola del nido natio
Più m’accese l’indomito affetto,
Chè in te sola conobbi più Dio.
Ahimè! d’odio rigurgita il petto
De’ mortali, e l’un verme si scaglia
Sovra l’altro a rapirsi il banchetto!
No, mia musa. È una giusta battaglia
Quella ch’odi sul sacro Ticino:
Ben fu cinto ogni brando, ogni maglia .
Là si pugna pel nostro destino,
Là son vòlti dell’Alpe i leoni
Nelle reni all’estranio Caino.
E tu pensa le grandi canzoni,
Musa mia, quando l’aquila infame
Fia respinta nei patrii burroni.
E coperta di barbaro ossame
Splenda Italia, e a quel pasto s’allegri
Delle cagne notturne la fame.
Oh speranza!… Ondeggiavano i negri
Battaglioni, fremevan le squille,
Ruggìa l’ira nel polso degli egri,
Era un rombo di campi e di ville,
Dardeggiavan di guerra sin’anco
Le pensose virginee pupille;
Di purpureo, di verde e di bianco
Colorata era l’aria d’intorno,
Luccicava d’un ferro ogni fianco.
Oh speranza! fior breve d’un giorno!
Tu cadesti coll’ombra… e rimase
Di percossi un funereo soggiorno.
Quanto lutto di vedove case!
Quante mense deserte di figli!
Quante piagge di tenebra invase!
Che tumulto di fughe e d’esigli!
Segno d’odio è re Carlo frattanto.
Io cantato lo avea nei perigli…
E pei tristi fu colpa il mio canto!
Arca di sette popoli,
Re de’ sabaudi e mio,
Chi ti contrista, o martire,
Sfregia l’Italia e Dio.
Ma tu, mio re, consolati,
Ch’ebra o demente voce
La savoiarda croce
Contaminar non può.
Io ti cantai. Sacrileghe
Mani scagliâr la pietra
Sulla raminga e povera,
Ma liberal, mia cetra;
E fèr sinedrio, e dissero
Le iene del deserto
Che il fulgid’òr d’Alberto
I canti miei comprò!
Vili! dannate il perfido
Labbro a sigillo eterno.
Me la latrata ingiuria
Fa sogghignar di scherno.
Vili! le meste pagine
Rigo de’ miei sudori,
Ma non ha gemme ed ori
Per comperarle un re!
Che se dall’umil polvere,
Dove obbliato io sono,
Più il capitan che il principe
Canto e l’acciar che il trono;
Se incito i forti a sperdere
Degli Amorrei le tende,
Chi la mia cetra offende
Quanto è minor di me!
Sì, ti cantai, magnanimo
D’Italia mia soldato,
Caro al Signor, di splendidi
Dolori incoronato!
Là ti cantai sul veneto
Mar, che tu re guardavi;
E, premio al canto, i savi
Le carceri m’aprir.
Mastri in foggiar repubbliche,
Non certo a voi m’atterro.
Amo il furor di Spartaco;
Odio de’ Gracchi il ferro:
Piango al destin di Cesare,
Qual di leon caduto,
E del pugnal di Bruto
M’è orrendo il sovvenir.
Ribalenò sul memore
Tebro quell’arme ancora…
Ma che nefanda tenebra
Dopo la bieca aurora!
Più Samuel non vigila
Di Solima alle porte;
E un bruno vel di morte
Copre di Dio l’altar.
Pietà, Signor! Terribili
Son questi giorni al mondo!
Vasto è l’abisso; e Satana
Ride dall’empio fondo:
E consegnato ai turbini
Quell’esecrabil riso,
La terra e il paradiso
S’avventa a separar.
De’ miei fratelli o fêretri,
Quanto v’invidia il core!
Bella è la morte a vespero
Quando col sol si muore
Colà sui campi! Il bambolo
Oggi a dolor si vesta;
E coronata a festa
Sia la caduca età.
Meglio morir che incedere
Su maladetta arena,
Dietro recando il sonito
Della servil catena!
Liberi no, ma despoti
Veggio dovunque e sento;
E chi un ne abborre, a cento
Come obbedir potrà?
Meglio recar nei gelidi
Regni dell’ombra i lumi
Stanchi ed offesi. O picciolo
Ma pur divin tra i fiumi,
Che a questa bella Italia
Crescon le rose indarno,
Oh insuperabil Arno,
Sulle cui rive un dì
Trasse Alighier dall’ispide
Guance il dolor più vero,
E poi dall’arco i numeri
Dell’immortal pensiero,
Tu pur sei tetro! e il margine
Però di fiori hai cinto.
La bara dell’estinto
Sparsa è di fior così.
È parricida l’alito
Dei vïolenti, il credi,
Fiume gentil. Nè all’umide
Or più vagar mi vedi
Stelle nascenti, o attendere
Cogli occhi inebrïati
Gli splendidi e rosati
Tramonti del tuo ciel.
Nè mi vedrai. La libera
Mia verità dispiacque.
Meglio fidar le subite
Ire alle nubi e all’acque,
Meglio che all’uom. Difficile
Pei coraggiosi è il giorno
Che ruota il pazzo intorno
La daga od il fiagel.
Savi tu cerchi, o misera
Italia mia; nè trovi
Che rotte plebi, e cupide
Rabbie, e tumulti nuovi:
E in cenci da postribolo,
Tra fescennine mazze,
Tratta per l’ebbre piazze
La casta libertà.
Oh! di cocenti lacrime
Righiam sommessi il ciglio,
Miei generosi. È tramite
Per me d’onor l’esiglio.
Date le spalle al pelago
Delle città frementi,
O arcani fiumi! o venti!
Tra noi si parlerà.
Coll’alba e coi crepuscoli,
Per fide selve e piani,
Si parlerà, dal mobile
Tetto dell’uom lontani.
Si parlerà coll’aquila
Della petrosa vetta,
Coll’erma lodoletta
Dal canto mattinier.
Parte di sè quest’Iside
Bella ed arcana a noi
Rivelerà. Col novero
Poco de’ figli suoi,
Dall’ombre malinconiche
Esce la dea talora,
E parla a chi l’adora,
Verginalmente il ver.
Là sulle balze inospite,
Campo a perpetui soli,
Dove l’abisso odorano
Scherzando i cavrioli,
Dove alla rara e pendula
Ombra di qualche pianta
Sibila il ghiro, e canta
Sui vespri il mandrïan;
Là chiederem gli oroscopi
Di questo palmo d’erba,
Che nomiam terra, imagine
Sì poca e sì superba!
E riguardando immobili
Tra i nembi e le paure
Da quell’eterne alture
Sull’ondeggiante pian,
Vedrem ferirsi adulteri
Schiavi e tiranni in guerra,
Scettri e catene infrangersi,
Ebra balzar la terra,
E fra la rea caligine
Di quella notte atroce
La sanguinosa croce
Del Nazaren tremar.
Là dall’aerio culmine
Questo vedrem. Ma quando
L’ara de’ tuoi pontefici
Sia vendicata, e il brando
De’ figli tuoi, penisola
Sacra di fede e d’armi,
Suoneran altri i carmi
Dal Cozio sasso al mar.
Oh, se ritorni a splendere
Nel ciel della speranza
L’arco de’ forti, il mistico
Segnal dell’alleanza,
Che un dì dall’Arno al Tevere
Parve raggiar sì lieto,
Dal Tevere all’Oreto
E dall’Oreto al Po,
Oh se ritorni!… Ascoltami,
Giusto Signor: s’aggreva
Molto fallir sugli ómeri
Dolenti di quest’Eva;
Troppo, egli è ver, di Gerico
S’è maculato il fiore,
Ma la tua man, Signore,
Purificar lo può.
Pensa che d’Eli a Davide
Qua la progenie crebbe,
Che qua scintilla il vertice
Del portentoso Orebbe,
Che sigillati scorrono
Qua sotto i tuoi lavacri,
Che qua tra i cedri sacri
La sposa tua fiorì.
Verghe, ceffate e spasimi
Scagliano i figli in lei;
Gettan sull’aurea clamide
Le sorti i farisei;
Fremi, o Signor! la chiamano
Regina d’Israele,
E poi l’aceto e il fiele
Le versano così!
Fremi, o Signor. La tiepida
Famiglia de’ tuoi fidi
Ben lacrimando annovera
Della tradita i gridi;
Ma non si lancia a toglierle
Dal sanguinoso crine
Il serto delle spine
Per darlo ai percussor.
E se talun fra il sibilo,
Degli itali laureti
L’alta del cor risuscita
Ira de’ tuoi profeti,
Fremi, o gran Dio! lo dannano
Alla catena e al bando…
Quando i tuoi giusti, oh! quando
Vendicherai, Signor!
E là frattanto il barbaro
Spia da’ lombardi colli
L’ire selvagge, e un brindisi
Manda ghignando ai folli.
Poi sul guancial men timida
China la testa a sera,
E forse all’alba spera
Rizzarsi alla tenzon!
E l’armi nostre, ahi! deboli
Saranno ed infelici;
Chè chi la madre insanguina,
Non può ferir nemici.
Così rompendo il Teutono
Nelle pollute stanze,
Misurerà le danze
De’ nostri ceppi al suon.
Tresca intanto la turpe semenza;
Pane d’odio al suo desco si frange,
Si tracanna licor di demenza.
Poi da’ sabbati l’ebbra falange
Fuor si vomita, e ruota il flagello
Sulla inerme, che sotto vi piange.
Orsù! dunque, raccogli il fardello,
O percossa tu pur: ma sorridi,
Dolce musa, al tuo dolce fratello.
Altre stelle vedremo, altri lidi,
Qua lasciando uno stuol numerato,
Scudo a noi, d’animosi e di fidi;
Che le tempia all’iniquo peccato
Solcherà con le cifre dell’ira,
E il dolor ci farà vendicato.
Dolce musa, per l’aure s’aggira
Dell’Arabia un augel, che si pasce
Negli odor della mistica pira.
Poi, combusto dall’orride fasce
Del roveto, più bello e raggiante
Dal suo cenere mesto rinasce.
Musa mia, questo afflitto esulante
Muore anch’egli; ma tu, mia cortese,
Non turbar le pupille tue sante.
Nacque anch’ei nell’arcano paese,
Dove è dato alla spoglia che muore
Vendicar della morte le offese.
Oggi passa in silenzio il mio cuore;
Ma dimani il Signor lo risveglia,
Perché giusto coi giusti è il Signore.
Tu frattanto dêi compier la veglia
Al defunto, che in cento, che in mille,
Di qua lunge, orizzonti si speglia,
Per recar nelle consce pupille
Tali sguardi e sul labbro tai cose,
Che ai codardi sien folgori e squille.
Mentre te di ligustri e di rose
Cingerò con le man rinnovate,
Come il crin delle donne amorose.
E in baciar le mie labbra rosate,
Sentirai come pregne di cielo
Son le spoglie alla morte involate.
E tu allor nel tuo candido velo
Sorgerai solitaria e gentile;
E, al tuo canto, dai vepri e dal gelo
Su per l’aura un effluvio sottile
Salirà: poi fia rotta repente
Ogni gleba in un cespo d’aprile.
E in quell’ora profonda e ridente,
Là seduta nel tuo paradiso,
Ti vedran se sei bella e innocente.
E diran: «Per che spazio è diviso
Il suo canto dai canti mortali,
E dal riso del mondo il suo riso!
Pera il giorno che un nembo di strali
Fu scagliato per aura sì pura,
A ferir quel sembiante e quell’ali!»
E tu, nova e celeste figura,
Riderai, come donna che pensi,
D’altre cose, e di queste non cura.
E, a velarti, una nube d’incensi
Mollemente verrà dalla valle
In quell’ora di giubili immensi.
Ma tu intanto ti grava le spalle
Della croce del tuo pellegrino,
E soletta dividi il suo calle.
Non si monta per altro cammino
Su quel giogo coperto di fiori,
Non si splende gentil cherubino
Che passando per questi dolori.
Con occhi cento, il livido
Poter, che in me s’indraga,
Freme dei pigri farmachi,
Conta le notti e i dì;
E va chiedendo ai rigidi
Mastri dell’arte maga
Quando potrà quest’ibrida
Larva sgombrar da qui.
– Perchè riman? del popolo
L’urlo e il pugnal non teme?
Che fa costui? Domestico
Sangue toscan non è.
O perché dunque, incognito
D’are, di patria e seme,
Un volgo reo gli prodiga
Fiori e speranze al piè?
Via questa larva! il folgore
De’ canti suoi possiede.
Via questa larva! i facili
Sonni turbar ci può.
Molti che noi non amano,
In questa larva han fede!
Oh tristo il dì che l’ospite
Arno abitar pensò!
Ma, più dell’altre, oh perfida
Notte per noi fallita,
Che lo dovea, fra tacite
Armi, di qua snidar!
Gli saria stata ignobile
Sfregio l’ambigua uscita…
E invece un’egra coltrice
Or gli diventa altar!
E un cicalío di bamboli
Sta contro noi frattanto:
E a denunciar quest’opera,
Spreca lamento e stil.
Oh che rovente lamina
È questo reo compianto,
Che penetrò le viscere
Della città servil! —
Non v’accorate. I pallidi
Labbri di sangue schietto
Stillano, è ver; mi macera
Cupo, latente ardor;
Da scellerate affrangere
Tossi mi sento il petto,
L’ore notturne io numero;
Brucio di febbre ancor;
Ma sdegnerei di crescervi,
O tribolati e vili,
L’ansie paure e i torbidi
Sogni che il ciel vi dà.
Or voi la man stringetemi,
Pochi, di cor gentili;
Firenze, addio. Fu nobile
Colpa la mia pietà.
M’odi. Il fatal tuo lastrico
Cela un vulcan, nè il sai:
Sulle colombe i cupidi
Falchi l’artiglio aprir:
E tra i ruscelli e i salici
Dall’ombra de’ rosai
Le tenebrose vipere
Si slanciano a ferir!
Certo, le ree potrebbero
Morir sotto i piè vostri,
O fieramente unanimi,
Se vi bastasse un cor.
Dio più non manda gli angeli
Per duellar co’ mostri;
E l’uom, che inerte spasima,
Merita il suo dolor.
Sacra è la casa, il tempio,
La libertà, la croce,
Gli avi, le spose, i pargoli,
Il campo ed il confin;
Con chi li lascia offendere
Sia l’offensor feroce,
E al neghittoso imbianchisi
Nel vituperio il crin.
Non ti turbar, mia tenera,
Mia dolce ispiratrice!
Che l’ansio cor ti palpita
Pe’ miei perigli, io so:
Ma sia dannata ai vermini
Bocca che il ver non dice;
Reo di silenzi al vindice
Mio Dio non salirò.
Vieni e partiam. Con vincoli
Di fede e di coraggio
Ci unì la vita: esanime
Io sarò teco ancor.
Mi bacerai de’ lùgubri
Ceri notturni al raggio,
Mi deporrai sul feretro,
Lo cingerai di fior.
Quindi sull’erma lapide,
Chiusa in tuo vel pudico,
Risponderai, se a chiedere
Ti venga il passeggier:
– «Le spoglie pie qua dormono
D’un mio profondo amico,
Cui lieti dì non risero,
Perché non tacque il ver.». —
Sorella mia, non piangere…
Dammi un amplesso. Oh! vedi
Come soave e placido
Laggiù tramonta il sol?
Sorella mia, con simile
Pace si muor, mel credi.
Rose vogl’io, non lacrime
Sul funebre lenzuol.
LA STATUA DI EMANUELE FILIBERTO E LA SENTINELLA
DIALOGO I
//-- (Avanti la battaglia di Novara) --//
Senza macchia e senza tarlo,
Prode in armi, e a Dio fedele,
Sulla piazza di San Carlo
Veglia ritto Emanuele.
Non si ficca, in certe prove;
Caschi il mondo ei non si move,
Non gli garba andare a zonzo;
È un re forte, un re di bronzo.
Ier di notte (è un caso strano
Ch’io vi narro, e che m’ha scosso),
Nel suo civico pastrano
Un po’ tinto in color rosso,
La noiata sentinella
Col fucil sotto l’ascella,
Tra la nebbia, a passo lento,
Fea la guardia al monumento.
Ode un cricchio… e non a torto
N’è la scolta impaurita;
Leva il capo… e vede il morto
Che si move e piglia vita.
Oh dell’ombre arcani effetti!
Ecco il re di Marocchetti,
Che alza il braccio, i baffi stira,
Guarda l’Alpe, e poi sospira.
– Che cos’è che le dà noia,
Maestà? – gridò la scolta:
E il real della Savoia:
—Tel diremo un’altra volta.
—Tel direm? Ciò suona male;
Il pronome è illiberale.
Il Noi regio andò al disotto.
– Io l’adopro e me ne inf…
Vivaddio! qual hai tu merto
Perch’io sfoggi il galateo?
Non mi chiamo Carlo Alberto,
O mio povero babbeo.
Io son re d’un’altra pasta;
V’ho annasati, e tanto basta.
– Alto là! saria codino
Il guerrier di San Quintino?
– Per cambiar le fave in ceci
Non valea tirar la spada.
Tanto dissi e tanto feci,
Per salvar la mia contrada.
Or, parliamoci a quattr’occhi,
Per un branco di pitocchi,
Che implebeiano il governo,
Esser principi è uno scherno.
E almen fossero costoro
Di cor retto e mente salda;
Ma son tutti un concistoro
Di somier di prima falda.
Parlamento e gabinetto
Son due sbrendoli di ghetto.
– Maestà, parli un po’ basso,
Altrimenti faccio chiasso.
Che? Le piacciono i ristagni,
Gli arzigogoli, i tranelli
Dei Cavour, dei Buoncompagni,
Dei Gioberti e dei Pinelli?
Bando bando ai pecoroni
Delle mitre e dei blasoni!
Non ci vuol che il dio Viperio
Per dar vita al cimiterio.
– Chi è costui?… saria quel desso,
Che a pescar mignatte e scudi,
Per tant’anni il grugno ha messo
Nelle ungariche paludi?
Merta ben pel sommo uffizio
Il cordon di San Maurizio…
Che lo strozzi, nel Signore!
– Maestà! chiamo il Questore. —
– Chiama pur; ma quando penso
A quel Giuda invetriato,
Che al buon prete ardea l’incenso,
E che poi l’ha tracollato,
Vergognar mi debbo assai
Del paese ov’io regnai.
– Maestà, se non si frena
Do l’allarme a gola piena.
– Quando penso e quando vedo
Che una Camera si pone
Genuflessa a dire il Credo
Di cotesto don Pirlone,
Scaverei con la mia mano
Una mina al Carignano,
Vi vorrei porr’io la brace
– Maestà! tace o non tace?
– Son molt’anni se li conti,
Che sto zitto e non mi movo,
E che faccio i miei confronti
Tra i dì vecchi e il tempo nuovo.
– Dica dunque; che le pare?
– Che oramai dall’alpe al mare
Molto fetida è la gora.
– Maestà! continua ancora?
Ma non vede?… – Vedo tutto.
– Ma l’Italia?… – È un guazzabuglio.
– Ma la guerra? – È un certo frutto
Che il vedremo in fin di luglio. —
E la scolta al frizzo orrendo
Il fucil spianò fremendo,
E gridò col capogiro:
– Parli meglio… o ch’io le tiro.
– Tira pur non mi confondo.
In su questo piedestallo
Per veder come va il mondo
Ho fermato il mio cavallo.
E or che ho visto, e visto troppo,
Me ne parto di galoppo. —
E il guerriero in questo mentre,
Gli cacciò lo spron nel ventre.
E il caval nitrendo sbuffa
Pesta il marmo e lo ripesta,
La criniera gli si arruffa
Col rumor della tempesta;
Ecco impennasi; e dall’alto
Sta per dare il primo salto.
E la scolta, poveretta,
Supplicando al suol si getta.
– Maestà! mio buon Signore,
Per pietà non m’abbandoni.
Maladetto il fonditore
Che gli ha fatto anche gli sproni!
Maestà! già lei non brama
Ch’io qua perda onore o fama;
La ci pensi, e non si butti
A fuggir come fan tutti.
Di trottar verso Gaeta
Ha lei pur la regia idea?
Che diran Mellana e Reta
Di me ciuco all’Assemblea?
Sclameran che è un’opra indegna
Tradir l’arma e la consegna.
E di lei, col noto stile,
Grideran che è proprio un vile. —
Non finía questa parola
Che il feroce Savoiardo
Gli serrò la voce in gola
Colla fiamma dello sguardo.
Il destrier la zampa arretra
Sul suo zoccolo di pietra:
Calmo è il ciel; piombato il forte
Nel silenzio della morte.
Tersa allor la faccia bianca
Dal sudor della paura,
Quella scolta un po’ più franca
Si rimise in positura,
E al diman salì le scale
Del Comando Generale…
E parlò distesamente
Contro il re compromettente.
DIALOGO II
//-- (Dopo la rotta di Novara) --//
Ier di notte un’altra volta
Filiberto si riscosse;
Palpitò la nota scolta,
Ma dimande non gli mosse;
Anzi al suol chinò la testa
Presentendo la tempesta,
Chè già odia quel re di ferro
Bestemmiar come uno sgherro.
– Maledetta indipendenza,
Buffonesca libertà!
Perso è il grano e la semenza,
Siam f.….i come va.
– Perdonategli, o Signore,
È un momento di dolore —
Mormorava il buon soldato
Un tantin scandolezzato.
– Dimmi dunque: il Bollettino?…
– Maestà!… pur troppo è vero.
– Lo straniero è sul Ticino?
– Alla Sesia è lo straniero.
– Che? Alessandria è dunque invasa?
O rossor della mia Casa! —
Dalla reggia i lumi torse,
E in furor le man si morse.
D’atra luce in quel momento
Rischiarossi il buio loco,
I pilastri, il monumento,
Tutto il bronzo era di foco.
Tempestando il novo Orlando
Spacca in due l’antico brando,
E il grand’elmo e la corazza
Scaraventa per la piazza.
– Ahi sventura! e non vel dissi?
Non potea la stolta guerra
Che scavar nefandi abissi
Alla povera mia terra.
Bell’onor che s’è comprato
Sovra i campi il re soldato!
– Maestà; non vane offese;
Lei fu grande, or sia cortese.
Hai ragion. Povero Alberto,
Tristo gioco a illustri inganni!
Di qual drappo or s’è coverto
Il pensier di diciott’anni!
L’Ostia insigne or cadde; e l’ara
Fosti tu, fatal Novara.
Or soletto il passo ei move
Ramingando, e chi sa dove.
Va; ti cerca un queto esiglio,
Non udrai da me rampogna.
Non di te, mio degno figlio,
Ma d’Italia è la vergogna.
Vedi omai per qual contrada
Tu ponesti onore e spada!
Questa dunque è la mercede
Riserbata a tanta fede!
Quel mio prode ed infelice
Ti riscosse, o sonnolenta,
Tu il tradisti accusatrice,
Trista Italia: or sei contenta?
Là sull’Arno e al Campidoglio
Tu gli hai tolto onore e soglio,
Rendi i polsi alla catena,
Fiera e giusta è la tua pena.
– Maestà! pur troppo io sento
La rampogna, e il viso ascondo:
E or di noi vigliacco armento
Che dirà, l’Europa e il mondo?
– Ghignerà, come si suole
D’un gran cencio esposto al sole,
Che gridasse al passeggiero:
Io fui porpora d’impero.
– Maestà, ma ier degli Avi
Re Vittorio al trono ascese,
E chi sa ch’ei non ci lavi
Del rossor di tante offese?
Quel Sabaudo giovinetto
D’un Leone ha il core in petto,
E se fausta è la stagione
Risvegliar si può il leone.
– Zitto là che non t’ascolti
Il caduco Maresciallo,
Or che trae dai nostri colti
Il foraggio al suo cavallo.
– Maestà, lei parla saggio,
Però un’onta è quel foraggio.
– Ma frattanto che si ciarla
Non si pensa a vendicarla.
Zitto là! si tessa queti;
Guai se strepita la spola.
Torneranno i giorni lieti.
– Maestà! lei mi consola,
Maestà! c’é dunque caso!…
– Va; non farmi il ficcanaso,
Zitto là. C’è ancor nel covo
Dell’Italia, il gallo e l’uovo.
Ma, per Dio! cacciate in bando
Rossi e rieri farisei,
Che nei bossoli agitando
Il berretto e l’agnusdei,
Han condotto al vituperio,
(Noti ben messer Viperio)
Il reame subalpino
Con il fil del burattino.
E tu re, che or sei salito
D’onde è sceso il tuo gran padre,
Che il mio nome hai rinverdito,
Tu leon fra le tue squadre;
Bada ben la via, ch’or prendi,
Ch’ella è fatta a saliscendi;
Guarda i cor, non i sorrisi:
Via le larve, e cerca i visi.
Hai giurato ad una Carta;
Tentennar non ti conviene;
Ma temprando Atene e Sparta,
Sparta imita, e onora Atene;
E se alcun ti sbarra il passo,
Man di ferro e cor di sasso.
Sia l’esempio ripetuto
Dei papaveri di Bruto.
Con memorie dolorose
Guarda sempre all’Alpe e al mare;
Dove crescono le rose
Cerca i lauri alimentare;
Ama i prodi; i giusti onora,
E in silenzio attendi l’ora,
– Maestà! lei mi conforta
A parlar di questa sorta.
– Ti conforto?… Eppur mi sembra
Che dì son, se tel rammenti,
Ti corresse per le membra
La repubblica a torrenti,
E so ancor che irato in faccia
Mi scagliasti una minaccia
Colla bocca del fucile,
E persin… M’hai detto vile.
– Sono un povero soldato,
Poco pensa e manco vedo,
Ma m’accorgo che m’han dato
Questi birbi un tristo credo,
E sinor senza mio fallo
Lo cantai da pappagallo;
Però qui sull’onor mio
Io le giuro innanzi a Dio,
Che appostato in certo calle
Diman notte, un meministi
Lasciar voglio sulle spalle
Di parecchi giornalisti;
Non so ben se lei m’intenda,
Per finir questa faccenda.
– Picchia giù; tu sarai degno
Cittadin del nuovo regno.
Sono orrendi i lor peccati,
Picchia giù senza pietà.
– Tengo certi camerati….
Lasci fare, Maestà!
– Vivaddio, poveri troni
Che han bisogno dei bastoni,
Or che un santo e civil uso
Al cannon la bocca ha chiuso.
– Maestà! ma se Dio vuole,
Quel cannon sarà sospinto
Sul Ticin. – Non più parole,
L’albagìa sta male al vinto.
Però sentimi: se un giorno
Per lavarci il doppio scorno
Sorgerem dal mare all’Alpe
Veri popoli e non talpe,
Con Vittorio e co’ suoi forti,
Con Fernando e con Umberto,
Volerà tra le coorti
Anche il vecchio Filiberto.
Tufferò nel vinto Isonzo
Queste redini di bronzo;
E in mancanza di quel brando
Che ho spezzato lacrimando,
In quell’ultima fortuna
Dio medesmo al suo fedele,
Porgerà la spada bruna
Dell’Arcangelo Michele,
E il Lucifero secondo,
Che avvelena il fior del mondo,
In eterno fia diviso
Dall’ausonio paradiso!
Oh caval della mia gloria,
Tu risenti i vecchi ardori:
Certo è chiusa, una vittoria
Nelle aurette che tu odori.
Ferma il piè; rabbassa i crini;
Non nitrir; chè i tuoi vicini
Tutti omai dal bimbo al nonno
Son rifitti in grembo al sonno.
Ma se Italia non si sbenda
Fra dieci anni i pigri lumi,
Manda un urlo, e in lei discenda
Ferro e foco, e la consumi;
La bufera e la valanga
Su vi passi, e non rimanga
Della trista un sol ricordo!
– Maestà! Siamo d’accordo.
ALL’ESERCITO DOPO NOVARA
E foste vinti, ahi lassi!
Dai peregrini acciari:
Spietatamente amari
Fur del ritorno i passi;
E sulla terra vostra,
Dopo la infame giostra,
L’usurpator le barbare
Tende ghignando alzò.
Liberamente morti
Ostie del reo destino,
Là sul fatal Ticino
Dormono i nostri forti;
E fu pietà del cielo
Che nel funèbre velo
Li ravvolgea, nè seppero
Chi vincitor restò.
Voi ne’ paterni ostelli
Spersi reddiste e domi
A dir le gesta e i nomi
Dei perduti fratelli;
E vi pesaro intorno
L’arme infelici, e il giorno
Malediceste, e l’ultima
Ora che il sol morì
Sugli spezzati brandi
Sulle bandiere afflitte,
Mentre le torme fitte
Dei vincitor nefandi
Rupper le cinte e i valli,
E dei negri cavalli
Nei superati tramiti
L’empio nitrito uscì.
E indarno l’accorata
Pietà del mondo, e i baci,
E i complessi tenaci
D’ogni persona amata
Vi consolaro. Il prode,
Vinto che sia, non ode
Conforti umani. Il feretro
È carità miglior.
Deh, con che senso ornai
Riguarderete i mesti
Puledri, e sulle vesti
E sulle lance i rai
Vi pioveran del sole;
E le usate parole
E i bei sogni di gloria
V’agiteranno il cor!
Voi prometteste i serti
Alle care donzelle,
E vi riveggion elle
Ahi, di pallor coperti!
Le man d’Italia affrena
Nova, e più rea catena,
E prometteste a Italia
La dolce libertà!
Datevi pace. Offese
Voi la Fortuna, antica
Druda sleal, nemica
Delle gentili imprese.
Datevi pace; ell’era
Ben colla rea bandiera;
Ma il Dritto è un solo; e vincoli
Stretti con lei non ha.
Ei colle salde mani
Pose fra genti e genti
Le montagne, i torrenti,
Le selve e gli oceàni
Per designar la schietta
Parte che a ognun s’aspetta;
E la Natura ai popoli
Un core e un verbo diè,
Perché difforme verbo
Perché difforme core
Tra suddito e signore
Non fesse il nodo acerbo.
E voi d’Itale case
Senso natìo süase
Contra costor, che posero
Nell’altrui parte il piè.
Or ben; fallì il certame.
Forte è il più reo talvolta.
Già di Caïn sepolta
Non è la mazza infame.
Ma scoppiano furenti
Sul parricida i venti
Urlando la terribile
Condanna del Signor.
Meglio a voi la caduta
Che la vittoria ai figli
Dell’ingiustizia. Artigli
Di falco han posseduta
La terra altrui; ma invano
Della rapina il grano
Si ciba in festa: attossica
Il sangue al predator.
Voi per la patria cara,
Voi per la vecchia fede
Il cor recaste e il piede
Nella terribil gara.
Sacre eran l’armi; degno
Della speranze il segno;
Con voi pugnava il libero
Brando dei vostri re.
Era l’Italia il voto,
Via lo straniero, il grido.
Nè fu selvaggio lido
Che non fiorisse al moto
Di quest’ausonio aprile,
Nè fu petto gentile
Che poi non desse un gemito,
Stirpe Sabauda, a te.
E invece i fortunati
Trionfator che sono?
D’una larva di trono
Mal securi soldati,
Cui gloria è alzar le spade
Sovra le altrui contrade,
Multar le messi, e irridere
Fra i nappi e la beltà.
Alle rive lombarde;
Al Po temente; ai presi
Moschetti; ai calabresi
Cappelli; alle coccarde;
Ai vecchi duci, al biondo
Lor re fanciullo, e al mondo
Che li dispregia, e al provvido
Dio che gioir li fa.
Turba corrotta. E i pochi
Tra lor più generosi
Sospirano i riposi
Nei domestici fochi:
E forse ai figli accanto
Ricorderan col pianto
L’ore, in cui tristo il vincere,
Lieto il morir sembrò.
Ite ai lari nativi,
Come onor vi consiglia;
E all’intenta famiglia
Il buon racconto arrivi.
Dite che non matura
Nel giardin di natura
L’odio da sè, ma il nordico
Furor vel seminò.
Dite ai vostri gagliardi
Che guardino lor terre,
E in pellegrine guerre
Non rechino stendardi,
Che par grave l’usbergo,
E mal si preme il tergo
D’un caval di battaglia
Coll’ingiustizia in sen,
Che l’ore ha numerate
Per sè Fortuna, e Dio
È re dei tempi, e obblio
In sua ragion non pate,
Che anch’egli ha brandi e tende
E quadrighe tremende,
E gli Amorrei son polvere
Se alla battaglia vien.
Questo lor dite; e quando
Gli alteri, o mal prudenti,
Nei futuri cimenti,
Ricingan elmo e brando,
Pregate sì che illesi
Gl’incauti a voi sien resi;
Ma se vi tenta il demone
Trionfi ad invocar;
(Deh perdonate all’ira)
Nelle vostre magioni
Cotesto nuncio suoni;
Che la prole delira
Chiusi ha per sempre i lumi
Qua sui lombardi fiumi,
E ne han le salme i vortici
Per seppellirle in mar.
Nordiche madri, a voi
Suona il mio voto orrendo,
Nè già godrei veggendo
Madre che plori i suoi;
Ma quest’Italia oppressa
Ha le sue madri anch’essa,
Che per voi denno in vedove
Bende, infelici! uscir.
Nel dì dei vostri affanni
I bardi di Lamagna
Geman con voi; non piagna
Italo cor quei danni.
Quando fra due s’è fatto
D’immortal giostra un patto,
Sopra una spoglia esanime
Debbe un dei due gioir.
Sappiam, che appena invase
L’aquila i nostri nidi,
Rupper giocondi gridi
Là nelle vostre case,
E tra le gemme e gli ori
S’alzar le mense, e a fiori
Fu delle bionde vergini
Incoronato il crin.
Questo sappiam, felici,
Nè chi l’assenzio or beve
Dimenticar mai deve
La festa dei nemici.
E noi pensosi in petto
La custodiam. No, stretto
Non è in sì picciol termine
Della gran lite il fin.
E voi levate il viso
Nella speranza, o prodi,
Di quest’alpe custodi,
E consentite al riso
Delle bocche amorose,
Perché ha dolcezze ascose
Veglia d’amor, che seguita
D’una battaglia il dì.
Nei presidii fiorenti,
Sopra gli aerei spaldi
L’antico ardor vi scaldi
Dei guerrieri concenti,
E vagheggiando l’ora
D’una gran pugna ancora,
Gittate il guanto al perfido
Destin che vi tradì.
Pensate ai rigidi avi
Della vostra contrada,
Che in Cristo e nella spada
Lor fede han posta. I bravi
Petti stan saldi, come
Salda di tronco e chiome
La fulminata rovere
Sulla vostr’alpe sta.
Pel sanguigno lavacro
D’ogni vostra ferita
Freme e ripiglia vita
Dei morti il cener sacro,
E vi dimanda, o cari,
Di vendicar gli acciari,
Per poi legarli ai pargoli
In santa eredità.
Così sulle guaine
L’antico onor vi brilli,
V’annodino ai vessilli
Le austere discipline.
È l’obbedir rammarco
Per chi d’ignavia è carco,
Per chi di forza esubera
È l’obbedir virtù.
Abbia chi questo apprezza
Nei dì di gloria muti
L’encomio dei canuti,
L’amor della bellezza;
E quando l’alba torni
Di più felici giorni
L’italo sol lo illumini
D’un’altra gioventù.
Poche ingiurie codarde
Non vi trafiggan l’alma,
Voi, che attendeste in calma
Le alemanne labarde:
Ma su l’elsa fedele
Del vostro Emanuele
Spïate colla cupida
Pupilla l’avvenir,
E intanto nelle liete
Corse di campi e d’armi,
Me cogli auguri carmi
Vate solingo udrete,
Solingo qual chi pensa
Che ove il volgo s’addensa
È vaniloquio, e sogliono
Gli arditi estri languir.
Nè già premio alla musa
Dal dì che varca, agogno;
In più ridente sogno
La mia speranza è chiusa.
Ma se avverrà che muoia
Sull’armi di Savoia
Tinto d’infami porpore
La terza volta il Sol,
Sopra un deserto lito
Possa io chinar la testa
Esanime; chè pesta
Barbarica, o nitrito
Io più non senta, o veda,
Quasi a ludibrio e preda,
Seguir superbo il teutono
L’itale nuore in duol.
Ma il patireste, o nati
Dal cor dell’alpe? O fieri
Superstiti guerrieri
Dei campi insanguinati?…
E ciò pur fosse; io pieno
D’alte speranze, in seno
Cadrò dell’urna; a scotermi
Quando che sia, verrà
Certo il fragor; Si è vinto!
Nostra è l’Italia alfine!
E alle voci divine
Agitato l’estinto,
Qualche eccelsa armonia
Non modulata pria,
Le meste solitudini
Di morte inonderà.
IN MORTE DI GIUSEPPE GIUSTI A LEOPOLDO CEMPINI
Amico,
A te, ed a voi tutti, gentili Toscani, che mi avete dimostrato tanta cordiale affezione in tempi oscuri, consacro ed invio. questo canto, come debito e segno di gratitudine. È un tributo povero sì, ma riverente, e sincero, ch’io rendo alla memoria di un vostro concittadino, il quale onorò in brevi anni la propria vita e l’Italia.
La morte, che toglie prima i migliori, vi tolse dopo il Bartolini anche il Giusti; quasichè alla tanta serie dei pubblici infortunii dovessero porre il cumulo le sepolture di quei rari uomini, i quali consolavano almeno il lutto della nazione coi sacri studii e col nome famoso.
Ti prego di far gradire questo mio canto, anzi di leggerlo tu medesimo a Gino Capponi, che fu quasi fratello e padre al povero Beppe, onde almen sappia anche quest’altro insigne uomo, così buono e così sventurato, che i veri generosi in Italia, vivano o muoiano, hanno sempre da qualcheduno lodi, riverenza e compianto; anche in dura stagione, allorchè il mondo suol troppo poco attendere alla vita o alla morte di tali, che non affliggendolo l’hanno Illustrato.
Addio; e se visiti quel caro e onorato sepolcro, deponivi anche in mio nome un ramoscello di quercia.
Il tuo PRATI.
Come un occiduo sole
Del tuo gentil paese,
Cadesti, amico. E il mese,
Che tinge le vïole,
E alla fatal penisola
Campi di pugne e di sepolcri aprì,
Te pur, te pur del tristo
Cipresso ha coronato!
E sul tuo volto, ombrato
Di speme ancor, fu visto,
Siccome ladro, scendere
Precipite il nefando ultimo dì.
Or del tuo sasso accanto
Dorme il flagel tebano,
Che la tua ferrea mano
Fea sibilar nel canto,
Onde, sui turpi talami,
L’Itala Aspasia di rossor tremò.
In secolo ingiocondo
Ahi tu nascesti, o prode.
E spesso incensi e lode
Scorda aver dato i l mondo,
Per contristar col mobile
Ghigno que’ petti, che domar non può.
Tal ti vid’io sull’Arno
Nella stagion dell’ira,
Quando d’Alceo la lira,
Casto ed insigne indarno,
Velar ti piacque, e in torbida
Solitudine i giorni egri languir;
Però che l’alma chiusa
A non cospicui sdegni,
Tra ingrati volghi e regni
La concitabil musa
Mandar tremasti, e pallida
Vederla d’odio, a’ baci tuoi reddir,
Meglio così! Di rose
Ti fè giaciglio al fianco
Ella; e sul capo stanco
Le belle man ti pose.
E ti dicea: «La provvida.
Morte ci meni a libertà, miglior.»
Così movendo un riso
Amaramente mesto,
Via. ti rapì da questo
Putrido ovil diviso,
Le cui battaglie e i feretri
La irridente natura orna di fior.
Via ti rapì. Del modo
Chi si turbò? Chi pianse?…
De’ giorni tuoi si franse
Quasi non visto il nodo.
Muoion gli illustri; e il cupido
Mondo li scote dalla mente, al par
Che il vïator la foglia
Che gli cascò sul crine.
Son queste le divine
Gioie che il Ver germoglia,
Fin sulla tomba, ai flamini
Trafitti a’ piè del suo difeso altar!
Ma non sdegnarti, altera
Ombra, di ciò. Tien gli occhi
Sul nido tuo. Che il tocchi
Scerni tu cosa?… Impera
Querulo un tedio. E sfolgora
Frattanto dalle plaghe artiche il ciel.
Credi, beato è il punto
In che si porta a riva
Da triste acque la diva
Anima stanca, e giunto
Il navicello all’isola,
Dietro si guarda al pelago crudel.
Stuol di puledre infido
Ver l’occidente incalza,
Pel negro etere s’alza
D’aquile ignote un grido,
E agl’iperborei vertici
Balena l’ombra del cosacco Re.
Forse di scuri e brandi
Vedrem connubio ancora;
E la cruenta aurora
Di secoli nefandi
Rosseggerà sui maceri
Frusti di un mondo che di Dio non è,
Ma la tua parca valle
Spero, e l’umil tuo sasso
Non turberà nè il passo
Di barbare cavalle,
Nè il reo fragor de’ litui,
Nè delle picche maledette il suon.
Dormi. I superbi nati
D’un secolo mendico
Quei di sotterra, amico,
Nomineran beati,
Però che lassi, al termine
Di tante larve, ebber la pace in don.
Ma tu, or, che fai? Del cielo
Qual loco è tuo? Gli eventi
Sai tu predir? Ne santi
L’arcano corso? Il velo
Questa tua dolce Italia
Coprirà della morte?… Alma gentil,
Deh! se ti piacque un giorno,
La conscia man serrarmi;
E l’aura dei miei carmi
Grata ti venne intorno,
Migra nel dio che m’agita,
E in profetiche vampe ardi il mio stil.
Ardilo; e ch’io, salito
Sulla vorago orrenda,
Le nude braccia stenda
A ogni terrestre lito,
E le quaranta suonino
Minaci aurore al pigro occidental.
Poi la fulminea possa,
Che un dì fu tua, m’insegua,
Onde de’ morti io vegna
Ad alitar sull’ossa,
E là repente ondeggino
Fiere selve di brandi. Altro non val.
Ch’io pregherò, se alcuna
Ti fu diletta mai,
Che qualche rosa, a’ rai
Dell’imminente luna,
Sparga pensosa, e lacrimi
Colà, non vista, del tuo salcio al piè.
Ahi! se viviam deserti,
Se il freddo cor non ama,
Dite, che val la fama?…
Che de’ begli anni i serti?…
Tempio senz’ara ed ospiti
È nostr’anima, Amor, priva di te.
Tutto di fragil seme,
Qua si distempra e solve.
E colla varia polve
Da mane a vespro insieme
L’uom pur, levita e principe,
Cade, come corroso embrice, al suol.
Ma quell’assidua morte,
Amor, tu rifecondi.
E quando il sole e i mondi
Si disfaran, tu forte,
In bianchi abiti d’angelo,
Ci aprirai nuovi mondi e nuovo sol.
Sta’meco, Amor. Mi fiede
Vario vulgar sussurro:
Ma gli astri, i fior, l’azzurro
Nessun mi vieta, e il piede
Mover solingo ai margini
Delle fide correnti; e meditar.
Novissimo conforto,
De’ tuoi prodigi il canto,
E dar vïole a un santo
Capo tradito o morto,
E in quegli eccelsi palpiti
Anche chi m’odia, vendicato, amar.
ALLE CENERI DI CARLO ALBERTO
Non serva agli antichi, nè ai novi potenti,
Non serva alle plebi compresse o vincenti,
Straniera ai sorrisi, straniera al furor,
La musa romita col dio che la ispira,
Per l’aure funébri d’Italia s’aggira,
Piangendo la fede d’un tempo miglior.
Piangendo le indarno conserte bandiere,
I ponti varcati, le trombe guerriere,
L’armato tripudio di cento città,
Nei dì che una terra d’oppressi e traditi,
Scordate le veglie, le danze, i conviti,
Promise a sè stessa la sua libertà.
Sentir fu creduta la intíma di Dio:
«Cacciate l’estranio dal nido natío,
Stringetevi tutti nel brando d’un Re.
Palestra pugnata dai vecchi giganti,
Delubro custode del patto de’santi,
Più terra di schiavi l’Italia non è!»
Oh sogni svaniti! Sull’arca di Roma
Suonâr gli aquiloni. Recisa è la chioma
Al Forte di Giuda, che Pio si nomò.
Compulse dall’ira d’un volgo feroce,
Divise e tremanti la spada e la croce,
La stella dell’Alpi comparve… e passò.
Ahi mesto tumulto di fughe e d’esigli!
Ahi pianto di madri sul corpo de’ figli
Trafitti e calpesti da un volgo stranier,
Che vien preceduto dal suon della morte,
Che ai vinti ripiglia le torri e le porte,
Che ai deschi interrotti ritorna a seder!
E ai campi lombardi la messe non langue,
La messe che, tinta d’italico sangue,
Par anzi che abbondi sul misero suol,
Per far più giocondo l’avaro sorriso
Del vil che la multa, che studia nel viso
Dei servi multati la colpa del duol.
Or dunque di novo, sventura! sventura!
Salendo alle nozze, rimorso e paura
La donna nei chiusi suoi talami avrà,
Però che all’indizio del grembo amoroso,
Respinta la gioia d’un palpito ascoso,
«Concetto ho uno schiavo!» piangendo dirà.
Or dunque, deserta la casa e la vite
Dei mesti parenti, le assise aborrite
La prole lombarda dovrà rivestir,
Servendo una razza di furti pasciuta,
Che un giorno dai patrii castelli ha veduta,
Qual branco di belve, dispersa fuggir!…
Per numero, oh prodi stranieri esecrandi,
Che a Dio rincrescete, col dritto de’ brandi
Tenendo una terra che vostra non fu,
Qual fede, qual patto tra noi può legarsi?
Voi molti, noi pochi; voi stretti, noi sparsi,
Vegliamci pensosi… Ma patti mai più!
A noi la Fortuna due giorni sorrise.
Sleal meretrice per voi si decise.
Le tempia briache vi cinse d’allòr.
Nei vostri banchetti di giubilo e d’ira
Danzò, lascivendo. Poi stanca e delira
Dormì sulla notte del nostro dolor.
E ier dal triclinio, dov’ebra si giacque,
Volando alla spenta Regina dell’acque,
L’anel delle nozze divelto le avrà.
Vinceste, o felici. Ma stabile amica
Sperar v’è negato la donna impudica,
Che ad uno si giura, che a cento si dà.
Salite alle rôcche, spandetevi al piano,
Dal Garda all’Isonzo, dall’Adda al Verbano;
Nei dolci presidii tornate a regnar.
Ma, lungo i confini, nel cor delle ville,
Potrete poi sempre le fulve pupille,
Nell’ora del sonno, securi chinar?… —
Badate; un iroso nasconde ogni tetto.
Da ogni angolo arcano balena un moschetto.
Compressi gli sdegni, ma spenti non son.
La squilla lombarda v’ha messo una volta
Nel cor lo spavento. Nè tutta è sepolta
La stirpe, che ha desto quel lugubre suon.
Badate; nel petto dell’arso bifolco
Quell’aura di sangue, che esala dal solco,
Travasa una rabbia, che mai non provò.
Badate; il pastore le ciglia frementi
Girò dalla china sui patrii torrenti,
E anch’ei, nel conflitto, coi guardi pugnò.
Nel cor della gleba, nel vento remoto
Ricresce la forza d’un dio non ignoto;
Conclaman d’Italia le querce ed i fior:
«Il dritto e l’ingiuria tien campo distinto.
Fur tratte le spade. La razza del vinto
Divisa è in eterno dal suo vincitor!»
Apostata antica, sfregiando i fratelli,
Potrà qualche turpe progenie d’imbelli
Baciar la catena del novo servir.
Ma dietro quei terghi tapini e sommessi
S’asconde una cheta famiglia d’oppressi,
Terribili ammende parata a compir.
Sementa, se cade sovr’ispide lande,
La bruciano i soli. Se in pietra si spande,
Levata è repente dei turbini in sen.
Ma quando nell’urna de’ solchi s’induce,
Fermenta, si rompe, germoglia, produce,
Poi muscolo e sangue di forti divien.
Talvolta, seguendo suo tristo destino,
S’addorme, o di ciancie tormenta il vicino,
Fermata la stiva, l’incauto arator.
Ma quando s’accorge, sul far della notte,
Che furon sì scarse le zolle che ha rotte,
Pentito sull’alba raddoppia il sudor.
Per ospiti climi, per lustre selvagge,
Ci ha sparsi l’esiglio su tutte le spiagge,
Ci ha tolto la mensa, la casa, il poder.
Mal noti a noi stessi, di boria cresciuti,
Nell’ora del pianto ci siam conosciuti,
Purgato è dai sogni l’illuso pensier.
L’avara promessa di genti straniere
Non era che il patto del vile usuriere,
Che studia l’evento per meglio tradir.
L’evento ha chiarito l’iniqua parola.
La misera Italia dee vincer da sola,
O il capo nel manto celarsi, e morir.
Ma ardente è di fede, ricinto è d’acciari
L’altar, che è levato tra l’alpe e i due mari;
Lo attornian tre mesti, ma santi color.
Velata Iaele, si prostra, adorando,
La tacita Italia. Col pugno sul brando,
La guata pensoso l’estranio Signor.
Oh Prenci (lasciate che il ver vi si gridi),
Temuti o tementi, codardi o mal fidi,
Tornate a quest’ara. La fiaccola è qui.
Giurate nei sette segnacoli suoi.
Parlatevi ancora. L’Italia è con voi.
Del tristo dissidio la trista arrossì.
Distinse i suoi figli, pur tepidi e tardi,
Da’ suoi Saturnini feroci e codardi.
Le orrende sue piaghe nel duol numerò.
Non tutte le vide di stranio coltello
De’ suoi parricidi conobbe il drappello,
Che in pietra d’infamia locarla tentò.
Legatevi, o Prenci, con santo coraggio,
Facciamolo insieme quest’arduo vïaggio
D’affanno e di fede, di forza e d’amor.
Vel chiedon le culle dei bimbi innocenti,
Vel chiedon le tombe dei vecchi parenti,
Vel chiede, gemendo, l’Italia che muor!
Pentita ella spezza l’orrendo pugnale,
Che un giorno per l’aure del tuo Quirinale,
Signor dei credenti, vedesti guizzar.
Siam verghe di creta. Tu il dici. Tu il senti.
Rinasci e perdona, Signor dei credenti.
Conferma che a Cristo tu sai somigliar.
Vuoi salda, o Fernando, sul capo agli eredi
La doppia corona d’Arrigo e Manfredi?
Disarma due genti. Ritorna alla fè.
Corona è di polve corona spergiura.
Nel cor dei vulcani s’espande e matura
O l’odio, o l’affetto. La scelta è per te.
Se un tempo ti piacque la vita serena,
Tra i clivi dell’Arno, figliuol di Lorena,
Se rose perpetue t’han fatto origlier,
Sii forte. E la causa di quelle contrade
Rescindi dall’elsa di barbare spade,
Giudicii di pianto su te non voler!
Se un vostro vedeste Fratel coronato,
Dell’arme d’Italia coperto soldato,
Calar sui torrenti, per l’erte salir,
Cercar la battaglia con fiero diletto,
Spronar sotto i bronzi, sentirsi all’elmetto
Le palle omicide, fischiando, fuggir,
Poi, vista, l’austero, con spasimo atroce,
Domata due volte la bianca sua Croce,
Gittar la corona che vil gli sembrò,
Morir nell’esiglio col capo sul brando,
L’afflitto e supremo suo grido elevando,
Per questa infelice ch’ei vinta lasciò;
Se il martire, o Prenci, vedeste, all’aurora
Dell’alto suo corso, miratelo ancora
Fantasma ravvolto nei bruno suo vel.
Anch’ei fa ritorno sul margo natale.
Ma cinto la fronte di lume immortale,
Atleta incolpato d’Italia e del ciel,
Migrò dalla terra. Rimasegli addietro,
Di tanto suo fato reliquia, un ferétro.
Ma il regno dei morti non muto è così,
Che ALBERTO non gridi dà quelle riviere:
«Rileva, o Piemonte, le afflitte bandiere,
Non doma una gente la rotta d’un dì.
Intorno a’ tuoi fianchi, d’Italia s’aduna,
O Torre dell’Alpi, la nova fortuna.
Paratevi in pace pel certo avvenir.
La via dei dolori sereno ho discesa,
Legando a Vittorio la nobile impresa,
E un dolce trionfo mi parve il morir!»
Sentite, o gementi dal Sarca all’Oreto,
Sentite quest’aura del tempo segreto,
Che soffia il Davidde del novo Israel?…
Re, popoli, duci, leviti, guerrieri,
Posate gli scettri, chinate i cimieri,
Stendete le destre sull’augure Avel.
Conserti in un patto d’amor più tenace,
Foggiatevi l’arme nel dì della pace,
Un’alba affrettando che lunge non è,
Perché questa Italia, dal brando domata
Di cento signori, da sè vendicata,
S’assida una volta signora di sé:
Signora di messi, di codici, d’armi,
Di lingua, d’affetti, di fede, di carmi,
Gagliarda e prudente, severa e gentil.
E in fronte le sieda tal segno d’impero,
Che ognun che la scontri sul lido straniero
La inchini, sclamando: «Qual altra è simil?»
Or chiusa nell’ombre quest’Eva dolente
S’accusa e sospira, ricorda e si pente.
Ma brando e vessillo deposti non ha.
Nell’arduo Superga gli sguardi ella tiene.
Le suonan sui polsi le ferree catene.
Ma un lampo di fede nel viso le sta.
VITTORIO! VITTORIO! Tu, giovine Anteo,
Per questa dolente, nel fiero torneo,
La lancia suprema sei nato a spezzar.
Raccolta dal campo fatal di Novara
La mesta corona, dei morti sull’ara,
Di tanto suo lutto la dêi vendicar.
La croce Sabauda, che ornò sette troni,
Davanti alla furia de’ tuoi battaglioni,
Raggiando sull’arme l’antico fulgor,
Segnai di vittoria per gli occhi de’ forti,
Segnai d’allegrezza per l’ossa de’ morti,
Verrà, benedetta, sull’Adige ancor.
Oh Prence! T’è noto quel cielo e quel corso.
Non tôrre al cavallo nè cella nè morso.
Ei dee di nitriti quell’aure ferir,
Volar nella strage sovr’elmi e loriche,
Scaldar colle nari le terga nemiche,
Del Re che lo preme la gloria, gioir.
Oh! insigne quel giorno, che tersi i sudori
Dell’ultima pugna, fra’ tuoi vincitori,
Curvati i ginocchi d’un feretro al piè,
Serbando di prode l’altero contegno,
Dirai colla gioia d’un vinto disegno:
«Francata è l’Italia, mio padre e mio re!»
LA PASSEGGIATA
Lungo i platani, in cui vive
Ogni fronda innamorata,
Sotto l’aure fuggitive
Della sera e del mattin,
Su una sponda infrequentata,
Fuor del volgo, che mi accora,
Col tramonto e coll’aurora
Fo soletto il mio cammin.
Miro i fior; la volta azzurra,
Guardo all’acque; ascolto il vento;
E dal labbro, che susurra
I fantasmi che ho nel cor,
Vo esalando un fumo lento,
Che coi vortici leggieri
Accompagna i miei pensieri
Di gaiezza o di dolor.
Fisso gli occhi ai colli adorni
Di verdura, e vo sclamando:
Dove siete, o rosei giorni
Della bella gioventù?
Che veniste carolando
Su’ miei prati in lieta danza,
Col coraggio e la speranza,
Colla fede e la virtù?
Fresche aurore, oh! chi vi ha spente
Quando sotto a’ miei balconi
Mi destava la fremente
Allegria dei cacciator,
E del corno agli acri suoni
Rispondea con varia legge
Il tumulto delle gregge
E la tibia dei pastor!
Oh! notturni allegri fochi
Del novembre, in mezzo ai solchi,
Dov’io stava, ed altri pochi
Fanciulletti ad ascoltar
Dal più vecchio dei bifolchi
Le prodezze e il vario marte,
Quando insiem con Bonaparte,
Scese l’Alpi e passò il mar!
Il mio nome, ignoto ai cupi
Tradimenti dei mortali,
Quante volte per le rupi
D’eco in eco udii morir;
Nè d’incensi nè di strali
Fu mai segno il fanciulletto,
Che con Dante e col moschetto,
Gìa le lepri a perseguir.
Era il meglio un nome occulto
Serbar sempre in mezzo ai monti,
Che recarlo nel tumulto
Delle querule città;
Dove siede in sulle fronti
Il timor, la noia oscura,
Dove langue la natura,
Dove muor la libertà.
Miglior senno arar le glebe,
O dar gli estri all’aura molle,
Che versarli ad una plebe
Scissa d’opre e di pensier,
Che, ululando al par del folle,
Gira il trivio e sempre sogna,
E pasciuta di menzogna,
Sfregia il bene, esiglia il ver.
Oh mia musa! oh mia compagna
Dell’età ridente e lieta!
Quando in cima alla montagna
I tuoi canti aprivi al ciel,
Tu credesti il tuo poeta
Cosa sacra infra le cose,
Cinto l’hai delle tue rose,
L’hai bendato del tuo vel.
Ahi fatale, ahi tristo inganno!
Sul destrier dei dolci incanti
Ei s’assise; e il negro affanno
Sul destrier gli cavalcò.
Sfumar vide i sogni amanti,
Come nebbie della valle,
E, spossato a mezzo il calle,
Di morir desiderò.
Deh! ciò avvenga. A questa guerra
Cupa, eterna, il cor mi cade.
Letto angusto in poca terra
Chiedo; e pace all’ombre in sen.
Sotto il vel delle rugiade
Dormirà la creta stanca,
E ai dolor del dì che manca
Sarà premio il dì che vien.
Vïator, che sotto al faggio
Pigliò sonno in tetra selva,
E al rosato e fresco raggio
Del mattin si risvegliò,
Più non teme abisso o belva,
Esce all’aure, al sol ridente,
Ed un sogno è della mente
Ogni rischio che passò.
Come pia sarà la mano
Che mi scavi il nido oscuro,
Fuor degli uomini, lontano
Da fastidio e vanità!
Fregi e simboli non curo
Sulla povera mia pietra,
Senza lauro e senza cetra
Tuttavia si dormirà.
Quando solo il dì reclina,
Quando è mesto il cielo e il core,
Sull’avel mi porti Erina
Il giacinto del suo crin;
Poi la rosa, allegro fiore,
Orni sempre i suoi capelli,
E, sommersa in dì più belli,
Pensi appena al mio destin.
Così ognor passeggio e canto,
E cantando il cor lusingo.
Ride il volgo. Ed io frattanto
Spiro vita a’ miei pensier;
Col mio carme io vo solingo,
Del mio carme il core ho lieto,
Alle lucciole il ripeto,
Come al gallo mattinier.
E, in mirar la volta azzurra,
E, in udire il vol del vento,
Fuor del labbro, che sussurra
I fantasmi che ho nel cor,
Vo esalando un fumo lento,
Che coi vortici leggieri
Accompagna i miei pensieri
Di gaiezza o di dolor.
A FERDINANDO BORBONE
Se mala signoria, che sempre accuora
Li popoli suggetti, non avesse
Mosso Palermo a gridar: Mora! Mora.
DANTE, Paradiso, C. VIII.
Mentre dell’ampia Napoli
Il pescator mendìco
Spesso le maglie inutili
Getta sul mar nemico,
E la nefanda Inopia
L’ali sue negre stende
Sulle selvagge tende
Del calabro pastor,
E l’abbruzzese ai pargoli
L’ira col pan divide,
E alla sicana vergine,
Pur quando danza o ride,
Balena una profetica
Stilla sul ciglio oscuro,
E regna ovunque il duro
Trionfo del Dolor,
Tu re nascevi all’alito
Dei cedri, al suon dei carmi;
Fur tue le vite, i codici,
L’oro, le messi e l’armi:
Tutto fu tuo. Dall’arbitra
Sorte locato in trono,
Per esser giusto e buono
Che ti mancava, o re?
E quando primo i liberi
Voti d’Italia udisti,
E sfolgoranti all’aere
I tre color fur visti,
Del lungo ceppo immemori
D’ebra letizia ardenti;
Dimmi, o signor, due genti
Non ti vedesti al piè?
Toccate allor le pagine
Dell’Uno e Trino Iddio,
Giuravi tu: «La folgore
Piombi sul capo mio,
Se quel ch’or dona ai popoli,
Questa mia man riprenda!
E al sacramento attenda
Custode il mondo e il ciel».
Or che hai tu fatto, o misero
Spergiurator? Sull’ugne
De’ tuoi corsier la polvere
Delle lombarde pugne
Veder tremasti; e al vindice
CARLO il tuo brando hai tolto,
Transfuga iniquo e stolto
Dall’arca d’Israel.
Tesi gli orecchi e pallido
Sulla regal cortina,
Stavi origliando il sonito
Dell’Itala ruina,
Come sparvier famelico
Odora il pasto umano,
Su cui dall’erta al piano
Cupido avventa il vol.
E quando il sol sui barbari
Elmi splendea giocondo,
E lacrimava al funebre
Altar d’Italia il mondo,
Ahi! tu, d’Italia principe,
Sulle codarde piume,
Tu congioisti al lume
Di quel nefando sol!
Va’; tenta Dio; poi chiedigli
Ch’ei ti difenda e t’ami,
Ei non placabil giudice
Di quelle gioie infami.
Guarda, se puoi, nell’impeto
Dell’insanir feroce,
Questa sabauda Croce
Senza spavento in cor!
Pensavi tu che il fremito
Dell’anime secure,
Sotto l’orrenda immagine
D’un palco e d’una scure
Cadria domato? Il libero
Per codardie non muta;
La libertà saluta,
Pugna, sorride e muor.
Là nelle turpi tenebre
De’ tuoi castelli, o cieco,
Ben tu insepolcri i martiri,
Ma il lor martirio è teco;
Però che là puoi vincere
Poche languenti salme,
Non i pensier, non l’alme,
Non Dio che insiem le unì.
Fisa le illustri vittime
Tu, men di lor tranquillo.
Dimmi, non senti i palpiti
Di Mario e di Cirillo
Sotto quei polsi, o despota,
Che tu di ferri hai cinto?…
Morto cadrà, non vinto,
Chi da quel sangue uscì.
Credevi tu che un’unica
Benedicente mano
Dell’atterrito Apostolo,
Che piange in Vaticano,
Sospenderia l’unanime
Giudicio della terra?
Ah! chi all’altar non erra,
Schiavo al tuo scettro, errò.
E i figli suoi, che il videro
Darti i fatali amplessi,
E all’oppressor sorridere,
Lui padre degli oppressi,
Tremâr per quei segnacoli
Di ch’ei si noma erede,
Tremâr per quella Fede
Che Dio gli consegnò.
Speravi tu nel cupido
Furor del moscovita,
Che verso noi le indomite
Crimée puledre incita,
Poi d’Oriente ai zefiri
Cauto le briglie gira,
Svegliar tremando l’ira
Dell’Occidente alfin?…
Forse lo attendi? A Dalila
Offri, o Sanson, la chioma.
Il boreal pontefice
Non è già quel di Roma.
Uno t’abbraccia e lacrima,
Grato all’ospizio offerto;
L’altro d’Arrigo il serto
Ti strapperia dal crin.
Va’, incresci a Dio: dell’Isola.
Che osò gridar: «FERNANDO
NON È PIÙ RE » ti vendica,
Or che hai la legge e il brando.
Ma sul terren di Procida
Sangue di Francia stilla,
E la tremenda squilla
Non ha perduto il suon.
Quando tra prence e suddito
Tratto è l’acciar, la Pace
Velasi e muor. Longanime
L’odio resiste e tace;
Tace, e nell’ombre edifica
Coll’ignea man presaga
Sulla terribil daga,
Che non udrà perdon.
Che speri or dunque? Un’opera
D’insania e di sgomento
È ogni tuo dì; la lugubre
Notte t’insegue; il vento
Parla e t’impreca; il gemino
Mondo t’acclama infido;
Sin l’innocenza un grido
Ha di terror per te.
Se i tuoi leali assiepano
Folti la regia stanza,
Dal fianco tuo si svincola
L’Onore e la Speranza;
E sin fra’ tuoi qualch’intimo
Gentil pudor si sdegna.
Dove Fernando regna,
Regno di Dio non v’è.
Me non lusinga il torbido
Rumor di plebi inette:
Mai co’ larvati Spartachi
La musa mia non stette:
Amo e cantai quel soglio,
Dov’è del prence a lato,
Con nodo immaculato,
La sacra libertà.
E non dal facil odio,
Come lo senton gl’imi,
Ma dai dolor che arrivano
Là dai sebezii climi,
E dalla man degli esuli
Che lacrimando strinsi,
Oggi quest’ira attinsi,
Che mi parea pietà!
A brun ti vesti, o povera
Napoli bella. Intanto
Io col fedel mio genio
Penso d’Italia il canto:
E per lenir gli spasimi
Del cupo affanno, ond’ardo,
Lascio vagar lo sguardo
Dietro un regal destrier,
Su cui la bella immagine
D’EMANUEL s’accampa,
E intorno a cui lo spirito
Di mille prodi avvampa:
Onde nel cor mi piovono
Rai d’una nova aurora,
E il Dio di Dante ancora,
Sento ne’ miei pensier.
ALLA LUNA
Chiusa in vel di puro argento,
Occhio e amor del firmamento,
Tu m’allegri, e m’impauri
Di tua gelida beltà.
Colle lingue e coi pugnali
Qua si sbranano i mortali,
E tu placida misuri
La celeste immensità.
Tu che varchi i mari aperti,
Tu che pendi sui deserti,
Tu che assisti a tanta guerra
Di superbia e di dolor;
Tu conosci il breve nulla,
Che ci attrista e ci trastulla,
E passeggi sulla terra
Senza sdegno e senza amor.
Ben cortese e non pudica
Ti sognò la fola antica,
E di Latmo i mirti ombrosi
Van parlando ancor di te,
Quando, languida sul petto
Dell’ardente giovinetto,
Gli recavi i gaudi ascosi
D’un amor che in ciel non è.
Ma tu strania al fallo bieco,
Tu ridesti il genio greco,
Nè dell’ira il cupo istinto
La vendetta t’insegnò;
E sull’urne di Platea,
E sui fior di Mantinea,
E sui marmi di Corinto
La tua luce ognor brillò.
Né già visiti quei segni
Di superbi e morti regni,
Per un senso, qual che fosse,
Di tristezza o di piacer.
Esser pia non ti bisogna,
Nè tal sei. Ma tal ti sogna
Nelle fervide e commosse
Sue fantasme il passeggier.
Fredda sì, ma pur divina,
La tua luce a noi s’inchina,
E d’un palpito si scote
Malinconico e immortal.
Chi nol sente ha sterilito
Il pensier dell’infinito;
Stranio verme a cose ignote,
Polve ed ombra in lui preval.
Quante tele e quanti carmi
Tu inspirasti, e bronzi e marmi,
Senza amor che a noi ti stringa,
Tu romita in grembo al ciel!
Di Simonide la lira
Al tuo lume ancor sospira,
Là in Termopili solinga
Tra le querce e il venticel.
Pia non sei, ma non sei cruda
Tu di sensi affatto ignuda;
Pur la vergine ti manda
La notturna sua canzon;
Parla a te del chiuso foco,
Di sospiri accende il loco.
Ma la gelida tua landa
Non contrista umano suon.
Meglio a te. Se errar non godi
Sulle antiche ossa de’ prodi,
Che fregiâr d’un mondo infranto
Col lor sangue i vani altar;
Se il tuo raggio inerte scorre
Sovra il Libano e il Taborre,
Dove i cedri al fiero canto
D’Isaia si conturbar;
Non udisti almen le grida
Del fuggiasco Fratricida,
Nè d’Abel l’estinto viso
I tuoi rai contaminò;
E a Getsemani movendo,
Ti fu ignoto il bacio orrendo,
Che degli Angeli il sorriso
In eterno addolorò.
Ahi! quel bacio e quella piaga
D’odio e sangue il mondo allaga;
E tu scherzi, o fortunata,
Co’ tuoi raggi in mezzo ai fior,
Come fossero innocenti
Delle colpe de’ viventi.
Ma la rosa anch’ella è nata
Rea coll’alba, e a vespro muor.
Così armonica e sincera
Tu sei là, nella tua sfera!
Sulle nozze, inconscia luna,
Sui feretri egual sei tu;
Là, da secoli, risplendi;
Nulla speri, a nulla attendi;
Muta al mondo, alla fortuna,
Al dolore e alla virtù.
Muta sempre e sempre bella,
Tu m’atterri, arcana stella.
Ecco; in faccia al mar che romba.,
Il Vesèvo urlando va;
Due città la lava inghiotte:
Tu ne illumini la notte,
E d’un popolo la tomba
Non ti veste di pietà.
Strana dea, che valse mai
Por su Erina i dolci rai,
Sotto i platani tranquilli,
Meco in grembo al gelsomin?
Schiava ad altri, a me rapita,
Ombra e pianto è la sua vita;
E serena ognor tu brilli
Tra quei fiori, e su quel crin.
Tutto muor d’umane tempre;
Tu sei bella e giovin sempre.
Dunque il duol dell’universo
Ti fu sempre ignoto duol?
No. Tu pur, superba dea,
Là nel ciel della Giudea
Scolorasti, il dì che asperso
D’atro sangue apparve il sol.
Quando Cristo sulle spalle
Tolse il legno, e ascese il calle
Dei tormenti, e il capo afflitto
Nella morte reclinò,
In quell’ora irati e folti
Si rizzarono i sepolti,
E dei vivi il gran delitto
Di terror ti circondò.
Forse è ver. Da quel momento
Ti fu dato il sentimento.
E tu in ciel pensosa udisti
D’ogni Solima il sospir.
Forse è vero. Il cor temprando
Al tuo raggio arcano e blando,
Si può vivere men tristi,
Meno rei si può morir.
Cara luna, allor ch’io veggio
Far le stelle a te corteggio,
E il tuo passo in alto preme
I sentieri del Signor;
Teco parlo, e tu mi sveli
Le armonie di nuovi cieli,
E la cetera mi freme
Di mistero e di splendor.
Torino, 1851
DISTRAZIONE
Quand’ardo intento e fisso
Nel vagheggiato arcano,
E i lucidi fantasimi
Sorgono a mano a mano
Dal ben tentato abisso
Dell’alma e del pensier,
Se mi spïasse il mondo
Sfallir la giubba, i cheti
Libri scompor, la cabala
Segnar sulle pareti,
D’un risolin giocondo
Mi schernirebbe in ver.
Distratto, a un dio di gesso
Or la ceffata accocco,
Or dell’inverso zigaro
La viva brace imbocco,
Spesso il cappel, più spesso
La testa obblìo così,
Che se le tempia rotte
Non vanno al muro è un caso.
Quindi il sedil mi sdrucciola,
O mi s’inchiostra il naso,
O aspetto il sol di notte.
O accendo i lumi il dì.
Se varco in tra la gente
Col capo nelle stelle
Urto l’incauto gomito
All’anca delle belle,
O pesto irriverente
D’un senator sul pié.
Con petulanza rea
Non bado a chi mi bada,
Fo soste, e girigogoli
Serpeggio per la strada;
Così l’intenta idea
Domina i sensi in me.
Come di fuor son degno
Del cittadino scherno!
Però, sepolti fervono
L’opra e l’affetto interno,
E nella mente io regno
Come in mio proprio ostel;
E a sentir meglio imparo
L’ore felici e corte,
Gli arcani amor, le lacrime,
La verità, la morte,
Quanto ha d’immenso e caro
La breve terra , e il ciel.
Così son nati i canti
Da quella strana incuria,
Che par demenza all’anime
Da fondaco e da curia;
E ai glorïosi amanti
Di poca polve d’òr.
Deh! segui il tuo viaggio,
O mente pellegrina.
Meglio che un cor da feretro
E un senso da fucina,
Lo schietto ardir selvaggio
Il canto ed il dolor.
Siam nati in cima ai monti,
Casti e sereni alberghi,
Dov’è costume incognito
Tanto piegar di terghi,
E umilïar di fronti,
E cupido mentir.
Non è di noi, distratti,
Il mondo e la sua gioia,
Ma neppur l’ansie e il fracido
Riso, e il cader di noia,
Cadaveri disfatti
Avanti di morir.
Noi per le nostre selve
Fieri squillando il corno,
Sotto gli acuti crepiti
Del pino a mezzogiorno
Per rompere alle belve
L’audace corsa, o il vol,
Noi liberi, e raminghi
Su per la frana ombrosa
Colà scontrando i balsami
Della montana rosa,
O agli atrii casalinghi
Il veltro e il rosignol,
Noi non attrae la viva
Gemmata aurqa de’ balli,
Nè il petulante strepito
Di cocchi e di cavalli,
Noi per deserta riva
Pensosi viator;
Ma ben ci allegra e pasce
L’interïor mistero,
E in quella sacra, tenebra
Muti adorando il vero,
L’agile carme nasce,
Come da sterpo il fior.
Torino, 1851.
AL MIO PICCOLO ORIUOLO
Macchinetta gentile,
Che la vita e la morte
In tuo tacito stile
Misuri all’uom, qual sorte
Nel tuo breve abitacolo
Oggi tornar ti fe’?
Smarrito, o in man del ladro
Già ti credei , mio vago
Orivolin leggiadro.
Reminiscenza e immago
Di lieti dì, che l’indice
Tuo numerò per me.
Quando m’accorsi appena
Del maladetto evento
L’alma di cruccio piena
Stetti; e poi dissi al vento
Le male voci; e il vedovo
Frugai nicchietto invan.
Dagli iracondi sfoghi
Pur non traendo frutto,
Rifeci in mente i luoghi,
Mi ripalpai per tutto.
Ma sol pilucchi e collera
Strinse la vacua man.
Pensai che sull’aurora
T’armai le corde, e presi
Per te commento all’ora
Meridiana, e scesi
Teco a rifar la tessera.
Del tempo che volò.
Pensai che su me chiusa
La giubba e il ferraiuolo,
Colla selvaggia musa
Uscii romito e solo,
E che non piè, nè gombito
Di ladroncel m’urtò.
Dov’eri or dunque? L’ale
Forse tu avresti messo
Però che sai da quale
Tristezza io giaccia oppresso
Quando ti guardo, e rapida
Veggo passar l’età?
Lieve fuggendo, teco
Forse avrai detto; «Or resti
L’amico nostro al cieco
Tempo indiviso; i mesti
Occhi a un quadrante io dubito
Che più non volgerà.
Così gli erranti sogni,
Le fantasie canore,
Coi rigidi bisogni
Delle fuggevoli ore
Non urteranno; e al mobile
Cocchio de’ suoi pensier
Dato in balia, men negre
Vedrà passar le cose,
E forse con allegre
Man fia che spanda rose
Sulle milliarie lapidi
Del suo mortal sentier.»
Grazie ti rendo, amico,.
Se ciò pensasti. Intanto
Riedi al tuo nido antico,
Tu mio compagno al canto,
All’ira, al tedio, al giubilo,
All’opra ed al dolor.
Tu m’aspettavi, o mio
Fedel, nella soletta
Stanza, posto in oblio.
Or dunque in premio accetta
Del tuo cortese attendermi
Questo fermaglio d’òr.
Perdona, se la bella
Tua libertà tu perdi
Nella stagion novella;
Ma è cauto, ai dì men verdi,
Quando ogni laccio allentasi,
Gli amici incatenar.
Così più forte nodo
Avessi a Erina ordito!
Che in miserevol modo
Tu non m’avresti udito
Lungo le insonni tenebre,
Frequente sospirar.
Sta meco sempre. E poi
Che di perpetui affanni
Vittime ree siam noi,
Per tanti miseri anni.
Tre sole ore, ti supplico,
Consentimi gioir.
Dammi, coll’ora prima,
L’amor d’una cortese;
Coll’altra, i ferri lima
Del mio gentil paese.
E da quest’ombre insegnami,
Coll’ultima, a partir.
Torino 1851.
IN MORTE DELLA FANCIULLINA
LIDIA VAGLIENTI ALLA MADRE
La tua bambola vezzosa,
Che giornate ebbe sì corte,
Sai tu, madre, ov’ella posa
Fuor del secolo infedel?
Non in braccio della morte,
Non sul letto della tomba:
La tua piccola colomba,
Guarda, o madre, è là nel ciel.
Là nel ciel, che ti sorride,
Del tuo pianto afflitta appena;
Là nel ciel, che si divide
Cogli arcangeli e con te:
Dove l’aria è tutta piena
D’armonie, di gioia immensa;
Dove al mondo ancor si pensa,
Ma ove noto il duol non è.
Cessa, o Madre, il tuo lamento.
Ella uscì da un tristo nido,
Ove il riso è d’un momento,
Poca e mesta la virtù.
Non cercarne il dolce grido
Nella vedova tua stanza;
Solo in larve di speranza
Rivederla ancor puoi tu.
Quando i fior, giocondi figli
Nasceran di primavera,
Tu ornerai di rose e gigli
Il suo freddo letticciuol;
E dagli astri a te leggiera
Volerà la tua bambina,
O coll’aura pellegrina,
O confusa a’ rai del sol.
E una notte, sulla cuna
Lacrimata e solitaria,
Quando al lume della luna
Imperlando il ciel si va,
Tu vedrai calar per l’aria
La tua Lidia ancor più bella;
E il suo labbro una novella
D’allegrezza a te darà.
« Apri gli occhi! È sceso meco
« Il tuo premio, o madre amante!
« Io quest’angelo ti reco,
« Cui sorella Iddio mi fe’;
« Ti dimentica un istante
« I miei ceri e la mia bara:
« Fagli festa, o madre cara,
« Come in ciel la fanno a me.»
Tu, di giubilo rapita,
Così fuor del mortal uso,
Sentirai d’un’altra vita
L’ebre viscere tremar;
E del gaudio in te mal chiuso
Suonerà l’allegro tetto,
Come al giorno benedetto
Delle nozze e dell’altar.
Torino 1851.
TEDIO E PRIMAVERA
La cingallegra canta
Sul ramuscel natio,
Che april di verde ammanta.
Con dolce susurrio,
Come un’argentea zona,
Brilla fra l’erbe il rio.
La sua natal canzona
L’errante savoiardo
Sulla gironda suona.
Esce un acuto dardo
Tinto d’ebbrezza arcana
Da ogni virgineo sguardo.
Qual cervo alla fontana,
S’abbevera d’amore
Tutta la stirpe umana.
Sol io, sol io nel core
D’ogni terrestre gioia
Ho disseccato il fiore.
La solitaria noia
M’assalta, come fiera,
E la sua preda ingoia.
Oh, allegra primavera,
Come oramai mi sento
Altro da quel ch’io m’era!
All’occhio infermo e lento
Si semina di stelle
Indarno il firmamento.
Son dissipate ancelle
Dalla nativa casa
Le mie canzon più belle.
L’alma di tedio invasa,
Vinta a nefande lotte,
È come selva rasa,
Sulle cui piante rotte
Riposa il ladro, e rugge
Il vento della notte.
La mia ragion si strugge
In campo d’ombre; e il senso
Fin del dolor mi fugge.
Or che son io? che penso
A questo mondo in faccia
E a questo cielo immenso?
Ferrea catena allaccia
Lo spirito infinito
E le impotenti braccia.
E son nocchier smarrito
In barca, che si spezza
Per mar che non ha lito.
Dell’onde sull’altezza
Il Tempo mi deride
E a disperar m’avvezza.
Perché, perché mi stride
La livida tempesta
Sul capo e non m’uccide?
Ahi, la mercede è questa
Del vagheggiato sole,
Che m’è sepolto in testa!
Sulle innocenti aiuole
Io seminai sospiri,
E non mietei che fole,
Ah, nei suoi vasti giri
Altro non è la terra
Che un astro di martìri,
Dove si piange ed erra,
Sin che una zolla breve
O un sasso vil ci serra!
Nè la cadente neve,
Nè la nascente rosa,
Nè l’aura fresca e lieve,
Nè fama gloriosa,
Nè dei rimasti i lai,
Nè ogni creata cosa,
Nè il vasto ciel co’ rai,
Nè il mar colla sua voce
Ci sveglierà più mai.
Questo è il pensier che coce,
Questo è il calvario orrendo,
Questa è l’orrenda croce.
Io già su lei mi stendo,
E nell’iniqua fossa
Pria di morir discendo.
E queste polpe ed ossa
Si disfaran, siccome
Fronda dal ramo scossa.
Or che mi giova un nome
E un maledetto alloro
Sulle tradite chiome?
Sogni e fantasmi d’oro
Il mio guanciale han cinto,
Dovrò sparir con loro.
E sul caduto estinto
Sorriderà la morte,
Come al cader d’un vinto.
Oh, mie superbie corte,
Un’ombra inerme io sono,
E mi credeste un forte?
Oh, mente mia, che in trono
Un dì seder ti parve,
Sei vanità di suono!
Oh, mie celesti larve
Dell’anima fanciulla,
Quando da voi disparve
La luce della culla,
Voi mi lasciaste adulto
Col mio saper che è nulla!
Studii del mondo occulto,
Baldanze del pensiero,
Io vi beffeggio e insulto.
Trista rugiada è il vero:
Altro non nutre e pasce
Che il fior del cimitero.
Beato è chi non nasce,
O generato appena,
Muor nelle bianche fasce!
Ah, su quest’empia arena
D’esilio e di peccato,
Sola una larva è piena
Dei raggi del creato:
La larva che matura
Sotto uno sguardo amato!
Larva che poco dura,
Ma che di fior coperti
Ci mena in sepoltura,
Della sua mano i serti
Trasformano in altari
I funebri deserti.
Ella gli spasmi amari
Del tormentato ingegno
Rende soavi e cari.
Ella di Dio dà segno
In questa buia chiostra
Dove ha Satàno il regno,
Deh, se il mio cor si prostra
A’ cenni tuoi, gran Dio,
Deh, per pietà mi mostra,
Scossa dal lieve oblio,
La dolce larva ancora
Del paradiso mio!
Dai vesperi all’aurora
Ben io la sogno, e l’alma
Come il pensier l’adora.
Simile a nivea salma,
Ella talor mi brilla
Per notte azzurra e calma.
Talor la sua pupilla
Il solitario foco
Dal cor mi dissigilla.
E allor celeste è il loco
Dond’io la guardo e tremo,
Divino è il tempo e poco.
Allor l’inerte e scemo
Vigor mi torna, e sento
Tutto il mio ben supremo.
E in mute ebbrezze intento,
Fuor che il pensier, che l’ama,
Di me tutt’altro è spento.
Nulla il mio cor più brama,
Perché rapito in lei
Altri che lei non chiama,
Nè ben narrar potrei
Se sien di morte o vita
I rapimenti miei.
Ma so ch’è una romita
Gioia profonda e strana,
Ch’io non ho mai sentita.
E forse ancor l’insana
Mente delira, e crede
A una fredd’ombra e vana,
Ombra che vola e riede,
Ombra che inutil vive,
O ad altri amor dà fede.
Cocenti e fuggitive
Ore del nostro sogno,
Perché si piange e scrive?
Penna, che invan rampogno,
Perché non ti rifiuti
A questo reo bisogno
Lampa, che guizzi e muti
Gli ermi chiarori tuoi,
Perché non mi saluti,
Perché morir non vuoi?
Segni d’inchiostro informi,
Perché vivete or voi?
Mente, perché non sciormi
Dalle malíe fallaci?
Pensier, perché non dormi?
Cor mio, perché non giaci?
Taci, indignata musa:
China la testa e taci.
La fantasia confusa
Cinta è d’angoscia e d’ira,
Come caverna chiusa,
Dove il lion s’aggira,
O dove, occulta a tutti,
Crepita ardente pira.
Ah! del pensiero i lutti
Lo rodono e lo sfanno,
Come la nave i flutti!
E l’uom, vivente inganno,
Altro non sente alfine
Che il suo pensier tiranno.
E voi, nelle divine
Aure del ciel, che fate,
Perpetue pellegrine
Prima dell’uom create,
Stelle d’arcane tempre?…
Ah! voi di là ruotate
Sull’uom che sogna sempre!…
A UN ROSIGNOLO
Covato nel materno
Nido, spuntasti al dì. La molle piuma
Ti crebbe al mite april. Modesto e solo
Nella selvetta canti,
Fantastico usignuolo,
Canti all’alba, alla luna, al mezzogiorno,
Or lieto, ora dolente,
Se è ver che la natura,
Come t’ha dato la canzon d’amore,
Ti desse il cor che sente:
Così, simile al fiore,
Alla notturna luccioletta e al vento,
Vita gentil, tu nasci,
E vai cantando. Vai
Via della terra; e forse
Nulla comprendi, o sai.
Quanta del nostro seme
Parte che pensa e geme,
Rosignol fortunato,
Vorrebbe al par di te, cedere al fato!
Vorrebbe, e non l’è dato,
Chè ’l pensier l’affatica e il duol la scarna,
E ’l tempo immane e morte la spaventa,
Però che la comprende;
Anzi par che la senta
Prima ancor del suo dì. Tu sulla verde
Tua frasca mattineggi;
E non vedi che ’l ciel, le ripe intorno
E il pastor colla mandra, a cui non badi;
Chè te possiede il canto,
Tua legge antica. Intanto
Battagliano i mortali
Sopra ogni plaga. In ciel qualche pianeta
Consumando si va. Simili a foglie
Cadon le umane vite. E indifferente
Le insepolcra l’obblio.
E la speme e l’error diversamente
Mena le turbe. Addio,
Addio cantor soave.
Forse diman morrai privo d’affanno,
E di sgomento. E il breve
Loco de’ tuoi riposi
Ignoreran le genti.
Di te chi mai s’avvede?
Nè il bosco rimarrà senza tuoi pari,
Nè l’alba, nè la luna
Senza i gorgheggi usati.
Ahi! perché v’ami alcuna
Alma gentil v’è d’uopo,
Augelletti dell’aria,
Perder la libertà: dal colorato
Carcere alzar la voce, e a chi vi pasce,
Il tedio consolar del dì che fugge.
Allor carezze e baci
Di bimbi e verginelle
Vi piovon sopra. Chè l’avara schiatta
Nulla dà mai per nulla.
Nè forse il duol vi preme
D’essere in ceppi! Ignoto
V’è dunque il lutto della terra nostra?
Veracemente? Io ’l credo,
Perchè le melodie voi neghereste
All’uom che v’imprigiona.
O forse a voi natura
Più che a noi, generosa indole dona?
Ah! no. Non è la prole
Dell’uom cui pianga o rida
Il vostro canto. È quest’arcana immensa
Beltà dell’universo.
Oh rosignol, divino
Flauto de’ boschi, avessi
I tuoi notturni carmi,
Come ho l’aura immortal del mio destino.
Chi per selva, o cittade
Disamar mi potría? chi somigliarmi?
Ma desïar che vale?
Io non ho le vostr’ale,
Nè voi le mie. Cantiamo,
Augelletti, cantiam, finchè la scura
Notte chiuda su noi l’ultima porta,
E Dio trasformi questa poca e morta
In immortal natura.
Allora, allor soltanto
Volo perpetuo e canto
Avremo e libertà. D’ira e di frode
Troppo ci mette in gara
Quest’aiuoletta avara,
Che dalle savie lingue ha poca lode.
IL DUBBIO
Là di Lutezia assisi
In un fiorito parco,
Caldi dal nappo i visi,
D’Egina il bel Nearco,
Sir Dunistan brittannico,
Il polonese Ermano,
E Pedro il cordovano
Fean brindisi all’Amor.
L’Anglo sclamò giocondo:
– Viva di Kent la rosa.
Vince ogni donna al mondo
La mia futura sposa.
L’occhio cilestre ha simile
All’onda de’ suoi laghi,
Biondi i capelli e vaghi
Come la luce e l’or. —
– Viva, sclamò l’Ibero,
Il fìor d’Andalusia.
Nessuna ha il piglio altero
D’Alma, la vergin mia.
Le cade il crin sull’omero
Come la notte bruno,
Passa e non cura alcuno,
Ma le son tutti al piè. —
Quel di Polonia alzando
Il nappo arrubinato,
– Dal dì, sclamò, che al bando
Lo Czar m’ha condannato,
Geme in Varsavia un angelo
Sotto virgineo velo,
Sì altero e pio, che in cielo
Uno simil non v’è. —
E l’Eginese: – O stolti,
Vedeste Argia d’Atene?
Qual de’ femminei volti
Al paragon le viene?
Cinzia una volta e Venere
D’Egeo sonaron l’acque,
Ma quando Argía ci nacque
L’inno alle Dee finì. —
Dai paragoni offeso
Ciascun nella sua cara,
L’onor vantonne. E sceso
Nella seconda gara,
L’un punse l’altro. E avrebbono
L’armi fors’anche tratto,
Ma quel di Spagna a un patto
Gli ebri discordi unì,
– Balziam, compagni, in sella.
Corta è d’Amor la strada.
Tutti la nostra bella
Ad impalmar si vada.
Poi qui, fra un anno, i talami
Vengano all’ardua prova.
Chi indugia o non si trova
Nota d’infame avrà. —
Giuraron tutti. E in dorso
Salito al suo destriero,
Ognun lo spinse al corso
Verso il nativo impero;
Securo ognun di vincere
In quel torneo cortese,
Dove sarian discese
La Fede e la Beltà.
Baciâr le donne liete
I ritornati amanti.
Poi con un’ara e un prete
Furon tranquilli i santi.
Dopo le nozze, il tacito
Destin gittò il suo dado;
E, i dì raccolti al guado,
L’anno fatal scoccò.
Là di Lutezia antica
Sul Parco il vespro scende.
Di Venere pudica
La stella in alto splende.
Tre da un vïal comparvero,
Ma scompagnati e in duolo;
Tranne Nearco solo,
Che Argía per man guidò.
E con cipiglio oscuro
Nearco ai tre si volse:
– Così teneste il giuro? —
E l’Anglo il labbro sciolse:
– Splendea di Kent sui margini
Cordelia, e mia divenne;
Ma la sua fè non tenne,
E di brillar cessò.
Ella sul ghiaccio eterno
Di Montebianco il passo
Con me traea. L’inferno
La spinse in orlo al sasso,
E scompari. – Qui pallido
Si fece l’Anglo in viso,
E quel ch’ei tacque, un riso
A rivelar bastò.
Sclamò l’Ispano: – Il fiore
Dell’Andalusia è spento.
Lo sdegno del Signore
L’ha dissipato al vento.
Alma sorrise al giovine
Don Diego in una festa;
Ma l’onor mio v’attesta,
Ch’ei sul mattin perì.
Poscia, una volta, in mare,
L’empia, a scomposte chiome,
Tremò sognando, e urlare
La udii nell’ombre un nome…
Siedea sul vasto Atlantico
La notte e l’uragano;
Io non frenai la mano,
E il mar se la inghiottì. —
E anch’ei con un sogghigno
Chinò la fronte oscura,
L’Arcangelo maligno
Sembrando alla figura.
Allor con più terribile
Riso proruppe il Greco:
– Fior d’innocenza io reco
La bella Argía con me.
I vostri fior son morti;
Il mio m’è sempre accanto,
Sorridi, Argía. Tu porti
Su tutte l’altre il vanto. —
E ogni proferta sillaba
Di tal velen fu tinta,
Che ai piè cadergli estinta
Era miglior mercè.
Quel di Polonia allora
Con mesto ardor gentile,
Sclamò: – Felice Eudora
Che non fu rea, nè vile.
Ella pregò per l’esule,
Pianse le notti e i giorni,
Ne disperò i ritorni,
E i suoi la seppellîr.
Dormi in funerea veste,
Mia povera solinga.
Non più sorrisi o feste,
Non più d’Amor lusinga.
Sol quando i brandi s’alzino
Per la natal mia terra,
Sui patrii campi in guerra,
Chiedo pur io morir. —
I tre chinâr le ciglia
Di reverenza in segno
Alla defunta figlia,
E di Sobieski al regno.
Ma allor la illustre vergine
Della contrada Argiva,
Fatta di fiamma viva,
Sorse, e così parlò:
– Rea non son io. Da frodi
E tradimenti altrui
Son maculati i nodi,
In che felice io fui.
Beata, Eudora! All’Erebo
Tu discendesti almeno,
E d’un vivente i a seno
La fede tua restò.
Da Satana voi nati,
E noi dal fianco d’Eva,
Sempre sui nostri fati
La vostra man si aggreva.
E un sogno, un’ombra, un impeto
Dell’ira o dell’orgoglio,
A noi sovverte il soglio,
Che un breve amor ci dà.
Là in dorso al Montebianco
E sui nembosi flutti,
Quell’altre due fors’anco,
Per accusarvi tutti,
Al Dio che non ingannasi,
Levan le fronti caste,
E voi che giudicaste
Quel Dio giudicherà. —
Uno sghignazzo obliquo
Dal bel Nearco uscía.
Era Nearco iniquo,
O menzognera Argía?
Come due fredde immagini,
Quegli altri due rimasi,
Sentian de’ proprii casi
Dubbio e spavento al cor.
Quindi saliti in tergo
Dei corridor focosi;
Tutti al nativo albergo
Volâr nell’ombre ascosi;
Dietro seguiali Satana
Per valli e per caverne,
E sulle sfere eterne
Gemea velato Amor.
IL 2 DICEMBRE
//-- A LUIGI NAPOLEONE --//
Hai vinto. Or ben, qual premio
Dalla vittoria attendi?
Sali. E l’antica porpora
Di Clodoveo ti prendi.
Ma la Fortuna, o Principe,
Ha infami giochi. E bada
Che può fallir la strada
Pur di chi vince al piè.
Se col vorace e barbaro
Settentrion t’annodi,
Perduto sei. La gloria
Ti mancherà de’ prodi,
E un’ignea palla, un vindice
Pugnal senza perdono
Rovescerà dal trono
Il parricida e il re.
Nè fra le morte tenebre
Fia che dormir tu possa;
Chè il civil sangue a vortici
Ti bagnerà la fossa,
E da ogni vacuo talamo,
Da ogni disfatto lido
Udrai levarsi un grido
Di fremebondi al ciel.
Bada. Chi ingiuria semina,
Miete furor. Chi incesta
Colla viltate, in triboli
Posa l’infame testa.
E al fulminato tumulo
Quando d’accanto passa,
Fin la Pietade abbassa
Sugli occhi irati un vel.
Bada che fai. L’attonita
Terra, che dubbia or pende,
Con un immenso palpito
La tua parola attende.
Bada che fai. Da Satana
Oppur da Dio sei messo?
Vuoi tu levar l’oppresso?
Farti oppressor vuoi tu?
Guarda le plaghe e i popoli
Dell’Occidente. È bello
Questo da sofi e màrtiri
Glorificato ostello.
Tutti, dall’alpe a Cadice,
Tutti siam tuoi, se il chiedi.
L’ora, che ha l’ale ai piedi
Sai che non torna più.
E l’ora è questa. Affrettati,
Se tu sei l’uom. Signore
Di due frementi eserciti,
Osa, se hai grande il core.
Destin del tuo più splendido
Non ebbe il mondo. E il tieni
Oggi in tua man. Far pieni
Puoi d’ogni gloria i dì.
L’Ungaro, il Belga, l’Italo,
Il Lusitan, l’Ibero,
L’Anglo, e del novo Atlantico
Il liberal nocchiero,
Tutto è con te, se l’anima
Al suo destin non mente,
Se gridi all’Occidente:
«Un uom volesti: è qui.»
Come de’ bruni arcangeli
Alle tremende squille
Ogni umil fossa, aprendosi,
Darà i suoi morti a mille,
Tal tu vedrai. Sull’aride
Ossa il gran soffio spandi,
E a selve a selve i brandi
Il suol partorirà.
Cinto è di sdegni il solio,
Cinto è l’altar di lutto.
Tutto è crollante. Ed unico
Tu rinnovar puoi tutto.
Col cor di Scipio e Cesare
Manda sull’orbe spento
Un redentore accento
Di gloria e libertà.
Fiero contendi ai despoti
Le mal rapite glebe.
Strappa possente ai cupidi
Suoi traditor la plebe.
Tu Gedeon sul Tempio
Alza di Dio l’insegna,
Vendica il Mondo; e regna
Come nessun regnò.
Vasta è la via. Puoi vincere
Il sangue onde sei nato.
Guai se tu manchi all’opera
Per cui t’ha Dio mandato!
O infame o grande. Il tacito
Mondo ti guarda, e spera:
Altro a chi vince e impera
Vaticinar non so.
Sol, pei materni visceri,
Ti prego a giunte mani,
Non obliar, nel turbine
Del tuo fatal dimani,
Questa obliata Italia
Dal sangue tuo; quest’Eva,
Che a te le braccia leva
Consunte di dolor.
Mille de’ suoi, che dormono
Là tra le scizie nevi,
Per chi tu ’l sai, fantasimi
Tetri, placar tu devi.
Pensa alla madre, al cenere
Dell’Alighier. Nefando
Di Bonaparte è il brando,
S’egli altri numi ha in cor.
CANTO D’IGEA
//-- (Dall’Armando) --//
A chi la zolla avita
Ara co’ propri armenti,
E le vigne fiorenti
Al fresco olmo marita,
E i casalinghi dèi
Bene invocando, al sole
Mette gagliarda prole
Da’ vegeti imenei:
A chi le capre snelle
Sparge sul pingue clivo,
O pota il sacro olivo
Sotto clementi stelle:
A chi, le braccia ignude,
Nel ciclopeo travaglio,
Picchia il paterno maglio
Sulla fiammante incude;
A questi Igea dispensa
Giocondi operatori,
I candidi tesori
Del sonno e della mensa:
Le poderose spalle
E i validi toraci
Io formo a questi audaci
Del monte e della valle.
Nè men chi si periglia
Coi flutti e le tempeste
Del nostro fior si veste,
Se il mar non se lo piglia:
Nè men chi suda in guerra
Porta le mie corone,
Se, innanzi il dì, nol pone
Lancia nemica in terra.
Ma guai chi tenta il volo
Per vie senza ritorni!
Languono i rosei giorni
Al vagabondo e solo.
Perché, mal cauti, il varco
Dare alla mente accesa?…
Corda che troppo è tesa
Spezza sè stessa e l’arco.
Dal dì che il mondo nacque,
Io, ch’ogni ben discerno,
Scherzo col riso eterno
Degli árbori e dell’acque;
E dalla bocca mia
Spargo, volenti i numi,
Aure di vita e fiumi
Di forza e d’allegria.
Sul tramite beato
Però più d’uno è vinto
Per doloroso istinto
O iniquità del Fato:
Ma può levarsi pieno
Di gagliardía divina,
S’ei la sua testa china
Nel mio potente seno.
Dal sol che spunta e cade
A voi nella pupilla,
Dall’aria che vi stilla
Il ben delle rugiade;
Dai rivi erranti e lieti,
Dal rude fior dei vepri,
Dal fumo dei ginepri,
Dal pianto degli abeti;
Da ogni virtù che il sangue
E il corpo vi compose,
Rispunteran le rose
Sul cespite che langue;
E i liberi bisogni,
Che risentir si fanno,
Nell’ombra uccideranno
Le amare veglie e i sogni.
Salvate, oimè! le membra
Dal tarlo del pensiero!
A voi daccanto è il vero
Più che talor non sembra.
L’uom che lo chiese altrove
Dannato è sul macigno,
E lo sparvier maligno
Fa le vendette a Giove.
In voi, terrestri, mesce
Vario vigor Natura;
Ma chi non tien misura,
Alla gran madre incresce.
Destrier che l’ira invade,
Fatto demente al corso,
Sui piè barcolla, il morso
Bagna di sangue… e cade.
Perchè affrettar l’arrivo
Della giornata negra?
Ne’ baci miei t’allegra,
O brevemente vivo!
Progenie impoverita,
Che cerchi un ben lontano,
Nella mia rosea mano
È il nappo della vita.
IN MORTE DI ALESSANDRO MANZONI
//-- I. --//
Dio ti guardi dal dì della lode,
Che ogni labro, ogni cor ti rammenti!
Anco fossi il più giusto, il più prode,
Su te vivo non sorge quel dì;
Converrà che tu polve diventi,
Che tu lasci ogni cosa più cara,
Perché tutti t’assiepin la bara,
Idolatri del dio che fuggì.
//-- II. --//
O ALESSANDRO, a te sol fu concesso
Così novo portento di gloria,
Non il capo per anco dimesso
Sul guancial, che risveglio non ha.
Contra l’uso una scabra vittoria
Conseguisti nel mondo Tu solo….
Ma il tuo spirto continua il suo volo
E più ascolto alla Terra non dà.
//-- III. --//
Quante larve stupende e soavi.
T’accompagnan nell’ardua salita!
Sacre larve che un giorno creavi
Per Italia e or fan corte al suo re!
Però teco migrar dalla vita
Non potran queste larve fuggenti;
Sigillate nel cor delle Genti,
Sono eterne: son simili a Te.
//-- IV. --//
Tu vedesti le altere possanze,
Tu vedesti le orrende cadute;
Seminato hai le verdi speranze
Sulle vie della terra e del ciel.
Poi le corde dell’arpa fur mute
Quando venner le spade e gli oltraggi,
Ma nei giorni o codardi o selvaggi,
Fosti a Italia ed a Cristo fedel.
//-- V. --//
Cara e nota allo strano e al natìo,
Fu un altar la modesta tua casa;
Fu il recesso d’un tacito iddio
La villetta che in sen ti serbò.
Là, romito, pensasti che invasa
Non per sempre saria la tua terra,
E, origliando, un accento di guerra
Tu aspettavi da Sesia e dal Po.
//-- VI. --//
Lo aspettavi: e un mattino i Lombardi
Dier lo sfratto al fatal Barbarossa:
E tu, fermi al Ticino gli sguardi,
Mormorasti: «Il Sabaudo verrà?»
L’hai veduto: e dall’alma commossa,
Divin vecchio, t’usci questa voce:
«Vien dall’Alpi una candida Croce,
Ecco, Italia, la tua libertà!»
//-- VII. --//
Da quel dì quanta storia d’affanni!
Che ritorni alle colpe, ai furori!
La mia voce non sorga e condanni
In quest’ora che insegna a pregar;
Ma tu hai visto, o gran vecchio, i colori
Della Francia venir dal Ceniso,
E i bei giorni del Mincio e l’eliso
Rifiorito fra i monti ed il mar.
//-- VIII. --//
Su que’ campi, a quell’ora, in que’ balli,
La tua Patria il tuo Re gli hai veduti!
Poi sentisti d’Arminio i cavalli
Sovra i ponti dell’Elba nitrir:
E poi quanti sul Reno i caduti!
Che terror! che stupor! che destino!,
E poi quanta sul Tebro divino
La speranza del nostro avvenir!
//-- IX. --//
Sarà lieto?… O fedel patriarca,
Tu che guardi dall’alto del clivo,
La colomba hai tu visto nell’arca
Dall’abisso dell’acque tornar?…
Hai tu visto la fronda d’ulivo
In quel rostro fiorir più vivace,
E poi chiusi in un arco di pace
Dell’Italia la Reggia e l’Altar?…
//-- X. --//
Nobil sogno!… Foss’egli una fede,
O un inganno dell’egra pupilla,
Questo sogno sì dolce a chi crede
Le tue meste agonie consolò:
Fu rugiada che tacita stilla
Sopra un fior che già i lembi ha conserti,
E già s’alza e profuma i deserti,
Che di stelle il Signor seminò.
//-- XI. --//
Roma eterna, l’Asil dei Baroni,
Quel di Micca, Fiorenza cortese,
Di san Giorgio e san Marco i pennoni,
Del Carroccio le ardite città;
Son qui tutti, col bruno alle imprese,
Per dar lauri al funereo tuo calle:
E a’ suoi bimbi chi fosti ogni valle,
Ogni terra, ogni borgo dirà.
//-- XII. --//
Verecondo tu fosti cogl’imi,
Fosti degno coi Grandi ed umano:
Le parole più dolci e sublimi
Ti sgorgàr dall’ingenuo pensier:
Cittadin d’ogni tempo lontano,
Tu adorasti ogni forma del bello,
In ogn’uom tu vedesti un fratello,
Pur di lingua e di culto stranier.
//-- XIII. --//
Dormi, o giusto. Non ira di parte
Sovra l’ossa tue sante si leva:
Degno figlio d’Ausonia e dell’arte,
Uno in tutti è l’orgoglio e il dolor;
E a te, sciolto dai vincoli d’Eva,
Non increscan le pompe del rito,
Non ti turbi, o celeste sopito,
Quest’assalto d’umano splendor.
//-- XIV. --//
So che pari a fil d’erba la fama
Si scolora e che tutto è follía;
So che il giusto non cerca e non brama
Che una pace ben lungi da qui:
Ma se un’urna gli spirti ravvia
Ai concordi e solenni pensieri,
Non dolerti, o fìgliuol d’Alighieri,
Che l’Italia si mostri così.
Roma 1873.
IDEALE
Ingenii custos, si vis tu nata Deorum,
Si vis, non moriar.
Io con te parlo, tu il sai, nell’ora
Che il fatuo foco dentro la valle
La tenue cima de’ giunchi sfiora
E al pellegrino contrasta il calle:
Al pellegrino che, bianco in volto,
Dentro quel foco mira un sepolto.
Io parlo teco, fanciulla, quando
L’alba è vermiglia sulla montagna,
E alla ginestra rileva il blando
Capo e di fresche perle la bagna,
Mentre negli orti la capinera
Canta l’idillio di primavera.
Io con te parlo quando la greve
Aura le foglie semina al piano,
O a larghe falde casca la neve
Sovra il tugurio del mandrïano:
Non spunta giorno, sereno o bieco,
In ch’io, fanciulla, non parli teco.
Parlo negli atrii, lungo la via,
Parlo fra i campi, sotto le stelle;
Geme col vento la voce mia,
Scoppia sonora colle procelle;
Nel santüario, prosteso all’ara,
Sempre a te parlo, fanciulla cara.
Dal grembo d’Eva tu non sei nata,
Nè il crin ti veste rosa mortale;
Tu non hai bruna verga di fata;
Dea dell’Olimpo, non t’armi d’ale:
Dolce, segreto, libero, intero
S’apre il tuo mondo nel mio pensiero.
Tu meco piangi, meco sorridi
Di queste nostre favole oscure:
Le tue speranze tu mi confidi,
Io ti confido le mie paure;
L’ora del tempo del par ci preme,
Cara fanciulla, sognando insieme.
Nel fresco raggio del tuo sembiante
Innamorarmi non mi vergogno;
Coi crin già bianchi, tacito amante,
Io notte e giorno seguo il mio sogno;
Sinché la Parca, forse domani,
Non ne recida gli stami arcani.
Questa parola d’un vel d’affanno
Deh, non t’oscuri l’amabil viso!
In tristi giorni vivere è danno,
Pur consolati dal tuo sorriso;
Eppoi, la gloria d’un grande amore
Meglio si sente quando si muore.
So ben che sopra defunta spoglia
Brevi dell’uomo durano i lai,
Come su pioppo di morta foglia
Canto d’augello non dura assai;
Chè chi dell’oggi segue le larve
Raro sospira su ciò che sparve.
Ma i’ credo e spero che, chiuse l’ossa
In pochi palmi d’aiuola verde,
Tu qualche giglio sulla mia fossa
Darai piangendo; se non si perde
Nell’infinito mar dell’oblio
La navicella del canto mio.
Però, in quel giorno, come tu stessa,
Prenderò il volo per altri mondi;
Tu me n’hai fatto la gran promessa,
E tu, fanciulla, me ne rispondi,
Alto levando la nivea mano
Verso un pianeta lontan lontano.
Dunque, o fanciulla, voghiam sull’acque,
Voghiam cercando quel dolce porto;
S’io t’ho seguita, come a te piacque,
E tu mi guida, felice o morto,
Verso la piaga dove tu dèi
Stringerti meco d’altri imenei.
Bella nocchiera, su questa barca
La tua canzone cantami intanto:
Oh come, oh come lievi si varca
Dietro la nota del dolce canto!
Oh come, oh come tutta s’infiora
Di rose eterne la nostra prora!
China il soave capo tuo biondo,
Angiolo stanco, sovra il mio seno:
Mentre alle mura di Faramondo
Arminio i carri lancia dal Reno,
Dormi, o fanciulla. Meglio è sognare
Sulla stellata conca del mare.
Viareggio, 1870.
I MIEI VERSI
Scandit et, instar avis, cantat super ilice Carmen.
Come un nido d’uccelletti
Che tu senti pispigliar
Sovra i gelsi o in cima ai tetti
Quando allegro il maggio appar,
Van cantando i versi miei,
Bruna figlia di Corfù;
Belli no, come tu sei;
Freschi no, come sei tu.
Van cantando; ed uno vola
Dentro un cespite di fior,
E consegna all’agil gola
L’allegria che chiude in cor.
Dentro i rami d’un cipresso
Si va un altro a rifuggir,
E con murmure sommesso
Dice all’ombra il suo martir.
Sulla barca i patrii carmi
Dice un terzo al timonier;
Canta un quarto amori ed armi
Sulla tenda del guerrier.
E nei lutti e nelle feste
Niun di loro ha nodi al piè,
Nè darebbe la sua veste
Per la porpora d’un re.
San le glorie dell’Egèo,
Sanno il riso del Velin,
Sanno i riti del Pangèo,
Sanno il carme Sibillin.
Or le zuffe dei leoni
Vanno in Roma a celebrar,
Or negli attici odeoni
D’Afrodite il bianco altar.
Con le faune dormon lieti
Tra le mente del ruscel,
O coi silfi nei frutteti
Quando Cinzia arride in ciel.
Se una bianca margherita
Foglia a foglia si disfà,
Sulle sorti della vita
Per saper quel che dirà;
O se a Pasqua gioca al Verde
Una bella ed un garzon,
Essi trillano a chi perde
Dal mirteto una canzon.
Se le lepri a notte aperta
Van danzando in gaio stuol,
O la pallida lucerta
Cerca i sassi a’ rai del sol;
Questi miei pellegrinanti
Fanno gli alberi stormir,
E dai rami arcani canti
Si cominciano a sentir.
E poi van per la campagna
Sui covoni al falciator,
Van seguendo alla montagna
La cornetta del pastor.
Van nell’ombra delle valli
Con le fate a conversar,
Raccontando i freschi balli
Delle naiadi sul mar.
E van sempre, araldi eterni,
Van lontano e più lontan,
Van dal cielo ai foschi averni
E van sempre e sempre van.
O mal cauti, a tanto volo
Non fidatevi così:
Qui nell’atrio afflitto e solo
Io v’attendo e notte e dì.
Non c’è guardia sui confini;
Procellosa è la stagion:
Uccelletti pellegrini,
Deh, tornate al mio balcon!
LACRYMAE RERUM
Saltem si, rebus fractis, mihi nomina restant!
A voi, fior della terra, a voi, gioconde
Stelle del cielo, i sogni e le speranze
Della ridente gioventù son pari.
Se non che l’astro e il fior passano immuni
Da colpa e da castigo, e noi travaglia
Pur giovinetti una tristezza arcana,
Quando parliam col limpido pianeta
E colle rose.
Sulla verde cima
Delle mie rupi, in margine a’ miei laghi,
Nel silenzio dell’ombra, oh! quante volte
Piansi pur io fanciullo, il ciel mirando
Pien di tremoli fochi o il sottoposto
Pendio stellato di silvestri gigli
E di pervinche!
In verità, si piange
Dunque nel mondo, e sin la primavera
Ha le lacrime sue. Forse non solo
Piangon gli occhi dell’uom, ma la pupilla
Pur dell’avida belva il pianto oscura.
Mai non vedesti, Elisa, un errabondo
Can, che ha smarrito il suo signor, corcarsi
Malinconico in terra? O sotto l’ala
Piegar la testa un povero augelletto
In gabbia d’ôr? Dai perfidi spiragli
Il bel verde de’ campi e il cielo ei guarda,
E la perduta libertà sospira.
Tutte piangon le cose; e i petti affanna
Ciò ch’è nato a perir.
Voi che venite,
Pellegrini del mondo, a questa Roma,
Non per recar nelle native terre
Qualche santo rosario od amuleto,
Ma per chinarvi a interrogar la spoglia
Dell’olimpico Lazio, il pianto vostro
Colle rugiade dell’eterna luna
Qui spargerete, e in qualche ermo cespuglio
Del Palatin la capinera al vento
Lancerà la sua nota.
Or io mi levo
Sulle alture del Celio, e mentre l’ôra
Nei sacri mirti come fa, si tace,
Pellegrini del mondo, a voi favello:
Questa Roma di Dardano, per molti
Rischi di terra e mar, seco ha recato
Colle ceneri d’Ilio il suo destino.
Qua giunse larva nel pensier d’Enea,
E qua crebbe e regnò. L’arido bruco
Nel novilunio suo non altrimenti
Fatto è farfalla. Un’intima possanza
Trasfigura le cose, e dalla morte
Nasce la vita, ed ambedue compagne
Van per la terra, altar di maraviglie
E di ruine.
Ma perpetuo il falco
Garrisce al monte, ma s’abbraccia il Sole
Col perpetuo nettuno e col deserto,
Mentre l’ora dell’uom va più veloce
Che non la rota della sua fortuna
Senza ritorni.
Virïate, il prode
Fulminator dai cantabri dirupi,
Come passò? dov’è l’asta di Brenno?
Dove il biondo cherusco e l’implacato
Cartaginese?
Io per le ripe indarno
Cerco Cesare nostro e le vestali
E i pontefici sacri: odo il galoppo
Del caval d’Alarico, e penso e piango,
Pellegrini del mondo, insiem con voi!
Figlio d’Italia, in vetta alle nevose
Mie tirolesi balze ebbi la cuna
Come il camoscio, e le varcai cantando
Fra’ miei vecchi pastori.
E ancor la squilla
Delle mandre disperse alla boscaglia
Nel cor mi suona, e dalle chiese alpestri
Gemere ascolto il passero solingo,
E rivedo le vie che i battaglioni
Vider di Francia ed or sotto l’accesa
Ferza canicular son traversate
Dal fulmineo ramarro.
Agile e fresca
Allor ne’ polsi mi correa la vita
E nello spirto: allor caro soltanto
M’era il mio borgo, e mi parea più noto
Che non il Tebro, eredità di Giove,
Il più ignoto ruscel delle mie valli.
Oggi, affranto le membra e misto il crine,
Me condusser le Parche alla fatale
Città d’Ascanio; ed ospite pensoso
Odo dalle disfatte are il lamento
Dei numi d’Asia, e porto, a quando a quando,
Sul Gianicolo sacro o l’Aventino
L’alte malinconie del dì che fugge.
MORBI
Agrescunt animi, vel corpora: morbus et ipsa Mens est.
«Malato è l’uomo di parecchio male»
E l’aspra verità tutti ci smaga.
La miglior delle cure in questo mondo
È il non curar. Ricacciami, o fantesca,
Il medico alla porta; udir non voglio
Favole al letto mio. M’urge la tosse?
Berrò tepido tiglio. Ho le tonsille
Chiuse? Datemi ghiaccio. È il ventre in doglie?
Non mangerò. M’assalgono i ribrezzi
Della quartana? Ebben moltiplicate
Sovra il povero mio corpo che trema
Coltri e piumacci. Assai furono incise
Le mie vene già tempo; e un zinganume
Di farmachi passò per questa mia
Casa di creta. Se al martel degli anni
Or la casa comincia a screpolarsi,
Che far ci posso?
Ed anco all’intelletto
Salgon del corpo i mali. Alcun ci narra
Un triste sogno e ci turbiam: se il gufo
Canta sui fumaioli, ha da colpirci
Qualche infortunio. E a quei della natura
Confondiam di sovente i mali nostri:
Strani amor’ senza gloria e senza pace,
Strane idee senza freno, ond’han poi vita
Cabale, ubbie, malurie e un indefesso
Gioco di spettri: e ci ostiniam la colpa
A versar non su noi, ma sull’iniqua
Fatalità: gli arguti!
I morbi vanno,
Ospiti come son di ogni dimora,
Del pari all’alma: ove non sia di questi
Il primo nido.
Un dì, povero pazzo,
Versai lacrime anch’io per mal d’amore
E ululai sulle sabbie o in riva al mare,
Vagabondo lipomane; e ne’ sogni
Mi si corcò sull’anelante petto
Il salvanello: anch’io tenni per sacro
Quanto mi disse, in fe’ di galantuomo,
Il gabbamondo; e mi restò l’inganno
Come stampo di foco entro il cervello
E ingiallii di corruccio. Il mal del grullo
Questo si chiama. E mozzerai la mano
Pria di far beneficio: in tetra gleba
Tu spargi un seme da cui certo nasce
Foglia di tosco. Nè per esser mite
Scorda gli schermi: fra l’agnello e il lupo
Non c’è patto qual sia: far l’uom del pari
Vidi coll’uomo: chi ha più duro il pugno
L’emulo atterra e son contenti i Numi.
Ed io, ciuco! mirando il rugiadoso
Fior della siepe, o la notturna stella,
O il zampillo dell’acque, o in orïente
La rosea luce, spiriti benigni
In servigio dell’uom, che inferno è questo,
Sclamai, dipinto in sì leggiadre forme?
Oggi però, con lepido sorriso,
I nomi appulcro alla saturnia prole
E fo spallucce e più non mi dispero.
Fors’è pur questo un morbo: e non di manco
Ne so la cura; e vo pellegrinando
Fuor della turba a ritornar poeta.
Ma a quanti amici miei son fatti bianchi
Nell’affanno i capelli: e a testa china
Passan, com’ombre, per l’amara valle!
Ridete, amici: il mondo è sempre stato
Pari a se stésso: un bindolo da forca
Che fa gran cose. È ver ch’egli a’ più destri
Lambe le cuoia e i suoi più rari uccide:
Ma come il coccodrillo a compensarli
Quindi li piange. Non vi par codesta
Gentil mercede? All’asino la soma
S’addice, al savio il ben usato ingegno,
Se c’è savio quaggiù sotto la luna.
Vorrei quasi gridar: bravo a chi mente
E scampa da rossor; bravo a chi ruba
E scampa da bargello; e sette volte
Bravo a chi sa giuocar dentro a quest’acque
Con l’altrui barca e il suo nemico affoga
E commisera in porto il suo nemico.
Chi ha più dura la man l’emulo atterri
E sien paghi i Celesti. Ora son pochi
I mali miei: qualche innocente stizza,
Che mi dà chi compila e chi rivende
La farina ghermita all’altrui sacco
E con ciò si fa dotto: o raspa e becca
Sin che balza superbo alla curule,
E sa l’arte dell’arte e al volgo piace.
Qualche malinconia che colle nubi
Viene e col sol dilegua, antica e cara
Mia poetica insania: un tedio breve
O un lungo sonno a udir sempre e poi sempre
Le stesse ciancie ed a veder che in nulla
Ciò turba i nervi ai simulacri e ai bronzi
Che stan sulle colonne. Il resto è cosa
Di nessun conto. Se non ho valsenti
Non mi cruccia pensar com’io li spenda;
Se più su non salii, son franco almeno
Dal capogiro: l’unica rancura
Che mi morde talvolta insino all’osso
È non poter scordar quest’alfabeto
Che mi scema il piacer d’essere un’erba
Sconosciuta, fra tanto italo fiore.
Candidi amici, ripetiam sovente:
«Malato è l’uomo di parecchio male
Nè poi certo è il guarir.» Per consolarmi
Io conchiudo cosi: Tre son le Parche:
Una fila, una tesse, una recide;
E quest’ultima, parmi, è la più saggia.
Di là riposerem; l’Ade ha due regni:
L’Eliso e l’Orco: il primo apresi ai rari
Ch’ebber l’aura di Giove; all’altro in seno
Cade la ciurma che dal fango è nata.
Ma poi, comunque sia, dolce è il riposo.
BRINDISI GRECO
Tuque, tenace pater, nunc adsis: ter pede terram
Tundite nunc, pueri: fugiunt super aequora Persae.
D’Ismara quando
L’oro, sprillando,
Sotto la spuma
Si torce e fuma
Nel mio bicchier;
Col sole in fronte
D’Anacreonte,
Doventa allegro
Fino il più negro
De’ miei pensier.
Nel dorio nappo
Mi sprema il grappo
La tua di rosa
Man rugiadosa,
Fanciullo Amor;
E questo crine,
Sparso di brine,
Nel dolce rito
Vedrai vestito
D’idalio fior.
E nell’arcano
Simposio, in mano
La sacra conca
Dove si cionca
Per la beltà;
Nonchè i volanti
Felici istanti
Quei della pira
La lesbia lira
Mi tarderà.
Sento alla chioma
L’aura di Roma;
Ma i rosei carmi
Di Milo ai marmi
Sempre io darò.
Me il doppio ha vinto
Mar di Corinto;
E Tespi e l’onda
D’Imetto bionda
Scordar non so.
D’ognun sul labro
Suona il Velabro,
Suona Laurento,
Suonan le cento
Vestali e i re;
Ma più le belle
Driadi sorelle
Danzanti in giro
Pel verde Epiro
Piacciono a me.
Nei pepli chiuse,
Salvete, o muse;
Salvete, o fiumi,
Di ninfe e numi
Cuna ed altar;
D’Antella in vetta,
Salve, o diletta
Lacena prole,
Gloria del sole,
Festa del mar.
Baia divina
Di Salamina,
Quand’io son teco
L’aura d’un Greco
Parmi vestir:
Vivo giocondo
Nel greco mondo,
E con un riso
Del greco Eliso
Vorrei morir.
PACHITA
//-- Adpropera quo fata vocant: te regna sequuntur. --//
//-- I --//
Su un pilastro deposto il sonoro
Tamburino, e le bende sue d’oro
Alla chioma intrecciando, sentì
La leggiadra Pachita assai cose
Da un gentil caballero: e rispose
Finalmente l’arguta così:
«Caballero dell’alta Aragona,
Se aver brami la nostra persona,
Tre fatiche tu devi compir.»
«Bruna fìglia dei cantabri lidi,
Parla sempre e parlando sorridi;
Le fatiche noi stiamo ad udir ».
«Caballero, se il braccio ti vale,
Non concètto da grembo mortale
Qua tu devi condurci un destrier».
«È l’inchiesta terribile e nova,
Ma l’hai detto e siam pronti alla prova
Per far pago il bizzarro pensier».
«Caballero, c’è un’altra fatica:
Qui recarci tu devi una spica,
Non sui campi, ma nata nel mar».
«Strana molto è l’inchiesta seconda,
Che niun semina o miete nell’onda,
Pur la spica giuriam di recar».
«Caballero, se ciò ti conviene,
Qui condurci tu devi in catene
Quel superbo Don Pedro tuo Re».
«Questa è poi la più rea delle imprese,
Ma chi t’ama è tremendo e cortese;
Noi trarremo Don Pedro al tuo piè».
«Do tre giorni a ogni prova e t’aspetto;
Batti a notte tre volte al mio tetto,
Io la porta ad aprir ti verrò;
E nell’ultimo di senza fallo
Le mie nozze otterrai, se il cavallo
E la spiga e Don Pedro vedrò».
Col piè breve stellato d’argento
Detto questo, girossi nel vento
La Pachita dei cembali al suon.
E per selve, per borghi e cartelli
Ascoltavan le aurette e i ruscelli
Di Pachita la gaia canzon.
E il gentil caballero frattanto,
Fosse mesto o pentito del vanto,
Nè sapesse a che termine uscir,
Gìa pensoso all’aperta campagna,
Nè quel vago giardin della Spagna
Dava tregua ai cocenti sospir.
//-- II --//
Sul terzo vespro Pachita invero
Della bizzarra celia stupia,
Pur sull’intrigo del caballero
Le galoppava la fantasia,
Nulla aspettando. Ma in questo mentre
Dati alla porta tre colpi udì;
Quindi una voce: «Da mortal ventre
Il non concètto cavallo è qui».
Ell’apre e vede di marmo bianco
Come scolpito fosse in Corinto
Nè certo sceso da mortal fianco
Il bel cavallo di Carlo Quinto:
Fosse comunque, l’ardito ingegno
Ella del ladro molto lodò,
E il caballero, d’ossequio in segno,
Curvo un ginocchio, si congedò.
Dopo tre giorni facea gran vento,
Facea gran pioggia: ma irrigidita
Senza pur anco dare un lamento
Al suo balcone sedea Pachita:
E già tremava sul dubbio arrivo,
Ma udì tre colpi, corse ad aprir….
E alla Pachita d’un foco vivo
Le belle guance si ricoprir.
«Dolce mia dama, poco or mi resta
Per ch’io consegua la vostra mano,
Ecco la spiga che mi fu chiesta
Non tolta ai campi ma all’oceàno.»
Ed ei di perle straniere al mondo
Trasse una spiga che la stupì,
Poi con un riso lieto e profondo
Il caballero se ne partì.
D’amor frattanto Pachita accesa
Nei dì seguenti non ha più pace:
«Ahimè alla terza nefanda impresa
Perché ho tentato l’anima audace?
Cavallo e spiga certo ei mi diede,
Ma il Re in catene come il potrà?
E se ciò manca, m’è indizio e fede
Che queste nozze Dio non vorrà».
Così dicendo venia la sera
Ultima; e in cielo sorgea la luna:
E di Pachita per la costiera
La insofferente pupilla bruna
Giva spïando se mai vedesse
O poca o molta gente arrivar,
O almen due soli; ma dalle spesse
Macchie sol uno vede spuntar.
Quest’un conosce che incerto e lasso
Alla sua porta sosta e non batte:
Ella raddoppia, poi frena il passo
E una gran pugna fra sé combatte:
Vado?… non vado?… Ma poi… che temo?
Tra noi, dirassi, celiato fu;
E dopo alquanto che riso avremo
Chiusa la porta nol vedrò più.
Scese ed aperse: «Chè non picchiasti,
Bel caballero?» «C’era un imbroglio;
Le mani ho avvinte.» «La celia basti;
Cavallo e spiga render vi voglio».
Dolce mia dama, l’istante vola,
Io le tre prove compiute ho già;
Don Pedro è in ceppi: tien la parola
Il Re Don Pedro quando la dà».
Qui ginocchiossi. l’aria dei viso,
Degli occhi il lampo, l’augusta voce
Ruppe il mistero: con un sorriso
Ella da terra lo alzò veloce
Poi tutto tacque. Don Pedro a Corte
Per quella notte non ospitò,
E dopo un mese, cangiando sorte,
Di Spagna al trono Pachita andò.
RAMUSCELLO
O ramuscel di mandorlo,
Quando su te si posa
Il cardellino, e ai limpidi
Rigagni e al ciel di rosa
Sparge la fresca e lieta
Anima di fanciullo e di poeta;
O ramuscel, per magica
Arte io vorrei mutarmi
Nell’augellin che dondola
Su te, trillando carmi;
Su te, che spargi al vento
La molle nebbia de’ tuoi fior d’argento.
E là, cantando il giovane
Mio tempo e i dolci inganni,
Le ingrate nevi e il cumulo
Non sentirei degli anni,
Ma ognun la sua fatale
Stella ha sul capo; ed accusarla è male.
Dunque, augellin, sul candido
Ramo tu resta e trilla;
Nella consunta lampada
Io sveglio una favilla
E seguo, al tenue raggio,
Sonnambulo nell’ombra, il mio vïaggio.
E ad una pietra celtica,
A un ipogeo latino,
O sotto un dorio portico,
O un arco bizantino,
Sogno; e domando al fiore
Ciò che resta nel mondo e ciò che muore.
Sogno; e domando ai zefiri
Se, al dì della procella,
Io seguirò la bussola
D’Amalfi o la mia stella;
E se il funereo altare
Troverò sulla tolda o in fondo al mare.
Se in fondo al mar le Naiadi,
Dopo il virgineo ballo,
Non mi daran sarcofago
Di perla o di corallo,
Ma, pari a mia fortuna,
Un letticiuol di poca aliga bruna;
Grato alle Dee, dal povero
Sepolcro, a quando a quando
Mi leverò, l’erratico
Poseïdòn guardando;
E mi parrà la vita
Sentir nella sonante onda infinita.
Onda, del tutto origine,
Madre ed amante ignota,
Al cui tripudio il mistico
Gange e il divino Eurota
E l’ilice dircea
E il ramuscel di mandorlo si crea;
Onda, che sorgi ai palpiti
Di Febo innamorato,
E al cardellino e all’aquila
I nascimenti hai dato;
Onda nettunia, è pieno
Di sogni eterni chi ti dorme in seno.
ANTONELLO DA MESSINA
Croci, isolette e monti
Bacia, cadendo, il sol;
Radon canali e ponti
Le rondinelle a vol.
Sfiora il battel gli estremi
Flutti d’un’ombra al par:
Vedete! han l’ale i remi
E son già persi in mar.
Da voi, superba Annina,
Fugge, chè offeso ei fu,
E Antonio da Messina
Non tornerà mai più.
Antonio, che sui canti
Del suo romito ostel,
Quando colora i santi,
Fa maraviglia al ciel.
Perchè, mentr’ei dal seno
L’occulto amor svelò,
Pia gentilezza almeno
Tacer non v’insegnò?
Forse placato avreste
Col timido pudor
I fochi e le tempeste
Di quel potente cor.
Ma la parola irata
Fu troppo lesta a uscir:
«Pensa da chi son nata,
E bada a rinsavir!»
Di dogi e dogaresse
Voi siete figlia, è ver;
A voi ghirlande intesse
Di Candia ogni guerrier.
Chi vien da la Castiglia
Seco pensando va:
«Un fior la mia Siviglia
Pari a costei non ha.»
Sul Cassero sospira
Ogni bendato Alì:
«Non ha, non ha Casmira
Più glorïosa Urì.»
Chi vien di Francia in rada
Dice co’ suoi: «Qual re
Non pon corona e spada
Di questa dama al piè?»
Tutto v’arride, è vero;
Ma del pittor sul crin
Verdeggia un lauro altero,
Che non avrà mai fin.
Dite, superba, o dite:
Quale dei due preval,
Quando son posti in lite
La gloria ed il natal?
Egli a mestier villani
Le man fanciulle usò;
Ma quelle scabre mani
Un dio trasfigurò.
E un mondo a lui sfavilla,
Che di portenti è pien:
Un mondo che non brilla
A niun de’ vostri in sen.
Come alle sacre note
Scende dal ciel quaggiù
Nell’ostia al sacerdote
La spoglia di Gesù;
La più segreta parte
Lasciò del ciel così
L’arcana dea dell’arte,
E disse a lui: «Son qui.
I trepidi ginocchi
Perchè non reclinar,
Quando v’apparve agli occhi
Quel nume e quell’altar?
Chi potea darvi un riso
Di più beato april,
Mostrarvi un paradiso
Più grande e più gentil?
So ben, negarlo è vano,
Che a voi pur oggi in cor
Vive il fanciul Sicano
Come un celeste fior;
Ma dall’incauta Annina
Troppo spregiato ei fu,
E Antonio da Messina
Non tornerà mai più.
Però, tra queste liete
Piagge e di là dal mar
Voi ricordata andrete
Del gran fanciullo al par.
Nè già per nascimenti,
Per oro o per beltà,
Ma il mondo de le genti
Di voi si sovverrà.
Perchè un fuggiasco insonne
L’ombra de’ chiostri amò;
E ne le sue Madonne
Soltanto a voi pensò.
BACIO DI GIOVE
… sunt laeva Tonantis
Oscula.
//-- Frammento antico --//
Corcossi Giove sulla madre Terra,
Che di bellezza giovanil vestita,
Dormia sommersa nell’ambrosia luce.
Sotto l’insania del divino amplesso,
Ella fu pregna e partorì la schiatta
Dei futuri giganti. Eran dapprima
Pargoli in grembo di petrose cune,
Nutriti ai fochi dell’Olimpo e ai venti
Della rigida selva. Orma di riso
Però non apparia su quelle fronti,
Non luceva in quegli occhi orma di pianto;
E il dì che uscîr col giovinetto piede
Tentando i passi, trepidâr d’intorno
A quelli strani e nomadi fanciulli
La montagna e la valle. E quando il giro
Di più lune fu vôlto, essi in altezza
Superaron le querce, e il minaccioso
Tauro in possanza, e nelle tetre fauci
La lupa e il tigre ne’ fulminei sdegni.
Quindi tesero gli archi; e il primo sangue
Stillante fuor dalla portata preda
Scaldò del fiero cacciator le spalle;
Fumâr nelle caverne e sulle rupi,
Coronate di falchi e di bufere,
Le mense enormi; e sui villosi petti
De’ coloni le figlie e de’ pastori
Imparâro il connubio. Indi risolta
Tra i frassini del Pelio e dell’Olimpo
Fu la perfidia, e cominciò la pugna
Dei fulminati. E Prometèo sull’Ida
La grifagna tormenta, e nel macigno
Urla Encelado sempre, e Flegra tutta
De’ combusti cadaveri nereggia.
Questo fruttò dalle incestate nozze
E dai baci di Giove. E non per tanto
Ridon nell’aria le gioconde stelle,
Ornano a’ fior le giovinette il crine,
E ai vivi e ai morti le materne braccia,
Mentre cantan le Parche, apre la Terra.
Figli siam noi di questi padri! e pace
A noi l’avara carità de’ Numi
Consente appena in quello stesso grembo
Che produsse il misfatto. O bella emersa
Dalle spume del mar, bella Afrodite,
Fior di Cipro e di Milo, i dì son brevi:
Tu ce li allegra: della vita il nappo
Sente d’amaro; e tu ce lo incorona
Di molle ambrosia: a noi l’ultima luce
Spunta imprevisa; non lasciar che il nembo,
Del suo tristo color ce la dipinga
Sul cristal della stanza ove domani
Più non saremo. Benedetti i pochi
Che s’alzaron nell’armi, e al ferreo squillo
Delle trombe guerriere han dato in campo
L’anima e il sangue. Nel felice Eliso
Già raccolti son essi; e se non mènte
La parola de’ tempi, al capo in giro
Recan la fronda che i più degni eterna.
PATRIA
Non sonora abbastanza è la tua onda,
O padre Adige.
Sin che al mio verde Tirolo è tolto
Veder l’arrivo delle tue squadre,
E con letizia di figlio in volto,
Mia dolce Italia, baciar la madre;
Sin ch’io non odo le mute squille
Suonare a gloria per le mie ville,
Nè la tua spada, nè il tuo palvese
Protegge i varchi del mio paese;
No, non son pago. Chiedo e richiedo
Da mane a vespro la patria mia:
E il suo bel giorno sin ch’io non vedo
Clamor di feste non so che sia.
Cantai di gloria, cantai di guerra,
Cantar credendo per la mia terra,
Quanta ne corre da Spartivento
All’ardue Chiuse di là da Trento.
L’han pur veduta la festa loro
L’altre del Lazio città reine!
E tu, gran Madre, del proprio alloro
Tu ne hai vestito l’augusto crine:
Ma la mia terra negletta e sola
Geme nell’ombra: chi la consola?
Dai ceppi amari chi la disgrava?
Chi l’aura e il lume rende alla schiava?
Eppur, quand’era peccato e scorno
Stringer la mano degli stranieri,
Coi prodi figli d’Italia, un giorno
Sorsero i figli de’ miei manieri;
E ai patrî greppi gentil lavacro
Diedero il sangue più puro e sacro.
E il sa Bezzecca, sulle cui glebe
Fiori di sangue brucan le zebe.
Umile è certo la terra nostra:
Archi, colonne, templi non vanta.
Ma con orgoglio c’è chi la mostra,
Ma con orgoglio c’è chi la canta;
Terra d’onesti, terra di prodi,
Cerca giustizie, non cerca lodi.
Ti chiede, o Italia, se madre sei,
Che il cor ti morda, pensando a lei.
Ella il tuo sangue dagli avi assume,
Ella negli occhi porta il tuo raggio;
Ella s’informa del tuo costume,
Pensa e favella col tuo linguaggio.
Arde di sdegno, piange d’amore,
Parte divina del tuo gran core!
Qual colpa è dunque se non si noma
Milan, Fiorenza, Napoli o Roma?
Pia rondinella, che appender suoli
A’ miei nativi frassini il nido,
Da cielo in cielo stendi i tuoi voli
Sin del Danubio sul verde lido:
E al cor pensoso di due Potenti
Bisbiglia un’eco de’ miei lamenti,
Cader lasciando dal picciol rostro
Un fior bagnato del pianto nostro.
E se Belguardo si fa una gloria
D’accôr la dolce Sabauda Stella,
Col fiore azzurro della memoria
Parla ai due Prenci, pia rondinella.
Per me ad Absburgo, per me a Savoia
Chiedi una patria prima ch’io muoia;
Morire io possa libero e grato
Nei verdi boschi dove son nato.
Per quelle nude mie dolci lande
Possa la sorte farmi indovino!
Che plauso allora, che osanna al grande
Fratello e amico del re latino!
Allor da vero chiusi i gagliardi
Saran nell’ombra de’ due stendardi!
In cima all’Alpi, già vecchio danno.
Le nuove stirpi s’abbracceranno!
Sovra ogni torre, sovra ogni foce.
Di sè rendendo l’aere giocondo,
L’aquila bruna, la bianca croce
Saran due segni di pace al mondo.
Fervor di genti, silenzio d’armi,
Fronde d’ulivo, festa di carmi,
L’animo in alto, questa è l’aurora
Che nel mio sogno balena ancora!
MAB
Mab vocor atque iocor: nigris me linquere corvis
Gaudeo; subque dio teneros insector amores.
Mentre ai gelidi passaggi
Del crepuscolo s’abbruna
La foresta, e si richiudono
Nelle siepi i tenui fior;
E fan tresca in cima ai faggi
Gli scoiattoli alla luna,
E i mastini intorno latrano
Nello stabbio del pastor’;
Mab, la piccola reina
Delle fate, in veste azzurra,
Che ha per cocchio un guscio d’ebano
E due corvi per destrier’,
Sulla fonte cristallina,
Che fra l’eriche susurra,
All’ombra d’un bianco mandorlo
Va cantando i suoi pensier.
Gira gira la tua ruota,
Bella Parca;
Lancia lancia, buon pilota,
La tua barca;
Passa lieve sul quadrante,
Sfera errante;
Metti nido nel mio core,
Dolce Amore;
Mentre d’astri il ciel s’ammanta,
Noi si canta:
«Da qual madre, a qual ora, in quali sponde
Venni alla vita, indovinar non so.
Nè lo sanno quest’acque e queste fronde,
Nè questa luna, che va pellegrina
Di collina in collina,
E mai del mio natal non mi parlò.
Mi rammento dell’Asia, e vidi i sassi
Di Ninive e di Menfi, e udii nitrir
Il cavallo di Ciro, e a tardi passi
Mirai per le stellate arabe lande
L’aspro cammello e il grande
Dromedario le armate orde seguir.
In margine all’Egeo vidi i misteri
D’Ecate; e nei latini antri l’altar
D’Ilia bendata; e i popoli guerrieri
Spâurir colle truci aquile il mondo,
E lunge il furibondo
Odoacre l’enorme asta agitar.
Quel dì non più nelle romulee cene
D’allegra spuma il calice fiorì,
E di Cinara e Cloe, dolci sirene,
Bagnâr la chioma i molli unguenti invano,
E sul triclinio arcano
Il gemito d’Amor più non s’udì.
Elmi di ferro ed orride zagaglie
Vennero: e i numi non sentîr pietà.
E fu misto l’incendio alle battaglie,
E dalla verde tiberina valle
Le barbare cavalle
Vidi lanciarsi sulla gran Città.
E poi monaci e re chiusi nell’armi
Sorsero, e in cima al mar mi balenò
La rossa croce; e di Sïon sui marmi
Gli emiri in pugna disperata ho visto
Coi cavalier’ di Cristo;
E com’altro già vidi, altro io vedrò.
Ma voi, stelle del ciel, voi foste, o rose,
Voi, glauchi fiumi, il mio profondo amor;
E, se patria o natal mi si nascose,
Le verdi terre, i pampini fiorenti
E il sibilo de’ venti
E il lume ambrosio mi fu vita al cor.
Quaggiù secoli molti ho numerati,
Ma corallo m’è il labbro, ebano il crin:
E di me senza posa innamorati
Sono i falchi dell’aria, i tersi fonti,
Il frassino de’ monti
E il bianco silfo che mi sta vicin.
Questo è il compagno mio. Spirito arcano,
Sempre la notte e il dì canta con me:
Egli sal sul mio cocchio, e andiam lontano
Lontano a interrogar boschi e caverne,
E delle cose eterne
Rapir qualcuna, io gentil dama, ei re.
Ei mi dice che Febo, il biondo e bello
Signor dell’armonia, padre a noi fu,
E mi giura che Marte è il mio fratello,
E gli altri Dei la mia superba corte,
E là dopo la morte
Noi salirem per non lasciarci più.
Anzi sarem due novi astri al notturno
Padiglion dell’Olimpo: ed in beltà
Forse a noi cederan Sirio e Saturno,
I due Gemini, Urano, Espero e l’Orse
E la gran Lira: e forse
Men superba di sè Venere andrà.
Qui frattanto nel mondo è nostra usanza
Chiedere l’ombra a un mandorlo fedel,
O sui rivi intrecciar magica danza,
O sulle fosse dei fanciulli estinti
Falciar rute o giacinti,
Quando scintilla il plenilunio in ciel.
È nostra usanza a mattutino il canto
Spargere nella valle o sul burron,
E di rosso vestita o azzurro manto,
Sempre nel guscio d’ebano, mi piacque
Girar le terre e l’acque,
E dare ai miei fantasmi anima e suon.
Ed ora il guscio d’ebano traete,
Piccoli corvi, al nostro angusto asil;
E voi, stelle del ciel, voi risplendete
Sopra le chiome della selva bruna;
E tu zampilla, o luna,
Sul vestibolo mio sparso d’april.
E tu, Silfo, mi canta; e nel vïaggio
Salvami da procella o masnadier’;
Sferza i cavalli, e coll’ardor d’un paggio
Mordi del roseo pollice il liuto;
O se non vuoi, sta muto,
Ch’io già so quel che pensi, o mio Scudier.
Tu pensi che su morbido guanciale
D’odorate giunchiglie io giacerò;
E tu, acceso, qual sei, d’aura immortale,
Colle tue braccia mi farai catena,
E là, di gioia piena,
Come è mio l’universo, io tua sarò.»
Così Mab cantando, vola
Co’ suoi corvi piccioletti:
Per gli arbusti il bianco Spirito
Curva l’ali e a lei fa vel;
Spuntan fiori in ogni aiuola,
Le falene e gli augelletti
Son ridesti, e sotto l’eriche
Par che canti ogni ruscel.
Oh grandezze, o maraviglie
Della candida Natura!
Quando saltan gli scoiattoli
Delle stelle allo splendor,
Ed un letto di giunchiglie
Fa obliar la sepoltura,
E gli affanni si addormentano
Nelle braccia dell’Amor!
PRIMAVERA
Isis, vere novo, cunas thalamosque tuetur,
Magna parens.
Primavera non vien fuor che una volta
A fiorir l’anno: e quando
Dal canestro versò l’ultima rosa,
La bella giovinetta in sè raccolta
Parte da noi, lasciando
Un soave ricordo in ogni cosa.
Delle rugiade il pianto
Resta all’alba: alla siepe un fil d’odore:
A qualche gelso un canto
Di solingo augelletto:
E resta all’uman petto
Una malinconia che sembra amore.
Poi s’imbionda la spica
Al povero colono:
Sotto i cocenti lampi
Di Febo s’affatica
Il falciator pe’ campi:
Di plaustri le callaie
Stridono: e, misurato alle promesse,
Ne’ portici e per l’aie
Splende l’ôr della messe.
E tutto questo è dono
Dell’olimpica Figlia,
Che va pellegrinando
Sotto le terre; e non so come o quando,
Dolcemente scompiglia
I piccioletti germi e li conduce
Fuor nella rosea luce.
Indi s’avanza il dio
Che aggioga al carro i pardi:
E fiamme dagli sguardi
Lancian Polinnia e Clio,
Mentre il sacro licor ferve e s’affina
Nell’anfora divina,
E coi corimbi in testa
Menan le madri sul Pangèo la festa.
Poi gialliscon le foglie
E cadono; s’accampa
Di fuor la buffa; e nelle interne soglie,
Mentre luce la vampa
Sui vasti focolari,
Novellando si va di cose arcane.
Ha già varcato i mari
La rondinella: senza vol rimane
Il pecchietto alle siepi, e senza grido
La cingallegra al nido:
Con suo mugolo roco
S’aggomitola al foco
Il can sull’ora bruna
O all’uscio, per entrar, raspa e si lagna,
Fiori di gel sui vetri
Ricama il verno; e gli alberi alla luna
Paiono bianchi spetri
Per l’immensa campagna.
Ohimè! dagli occhi miei
Per clivo o per riviera
Ove fuggita sei,
Fanciulla Primavera?
Come attesi l’amante, al tempo verde
Attendo io te: nè perde,
Benchè tu mi sia tolta,
La sua speranza il cor. Più d’una volta,
È ver, tu, giovinetta
Primavera, non vieni a fiorir l’anno.
Ma quando se ne vanno
L’ultime nevi e spunta
La prima violetta
Cantan tutte le terre: «È giunta, è giunta
La fanciulla gioconda!»
E il riso e il canto abbonda
Per l’acque immense e per gl’immensi cieli,
E in radïosi veli
Sovra il Saturnio altare
Sin la tacita e grande Iside appare.
O Primavera, eterna
Per l’arcana natura
E sì breve per noi, chi ti governa
Il virgineo pensier? chi prende in cura
Le tue sembianze belle?
Da qual poter tu mossa
Vieni beata e vai? Forse tu vivi
Al di là delle stelle,
Al di là della fossa
E in quel campo fiorito
A te ci attendi privi
Di fastidio e dolor schiatta immortale?
Chè in verità non vale
La poca ora di qua tanto infinito
Delirar di dottrine e di speranze.
E queste ambigue stanze
Che per antico danno
Abitiam colla Morte, un dì saranno
Trasfigurate in una
Primavera senz’ombra e mutamento,
Ove nè sol, nè luna
Nè mar d’acque, nè vento
Nè nulla agiterà nostro intelletto,
Tranne il proprio diletto
D’amar senza confine.
Primavere divine,
Io vi sogno sovente: e il sognar mio
Fa che talor nè invano
Son primavera anch’io:
E con gorgheggio arcano
Qui nella mente il rosignol mi geme,
Qui nella mente mi tremola il fiore,
E una fresc’onda preme
E una fresc’aura il core;
E a quanto ascolto e miro
Di grande e di gentile
Con infinita voluttà sospiro
Come a un eterno Aprile.
VOCI
Arcana interdum fert murmura cerulus aether
Et mare purpureum.
A rallegrarmi l’ore
Che passano veloci,
Misterïose voci
Mi scendono nel core;
E sotto il vecchio saio
E’ tanto mi si affina,
Che torna fresco e gaio,
Com’acqua a le sue foci.
N’è vero, Azzarelina?
Dicon le stelle: «Oh! guarda
Come siam glauche e belle».
Ed io rispondo: O stelle!
La mia pupilla è tarda,
Ma sempre vi ritrova
Nell’aria cilestrina,
Dove nuotar vi giova,
Lucenti navicelle.
N’è vero, Azzarelina?
Dicono i venti: «Schiudi
L’orecchio: o non ci senti?»
Ed io rispondo: O venti!
Melodiosi o rudi,
I vostri suoni ascolto
Al monte e alla marina,
E spesso ho da voi tolto
Le collere e i lamenti.
N’è vero, Azzarelina?
Dicon le rose: «Oh! bevi
Le nostre aure odorose».
Ed io rispondo: O rose!
Comunque incerte e lievi,
Quando più l’ora imbruna
V’ho cêrche a la collina,
E il raggio della luna
A me vi disascose.
N’è vero, Azzarelina?
Dice la fonte: «Irroro
Io le tue labbra al monte».
Ed io rispondo: O fonte!
Pur io, pur io t’infioro
Di libere canzoni
Nell’ora mattutina,
Quando su’ tuoi burroni
Mi batte il sol la fronte.
N’è vero, Azzarelina?
E tutto con me suona,
Ed io del par con tutto:
L’astro, la rosa, il flutto,
Il vento in me ragiona:
E qual da un’arpa immensa,
La melodia divina
Esce, favella e pensa,
E ciò d’un sogno è il frutto.
N’è vero, Azzarelina?
Dunque sogniam. Crudeli
Son gli uomini e le sorti:
Son solamente i morti
Benevoli e fedeli:
E, dopo lor, la maga
Natura, che incammina
Quest’errabonda e vaga
Nostra barchetta ai porti.
N’è vero, Azzarelina?
Sogniam. Di noi sorride
Chi numera e chi pesa,
Ma la villana offesa
È scorpio che s’uccide.
Di là dal nostro verno
Quest’anima indovina
L’aiuola e il fiore eterno,
Che ai più non s’appalesa.
N’è vero, Azzarelina?
I più son erbe uscite
Da margine selvaggio:
Scabre, villose, al raggio
Del sole inavvertite:
E il mandrïan non falla;
Le falcia e le destina
Ai capri della stalla:
E questo è il lor passaggio.
N’è vero, Azzarelina?
Ed or ch’io ti commisi
Il mio fedel pensiero,
Le anella del crin nero
Ti vesto a fiordalisi,
E nel romito speco
Su morbida cortina,
M’è dolce il sognar teco,
Come tu fai. N’è vero?
N’è vero, Azzarelina?
INCANTESIMO
Magnis parva sonant; resonant et maxuma parvis:
Mensque animusque favent et Dî portenta loquuntur.
La maga entro la rena
Girò, cantando, l’orma:
Con frasca di vermena
M’ha tôcco in sull’occipite
Ed io mi veggio appena in questa forma.
Sì picciolo mi fei
Per arte della maga,
Che in verità potrei
Nuotar sopra dïafane
Ale di scarabei per l’aura vaga.
O fili d’erba, io provo
Un’allegria superba
D’essere altrui sì novo,
Sì strano a me. Deh! fatemi,
Fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.
Minuscola formica
O ruchetta d’argento
Sarà mia dolce amica
Nell’odoroso e picciolo
Nido che il sol nutrica e sfiora il vento.
E della curva luna
Al freddo raggio, quando
Nella selvetta bruna
Le mille frasche armoniche
Si vanno ad una ad una addormentando;
E dentro gli arboscelli
Si smorza la confusa
Canzon de’ filinguelli,
E sotto i muschi e l’eriche
L’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;
Noi, cinta in bianca vesta,
La piccioletta fata
Vedrem dalla foresta
Venir nei verdi ombracoli,
Di bianchi fior la testa incoronata.
E dormirem congiunti
Sotto l’erbetta molle;
Mentre alla luna i punti
Toglie l’attento astrologo,
E danzano i defunti in cima al colle.
I magi d’Asia han detto
Che quanto il corpo è meno,
Più vasto è l’intelletto
E il mondo degli spiriti
Gli raggia più perfetto e più sereno.
Infatti, io sento l’onde
Cantar di là dal mare,
Odo stormir le fronde
Di là dal bosco; e un transito
D’anime vagabonde il ciel mi pare.
Da un calamo di veccia
Qua un satirin germoglia,
Da un pruno, a mo’ di freccia,
Là sbalza un’amadriade:
E in parto ogni corteccia ed ogni foglia.
Lampane grazïose
Giran la verde stanza;
E, strani amanti e spose,
I gnomi e le mandragore
Coi gigli e con le rose escono in danza.
Del mondo ameno o tetro
Com’è che ai sensi tardi
Mi piove il raggio e il metro?
E nè cornetta acustica
Mi soccorre nè vetro orecchi e sguardi?
Com’è che le mie colpe
Non anco all’olmo e al pino
Latra la iniqua volpe?
Nè il truculento martoro
Mi succhiella le polpe a mattutino?
Sono un granel di pepe
Non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe,
Ed è minor che lucciola
Nell’ombra d’una siepe il mio pensiero.
O fata bianca, come
Un nevicato ramo,
Dagli occhi e dalle chiome
Più bruni della tenebra,
E dal soave nome in ch’io ti chiamo;
O Azzarelina! in pegno
Dell’amor mio, ricevi
Questo morente ingegno,
Tu che puoi far continovi
Nel tuo magico regno i miei dì brevi.
L’erbetta ov’io m’ascondo,
So ch’è incantata anch’ella;
Nè vampa o furibondo
Refolo o gel mortifica
Lo smeraldo giocondo in ch’è sì bella.
So che, d’amor rapita,
In un perpetuo ballo
Mi puoi mutar la vita
O su fra gli astri, o in nitide
Case di margherita e di corallo.
Sien acque, o stelle, o venti,
Dove abitar degg’io,
Per primo don m’assenti
Il bacio tuo: per ultimo,
Dei rissosi viventi il pieno oblio.
Ascolta, Azzarelina:
La scïenza è dolore,
La speranza è ruina,
La gloria è roseo nugolo,
La bellezza è divina ombra d’un fiore.
Così la vita è un forte
Licor ch’ebbri ci rende,
Un sonno alto è la morte;
E il mondo un gran fantasima
Che danza con la Sorte e il fine attende.
Vieni ed amiam. L’aurora
Non spunta ancor; gli steli
Ancor son curvi; ancora
Il focherel di Venere
Malinconico infiora i glauchi cieli.
Vieni ed amiam. Chi vive,
Naturalmente guada
Alle tenarie rive:
Ma chi è prigion nel circolo,
Che la tua man descrive, a ciò non bada.
INIDE E IL SATIRO
E fuor balzò dal rugiadoso arbusto
Sui margini, l’obliqua aura d’un nume
Con sè recando, in nudità di fiera,
Il Caprigena insigne.
Ei quel viluppo
Reggea di strane inopinate forme
Su due tibie di becco: irta dal mento,
Quasi fastel d’acuminati spini,
Gli uscìa la barba; gli lustravan gli occhi,
Com’usa agli ebri: e mal dissimulate
Fiorian le corna dalla scabra chioma.
Pria, cupido, cercò negli odorosi
Ginepri e fra le dense alghe del rivo
Qualche driade o napea, forse in quel punto
Dalle labbra villose e dai lacerti
Ita in fuga del nume. E dopo indarno
Ritentata la frasca e corsi in giro
I verdi calli, a’ piè d’un giovinetto
Salcio ei corcossi e in un profondo sonno
Giacque sommerso.
Allor due belle e bianche
Ninfe da una vicina elce a quel loco
Venner danzando: ed una esser l’ancella
Parea dell’altra, che sospese a tergo
Le frecce d’oro, il portamento e il viso
Palesavan reina.
«Ecco il soave,
Dïana madre, rapitor futuro
Del mio cintiglio! E sarà ver ch’io deggia
Mescolarmi a costui?»
«Giove lo ha detto,
E nè il ciel nè l’averno, Inide cara,
Espugnò mai la volontà di Giove.
Quando in candido cigno a te converso
Fu il Re de’ Numi, e ti velò coll’ali,
Perché indignarlo? e ai talami divini
Esser ribelle? Da quel giorno al fiero
Satiro il padre dell’Olimpo in donna
T’ha destinata: e da costui tu fuggi
Vanamente, o fanciulla. Io, che conobbi
Le tue caste vigilie e la tua fede
All’arcano mio rito, io però farti
Posso un incanto e la tua forte pena
Disacerbar».
«Non indugiarmi, prego,
Madre, l’aita».
«È in questo bosco un’erba,
Che qual la chiude in bocca e va sognando
Nove parvenze, in verità le mira
Come le sogna. E tu non il deforme
Satiro, ma il desio della tua mente
Abbraccerai».
«Dov’è quell’erba, o madre,
Dov’è quell’erba?»
«In questa siepe. Allunga
La nivea mano a quei due muschi: or vedi
Il fil vermiglio che su lor si piega?
Tu l’hai già côlto. Addio».
Così disparve
Dïana madre, e il Satiro le ciglia
Slegò dal sonno.
Il glorïoso intanto
Apolline di Frigia era nel vivo
Pensier della fanciulla affigurato,
Della fanciulla, che tenea già chiuso
Il filo d’erba nella rosea bocca.
E, veduto il Caprigena levarsi
Colle forme di Febo ed assalirla,
Sparso d’un lume che parea celeste,
Gli cascò nelle braccia.
Ahi, breve inganno!
Ma breve, ahi quanto e lacrimabil sempre!
Chè, mentr’ella sentia nel grande amplesso
Perir di sua virginità la rosa,
Ed insana l’obblio dell’universo
In un bacio d’amore iva suggendo,
Le fuggì dalle labbra, incustodita,
La magich’erba. Un gemito ella mise,
Gemito orrendo, a contemplarsi avvinta
Col mostrüoso Iddio. Nelle pupille
Sentì nuotar la moribonda luce,
E più non vide nè il lascivo amante,
Nè il bel riso de’ cieli.
Ivi, sui muschi,
Dormì la dolce estinta insin che il raggio
Di Febo, il raggio che sì mal le piacque,
Vestì, morendo, di purpureo lume
La nivea spoglia: e, quando umide a valle
Calaron l’ombre e la falcata luna
Posò sui monti, alla funerea gleba
Venne Diana colle ninfe, e al clivo
Portar la giovinetta e di giunchiglie
Le formaron la fossa.
Il detestato
Satiro, intanto, s’ascondea nel cavo
Sen d’una quercia, a contemplar le bianche
Sacerdotesse in quell’amabil rito.
Quanto al Saturnio Giove, ei nel sereno
Regno d’Olimpo si facea la tazza
Colmar d’ambrosia; e al bevitor celeste
Nome ignoto sonò d’Inide il nome.
ASPASIA
Nec demum potoris famulae committere cynthum
Purpureum et debitas Veneri laudare calendas.
Quando la prima ruga
Ti manda il riso in fuga,
Quando la prima brina
Le chiome d’ôr ti tocca,
E nella rosea bocca
La prima perla fina
Comincia a vacillar;
Chieder che giova, Aspasia,
Gomme ed unguenti all’Asia?
Nè il musico di Teo
Co’ suoi giocondi fiori,
Nè co’ suo’ dotti amori
Il vecchio del Pireo
Ti può ricompensar.
Fioristi rugiadosa,
Ed or non sei più rosa;
Non più, lentato il freno
Al lin che ti circonda,
Or viene or va, com’onda,
Il giovinetto seno
Che Fidia innamorò.
Le due ridenti stelle,
Vago sospir d’Apelle,
Sotto le ciglia brune
Han perso anch’elle il foco
E con nefando gioco
Te delle ambrosie lune
Sin l’aura abbandonò.
Se per allegri calli
Mena Polinnia i balli,
Tu più non lanci, a modo
Di fresco fior, le membra;
Che più obbedir non sembra
L’agil caviglia e il nodo
Del giovinetto piè.
E se Talìa s’aggira
A suon di tibia o lira,
E tentatrice intorno
L’altrui canzon ti vola;
Entro la rosea gola,
D’usignoletto un giorno,
Langue la voce a te.
Cedi corona e trono,
O Aspasia, a quante or sono
Sul florido Cefiso
Schiave d’amor leggiadre.
Tu sai che d’Ega il Padre
La gioventù del viso
Due volte a noi non dà.
Depon’ sull’ara in pace
La moribonda face:
Lieta, se pria che il vento
In cenere la mandi,
I raggi ultimi e blandi
Dal tripode d’argento
L’Olimpo accoglierà.
FORESTA
Numina per sylvam ludunt: vos carpite flores,
Nymphae.
Come è fuor dell’usato
Tacita la foresta!
Non allegro latrato
Di cani o tibia di pastor tu senti:
Nelle sue verdi chiome
Pur non giocano i venti.
O come strana, o come
Ell’è, senz’esser mesta!
Se tu intendi l’udito,
Mia dolce Azzarelina,
Ti fere un mormorio
Sottil, vago, infinito:
Non altro. È la divina
Iside che s’asconde
Sotto i muschi e le fronde?
Od è un più dolce Iddio
Che qui sospira? Io nol so dir, ma parmi
Che una potenza arcana
È qui. Son forse i carmi,
Che il fauno e la silvana
Van susurrando lieti
Dentro il crin degli abeti,
O sotto le rugose
Felci che il lume della luna imbianca?
Dalle segrete cose
Io qualche nota so rapir talvolta:
Qui mi t’assidi a manca,
Azzarelina, e ascolta.
In questa verde selva
Tutto è laccio d’amore:
L’erba favella al fiore,
Il fior favella all’albero,
E l’albero alla belva,
E la belva feroce o la gentile
Al ritornante aprile.
In questa selva bruna
Le deïtà più belle
Favellano alle stelle,
Parlan le stelle all’etere,
E l’etere alla luna,
E la luna alla Notte e questa ai tanti
Suoi pensierosi amanti.
Nell’alto verde io teco
Favello, Azzarelina;
E una cara indovina,
Che ti ripete il murmure
Delle mie voci, è l’Eco;
E l’Eco parla all’aura, e l’aura lieve
Parla al tuo vel di neve.
E il candido tuo velo
Parla al tuo core, ed io
Parlo con ogni iddio
Di questa selva, e il pelago
Parla di noi col cielo;
E, più che giunco il rivo o foglia il ramo,
Azzarelina, io t’amo.
È questa selva eterna,
Perchè ritorna maggio,
Perchè degli astri il raggio
Molle ne irrora i cespiti,
Pur quando gela e verna:
Perchè fresco un umor, come in noi due,
Stilla nell’urne sue.
Qui sorgerà la festa
Dei bruni veltri ancora;
E alla ridente aurora,
Dei mandrïani il cantico
S’udrà per la foresta:
E numi e ninfe nelle conscie grotte
Invocheran la Notte.
Sui talami muscosi
Quanti sospir’ sommessi,
Quanti teneri amplessi,
Mentre usciran le amabili
Ore danzando! O ascosi
Baci rapiti ai sacri boschi in seno,
Chi vi pon legge o freno?…
Non ha dolcezze uguali
Fior d’Ibla o fior d’Imetto,
O nel divin banchetto
Ciò che invermiglia il calice
Al Re degli immortali;
Nè ottien poi sempre chi ha corona e trono
D’un di quei baci il dono.
Azzarelina, oh! bada
Che alata è la terrena
Letizia. A me catena
Fa’ di tue braccia: è limpido
Il ciel, nella rugiada
Spira l’ambrosia, son fioriti i dumi:
Questa è l’ora dei numi!
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Com’è, com’è profondo
Il silenzio del bosco
E quel degli occhi tuoi!
Dimmi: è scomparso il mondo
O il mondo è qui con noi?
Io più non mi conosco,
E in me stilla un languor che sembra morte.
Le tue braccia rattorte
Al collo mio, come fiorenti rami
Di mandorlo, colora
Col suo raggio la luna,
Ma riso o voce alcuna
Sul tuo labbro non fiora.
Giaci pallida e muta e al ciel somigli,
Che è muto a riguardar l’opra sua rara.
Scomposta abbruna l’erba
La tua treccia superba;
Due rugiadosi gigli
Son le tue tempia, o cara:
Potessimo dormire,
Senza più risvegliarci, in questa riva!
L’anima nostra è viva,
Poscia che amò, per una cosa sola,
Alta, gentil: morire.
Però che il tempo vola,
Vola e non torna più. Svegliarsi è grave
Dopo un sogno d’amore;
Dormi, fanciulla mia, dormi soave.
Come ti batte il core!
Che profondo sorriso
Ti spunta in fantasia?
Ah! tu sogni l’Eliso,
Azzarelina mia.
O nuvole che andate
Improvvise per l’aria,
La bella solitaria
Vi commova a pietà. Deh! non turbate,
Aquiloni del ciel, la sognatrice.
È maligno talento
Invidïar la breve ora felice
A noi schiatta percossa,
A noi che andiam, come fogliette al vento,
Nella cupida fossa.
Dormi, amor mio. Chi sa ciò che tu miri
Sotto il vel delle ciglia e in che sospiri
Tu spargi la infinita
Ridente anima tua fuor della vita.
AL MIO CALZOLAIO MAESTRONE
Ut tibi dat crepìdam, mihi Pallas condere versus
Si dederit!
Alfin trovato ho un paio
Di scarpe così prode,
Che non c’è premio o lode
Ch’io neghi al calzolaio.
Fango pestando e ciottoli
Di queste vie romane,
Or le caviglie ho sane
E a sghembo il piè non va.
Salgono molti in fama
Con men perizia e merto
Di questo fabbro esperto
Che Maëstron si chiama:
Che con ispago e lesina
S’impanca in via Ripetta
E non fa l’arte in fretta
Ma da par suo la fa.
Leggicchia, ad ora brulla,
Il Conte della Mancia,
Guerino, I Re di Francia,
La Voce od il Fanfulla.
Non so s’ei va col secolo
E mutar vesti sogna,
O nel suo nicchio agogna
Di rimaner così.
Non so se uscì da balia
Fior d’anice o di rapa,
Non so se sta col Papa
Oppur col Re d’Italia:
So che da onesto artefice
La tassa egli non nega,
E spunta alla bottega
Allo spuntar del dì.
Al numero Quaranta,
Ei fiuta il suo tabacco;
Ama l’altar di Bacco
E di Noè la pianta:
A sera gli s’imporpora
Il peperon del naso,
Gli ridon gli occhi. È il caso
D’offrirlo ad un pittor.
Corta ha la chioma: è secco
Di Lomellina il figlio:
Nodato ha sul cintiglio
Il suo zinnal di becco:
Mozza la turpe gocciola
Che dalle nari è in corso,
E delle mani al dorso
Commesso è questo onor.
Ma con che forza ei cuce,
Ma con che garbo ei mette
Le stringhe e le bullette
E in sodo il piè riduce!
Or coi due forti sandali
Posso lanciarmi al ballo
Senza che un’unghia o un callo
Mi faccia delirar.
È rude un po’ la forma,
Ma punto i’ non mi sdegno;
Se un calcio altrui consegno
So che ci lascio l’orma.
Con tali schermi transito
Lungo le vie contento
Più che uccelletto al vento
O più che triglia al mar.
Un giorno anch’io portai
Scarpe lucenti e snelle,
Ma i muscoli e la pelle
Eran più freschi assai:
E Amor mi dava a prestito
I suoi lucenti vanni,
Gloria de’ miei verd’anni
Che non mi tenta più.
Com’era allegro il piede
Sotto le ambrosie lune,
Molli le chiome e brune
E giovenil la fede!
Ma queste dolci favole
Lasciar degg’io da parte,
Oggi le lodi all’arte
Meglio ascoltar puoi tu.
Di scarpa angusta e fina
Tu non m’hai fatto schiavo;
Bravo, tre volte bravo,
Figliuol di Lomellina.
Più ferma sul suo zoccolo
Non è del corpo mio
Statua di greco iddio
O di latino re.
Di sette ormai calende
Oggi suonata è l’ora
E fan servigio ancora
Le scarpe tue stupende.
Grazie, o maestro. Un’orrida
Scogliera è il calle umano
E scarpe da Titano
Tu fabbricasti a me.
L’ULTIMO SOGNO
Il letto del sepolcro è pieno di luminose visioni.
LOPEZ DE VEGA
Mentr’io degli Astri notturno amante
Nei lumi eterni cerco la sorte,
Coll’aurea sfera sul mio quadrante
Cammina il Tempo verso la Morte:
Cammina sempre nè cangia moto,
Cammina e batte nell’orïuol;
Batte la marcia verso l’Ignoto
Dal sole all’ombra, dall’ombra al sol.
Marciam, soldati dell’ora breve,
Marciam; chè gli astri cadendo vanno
E giù dai monti porta la neve
Il freddo vento che chiude l’anno.
Marciam, soldati, marciamo a squadre
La nostra bruna fossa a ghermir.
Dove son chiuse l’ossa del padre,
Quelle dei figli debbon dormir.
Mandan le rute colle verbene
Pallida vampa, pallido fumo.
Rime funeste, rime serene,
Qui vi depongo, qui vi consumo.
Addio, di gloria stupendo nome!
Addio, soave spettro d’amor!
Sento che casca dalle mie chiome
L’ultimo lauro, l’ultimo fior!
Però corcarmi da te diviso
Non posso, o cara, nè tu lo puoi:
Voglio inondato sentirmi il viso
Dalle tue chiome, dagli occhi tuoi.
La tenue sfera non cessa un punto
Sul mio quadrante di circolar;
Corcati, o cara, chè il tempo è giunto.
Nelle tue braccia voglio sognar.
Sognar le verdi mie primavere,
Sognar le feste del mio villaggio,
L’irte mie balze, le mie riviere
E de’ tepenti miei soli il raggio:
Sognar la vita, sognar la fama,
Sognar la dolce mia libertà:
Con te la fossa, mia bella dama,
Letto di fiori mi sembrerà.
Se a noi d’intorno la neve fiocca
E tu gelata sarai dimani,
Col molle soffio della mia bocca
Scalderò il gelo delle tue mani.
Corcati, o cara; prendi il tuo loco,
Folte son l’ombre; ma non temer:
Portato ho meco lampada e foco,
Perch’io ti voglio sempre veder.
Povera amica, le tue palpèbre
Come l’orrendo sonno affatica!
Come nell’ossa t’arde la febbre!
Oh, come tremi, povera amica!
Prendi coraggio, fatti più presso,
Dimmi che m’ami, che mia sei tu…
Gran Dio! l’ardente bacio promesso
Sulle mie labbra non sento più.
Ben sulla volta di questa fossa
Sento che il negro Salmo si canta;
Giù giù filtrate cascar sull’ossa
Sento le gocce dell’acqua santa.
Ma tu ti svegli, ma tu rinasci,
Ma tu sei bella, ma dal tuo crin
Spira un profumo come se a fasci
Bruciasse il nardo col belgiuin.
Ve’ come splende sul nostro tetto
Collo smeraldo misto il zaffiro!
Che drappo d’oro ci copre il letto
Che molle effluvio di rose in giro!
Dea circondata di tristi larve
No l’amorosa Morte non è;
Sentire il cielo mai non mi parve
Come in quest’ora vicino a te.
L’organo echeggia: s’alzan gli spenti:
Portan le faci con gl’incensieri:
Candide insegne s’aprono ai venti,
Ci fan corona bimbi e guerrieri.
Mia dolce estinta, prendi l’anello,
Guarda che festa d’angioli è qui:
L’ultimo sogno dentro l’avello
È il più bel sogno dei nostri dì.
FRAMMENTO D’ELLADE
Et mare fatigerum et claras veneremur Athenas;
Nata Jovis.
Ospite all’onde sacre, e pieno gli occhi
Del greco sole, armilucente Atena,
Già non vedrò, come bramai gran tempo
Nel sogno mio, le tue beate rive
Prima di morte. Ma quel dì ch’io ponga
Questo duro mio fascio, anima amante
Volerò, tu vedrai con che sospiri,
Verso il tuo cielo a visitar le belle
Fontane d’Ascra e i ricordati al mondo
Attici campi. O Venere divina,
Tu, precedendo, al pellegrin quel giorno
Mostrerai di Citèra e d’Amatunta
I giocondi roseti e su per l’erba
Rugiadosa di Teo le danzatrici
Candide Grazie. E tu degli occhi azzurra
Palla cecropia il tèssalo macigno
E la funerea Maratonia proda:
Sentirò di Talìa novellamente
Sull’aristofanèo labbro l’arguta
Celia e vedrò le olimpiche quadrighe
E i vincitori e il garzoncel di Tebe
Che col libero alato inno li eterna.
Me Clio traëndo pel diverso lido,
«Qui, mi dirà, fu Prometèo da immani
Vincoli attorto e il fegato immortale
La funesta gli rode aquila ancora.
Qui ruppe i veli della Sfinge arcana
Edipo triste: e qui giurâr gli Atrìdi,
Mentre rompea l’infame Elena i flutti,
Lo sterminio dell’Asia: e il patrio ferro
Qui truce al cor d’Ifìgenìa discese,
E dal virgineo gemito placati
Fûro della nembosa Aulide i venti.
A questi intorno benedetti sassi
Arder fu vista la gentil battaglia
Di Mantinèa quando il Teban dal petto
Trasse la freccia e di superba morte
Impallidì. Son queste Itaca e Pilo,
Argo e Micene. Il telamonio Aiace
Qui fulminò. Da quelle auguri selve
Calar le travi per le frigie antenne
Che trassero l’arcana Ilio ai promessi
Saturni campi onde fu Roma».
Oh! quando
Veder m’avvenga i vesperi soavi
Di Tempe e il Sunnio radïoso; Oh! quando
Spirar mi tocchi sulla sacra Cea
L’aura d’Omero e nei mirteti io senta
Il sommesso tubar delle colombe
E baci in fronte la mia madre antica
Ellade grazïosa, Ellade prode.
Ma te fra tutte le sognate larve
Del greco Eliso cercherò piangendo,
Figlia di Lesbo. Ti diè Giove il canto,
Non la bellezza: e tu perivi. Ha pochi
La umana sede impavidi e gentili
Che allo sfregio d’amor san far risposta
Qual tu la festi, I morbidi Fäoni
Coronati di fior cercan ridendo
Molli cene e triclinio, e dalle brune
D’asfodillo e di rosa anfore avvolte
Bevon l’oblio dei talami traditi.
Ma chi in ira de’ Numi il dì natale
Ebbe, diverte dall’ambrosia luce
Le imperterrite ciglia e abbrevia il passo.
«Addio, stelle; addio, mar; questa cocente
Fiamma che m’arde spegnerò nell’acque
Del vasto Egèo. Ma te, sia che ti porti
Nave o corsier per le città maligne,
Seguirò pallid’ombra insin che spenta
La bella gioventù delle tue forme
Tu il capo imbianchi e favola sii reso
Alle greche donzelle. Allor la piaga
Ch’oggi all’Orco inestinta ahi m’accompagna
Sentirò vendicata: e prego i Numi
Sin d’or che l’erba dove morto giaci
Sia pastura di corvi e fior non nasca
Che a nutrir le ceraste».
In questa forma.
Ti restò dietro la nefanda rupe,
Misera!, e il gorgo dell’Egèo ti chiuse.
Or di te che riman ? Qualche frammento
Dell’Odi innamorate: uno o due segni
D’italo carme e d’italo scalpello,
È poi, Lesbia divina, un ingiocondo
Stupor di pappagalli a cui non punge
La memoria di te se non quel tanto
Che punge una zanzara in roseo dito.
E fors’anco il nocchier ch’oggi fa vela
Dove moristi, nel cristal dell’acque
Mira lo scoglio, ma sbadato il varca.
Sul vecchio mondo la faccenda nova
Sorge arrogante e il suo gran dì non spreca
Dietro a fantasmi.
Dei cerulei flutti
Deh! posa in grembo, o naufraga divina:
Non veder, non udir t’è gran ventura.
FIRENZE
L’aure sovente della fosca Atene
Ne’ più mesti pensier sento spirarmi,
Aure misterïose, aure serene,
Che infuser gloria alle pitture e ai marmi.
Vien l’arguzia del Berni e con lei viene
D’Allighier la parola a ricercarmi,
E come il sangue nelle ambrosie vene,
Fresca zampilla in me l’onda de’ carmi.
E risospiro alla fiorita riva,
Alla stirpe cortese: e mi sei fatta,
Fiorenza, oh quanto, nel pensier più viva!
E un dì la zolla mi parea men verde,
Sì morti i padri, e sì minor la schiatta!
Che amara luce ha il ben quando si perde!
GIOCO
Giocano sotto al mio balcon, chiassando,
I romani monelli a pila e croce:
Nè già mite è la turba o il gioco è blando,
Ma ogni moto è battaglia, ira ogni voce.
«Che tu muoia ammazzato!» è la feroce,
Profezia che si fanno a quando a quando,
E m’arde il viso e il fegato mi coce
L’abbominoso a udir voto nefando.
In duro ozio salvatico cresciuti,
Che saran questi pargoli che sorda
Han l’alma a ciò, che sin fa forza ai bruti?
Io non oso guardar di là molt’anni,
Perché temo veder carcere e corda
E vecchie madri in disperati affanni!
PAESE ARCANO
Sinchè la fantasia tristi o giocondi
Mi darà spettri, come altrui non suole,
Sinchè la mente sui segreti mondi
Starà pensosa per condurli al sole;
Sinchè l’anima al fresco aere fecondi
Quant’è più degno in queste morte aiuole,
E nei recessi dello spirto abbondi
L’ambrosio lume alle nascenti fole;
Non il chiasso illeggiadro o il tempo vano
Mi darà cruccio. Pur che a me rimanga
Questo paese de la mente arcano
In ch’io sorrida co’ miei sogni o pianga,
D’un’alta securtà mi riconsolo,
Che a vivere e a morir basto a me solo.