-------
| bookZ.ru collection
|-------
|  Giosue Carducci
|
|  Odi barbare
 -------

   Giosuè Carducci
   ODI BARBARE


   PRELUDIO


     Odio l’usata poesia: concede
     comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
     palpiti sotto i consueti amplessi
     stendesi e dorme.


     A me la strofe vigile, balzante
     co ‘l plauso e ‘l piede ritmico ne’ cori:
     per l’ala a volo io còlgola, si volge
     ella e repugna.


     Tal fra le strette d’amator silvano
     torcesi un’evia su ‘l nevoso Edone:
     piú belli i vezzi del fiorente petto
     saltan compressi,


     e baci e strilli su l’accesa bocca
     mesconsi: ride la marmorea fronte
     al sole, effuse in lunga onda le chiome
     fremono a’ venti.



   DELLE ODI BARBARE. LIBRO I


   IDEALE


     Poi che un sereno vapor d’ambrosia
     da la tua coppa diffuso avvolsemi,
     o Ebe con passo di dea
     trasvolata sorridendo via;


     non piú del tempo l’ombra o de l’algide
     cure su ‘l capo mi sento; sentomi,
     o Ebe, l’ellenica vita
     tranquilla ne le vene fluire.


     E i ruinati giú pe ‘l declivio
     de l’età mesta giorni risursero,
     o Ebe, nel tuo dolce lume
     agognanti di rinnovellare;


     e i novelli anni da la caligine
     volenterosi la fronte adergono,
     o Ebe, al tuo raggio che sale
     tremolando e roseo li saluta.


     A gli uni e gli altri tu ridi, nitida
     stella, da l’alto. Tale ne i gotici
     delúbri, tra candide e nere
     cuspidi rapide salïenti


     con doppia al cielo fila marmorea,
     sta su l’estremo pinnacol placida
     la dolce fanciulla di Jesse
     tutta avvolta di faville d’oro.


     Le ville e il verde piano d’argentei
     fiumi rigato contempla aerea,
     le messi ondeggianti ne’ campi,
     le raggianti sopra l’alpe nevi:


     a lei d’intorno le nubi volano;
     fuor de le nubi ride ella fulgida
     a l’albe di maggio fiorenti,
     a gli occasi di novembre mesti.



   ALL’AURORA


     Tu sali e baci, o dea, co ‘l rosëo fiato le nubi,
     baci de’ marmorëi templi le fosche cime.


     Ti sente e con gelido fremito destasi il bosco,
     spiccasi il falco a volo su con rapace gioia;


     mentre ne l’umida foglia pispigliano garruli i nidi,
     e grigio urla il gabbiano su ‘l vïolaceo mare.


     Primi nel pian faticoso di te s’allegrano i fiumi
     tremuli luccicando tra ‘l mormorar de’ pioppi:


     corre da i paschi baldo vèr’ l’alte fluenti il poledro
     sauro, dritto il chiomante capo, nitrendo a’ venti:


     vigile da i tuguri risponde la forza de i cani
     e di gagliardi mugghi tutta la valle suona.


     Ma l’uom che tu svegli a oprar consumando la vita,
     te giovinetta antica, te giovinetta eterna


     ancor pensoso ammira, come già t’adoravan su ‘l monte
     ritti fra i bianchi armenti i nobili Aria padri.


     Ancor sovra l’ali del fresco mattino rivola
     l’inno che a te su l’aste disser poggiati i padri.


     – Pastorella del cielo, tu, frante a la suora gelosa
     le stalle, riadduci le rosse vacche in cielo.


     Guidi le rosse vacche, guidi tu il candido armento
     e le bionde cavalle care a i fratelli Asvini.


     Come giovine donna che va da i lavacri a lo sposo
     riflettendo ne gli occhi il desïato amore,


     tu sorridendo lasci caderti i veli leggiadri
     e le virginee forme scuopri serena a i cieli.


     Affocata le guance, ansante dal candido petto,
     corri al sovran de i mondi, al bel fiammante Suria,


     e il giungi, e in arco distendi le rosee braccia al gagliardo
     collo; ma tosto fuggi di quel tremendo i rai.


     Allora gli Asvini gemelli, cavalieri del cielo,
     rosea tremante accolgon te nel bel carro d’oro;


     e volgi verso dove, misurato il cammino di gloria,
     stanco ti cerchi il nume ne i mister de la sera.


     Deh propizia trasvola – cosí t’invocavano i padri —
     nel rosseggiante carro sopra le nostre case.


     Arriva da le plaghe d’orïente con la fortuna,
     con le fiorenti biade, con lo spumante latte;


     ed in mezzo a’ vitelli danzando con floride chiome
     molta prole t’adori, pastorella del cielo. —


     Cosí cantavano gli Aria. Ma piàcqueti meglio l’Imetto
     fresco di vénti rivi, che al ciel di timi odora:


     piàcquerti su l’Imetto i lesti cacciatori mortali
     prementi le rugiade co ‘l coturnato piede.


     Inchinaronsi i cieli, un dolce chiarore vermiglio
     ombrò la selva e il colle, quando scendesti, o dea.


     Non tu scendesti, o dea: ma Cefalo attratto al tuo bacio
     salía per l’aure lieve, bello come un bel dio.


     Su gli amorosi venti salía, tra soavi fragranze,
     tra le nozze de i fiori, tra gl’imenei de’ rivi.


     La chioma d’oro lenta irriga il collo, a l’omero bianco
     con un cinto vermiglio sta la faretra d’oro.


     Cadde l’arco su l’erbe; e Lèlapo immobil con erto
     il fido arguto muso mira salire il sire.


     Oh baci d’una dea fragranti tra la rugiada!
     oh ambrosia de l’amore nel giovinetto mondo!


     Ami tu anche, o dea? Ma il nostro genere è stanco;
     mesto il tuo viso, o bella, su le cittadi appare.


     Languon fiocchi i fanali; rincase, e né meno ti guarda,
     una pallida torma che si credé gioire.


     Sbatte l’operaio rabbioso le stridule impòste,
     e maledice al giorno che rimena il servaggio.


     Solo un amante forse che placida al sonno commise
     la dolce donna, caldo de’ baci suoi le vene,


     alacre affronta e lieto l’aure tue gelide e il viso:
     – Portami —, dice, – Aurora, su ‘l tuo corsier di fiamma!


     ne i campi de le stelle mi porta, ond’io vegga la terra
     tutta risorridente nel roseo lume tuo,


     e vegga la mia donna davanti al sole che leva
     sparsa le nere trecce giú pe ‘l rorido seno. —



   NELL’ANNUALE DELLA FONDAZIONE DI ROMA


     Te redimito di fior purpurei
     april te vide su ‘l colle emergere
     da ‘l solco di Romolo torva
     riguardante su i selvaggi piani:


     te dopo tanta forza di secoli
     aprile irraggia, sublime, massima,
     e il sole e l’Italia saluta
     te, Flora di nostra gente, o Roma.


     Se al Campidoglio non piú la vergine
     tacita sale dietro il pontefice
     né piú per Via Sacra il trionfo
     piega i quattro candidi cavalli,


     questa del Fòro tua solitudine
     ogni rumore vince, ogni gloria;
     e tutto che al mondo è civile,
     grande, augusto, egli è romano ancora.


     Salve, dea Roma! Chi disconósceti
     cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
     e a lui nel reo cuore germoglia
     torpida la selva di barbarie.


     Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
     del Fòro, io seguo con dolci lacrime
     e adoro i tuoi sparsi vestigi,
     patria, diva, santa genitrice.


     Son cittadino per te d’Italia,
     per te poeta, madre de i popoli,
     che desti il tuo spirito al mondo,
     che Italia improntasti di tua gloria.


     Ecco, a te questa, che tu di libere
     genti facesti nome uno, Italia,
     ritorna, e s’abbraccia al tuo petto,
     affisa ne’ tuoi d’aquila occhi.


     E tu dal colle fatal pe ‘l tacito
     Fòro le braccia porgi marmoree,
     a la figlia liberatrice
     additando le colonne e gli archi:


     gli archi che nuovi trionfi aspettano
     non piú di regi, non piú di cesari,
     e non di catene attorcenti
     braccia umane su gli eburnei carri;


     ma il tuo trionfo, popol d’Italia,
     su l’età nera, su l’età barbara,
     su i mostri onde tu con serena
     giustizia farai franche le genti.


     O Italia, o Roma! quel giorno, placido
     tornerà il cielo su ‘l Fòro, e cantici
     di gloria, di gloria, di gloria
     correran per l’infinito azzurro.



   DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA


     Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino
     le nubi: il vento dal pian tristo move
     umido: in fondo stanno i monti albani
     bianchi di nevi.


     A le cineree trecce alzato il velo
     verde, nel libro una britanna cerca
     queste minacce di romane mura
     al cielo e al tempo.


     Continui, densi, neri, crocidanti
     versansi i corvi come fluttuando
     contro i due muri ch’a piú ardua sfida
     levansi enormi.


     – Vecchi giganti, – par che insista irato
     l’augure stormo – a che tentate il cielo? —
     Grave per l’aure vien da Laterano
     suon di campane.


     Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
     grave fischiando tra la folta barba,
     passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
     nume presente.


     Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
     e de le madri le protese braccia
     te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato
     capo de i figli:


     se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso
     l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
     l’evandrio colle, e veleggiando a sera
     tra ‘l Campidoglio


     e l’Aventino il reduce quirite
     guardava in alto la città quadrata
     dal sole arrisa, e mormorava un lento
     saturnio carme);


     Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
     quinci respingi e lor picciole cose:
     religïoso è questo orror: la dea
     Roma qui dorme.


     Poggiata il capo al Palatino augusto,
     tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
     per la Capena i forti omeri stende
     a l’Appia via.



   ALLA VITTORIA

 //-- TRA LE ROVINE DEL TEMPIO DI VESPASIANO IN BRESCIA --// 

     Scuotesti, vergin divina, l’auspice
     ala su gli elmi chini de i pèltasti,
     poggiasti il ginocchio a lo scudo,
     aspettanti con l’aste protese?


     o pur volasti davanti l’aquile,
     davanti i flutti de’ marsi militi,
     co ‘l miro fulgor respingendo
     gli annitrenti cavalli de i Parti?


     Raccolte or l’ali, sopra la galea
     del vinto insisti fiera co ‘l poplite,
     qual nome di vittorïoso
     capitano su ‘l clipeo scrivendo?


     È d’un arconte, che sovra i despoti
     gloriò le sante leggi de’ liberi?
     d’un consol, che il nome i confini
     e il terror de l’impero distese?


     Vorrei vederti su l’Alpi, splendida
     fra le tempeste, bandir ne i secoli:
     «O popoli, Italia qui giunse
     vendicando il suo nome e il diritto.»


     Ma Lidia intanto de i fiori ch’èduca
     mesti l’ottobre da le macerie
     romane t’elegge un pio serto,
     e, ponendol soave al tuo piede,


     – Che dunque – dice – pensasti, o vergine
     cara, là sotto ne la terra umida
     tanti anni? sentisti i cavalli
     d’Alemagna su ‘l greco tuo capo? —


     – Sentii – risponde la diva, e folgora —
     però ch’io sono la gloria ellenica,
     io sono la forza del Lazio
     traversante nel bronzo pe’ tempi.


     Passâr l’etadi simili a i dodici
     avvoltoi tristi che vide Romolo
     e sursi «O Italia» annunziando
     «i sepolti son teco e i tuoi numi!»


     Lieta del fato Brescia raccolsemi,
     Brescia la forte, Brescia la ferrea,
     Brescia leonessa d’Italia
     beverata nel sangue nemico. —



   ALLE FONTI DEL CLITUMNO


     Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
     frassini al vento mormoranti e lunge
     per l’aure odora fresco di silvestri
     salvie e di timi,


     scendon nel vespero umido, o Clitumno,
     a te le greggi: a te l’umbro fanciullo
     la riluttante pecora ne l’onda
     immerge, mentre


     vèr lui dal seno de la madre adusta,
     che scalza siede al casolare e canta,
     una poppante volgesi e dal viso
     tondo sorride:


     pensoso il padre, di caprine pelli
     l’anche ravvolto come i fauni antichi,
     regge il dipinto plaustro e la forza
     de’ bei giovenchi,


     de’ bei giovenchi dal quadrato petto,
     erti su ‘l capo le lunate corna,
     dolci ne gli occhi, nivëi, che il mite
     Virgilio amava.


     Oscure intanto fumano le nubi
     su l’Apennino: grande, austera, verde
     da le montagne digradanti in cerchio
     l’Umbrïa guarda.


     Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
     nume Clitumno! Sento in cuor l’antica
     patria e aleggiarmi su l’accesa fronte
     gl’itali iddii.


     Chi l’ombre indusse del piangente salcio
     su’ rivi sacri? ti rapisca il vento
     de l’Apennino, o molle pianta, amore
     d’umili tempi!


     Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema
     co ‘l palpitante maggio ilice nera,
     a cui d’allegra giovinezza il tronco
     l’edera veste:


     qui folti a torno l’emergente nume
     stieno, giganti vigili, i cipressi;
     e tu fra l’ombre, tu fatali canta
     carmi, o Clitumno.


     O testimone di tre imperi, dinne
     come il grave umbro ne’ duelli atroce
     cesse a l’astato velite e la forte
     Etruria crebbe:


     di’ come sovra le congiunte ville
     dal superbo Címino a gran passi
     calò Gradivo poi, piantando i segni
     fieri di Roma.


     Ma tu placavi, indigete comune
     italo nume, i vincitori a i vinti,
     e, quando tonò il punico furore
     dal Trasimeno,


     per gli antri tuoi salí grido, e la torta
     lo ripercosse buccina da i monti:
     – O tu che pasci i buoi presso Mevania
     caliginosa,


     e tu che i proni colli ari alla sponda
     del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
     sopra Spoleto verdi o ne la marzia
     Todi fai nozze,


     lascia il bue grasso tra le canne, lascia
     il torel fulvo a mezzo solco, lascia
     ne l’inclinata quercia il cuneo, lascia
     la sposa a l’ara;


     e corri, corri, corri! con la scure
     corri e co’ dardi, con la clava e l’asta!
     corri! minaccia gl’itali penati
     Annibal diro. —


     Deh come rise d’alma luce il sole
     per questa chiostra di bei monti, quando
     urlanti vide e ruinanti in fuga
     l’alta Spoleto


     i Mauri immani e i númidi cavalli
     con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
     di ferro, flutti d’olio ardente, e i canti
     de la vittoria!


     Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
     la tenue miro salïente vena:
     trema, e d’un lieve pullular lo specchio
     segna de l’acque.


     Ride sepolta a l’imo una foresta
     breve, e rameggia immobile: il diaspro
     par che si mischi in flessuosi amori
     con l’ametista.


     E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
     de l’adamante rigido i riflessi,
     e splendon freddi e chiamano a i silenzi
     del verde fondo.


     A piè de i monti e de le querce a l’ombra
     co’ fiumi, o Italia, è de’ tuoi carmi il fonte.
     Visser le ninfe, vissero: e un divino
     talamo è questo.


     Emergean lunghe ne’ fluenti veli
     naiadi azzurre, e per la cheta sera
     chiamavan alto le sorelle brune
     da le montagne,


     e danze sotto l’imminente luna
     guidavan, liete ricantando in coro
     di Giano eterno e quanto amor lo vinse
     di Camesena.


     Egli dal cielo, autoctona virago
     ella: fu letto l’Apennin fumante:
     velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
     l’itala gente.


     Tutto ora tace, o vedovo Clitumno,
     tutto: de’ vaghi tuoi delúbri un solo
     t’avanza, e dentro pretestato nume
     tu non vi siedi.


     Non piú perfusi del tuo fiume sacro
     menano i tori, vittime orgogliose,
     trofei romani a i templi aviti: Roma
     piú non trionfa.


     Piú non trionfa, poi che un galileo
     di rosse chiome il Campidoglio ascese,
     gittolle in braccio una sua croce, e disse
     – Portala, e servi. —


     Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi
     occulte e dentro i cortici materni,
     od ululando dileguaron come
     nuvole a i monti,


     quando una strana compagnia, tra i bianchi
     templi spogliati e i colonnati infranti,
     procedé lenta, in neri sacchi avvolta,
     litanïando,


     e sovra i campi del lavoro umano
     sonanti e i clivi memori d’impero
     fece deserto, et il deserto disse
     regno di Dio.


     Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi
     padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
     ovunque il divo sol benedicea,
     maledicenti.


     Maledicenti a l’opre de la vita
     e de l’amore, ei deliraro atroci
     congiungimenti di dolor con Dio
     su rupi e in grotte:


     discesero ebri di dissolvimento
     a le cittadi, e in ridde paurose
     al crocefisso supplicaro, empi,
     d’essere abietti.


     Salve, o serena de l’Ilisso in riva,
     o intera e dritta a i lidi almi del Tebro
     anima umana! i foschi dí passaro,
     risorgi e regna.


     E tu, pia madre di giovenchi invitti
     a franger glebe e rintegrar maggesi,
     e d’annitrenti in guerra aspri polledri
     Italia madre,


     madre di biade e viti e leggi eterne
     ed inclite arti a raddolcir la vita,
     salve! a te i canti de l’antica lode
     io rinnovello.


     Plaudono i monti al carme e i boschi e l’acque
     de l’Umbria verde: in faccia a noi fumando
     ed anelando nuove industrie in corsa
     fischia il vapore.



   ROMA


     Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante:
     accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce.


     Non curïoso a te de le cose piccole io vengo:
     chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito?


     Che importa a me se l’irto spettral vinattier di Stradella
     mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi?


     e se il lungi operoso tessitor di Biella s’impiglia,
     ragno attirante in vano, dentro le reti sue?


     Cingimi, o Roma, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma:
     raggia divino il sole pe’ larghi azzurri tuoi.


     Ei benedice al fosco Vaticano, al bel Quirinale,
     al vecchio Capitolio santo fra le ruine;


     e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia
     a l’amor che diffuso splende per l’aure chete.


     Oh talamo grande, solitudini de la Campagna!
     e tu Soratte grigio, testimone in eterno!


     Monti d’Alba, cantate sorridenti l’epitalamio;
     Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli;


     mentr’io da ‘l Gianicolo ammiro l’imagin de l’urbe,
     nave immensa lanciata vèr’ l’impero del mondo.


     O nave che attingi con la poppa l’alto infinito,
     varca a’ misterïosi liti l’anima mia.


     Ne’ crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti
     tranquillamente lunghi su la Flaminia via,


     l’ora suprema calando con tacita ala mi sfiori
     la fronte, e ignoto io passi ne la serena pace;


     passi a i concilii de l’ombre, rivegga li spiriti magni
     de i padri conversanti lungh’esso il fiume sacro.



   ALESSANDRIA

 //-- A GIUSEPPE REGALDI QUANDO PUBBLICÒ «L’EGITTO» --// 

     Ne l’aula immensa di Lussor, su ‘l capo
     roggio di Ramse il mistico serpente
     sibilò ritto e ‘l vulture a sinistra
     volò stridendo,


     e da l’immenso serapèo di Memfi,
     cui stanno a guardia sotto il sol candente
     seicento sfingi nel granito argute,
     Api muggío,


     quando da i verdi immobili papiri
     di Mareoti al livido deserto
     sonò, tacendo l’aure intorno, questo
     greco peana.


     – Ecco, venimmo a salutarti, Egitto,
     noi figli d’Elle, con le cetre e l’aste.
     Tebe, dischiudi le tue cento porte
     ad Alessandro.


     Noi radduciamo a Giove Ammone un figlio
     ch’ei riconosca; questo caro alunno
     de la Tessaglia, questa bella e fiera
     stirpe d’Achille.


     Come odoroso läureto ondeggia
     a lui la chioma: la sua rosea guancia
     par Tempe in fiore: ha ne’ grand’occhi il sole
     ch’ a Olimpia ride:


     ha de l’Egeo la radïante in viso
     pace diffusa; se non quando, bianche
     nuvole, i sogni passanvi di gloria
     e poesia.


     Ei de la Grecia a la vendetta balza
     leon da l’aspra tessala falange,
     sgomina carri ed elefanti, abbatte
     satrapi e regi.


     Salve, Alessandro, in pace e in guerra iddio!
     A te la cetra fra le eburnee dita,
     a te d’argento il fulgid’arco in pugno,
     presente Apollo!


     A te i colloqui di Stagira, i baci
     a te co’ serti de le ionie donne,
     a te la coppa di Lieo spumante,
     a te l’Olimpo.


     Lisippo in bronzo ed in colori Apelle
     ti tragga eterno: ti sollevi Atene,
     chete de’ torvi demagoghi l’ire,
     al Partenone.


     Noi ti seguiamo: il Nilo in vano occulta
     i dogmi e il capo a la possanza nostra:
     noi farem pace qui tra i numi e al mondo
     luce comune.


     E se ti piaccia aggiogar tigri e linci,
     Bacco novello, noi verrem cantando,
     te duce, in riva al sacro Gange i sacri
     canti d’Omero. —


     Tale il peana de gli achei sonava.
     E il giovin duce, liberato il biondo
     capo da l’elmo, in fronte a la falange
     guardava il mare.


     Guardava il mare e l’isola di Faro
     innanzi, a torno il libico deserto
     interminato: dal sudato petto
     l’aurea corazza


     sciolse, e gittolla splendida nel piano:
     – Come la mia macedone corazza
     stia nel deserto e a’ barbari ed a gli anni
     regga Alessandria. —


     Disse; ed i solchi a le nascenti mura
     ei disegnava per ottanta stadi,
     bianco spargendo su le flave arene
     fior di farina.


     Tale il nipote del Pelíde estrusse
     la sua cittade; e Faro, inclito nome
     di luce al mondo, illuminò le vie
     d’Africa e d’Asia.


     E non il flutto del deserto urtante
     e non la fuga de i barbarici anni
     valse a domare quella balda figlia
     del greco eroe.


     Alacre, industre, a la sua terza vita
     ella sorgea, sollecitando i fati,
     qual la vedesti, o pellegrin poeta,
     ammiratore,


     quando fuggendo la incombente notte
     di tirannia, pien d’inni il caldo ingegno,
     ivi chiedendo libertade e luce
     a l’orïente,


     e su le tombe di turbanti insculte
     star la colonna di Pompeo vedesti
     come la forza del pensier latino
     su ‘l torbid’evo.


     Deh, le speranze de l’Egitto e i vanti
     nel tuo volume vivano, o poeta!
     Oggi Tifone l’ire del deserto
     agita e spira.


     Sepolto Osiri, il latratore Anubi
     morde a i calcagni la fuggente Europa,
     e avanti chiama i bestïali numi
     a le vendette.


     Ahi vecchia Europa, che su ‘l mondo spargi
     l’irrequïeta debolezza tua,
     come la triste fisa a l’orïente
     sfinge sorride!



   IN UNA CHIESA GOTICA


     Sorgono e in agili file dilungano
     gl’immani ed ardui steli marmorei,
     e ne la tenebra sacra somigliano
     di giganti un esercito


     che guerra mediti con l’invisibile:
     le arcate salgono chete, si slanciano
     quindi a vol rapide, poi si rabbracciano
     prone per l’alto e pendule.


     Ne la discordia cosí de gli uomini
     di fra i barbarici tumuli salgono
     a Dio gli aneliti di solinghe anime
     che in lui si ricongiungono.


     Io non Dio chieggovi, steli marmorei,
     arcate aeree: tremo, ma vigile
     al suon d’un cognito passo che piccolo
     i solenni echi suscita.


     È Lidia, e volgesi: lente nel volgersi
     le chiome lucide mi si disegnano,
     e amore e il pallido viso fuggevoli
     tra il nero velo arridono.


     Anch’ei, tra ‘l dubbio giorno d’un gotico
     tempio avvolgendosi, l’Alighier, trepido
     cercò l’imagine di Dio nel gemmeo
     pallore d’una femina.


     Sott’esso il candido vel, de la vergine
     la fronte limpida fulgea ne l’estasi,
     mentre fra nuvoli d’incenso fervide
     le litanie salíano;


     salian co’ murmuri molli, co’ fremiti
     lieti saliano d’un vol di tortore,
     e poi con l’ululo di turbe misere
     che al ciel le braccia tendono.


     Mandava l’organo pe’ cupi spazii
     sospiri e strepiti: da l’arche candide
     parea che l’anime de’ consanguinei
     sotterra rispondessero.


     Ma da le mitiche vette di Fiesole
     tra le pie storie pe’ vetri roseo
     guardava Apolline: su l’altar massimo
     impallidiano i cerei.


     E Dante ascendere tra inni d’angeli
     la tosca vergine transfigurantesi
     vedea, sentiasi sotto i piè ruggere
     rossi d’inferno i baratri.


     Non io le angeliche glorie né i démoni,
     io veggo un fievole baglior che tremola
     per l’umid’aere: freddo crepuscolo
     fascia di tedio l’anima.


     Addio, semitico nume! Continua
     ne’ tuoi misterii la morte domina.
     O inaccessibile re de gli spiriti,
     tuoi templi il sole escludono.


     Cruciato martire tu cruci gli uomini,
     tu di tristizia l’aër contamini:
     ma i cieli splendono, ma i campi ridono,
     ma d’amore lampeggiano


     gli occhi di Lidia. Vederti, o Lidia,
     vorrei tra un candido coro di vergini
     danzando cingere l’ara d’Apolline
     alta ne’ rosei vesperi


     raggiante in pario marmo tra i lauri,
     versare anemoni da le man, gioia
     da gli occhi fulgidi, dal labbro armonico
     un inno di Bacchilide.



   NELLA PIAZZA DI SAN PETRONIO


     Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
     e il colle sopra bianco di neve ride.


     È l’ora soave che il sol morituro saluta
     le torri e ‘l tempio, divo Petronio, tuo;


     le torri i cui merli tant’ala di secolo lambe,
     e del solenne tempio la solitaria cima.


     Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
     e l’aër come velo d’argento giace


     su ‘l foro, lieve sfumando a torno le moli
     che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.


     Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando
     con un sorriso languido di vïola,


     che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
     par che risvegli l’anima de i secoli,


     e un desio mesto pe ‘l rigido aëre sveglia
     di rossi maggi, di calde aulenti sere,


     quando le donne gentili danzavano in piazza
     e co’ i re vinti i consoli tornavano.


     Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
     un desiderio vano de la bellezza antica.



   LE DUE TORRI

   Asinella

     Io d’Italia dal cuor tra impeti d’inni balzai
     quando l’Alpi di barbari snebbiarono
     e su ‘l populeo Po pe ‘l verde paese i carrocci
     tutte le trombe reduci suonavano.

   Garisenda

     Memore sospirai sorgendo e la fronte io piegai
     su le ruine e su le tombe. Irnerio
     curvo tra i gran volumi sedeva e di Roma la grande
     lento parlava al palvesato popolo.

   Asinella

     Bello di maggio il dí ch’io vidi su ‘l ponte di Reno
     passar la gloria libera del popolo,
     sangue di Svevia, e te chinare la bionda cervice
     a l’ondeggiante rossa croce italica.

   Garisenda

     Triste mese di maggio, che intorno al bel corpo d’Imelda
     cozzâr le spade de i fratelli e corsero
     lunghi quaranta giorni le furie civili crollando
     tra ‘l vasto sangue l’ardue torri in polvere.

   Asinella

     Dante vid’io levar la giovine fronte a guardarci,
     e, come su noi passano le nuvole,
     vidi su lui passar fantasmi e fantasmi ed intorno
     premergli tutti i secoli d’Italia.

   Garisenda

     Sotto vidimi il papa venir con l’imperatore
     l’un a l’altro impalmati; ed oh me misera,
     in suo giudicio Dio non volle che io ruinassi
     su Carlo quinto e su Clemente settimo!



   FUORI ALLA CERTOSA DI BOLOGNA


     Oh caro a quelli che escon da le bianche e tacite case
     de i morti il sole! Giunge come il bacio d’un dio:


     bacio di luce che inonda la terra, mentre alto ed immenso
     cantano le cicale l’inno di messidoro.


     Il piano somiglia un mare superbo di fremiti e d’onde:
     ville, città, castelli emergono com’isole.


     Slanciansi lunghe tra ‘l verde polveroso e i pioppi le strade:
     varcano i ponti snelli con fughe d’archi il fiume.


     E tutto è fiamma ed azzurro. Da l’alpe là giú di Verona
     guardano solitarie due nuvolette bianche.


     Delia, a voi zefiro spira da ‘l colle pio de la Guardia
     che incoronato scende da l’Apennino al piano,


     v’agita il candido velo, e i ricci commove scorrenti
     giú con le nere anella per la superba fronte.


     Mentre domate i ribelli, gentil, con la mano, chinando
     gli occhi onde tante gioie promette in vano Amore,


     udite (a voi de le Muse lo spirito in cuore favella),
     udite giú sotterra ciò che dicono i morti.


     dormono a piè qui del colle gli avi umbri che ruppero primi
     a suon di scuri i sacri tuoi silenzi, Apennino:


     dormon gli etruschi discesi co ‘l liuto con l’asta con fermi
     gli occhi ne l’alto a’ verdi misterïosi clivi,


     e i grandi celti rossastri correnti a lavarsi la strage
     ne le fredde acque alpestri ch’ei salutavan Reno,


     e l’alta stirpe di Roma, e il lungo-chiomato lombardo
     ch’ultimo accampò sovra le rimboschite cime.


     Dormon con gli ultimi nostri. Fiammeggia il meriggio su ‘l colle:
     udite, o Delia, udite ciò che dicono i morti.


     Dicono i morti – Beati, o voi passeggeri del colle
     circonfusi da’ caldi raggi de l’aureo sole.


     Fresche a voi mormoran l’acque pe ‘l florido clivo scendenti,
     cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al vento.


     A voi sorridono i fiori sempre nuovi sopra la terra:
     a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. —


     Dicono i morti – Cogliete i fiori che passano anch’essi,
     adorate le stelle che non passano mai.


     Putridi squagliansi i serti d’intorno i nostri umidi teschi:
     ponete rose a torno le chiome bionde e nere.


     Freddo è qua giú: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda
     su la vita che passa l’eternità d’amore. —



   SU L’ADDA


     Corri, tra’ rosei fuochi del vespero,
     corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
     fiume, e il tenero amore,
     al sole occiduo naviga.


     Ecco, ed il memore ponte dilungasi:
     cede l’aereo de gli archi slancio,
     e al liquido s’agguaglia
     pian che allargasi e mormora.


     Le mura dirute di Lodi fuggono
     arrampicandosi nere al declivio
     verde e al docile colle.
     Addio, storia de gli uomini.


     Quando il romuleo marte ed il barbaro
     ruggîr ne’ ferrei cozzi, e qui vindice
     la rabbia di Milano
     arse in itali incendii,


     tu ancor dal Lario verso l’Eridano
     scendevi, o Addua, con desio placido,
     con murmure solenne,
     giú pe’ taciti pascoli.


     Quando su ‘l dubbio ponte tra i folgori
     passava il pallido còrso, recandosi
     di due secoli il fato
     ne l’esile man giovine,


     tu il molto celtico sangue ed il teutono
     lavavi, o Addua, via: su le tremule
     acque il nitrico fumo
     putrido disperdeasi.


     Moriano gli ultimi tuon de la folgore
     franca ne i concavi seni: volgeasi
     da i limpidi lavacri
     il bue candido, attonito.


     Ov’è or l’aquila di Pompeo? l’aquila
     ov’è de l’ispido sir di Soavia
     e del pallido còrso?
     Tu corri, o Addua cerulo.


     Corri tra’ rosei fuochi del vespero,
     corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
     fiume, e il tenero amore,
     al sole occiduo naviga.


     Sotto l’olimpico riso de l’aere
     la terra palpita: ogni onda accendesi
     e trepida risalta
     di fulgidi amor turgida.


     Molle de’ giovani prati l’effluvio
     va sopra l’umido pian: l’acque a’ margini
     di gemiti e sorrisi
     un suon morbido frangono.


     E il legno scivola lieve: tra le uberi
     sponde lo splendido fiume devolvesi:
     trascorrono de’ campi
     i grandi alberi, e accennano,


     e giú da gli alberi, su da le floride
     siepi, per l’auree strisce e le rosee,
     s’inseguono gli augelli
     e amore ilari mescono.


     Corri tra’ rosei fuochi del vespero,
     corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
     fiume naviga, e amore
     d’ambrosia irriga l’aure.


     Tra’ pingui pascoli sotto il sole aureo
     tu con Eridano scendi a confonderti:
     precipita a l’occaso
     il sole infaticabile.


     O sole, o Addua corrente, l’anima
     per un elisio dietro voi naviga:
     ove ella e il mutuo amore,
     o Lidia, perderannosi?


     Non so; ma perdermi lungi da gli uomini
     amo or di Lidia nel guardo languido,
     ove nuotano ignoti
     desiderii e misterii.



   DA DESENZANO

   A G. R.


     Gino, che fai sotto i felsinei portici?
     mediti come il gentil fior de l’Ellade
     d’Omero al canto e a lo scalpel di Fidia
     lieto sorgesse nel mattin de i popoli?


     Da l’Asinella gufi e nibbi stridono
     invidïando e i cari studi rompono.
     Fuggi, deh fuggi da coteste tenebre
     e al tuo poeta, o dolce amico, vientene.


     Vienne qui dove l’onda ampia del lidio
     lago tra i monti azzurreggiando palpita:
     vieni: con voce di faleuci chiàmati
     Sirmio che ancor del suo signore allegrasi.


     Vuole Manerba a te rasene istorie,
     vuole Muníga attiche fole intessere,
     mentre su i merli barbari fantasimi
     armi ed amori con il vento parlano.


     Ascoltiam sotto anacreòntea pergola
     o a la platonia verde ombra de’ platani,
     freschi votando gl’innovati calici
     che la Riviera del suo vino imporpora.


     Dolce tra i vini udir lontane istorie
     d’atavi, mentre il divo sol precipita
     e le pie stelle sopra noi viaggiano
     e tra l’onde e le fronde l’aura mormora.


     Essi che queste amene rive tennero
     te, come noi, bel sole, un dí goderono,
     o ti gittasser belve umane un fremito
     da le lacustri palafitte, o agili


     Veneti a l’onda le cavalle dessero
     trepida e fredda nel mattino roseo,
     o co ‘l tirreno lituo segnassero
     nel mezzogiorno le pietrose acropoli.


     Gino, ove inteso a le vittorie retiche
     o da le dacie glorïoso il milite
     in vigil ozio l’aquile romulee
     su ‘l lago affisse ricantando Cesare,


     ivi in fremente selva Desiderio
     agitò a caccia poi cignali e daini,
     fermo il pensiero a la corona ferrea
     fulgida in Roma per la via de’ Cesari.


     Gino, ove il giambo di Catullo rapido
     l’ala aprí sovra la distesa cerula,
     Lesbia chiamando tra l’odor de’ lauri
     con un saliente gemito per l’aere,


     ivi il compianto di lombarde monache
     salmodïando ascese vèr’ la candida
     luna e la requie mormorò su i giovani
     pallidi stesi sotto l’asta francica.


     E calerem noi pur giú tra i fantasimi
     cui né il sol veste di fulgor purpureo
     né le pie stelle sovra il capo ridono
     né de la vite il frutto i cuor letifica.


     Duci e poeti allor, fronti sideree,
     ne moveranno incontro, e «Di qual secolo
     – dimanderanno – di qual triste secolo
     a noi venite, pallida progenie?


     A voi tra’ cigli torva cura infóscasi
     e da l’angusto petto il cuore fumiga.
     Non ne la vita esercitammo il muscolo,
     e discendemmo grandi ombre tra gl’inferi».


     Gino, qui sotto anacreòntea pergola
     o a la platonia verde ombra de’ platani,
     qui, tra i bicchieri che il vin fresco imporpora,
     degna risposta meditiamo. Versasi


     cerula notte sovra il piano argenteo,
     move da Sirmio una canora imagine
     giú via per l’onda che soave mormora
     riscintillando a al curvo lido infrangesi.



   SIRMIONE


     Ecco: la verde Sirmio nel lucido lago sorride,
     fiore de le penisole.


     Il sol la guarda e vezzeggia: somiglia d’intorno il Benaco
     una gran tazza argentea,


     cui placido olivo per gli orli nitidi corre
     misto a l’eterno lauro.


     Questa raggiante coppa Italia madre protende,
     alte le braccia, a i superi;


     ed essi da i cieli cadere vi lasciano Sirmio,
     gemma de le penisole.


     Baldo, paterno monte, protegge la bella da l’alto
     co ‘l sopracciglio torbido:


     il Gu sembra un titano per lei caduto in battaglia,
     supino e minaccevole.


     Ma incontro le porge dal seno lunato a sinistra
     Salò le braccia candide,


     lieta come fanciulla che in danza entrando abbandona
     le chiome e il velo a l’aure,


     e ride e gitta fiori con le man piene, e di fiori
     le esulta il capo giovine.


     Garda là in fondo solleva la ròcca sua fosca
     sovra lo specchio liquido,


     cantando una saga d’antiche cittadi sepolte
     e di regine barbare.


     Ma qui, Lalage, donde per tanta pia gioia d’azzurro
     tu mandi il guardo e l’anima,


     qui Valerio Catullo, legato giú a’ nitidi sassi
     il fasèlo britinico,


     sedeasi i lunghi giorni, e gli occhi di Lesbia ne l’onda
     fosforescente e tremula,


     e ‘l perfido riso di Lesbia e i multivoli ardori
     vedea ne l’onda vitrea,


     mentr’ella stancava pe’ neri angiporti le reni
     a i nepoti di Romolo.


     A lui da gli umidi fondi la ninfa del lago cantava
     – Vieni, o Quinto Valerio.


     Qui ne le nostre grotte discende anche il sole, ma bianco
     e mite come Cintia.


     Qui de la vostra vita gli assidui tumulti un lontano
     d’api sussurro paiono,


     e nel silenzio freddo le insanie e le trepide cure
     in lento oblio si sciolgono.


     Qui ‘l fresco, qui ‘l sonno, qui musiche leni ed i cori
     de le cerule vergini,


     mentr’Espero allunga la rosea face su l’acque
     e i flutti al lido gemono. —


     Ahi triste Amore! egli odia le Muse, e lascivo i poeti
     frange o li spegne tragico.


     Ma chi da gli occhi tuoi, che lunghe intentano guerre,
     chi ne assecura, o Lalage?


     Cogli a le pure Muse tre rami di lauro e di mirto,
     e al Sole eterno li agita.


     Non da Peschiera vedi natanti le schiere de’ cigni
     giú per il Mincio argenteo?


     da’ verdi paschi dove Bianore dorme non odi
     la voce di Virgilio?


     Volgiti, Lalage, e adora. Un grande severo s’affaccia
     a la torre scaligera.


     – Suso in Italia bella – sorridendo ei mormora, e guarda
     l’acqua la terra e l’aere.



   DAVANTI IL CASTEL VECCHIO DI VERONA


     Tal mormoravi possente e rapido
     sotto i romani ponti, o verde Adige,
     brillando dal limpido gorgo,
     la tua scorrente canzone al sole,


     quando Odoacre dinanzi a l’impeto
     di Teodorico cesse, e tra l’erulo
     eccidio passavan su i carri
     diritte e bionde le donne amàle


     entro la bella Verona, odinici
     carmi intonando: raccolta al vescovo
     intorno, l’italica plebe
     sporgea la croce supplice a’ Goti.


     Tale da i monti di neve rigidi,
     ne la diffusa letizia argentea
     del placido verno, o fuggente
     infaticato, mormori e vai


     sotto il merlato ponte scaligero,
     tra nere moli, tra squallidi alberi,
     a i colli sereni, a le torri,
     onde abbrunate piangon le insegne


     il ritornante giorno funereo
     del primo eletto re da l’Italia
     francata: tu, Adige, canti
     la tua scorrente canzone al sole.


     Anch’io, bel fiume, canto: e il mio cantico
     nel picciol verso raccoglie i secoli,
     e il cuore al pensiero balzando
     segue la strofe che sorge e trema.


     Ma la mia strofe vanirà torbida
     ne gli anni: eterno poeta, o Adige,
     tu ancor tra le sparse macerie
     di questi colli turriti, quando


     su le rovine de la basilica
     di Zeno al sole sibili il còlubro,
     ancor canterai nel deserto
     i tedi insonni de l’infinito.



   PER LA MORTE DI NAPOLEONE EUGENIO


     Questo la inconscia zagaglia barbara
     prostrò, spegnendo li occhi di fulgida
     vita sorrisi da i fantasmi
     fluttuanti ne l’azzurro immenso.


     L’altro, di baci sazio in austriache
     piume e sognante su l’albe gelide
     le dïane e il rullo pugnace,
     piegò come pallido giacinto.


     Ambo a le madri lungi; e le morbide
     chiome fiorenti di puerizia
     pareano aspettare anche il solco
     de la materna carezza. In vece


     balzâr ne ‘l buio, giovinette anime,
     senza conforti; né de la patria
     l’eloquio seguivali al passo
     co’ i suon de l’amore e de la gloria.


     Non questo, o fosco figlio d’Ortensia,
     non questo avevi promesso al parvolo:
     gli pregasti in faccia a Parigi
     lontani i fati del re di Roma.


     Vittoria e pace da Sebastopoli
     sopían co ‘l rombo de l’ali candide
     il piccolo: Europa ammirava:
     la Colonna splendea come un faro.


     Ma di decembre, ma di brumaio
     cruento è il fango, la nebbia è perfida:
     non crescono arbusti a quell’aure,
     o dan frutti di cenere e tòsco.


     O solitaria casa d’Aiaccio,
     cui verdi e grandi le querce ombreggiano
     e i poggi coronan sereni
     e davanti le risuona il mare!


     Ivi Letizia, bel nome italico
     che omai sventura suona ne i secoli,
     fu sposa, fu madre felice,
     ahi troppo breve stagione! ed ivi,


     lanciata a i troni l’ultima folgore,
     date concordi leggi tra i popoli,
     dovevi, o consol, ritrarti
     fra il mare e Dio cui tu credevi.


     Domestica ombra Letizia or abita
     la vuota casa; non lei di Cesare
     il raggio precinse: la còrsa
     madre visse fra le tombe e l’are.


     Il suo fatale da gli occhi d’aquila,
     le figlie come l’aurora splendide,
     frementi speranza i nepoti,
     tutti giacquer, tutti a lei lontano.


     Sta ne la notte la còrsa Niobe,
     sta sulla porta donde al battesimo
     le uscïano i figli, e le braccia
     fiera tende su ‘l selvaggio mare:


     e chiama, chiama, se da l’Americhe,
     se di Britannia, se da l’arsa Africa
     alcun di sua tragica prole
     spinto da morte le approdi in seno.



   A GIUSEPPE GARIBALDI

   III NOVEMBRE MDCCCLXXX


     Il dittatore, solo, a la lugubre
     schiera d’avanti, ravvolto e tacito
     cavalca: la terra ed il cielo
     squallidi, plumbei, freddi intorno.


     Del suo cavallo la pésta udivasi
     guazzar nel fango: dietro s’udivano
     passi in cadenza, ed i sospiri
     de’ petti eroici ne la notte.


     Ma da le zolle di strage livide,
     ma da i cespugli di sangue roridi,
     dovunque era un povero brano,
     o madri italiche, de i cuor vostri,


     saliano fiamme ch’astri parevano,
     sorgeano voci ch’inni suonavano:
     splendea Roma olimpica in fondo,
     correa per l’aëre un peana.


     – Surse in Mentana l’onta de i secoli
     dal triste amplesso di Pietro e Cesare:
     tu hai, Garibaldi, in Mentana
     su Pietro e Cesare posto il piede.


     O d’Aspromonte ribelle splendido,
     o di Mentana superbo vindice,
     vieni e narra Palermo e Roma
     in Capitolïo a Camillo. —


     Tale un’arcana voce di spiriti
     correa solenne pe ‘l ciel d’Italia
     quel dí che guairono i vili,
     botoli timidi de la verga.


     Oggi l’Italia t’adora. Invòcati
     la nuova Roma novello Romolo:
     tu ascendi, o divino: di morte
     lunge i silenzii dal tuo capo.


     Sopra il comune gorgo de l’anime
     te rifulgente chiamano i secoli
     a le altezze, al puro concilio
     de i numi indigeti su la patria.


     Tu ascendi. E Dante dice a Virgilio
     «Mai non pensammo a forma piú nobile
     d’eroe». Dice Livio, e sorride,
     «È de la storïa, o poeti.


     De la civile storia d’Italia
     è quest’audacia tenace ligure,
     che posa nel giusto, ed a l’alto
     mira, e s’irradia ne l’ideale».


     Gloria a te, padre. Nel torvo fremito
     spira de l’Etna, spira ne’ turbini
     de l’alpe il tuo cor di leone
     incontro a’ barbari ed a’ tiranni.


     Splende il soave tuo cor nel cerulo
     riso del mare del ciel de i floridi
     maggi diffuso su le tombe
     su’ marmi memori de gli eroi.



   SCOGLIO DI QUARTO


     Breve ne l’onda placida avanzasi
     striscia di sassi. Boschi di lauro
     frondeggiano dietro spirando
     effluvi e murmuri ne la sera.


     Davanti, larga, nitida, candida
     splende la luna: l’astro di Venere
     sorridele presso e del suo
     palpito lucido tinge il cielo.


     Par che da questo nido pacifico
     in picciol legno l’uom debba movere
     secreto a colloqui d’amore
     leni su zefiri, la sua donna


     fisa guatando l’astro di Venere.
     Italia, Italia, donna de i secoli,
     de’ vati e de’ martiri donna,
     inclita vedova dolorosa,


     quindi il tuo fido mosse cercandoti
     pe’ mari. Al collo leonino avvoltosi
     il puncio, la spada di Roma
     alta su l’omero bilanciando,


     stiè Garibaldi. Cheti venivano
     a cinque a dieci, poi dileguavano,
     drappelli oscuri, ne l’ombra,
     i mille vindici del destino,


     come pirati che a preda gissero;
     ed a te occulti givano, Italia,
     per te mendicando la morte
     al cielo, al pelago, a i fratelli.


     Superba ardeva di lumi e cantici
     nel mar morenti lontano Genova
     al vespro lunare dal suo
     arco marmoreo di palagi.


     Oh casa dove presago genio
     a Pisacane segnava il transito
     fatale, oh dimora onde Aroldo
     sití l’eroico Missolungi!


     Una corona di luce olimpica
     cinse i fastigi bianchi in quel vespero
     del cinque di maggio. Vittoria
     fu il sacrificio, o poesia.


     E tu ridevi, stella di Venere,
     stella d’Italia, stella di Cesare:
     non mai primavera piú sacra
     d’animi italici illuminasti,


     da quando ascese tacita il Tevere
     d’Enea la prora d’avvenir gravida
     e cadde Pallante appo i clivi
     che sorger videro l’alta Roma.



   SALUTO ITALICO


     Molosso ringhia, o antichi versi italici,
     ch’io co ‘l batter del dito seguo o richiamo i numeri


     vostri dispersi, come api che al rauco
     suon del percosso rame ronzando si raccolgono.


     Ma voi volate dal mio cuor, com’aquile
     giovinette dal nido alpestre a i primi zefiri.


     Volate, e ansiosi interrogate il murmure
     che giú per l’alpi giulie, che giú per l’alpi retiche


     da i verdi fondi i fiumi a i venti mandano,
     grave d’epici sdegni, fiero di canti eroici.


     Passa come un sospir su ‘l Garda argenteo,
     è pianto d’Aquileia su per le solitudini.


     Odono i morti di Bezzecca, e attendono:
     «Quando?» grida Bronzetti, fantasma erto fra i nuvoli.


     «Quando?» i vecchi fra sé mesti ripetono,
     che un dí con nere chiome l’addio, Trento, ti dissero.


     «Quando?» fremono i giovani che videro
     pur ieri da San Giusto ridere Glauco l’Adria.


     Oh al bel mar di Trieste, a i poggi, a gli animi
     volate co ‘l nuovo anno, antichi versi italici:


     ne’ rai del sol che San Petronio imporpora
     volate di San Giusto sovra i romani ruderi!


     Salutate nel golfo Giustinopoli,
     gemma de l’Istria, e il verde porto e il leon di Muggia;


     salutate il divin riso de l’Adria
     fin dove Pola i templi ostenta a Roma e a Cesare!


     Poi presso l’urna, ove ancor tra’ due popoli
     Winckelmann guarda, araldo de l’arti e de la gloria,


     in faccia a lo stranier, che armato accampasi
     su ‘l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!



   A UNA BOTTIGLIA DI VALTELLINA DEL


     E tu pendevi tralcio da i retici
     balzi odorando florido al murmure
     de’ fiumi da l’alpe volgenti
     ceruli in fuga spume d’argento,


     quando l’aprile d’itala gloria
     da ‘l Po rideva fino a lo Stelvio
     e il popol latino si cinse
     su l’Austria cingol di cavaliere.


     E tu nel tino bollivi torbido
     prigione, quando d’italo spasimo
     ottobre fremeva e Chiavenna,
     oh Rezia forte!, schierò a Vercea


     sessanta ancora di morte libera
     petti assetati: Hainau gli aspri animi
     contenne e i cavalli de l’Istro
     ispidi in vista dei tre colori.


     Rezia, salute! di padri liberi
     figlia ed a nuove glorie più libera!
     È bello al bel sole de l’alpi
     mescere il nobil tuo vin cantando:


     cantando i canti de i giorni italici,
     quando a’ tuoi passi correano i popoli,
     splendea tra le nevi la nostra
     bandiera sopra l’austriaca fuga.


     A i noti canti lievi ombre sorgono
     quei che anelando vittoria caddero?
     Sia gloria, o fratelli! Non anche,
     l’opra del secol non anche è piena.


     Ma nei vegliardi vige il vostro animo,
     il sangue vostro ferve ne i giovani:
     o Italia, daremo il altre alpi
     inclita a i venti la tua bandiera.



   MIRAMAR


     O Miramare, a le tue bianche torri
     attedïate per lo ciel piovorno
     fosche con volo di sinistri augelli
     vengon le nubi.


     O Miramare, contro i tuoi graniti
     grige dal torvo pelago salendo
     con un rimbrotto d’anime crucciose
     battono l’onde.


     Meste ne l’ombra de le nubi a’ golfi
     stanno guardando le città turrite,
     Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo
     gemme del mare;


     e tutte il mare spinge le mugghianti
     collere a questo bastïon di scogli
     onde t’affacci a le due viste d’Adria,
     rocca d’Absburgo;


     e tona il cielo a Nabresina lungo
     la ferrugigna costa, e di baleni
     Trieste in fondo coronata il capo
     leva tra’ nembi.


     Deh come tutto sorridea quel dolce
     mattin d’aprile, quando usciva il biondo
     imperatore, con la bella donna,
     a navigare!


     A lui dal volto placida raggiava
     la maschia possa de l’impero: l’occhio
     de la sua donna cerulo e superbo
     iva su ‘l mare.


     Addio, castello pe’ felici giorni
     nido d’amore costruito in vano!
     Altra su gli ermi oceani rapisce
     aura gli sposi.


     Lascian le sale con accesa speme
     istorïate di trionfi e incise
     di sapïenza. Dante e Goethe al sire
     parlano in vano


     de le animose tavole: una sfinge
     l’attrae con vista mobile su l’onde:
     ei cede, e lascia aperto a mezzo il libro
     del romanziero.


     Oh non d’amore e d’avventura il canto
     fia che l’accolga e suono di chitarre
     là ne la Spagna de gli Aztechi! Quale
     lunga su l’aure


     vien da la trista punta di Salvore
     nenia tra ‘l roco piangere de’ flutti?
     Cantano i morti veneti o le vecchie
     fate istriane?


     – Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro,
     figlio d’Absburgo, la fatal Novara.
     Teco l’Erinni sale oscura e al vento
     apre la vela.


     Vedi la sfinge tramutar sembiante
     a te d’avanti perfida arretrando!
     È il viso bianco di Giovanna pazza
     contro tua moglie.


     È il teschio mózzo contro te ghignante
     d’Antonïetta. Con i putridi occhi
     in te fermati è l’irta faccia gialla
     di Montezuma.


     Tra boschi immani d’agavi non mai
     mobili ad aura di benigno vento,
     sta ne la sua piramide, vampante
     livide fiamme


     per la tenèbra tropicale, il dio
     Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,
     e navigando il pelago co ‘l guardo
     ulula – Vieni.


     Quant’è che aspetto! La ferocia bianca
     strussemi il regno ed i miei templi infranse;
     vieni, devota vittima, o nepote
     di Carlo quinto.


     Non io gl’infami avoli tuoi di tabe
     marcenti o arsi di regal furore;
     te io voleva, io colgo te, rinato
     fiore d’Absburgo;


     e a la grand’alma di Guatimozino
     regnante sotto il padiglion del sole
     ti mando inferia, o puro, o forte, o bello
     Massimiliano. —



   ALLA REGINA D’ITALIA

   XX NOV. MDCCCLXXVIII


     Onde venisti? Quali a noi secoli
     sí mite e bella ti tramandarono?
     fra i canti de’ sacri poeti
     dove un giorno, o regina, ti vidi?


     Ne le ardue rocche, quando tingeasi
     a i latin’ soli la fulva e cerula
     Germania, e cozzavan nel verso
     nuovo l’armi tra lampi d’amore?


     Seguiano il cupo ritmo monotono
     trascolorando le bionde vergini,
     e al ciel co’ neri umidi occhi
     impetravan mercé per la forza.


     O ver ne i brevi dí che l’Italia
     fu tutta un maggio, che tutto il popolo
     era cavaliere? Il trionfo
     d’Amor gía tra le case merlate


     in su le piazze liete di candidi
     marmi, di fiori, di sole; e «O nuvola
     che in ombra d’amore trapassi, —
     l’Alighieri cantava – sorridi!»


     Come la bianca stella di Venere
     ne l’april novo surge da’ vertici
     de l’alpi, ed il placido raggio
     su le nevi dorate frangendo


     ride a la sola capanna povera,
     ride a le valli d’ubertà floride,
     e a l’ombra de’ pioppi risveglia
     li usignoli e i colloqui d’amore:


     fulgida e bionda ne l’adamàntina
     luce del serto tu passi, e il popolo
     superbo di te si compiace
     qual di figlia che vada a l’altare;


     con un sorriso misto di lacrime
     la verginetta ti guarda, e trepida
     le braccia porgendo ti dice
     come a suora maggior «Margherita!»


     E a te volando la strofe alcaica,
     nata ne’ fieri tumulti libera,
     tre volte ti gira la chioma
     con la penna che sa le tempeste:


     e, Salve, dice cantando, o inclita
     a cui le Grazie corona cinsero,
     a cui sí soave favella
     la pietà ne la voce gentile!


     Salve, o tu buona, sin che i fantasimi
     di Raffaello ne’ puri vesperi
     trasvolin d’Italia e tra’ lauri
     la canzon del Petrarca sospiri!



   COURMAYEUR


     Conca in vivo smeraldo tra foschi passaggi dischiusa,
     o pia Courmayeur, ti saluto.
     Te da la gran Giurassa da l’ardüa Grivola bella
     il sole piú amabile arride.


     Blandi misteri a te su’ boschi d’abeti imminente
     la gelida luna diffonde,
     mentre co ‘l fiso albor da gli ermi ghiacciaï risveglia
     fantasime ed ombre moventi.


     Te la vergine Dora, che sa le sorgive de’ fonti
     e sa de le genti le cune,
     cerula irriga, e canta; gli arcani ella canta de l’alpi
     e i carmi de’ popoli e l’armi.


     De la valanga il tuon da l’orrida Brenva rintrona
     e rotola giú per neri antri:
     sta su ‘l verone in fior la vergine, e tende lo sguardo,
     e i verni passati ripensa.


     Ma da’ pendenti prati di rosso papavero allegri
     tra gli orzi e le segali bionde
     spicca l’alauda il volo trillando l’aerea canzone:
     io medito i carmi sereni.


     Salve, o pia Courmayeur, che l’ultimo riso d’Italia
     al piè del gigante de l’Alpi
     rechi soave! te, datrice di posa e di canti,
     io reco nel verso d’Italia.


     Va su’ tuoi verdi prati l’ombria de le nubi fuggenti,
     e va su’ miei spirti la musa.
     Amo al lucido e freddo mattin da’ tuoi sparsi casali
     il fumo che ascende e s’avvolge


     bigio al bianco vapor da l’are de’ monti smarrito
     nel cielo divino. Si perde
     l’anima in lento error: vien da le compiante memorie
     e attinge l’eterne speranze.



   IL LIUTO E LA LIRA

 //-- A MARGHERITA REGINA D’ITALIA --// 

     Quando la Donna Sabauda il fulgido
     sguardo al lïuto reca e su ‘l memore
     ministro d’eroici lai
     la mano e l’inclita fronte piega,


     commove un conscio spirito l’agili
     corde, e dal seno concavo mistico
     la musa de’ tempi che fûro
     sale aspersa di faville d’oro;


     e un coro e un canto di forme aeree,
     quali già vide l’Alighier movere
     ne’ giri d’armonica stanza,
     cinge l’italica Margherita.


     «Io – dice l’una, cui la cesarie
     inonda bionda gli omeri nivei
     e gli occhi natanti nel lume
     de l’estasi chiedono le sfere —


     io son, regina, – dice – la nobile
     Canzone; e a’ cieli volai da l’anima
     di Dante, quand’egli nel maggio
     angeli e spiriti lineava.


     Io del Petrarca sovra le lacrime
     passai tingendo d’azzurro l’aere
     e accesi corone di stelle
     in su l’aurea treccia d’Avignone.


     Non mai piú alto sospiro d’anime
     surse dal canto. Di te le laudi
     a’ due leverò che l’Italia
     poeti massimi rivelaro».


     «A me la terra piace – nel cantico
     una seconda balzando applaude
     con l’asta e lo scudo, e da l’elmo
     fosca fugge a’ venti la criniera —.


     Piace, se lampi d’acciaio solcano,
     se ferrei nembi rompono l’aere
     e cadon le insegne davanti
     al flutto e a l’impeto de’ cavalli.


     A cui la morte teme non ridono
     le muse in cielo, quaggiú le vergini.
     Avanti, Savoia! non anche
     tutta desti la bandiera al vento.


     La Sirventese sono. A me l’aquila
     che da Superga rivola al Tevere
     e i folgori stringe severa
     dritta ne l’iride tricolore»


     «Ed io – la terza dice, di mammole
     vïole un cerchio tessendo, e semplice
     di rose e ligustri il sembiante
     ombra sotto la castanea chioma —


     la Pastorella sono. Di facili
     amori e sdegni, danze e tripudii,
     non piú rendo gli echi: una nube
     va di tristizïa su la terra.


     A te da’ verdi mugghianti pascoli,
     da’ biondi campi, da le pomifere
     colline, da’ boschi sonanti
     di scuri e dal fumo de’ tuguri,


     io reco il blando riso de’ parvoli,
     di spose e figlie reco le lacrime
     e i cenni de’ capi canuti
     che ti salutano pïa madre».


     Tali, o Signora, forme e fantasimi
     a voi d’intorno cantando volano
     dal vago liuto: a la lira
     io li do di Roma imperïante,


     qui dove l’Alpi de le virginee
     cime piú al sole diffusa raggiano
     la bianca letizia da immenso
     circolo, e cerula tra l’argento


     per i tonanti varchi precipita
     la Dora a valle cercando Italia,
     e sceser vostri avi ferrati
     con la spada e con la bianca croce.


     Dal grande altare nival gli spiriti
     del Montebianco sorgono attoniti,
     a udire l’eloquio di Dante,
     ne’ ritmi fulgidi di Venosa,


     dopo cotanto strazio barbarico
     ponendo verde sempre di gloria
     il lauro di Livia a la fronte
     de la Sabauda Margherita,


     a voi, traverso l’onde de i secoli,
     di due forti evi ricantar l’anima,
     o figlia e regina del sacro
     rinnovato popolo latino.




   DELLE ODI BARBARE. LIBRO II


   CÈRILO


     Non sotto ferrea punta che strida solcando maligna
     dietro un pensier di noia l’aride carte bianche;


     sotto l’adulto sole, nel palpito mosso da’ venti
     pe’ larghi campi aprici, lungo un bel correr d’acque,


     nasce il sospir de’ cuori che perdesi ne l’infinito,
     nasce il dolce e pensoso fior de la melodia.


     Qui brilla il maggio effuso ne l’aere odorato di rose,
     brillano gli occhi vani, dormon ne’ petti i cuori:


     dormono i cuor, si drizzan le orecchie facili quando
     la variopinta strilla nota de la Gioconda.


     Oh de le Muse l’ara dal verde vertice bianca
     su ‘l mare! Alcmane guida i virginei cori:


     «Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza,
     come il cèrilo vola tratto da le alcïoni:


     vola con le alcïoni tra l’onde schiumanti in tempesta,
     cèrilo purpureo nunzio di primavera».



   FANTASIA


     Tu parli; e, de la voce a la molle aura
     lenta cedendo, si abbandona l’anima
     del tuo parlar su l’onde carezzevoli,
     e a strane plaghe naviga.


     Naviga in un tepor di sole occiduo
     ridente a le cerulee solitudini:
     tra cielo e mar candidi augelli volano,
     isole verdi passano,


     e i templi su le cime ardui lampeggiano
     di candor pario ne l’occaso roseo,
     ed i cipressi de la riva fremono,
     e i mirti densi odorano.


     Erra lungi l’odor su le salse aure
     e si mesce al cantar lento de’ nauti,
     mentre una nave in vista al porto ammàina
     le rosse vele placida.


     Veggo fanciulle scender da l’acropoli
     in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
     serti hanno al capo, in man rami di lauro,
     tendon le braccia e cantano.


     Piantata l’asta in su l’arena patria,
     a terra salta un uom ne l’armi splendido:
     è forse Alceo da le battaglie reduce
     a le vergini lesbie?



   RUIT HORA


     O desïata verde solitudine
     lungi al rumor de gli uomini!
     qui due con noi divini amici vengono,
     vino ed amor, o Lidia.


     Deh, come ride nel cristallo nitido
     Lieo, l’eterno giovine!
     come ne gli occhi tuoi, fulgida Lidia,
     trïonfa amore e sbendasi!


     Il sol traguarda basso ne la pergola,
     e si rinfrange roseo
     nel mio bicchiere: aureo scintilla e tremola
     fra le tue chiome, o Lidia.


     Fra le tue nere chiome, o bianca Lidia,
     langue una rosa pallida;
     e una dolce a me in cuor tristezza súbita
     tempra d’amor gl’incendii.


     Dimmi: perché sotto il fiammante vespero
     misterïosi gemiti
     manda il mare là giú? quai canti, o Lidia,
     tra lor quei pini cantano?


     Vedi con che desio quei colli tendono
     le braccia al sole occiduo:
     cresce l’ombra e li fascia: ei par che chiedano
     il bacio ultimo, o Lidia.


     Io chiedo i baci tuoi, se l’ombra avvolgemi,
     Lieo, dator di gioia:
     io chiedo gli occhi tuoi, fulgida Lidia,
     se Iperïon precipita.


     E precipita l’ora. O bocca rosea,
     schiuditi: o fior de l’anima,
     o fior del desiderio, apri i tuoi calici:
     o care braccia, apritevi.



   ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D’AUTUNNO


     Oh quei fanali come s’inseguono
     accidïosi là dietro gli alberi,
     tra i rami stillanti di pioggia
     sbadigliando la luce su ‘l fango!


     Flebile, acuta, stridula fischia
     la vaporiera da presso. Plumbeo
     il cielo e il mattino d’autunno
     come un grande fantasma n’è intorno.


     Dove e a che move questa, che affrettasi
     a’ carri foschi, ravvolta e tacita
     gente? a che ignoti dolori
     o tormenti di speme lontana?


     Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
     al secco taglio dài de la guardia,
     e al tempo incalzante i begli anni
     dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.


     Van lungo il nero convoglio e vengono
     incappucciati di nero i vigili,
     com’ombre; una fioca lanterna
     hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei


     freni tentati rendono un lugubre
     rintocco lungo: di fondo a l’anima
     un’eco di tedio risponde
     doloroso, che spasimo pare.


     E gli sportelli sbattuti al chiudere
     paion oltraggi: scherno par l’ultimo
     appello che rapido suona:
     grossa scroscia su’ vetri la pioggia.


     Già il mostro, conscio di sua metallica
     anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
     occhi sbarra; immane pe ‘l buio
     gitta il fischio che sfida lo spazio.


     Va l’empio mostro; con traino orribile
     sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
     Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
     salutando scompar ne la tènebra.


     O viso dolce di pallor roseo,
     o stellanti occhi di pace, o candida
     tra’ floridi ricci inchinata
     pura fronte con atto soave!


     Fremea la vita nel tepid’aere,
     fremea l’estate quando mi arrisero;
     e il giovine sole di giugno
     si piacea di baciar luminoso


     in tra i riflessi del crin castanei
     la molle guancia: come un’aureola
     piú belli del sole i miei sogni
     ricingean la persona gentile.


     Sotto la pioggia, tra la caligine
     torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
     barcollo com’ebro, e mi tócco,
     non anch’io fossi dunque un fantasma.


     Oh qual caduta di foglie, gelida,
     continua, muta, greve, su l’anima!
     io credo che solo, che eterno,
     che per tutto nel mondo è novembre.


     Meglio a chi ‘l senso smarrí de l’essere,
     meglio quest’ombra, questa caligine:
     io voglio io voglio adagiarmi
     in un tedio che duri infinito.



   MORS

 //-- NELL’EPIDEMIA DIFTERICA --// 

     Quando a le nostre case la diva severa discende,
     da lungi il rombo de la volante s’ode,


     e l’ombra de l’ala che gelida gelida avanza
     diffonde intorno lugubre silenzïo.


     Sotto la venïente ripiegano gli uomini il capo,
     ma i sen feminei rompono in aneliti.


     Tale de gli alti boschi, se luglio il turbine addensa,
     non corre un fremito per le virenti cime:


     immobili quasi per brivido gli alberi stanno,
     e solo il rivo roco s’ode gemere.


     Entra ella, e passa, e tocca; e senza pur volgersi atterra
     gli arbusti lieti di lor rame giovani;


     miete le bionde spiche, strappa anche i grappoli verdi,
     coglie le spose pie, le verginette vaghe


     ed i fanciulli: rosei tra l’ala nera ei le braccia
     al sole a i giuochi tendono e sorridono.


     Ahi tristi case dove tu innanzi a’ vólti de’ padri,
     pallida muta diva, spegni le vite nuove!


     Ivi non piú le stanza sonanti di risi e di festa
     o di bisbigli, come nidi d’augelli a maggio:


     ivi non piú il rumore de gli anni lieti crescenti,
     non de gli amor le cure, non d’Imeneo le danze:


     invecchian ivi ne l’ombra i superstiti, al rombo
     del tuo ritorno teso l’orecchio, o dea.



   UNA SERA DI SAN PIETRO


     Ricordo. Fulvo il sole tra i rossi vapori e le nubi
     calde al mare scendeva, come un grande clipeo di rame
     che in barbariche pugne corrusca ondeggiando, poi cade.
     Castiglioncello in alto fra mucchi di querce ridea
     da le vetrate un folle vermiglio sogghigno di fata.
     Ma io languido e triste (da poco avea scosso la febbre
     maremmana, ed i nervi pesavanmi come di piombo)
     guardava a la finestra. Le rondini rapide i voli
     sghembi tessevano e ritessevano intorno le gronde,
     e le passere brune strepïano al vespro maligno.
     Brevi d’entro la macchia svariavano il piano ed i colli,
     rasi a metà da la falce, in parte ancor mobili e biondi.
     Via per i solchi grigi le stoppie fumavano accese:
     or sí or no veniva su per le aure umide il canto
     de’ mietitori, lungo, lontano, piangevole, stanco:
     grave l’afa stringeva l’aër, la marina, le piante.
     Io levai gli occhi al sole – O lume superbo del mondo,
     tu su la vita guardi com’ebro ciclope da l’alto! —
     Gracchiarono i pavoni schernendomi tra i melograni,
     e un vipistrello sperso passommi radendo su ‘l capo.



   PE ‘L CHIARONE DA CIVITAVECCHIA

 //-- LEGGENDO IL MARLOWE --// 

     Calvi, aggrondati, ricurvi, sí come becchini a la fossa,
     stan radi alberi in cerchio de la sucida riva.


     Stendonsi livide l’acque in linea lunga che trema
     sotto squallido cielo per la lugubre macchia.


     Bevon le nubi dal mare con pendule trombe, ed il sole
     piove sprazzi di riso torbido sovra i poggi.


     I poggi sembrano capi di tignosi ne l’ospitale,
     l’un fastidisce l’altro da’ finitimi letti.


     Scattan su da un cespuglio co ‘l guizzo di frecce mancate
     due neri uccelli: cala con pigre ruote un falco.


     Corrono, mentr’io leggo Marlowe, le smunte cavalle
     de la vettura: il sole scema, la pioggia freme.


     Ed ecco a poco a poco la selva infóscasi orrenda,
     la selva, o Dante, d’alberi e di spiriti,


     dove tra piante strane tu strane ascoltasti querele,
     dove troncasti il pruno ch’era Pier de la Vigna.


     Io leggo ancora Marlowe. Dal reo verso bieco, simile
     a sogno d’uomo cui molta birra gravi,


     d’odii et incèsti e morti balzando tra forme angosciose
     esala un vapor acre d’orrida tristizia,


     che sale e fuma, e misto a l’aër maligno feconda
     di mostri intorno le pendenti nuvole,


     crocida in fondo a’ fossi, ferrugigno ghigna ne’ bronchi,
     filtra con la pioggia per l’ossa stanche. Io tremo.


     Ah quei pini che il vento che il mare curvaron tanti anni
     paiono traer guai contro di me: «Che importa


     – dicon – tendere a l’alto? che vale combatter? che giova
     amare? Il fato passa ed abbassa.» Ma tu,


     tu sughero triste che a terra schiacciato rialzi
     il capo, reo gobbo, bestemmïando Iddio,


     perché mi tendi minaccioso le braccia tue torte?
     che colpa ho io ne ‘l fato che ti danna?


     E voi, lunghe ne ‘l mezzo del tetro recinto alberelle,
     co’ rami spioventi, quasi canute chiome,


     siete alberelle voi? siete le tre fiere sorelle
     che aspettâr Macbeth su la fatale via?


     Odo pauroso carme che voi bisbigliate co’ venti,
     di rospi, di serpi, di sanguinari cuori.


     Guglielmo, re de’ poeti da l’ardüa fronte serena,
     perché mi mandi lugubri messaggi?


     Io non uccisi il sonno, ben gli altri a me spensero il cuore:
     non cerco un regno, io solo chieggio al mondo l’oblío.


     Oblío? no, vendetta. Cadaveri antichi, pensieri
     che tutti una ferita mostrate aperta e tutti


     a tradimento, su! su da ‘l cimitero del petto,
     su date a’ venti i vostri veli funebri.


     Qui raduniam consiglio, qui ne l’orribile spazzo,
     a l’ombre ignave, su le mortifere acque.


     Qui gonfia di serpi tra ‘l fior bianco e giallo la terra,
     pregna di veleni qui primavera ride.


     Ride ubriaco il verso di gioia maligna; com’angue,
     strisci, si attorca, snodisi tra i sibili.


     Volate, volate, canzoni vampire, cercando
     i cuor’ che amammo: sangue per sangue sia.


     Ma che? Disvelasi lunge superbo a veder l’Argentaro
     lento scendendo ne ‘l Tirreno cerulo.


     Il sole illustra le cime. Là in fondo sono i miei colli,
     con la serena vista, con le memorie pie.


     Ivi m’arrise fanciullo la diva sembianza d’Omero.
     Via, tu, Marlowe, a l’acque! tu, selva infame, addio.



   ALLA MENSA DELL’AMICO


     Non mai dal cielo ch’io spirai parvolo
     ridesti, o Sole, bel nume, splendido
     a me, sí come oggi ch’effuso
     t’amo per l’ampie vie di Livorno.


     Non mai fervesti, Bromio, ne i calici
     consolatore saggio e benevolo,
     com’oggi ch’io libo a l’amico
     pensando i varchi de l’Apennino.


     O Sole, o Bromio, date che integri,
     non senza amore, non senza cetera,
     scendiamo a le placide ombre
     – là dov’è Orazio – l’amico ed io.


     Ma sorridete gli augurî a i parvoli
     che, dolci fiori, la mensa adornano,
     la pace a le madri, gli amori
     a i baldi giovani e le glorie.



   RAGIONI METRICHE


     Rompeste voi ‘l Tevere a nuoto, Clelïa, come
     l’antica vostra, o a noi nuova Rea Silva uscite?


     Scarso, o nipote di Rea, l’endecasillabo ha il passo
     a misurare i clivi de le bellezze vostre:


     solo co ‘l piè trïonfale l’eroico esametro puote
     scander la vïa sacra de le lunate spalle.


     Da l’arce capitolina de ‘l collo fidiaco molle
     il pentametro pender, ghirlanda albana, deve.


     Batta ne ‘l raggio de gli occhi, che fiero corusca sí come
     tra i colli prenestini dietro l’aurora il sole,


     batta l’alcaica strofe trepidando l’ali, e si scaldi
     a i forti amori: indietro, tu settenario vile.


     Oh, su la chioma ondosa che simile a notte discende
     pe ‘l crepuscolo pario de le doriche forme


     (lasciate a le serve, nipote di Rea, gli ottonari)
     corona aurea di stelle fulga l’asclepiadea.



   FIGURINE VECCHIE


     Qual da la madre battuto pargolo
     od in proterva rissa mal domito
     stanco s’addorme con le pugna
     serrate e i cigli rannuvolati,


     tal ne ‘l mio petto l’amore, o candida
     Lalage, dorme: non sogna o invidia,
     s’al roseo maggio erran giocando
     gli altri felici pargoli al sole.


     Oh no ‘l destare! l’udresti, o Lalage,
     di torbid’ire fiedere l’aere
     rompendo i giuochi a’ lieti eguali,
     dio di battaglia per me l’amore.



   SOLE D’INVERNO


     Nel solitario verno de l’anima
     spunta la dolce imagine,
     e tocche frangonsi tosto le nuvole
     de la tristezza e sfumano.


     Già di cerulea gioia rinnovasi
     ogni pensiero: fremere
     sentomi d’intima vita gli spiriti:
     il gelo inerte fendesi.


     Già de’ fantasimi dal mobil vertice
     spiccian gli affetti memori,
     scendon con rivoli freschi di lacrime
     giú per l’ombra del tedio.


     Scendon con murmuri che a gli antri chiamano
     echi d’amor superstiti
     e con letizia d’acque che a’ margini
     sonni di fiori svegliano.


     Scendono, e in limpido fiume dilagano,
     ove le rive e gli alberi
     e i colli e il tremulo riso de l’aere
     specchiasi vasto e placido.


     Tu su la nubila cima de l’essere,
     tu sali, o dolce imagine;
     e sotto il candido raggio devolvere
     miri il fiume de l’anima.



   EGLE


     Stanno nel grigio verno pur d’edra e di lauro vestite
     ne l’Appia trista le ruinose tombe.


     Passan pe ‘l ciel turchino che stilla ancor da la pioggia
     avanti al sole lucide nubi bianche.


     Egle, levato il capo vèr’ quella serena promessa
     di primavera, guarda le nubi e il sole.


     Guarda; e innanzi a la bella sua fronte piú ancora che al sole
     ridon le nubi sopra le tombe antiche.



   PRIMO VERE


     Ecco: di braccio al pigro verno sciogliesi
     ed ancor trema nuda al rigid’aere
     la primavera: il sol tra le sue lacrime
     limpido brilla, o Lalage.


     Da lor culle di neve i fior si svegliano
     e curïosi al ciel gli occhietti levano:
     il quelli sguardi vagola una tremula
     ombra di sogno, o Lalage.


     Nel sonno de l’inverno sotto il candido
     lenzuolo de la neve i fior sognarono;
     sognaron l’albe roride ed i tepidi
     soli e il tuo viso, o Lalage.


     Ne l’addormito spirito che sognano
     i miei pensieri? A tua bellezza candida
     perché mesta sorride tra le lacrime
     la primavera, o Lalage?



   VERE NOVO


     Rompendo il sole tra i nuvoli bianchi a l’azzurro
     sorride e chiama – O primavera, vieni! —


     Tra i verzicanti poggi con mormorii placidi il fiume
     ricanta a l’aura – O primavera, vieni! —


     – O primavera, vieni! – ridice il poeta al suo cuore
     e guarda gli occhi, Lalage pura, tuoi.



   CANTO DI MARZO


     Quale una incinta, su cui scende languida
     languida l’ombra del sopore e l’occupa,
     disciolta giace e palpita su ‘l talamo,
     sospiri al labbro e rotti accenti vengono
     e súbiti rossor la faccia corrono,


     tale è la terra: l’ombra de le nuvole
     passa a sprazzi su ‘l verde tra il sol pallido:
     umido vento scuote i pèschi e i mandorli
     bianco e rosso fioriti, ed i fior cadono:
     spira da i pori de la glebe un cantico.


     – O salïenti da’ marini pascoli
     vacche del cielo, grigie e bianche nuvole,
     versate il latte da le mamme tumide
     al piano e al colle che sorride e verzica,
     a la selva che mette i primi palpiti —.


     Cosí cantano i fior che si risvegliano:
     cosí cantano i germi che si movono
     e le radici che bramose stendonsi:
     cosí da l’ossa dei sepolti cantano
     i germi de la vita e de gli spiriti.


     Ecco l’acqua che scroscia e il tuon che brontola:
     porge il capo il vitel da la stalla umida,
     la gallina scotendo l’ali strepita,
     profondo nel verzier sospira il cúculo
     ed i bambini sopra l’aia saltano.


     Chinatevi al lavoro, o validi omeri;
     schiudetevi a gli amori, o cuori giovani;
     impennatevi a i sogni, ali de l’anime;
     irrompete a la guerra, o desii torbidi:
     ciò che fu torna e tornerà ne i secoli.



   SALUTO D’AUTUNNO


     Pe’ verdi colli, da’ cieli splendidi,
     e ne’ fiorenti campi de l’anima,
     Delia, a voi tutto è una festa
     di primavera: lungi le tombe!


     Voi dolce madre chiaman due parvole,
     voi dolce suora le rose chiamano,
     e il sol vi corona di lume,
     divino amico, la bruna chioma.


     Lungi le tombe! Lontana favola
     per voi la morte! Salite il tramite
     de gli anni, e con citara d’oro
     Ebe serena v’accenna a l’alto.


     Giú ne la valle, freddi dal turbine,
     noi vi miriamo ridente ascendere;
     e un raggio del vostro sorriso
     frange le nebbie pigre a l’autunno.



   SU MONTE MARIO


     Solenni in vetta a Monte Mario stanno
     nel luminoso cheto aere i cipressi,
     e scorrer muto per i grigi campi
     mirano il Tebro,


     mirano al basso nel silenzio Roma
     estendersi, e, in atto di pastor gigante
     su grande armento vigile, davanti
     sorger San Pietro.


     Mescete in vetta al luminoso colle,
     mescete, amici, il biondo vino, e il sole
     vi si rifranga: sorridete, o belle:
     diman morremo.


     Lalage, intatto a l’odorato bosco
     lascia l’alloro che si gloria eterno,
     o a te passando per la bruna chioma
     splenda minore.


     A me tra ‘l verso che pensoso vola
     venga l’allegra coppa ed il soave
     fior de la rosa che fugace il verno
     consola e muore.


     Diman morremo, come ier moriro
     quelli che amammo: via da le memorie,
     via da gli affetti, tenui ombre lievi
     dilegueremo.


     Morremo; e sempre faticosa intorno
     de l’almo sole volgerà la terra,
     mille sprizzando ad ogni istante vite
     come scintille;


     vite in cui nuovi fremeranno amori,
     vite che a pugne nuove fremeranno,
     e a nuovi numi canteranno gl’inni
     de l’avvenire.


     E voi non nati, a le cui man’ la face
     verrà che scórse da le nostre, e voi
     disparirete, radïose schiere,
     ne l’infinito.


     Addio, tu madre del pensier mio breve,
     terra, e de l’alma fuggitiva! quanta
     d’intorno al sole aggirerai perenne
     gloria e dolore!


     fin che ristretta sotto l’equatore
     dietro i richiami del calor fuggente
     l’estenuata prole abbia una sola
     femina, un uomo,


     che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti,
     tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
     vitrei te veggan su l’immane ghiaccia,
     sole, calare.



   LA MADRE

 //-- (GRUPPO DI ADRIANO CECIONI) --// 

     Lei certo l’alba che affretta rosea
     al campo ancora grigio gli agricoli
     mirava scalza co ‘l piè ratto
     passar tra i roridi odor del fieno.


     Curva su i biondi solchi i larghi omeri
     udivan gli olmi bianchi di polvere
     lei stornellante su ‘l meriggio
     sfidar le rauche cicale a i poggi.


     E quando alzava da l’opra il turgido
     petto e la bruna faccia ed i riccioli
     fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
     coloraro ignei le balde forme.


     Or forte madre palleggia il pargolo
     forte; da i nudi seni già sazio
     palleggialo alto, e ciancia dolce
     con lui che a’ lucidi occhi materni


     intende gli occhi fissi ed il piccolo
     corpo tremante d’inquïetudine
     e le cercanti dita: ride
     la madre e slanciasi tutta amore.


     A lei d’intorno ride il domestico
     lavor, le biade tremule accennano
     dal colle verde, il büe mugghia,
     su l’aia il florido gallo canta.


     Natura a i forti che per lei spregiano
     le care a i vulghi larve di gloria
     cosí di sante visïoni
     conforta l’anime, o Adrïano:


     onde tu al marmo, severo artefice,
     consegni un’alta speme de i secoli.
     Quando il lavoro sarà lieto?
     quando securo sarà l’amore?


     quando una forte plebe di liberi
     dirà guardando nel sole – Illumina
     non ozi e guerre a i tiranni,
     ma la giustizia pia del lavoro —?



   PER UN INSTITUTO DI CIECHI


     Quando mirava Omero le fulgide a’ dardani campi
     pugne, con gli occhi spenti ed immoti al cielo;


     quando, levata in fredda caligin la fronte, vedeva
     Milton passare su’ mondi vinti Dio;


     l’alma del tutto in essi rompeva la inerte de’ sensi
     bruma, e ne’ grandi spiriti il sole ardea.


     Quando Tobia meschino del can riconobbe il latrato
     e brancolando porse le bianche mani,


     messa dal ciel sovvenne la santa pietà: Rafaele
     biondo a’ lassi occhi rese il bel figlio e il lume.


     Stanno ne l’ampia terra gli eroi del pensiero in disparte:
     a Rafaele tende le braccia il mondo.



   SOGNO D’ESTATE


     Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
     la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra ‘l sonno
     in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggí su ‘l Tirreno.
     Sognai, placide cose de’ miei novelli anni sognai.
     Non piú libri: la stanza da ‘l sole di luglio affocata,
     rintronata da i carri rotolanti su ‘l ciottolato
     de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
     cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.
     Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo
     pur divenendo rio: su ‘l rio passeggiava mia madre
     florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
     cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d’oro.
     Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
     superbo de l’amore materno, percosso nel core
     da quella festa immensa che l’alma natura intonava.
     Però che le campane sonavano su dal castello
     annunzïando Cristo tornante dimane a’ suoi cieli;
     e su le cime e al piano, per l’aure, pe’ rami, per l’acque,
     correa la melodia spirituale di primavera;
     ed i pèschi ed i méli tutti eran fior bianchi e vermigli,
     e fior gialli e turchini ridea tutta l’erba al di sotto,
     ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de’ prati,
     e molli d’auree ginestre si paravano i colli,
     e un’aura dolce movendo quei fiori e gli odori
     veniva giú da ‘l mare; nel mar quattro candide vele
     andavano andavano cullandosi lente nel sole,
     che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
     La giovine madre guardava beata nel sole.
     Io guardava la madre, guardava pensoso il fratello,
     questi che or giace lungi su ‘l poggio d’Arno fiorito,
     quella che dorme presso ne l’erma solenne Certosa;
     pensoso e dubitoso s’ancora ei spirassero l’aure
     o ritornasser pii del dolor mio da una plaga
     ove tra note forme rivivono gli anni felici.
     Passâr le care imagini, disparvero lievi co ‘l sonno.
     Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
     Bice china al telaio seguia cheta l’opra de l’ago.



   COLLI TOSCANI


     Colli toscani e voi pacifiche selve d’olivi
     a le cui ombre chete stetti in pensier d’amore,
     tósca vendemmia e tu da’ grappi vermigli spumanti
     in faccia al sole tra giocondi strepiti,


     sole de’ giovini anni; ridete a la dolce fanciulla
     che amor mi strappa e rende sposa al toscano cielo;
     voi le ridete, e quella che sempre negaronmi i fati
     pace d’affetti datele ne l’anima.


     Colli, tacete, e voi non susurratele, olivi,
     non dirle, o sol, per anche, tu onniveggente, pio,
     ch’oltre quel monte giaccion, lei forse aspettando, que’ miei
     che visser tristi, che in dolor morirono.


     Ella ammirando guarda la cima, tremarsi nel cuore
     sente la vita e un lieve spirto sfiorar le chiome,
     mentre l’aura montana, calando già il sole, d’intorno
     al giovin capo le agita il vel candido.



   PER LE NOZZE DI MIA FIGLIA


     O nata quando su la mia povera
     casa passava come uccel profugo
     la speranza, e io disdegnoso
     battea le porte de l’avvenire;


     or che il piè saldo fermai su ‘l termine
     cui combattendo valsi raggiungere
     e rauchi squittiscon da torno
     i pappagalli lusingatori;


     tu mia colomba t’involi, trepida
     il nuovo nido voli a contessere
     oltre Apennino, nel nativo
     aëre dolce de’ colli tóschi.


     Va’ con l’amore, va’ con la gioia,
     va’ con la fede candida. L’umide
     pupille fise al vel fuggente,
     la mia Camena tace e ripensa.


     Ripensa i giorni quando tu parvola
     coglievi fiori sotto le acacie,
     ed ella reggendoti a mano
     fantasmi e forme spïava in cielo.


     Ripensa i giorni quando a la morbida
     tua chioma intorno rogge strisciavano
     le strofe contro a gli oligarchi
     librate e al vulgo vile d’Italia.


     E tu crescevi pensosa vergine,
     quand’ella prese d’assalto intrepida
     i clivi de l’arte e piantovvi
     la sua bandiera garibaldina.


     Riguarda, e pensa. De gli anni il tramite
     teco fia dolce forse ritessere,
     e risognare i cari sogni
     nel blando riso de’ figli tuoi?


     O forse meglio giova combattere
     fino a che l’ora sacra richiamine?
     Allora, o mia figlia, – nessuna
     me Beatrice ne’ cieli attende —


     allora al passo che Omero ellenico
     e il cristïano Dante passarono
     mi scorga il tuo sguardo,
     la nota voce tua m’accompagni.



   PRESSO L’URNA DI PERCY BYSSHE SHELLEY


     Lalage, io so qual sogno ti sorge dal cuore profondo,
     so quai perduti beni l’occhio tuo vago segue.


     L’ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge;
     sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero.


     Pone l’ardente Clio su ‘l monte de’ secoli il piede
     agile, e canta, ed apre l’ali superbe al cielo.


     Sotto di lei volante si scuopre ed illumina l’ampio
     cimitero del mondo, ridele in faccia il sole


     de l’età nova. O strofe, pensier de’ miei giovini anni,
     volate omai secure verso gli antichi amori;


     volate pe’ cieli, pe’ cieli sereni, a la bella
     isola risplendente di fantasia ne’ mari.


     Ivi poggiati a l’aste Sigfrido ed Achille alti e biondi
     erran cantando lungo il risonante mare:


     dà fiori a quello Ofelia sfuggita al pallido amante,
     dal sacrificio a questo Ifïanassa viene.


     Sotto una verde quercia Rolando con Ettore parla,
     sfolgora Durendala d’oro e di gemme al sole:


     mentre al florido petto richiamasi Andromache il figlio;
     Alda la bella, immota, guarda il feroce sire.


     Conta re Lear chiomato a Edippo errante sue pene,
     con gli occhi incerti Edippo cerca la sfinge ancora:


     la pia Cordelia chiama – Deh, candida Antigone, vieni!
     vieni, o greca sorella! Cantiam la pace a i padri. —


     Elena e Isotta vanno pensose per l’ombra de i mirti,
     il vermiglio tramonto ride a le chiome d’oro:


     Elena guarda l’onde: re Marco ad Isotta le braccia
     apre, ed il biondo capo su la gran barba cade.


     Con la regina scota su ‘l lido nel lume di luna
     sta Clitennestra: tuffan le bianche braccia in mare,


     e il mar rifugge gonfio di sangue fervido: il pianto
     de le misere echeggia per lo scoglioso lido.


     O lontana a le vie de i duri mortali travagli
     isola de le belle, isola de gli eroi,


     isola de’ poeti! Biancheggia l’oceano d’intorno,
     volano uccelli strani per il purpureo cielo.


     Passa crollando i lauri l’immensa sonante epopea
     come turbin di maggio sopra ondeggianti piani;


     o come quando Wagner possente mille anime intona
     a i cantanti metalli; trema a gli umani il core.


     Ah, ma non ivi alcuno de’ novi poeti mai surse,
     se non tu forse, Shelley, spirito di titano,


     entro virginee forme: dal divo complesso di Teti
     Sofocle a volo tolse te fra gli eroici cori.


     O cuor de’ cuori, sopra quest’urna che freddo ti chiude
     odora e tepe e brilla la primavera in fiore.


     O cuor de’ cuori, il sole divino padre ti avvolge
     de’ suoi raggianti amori, povero muto cuore.


     Fremono freschi i pini per l’aura grande di Roma:
     tu dove sei, poeta del liberato mondo?


     Tu dove sei? m’ascolti? Lo sguardo mio umido fugge
     oltre l’aurelïana cerchia su ‘l mesto piano.



   AVE

   IN MORTE DI G. P.


     Or che le nevi premono,
     lenzuol funereo, le terre e gli animi,
     e de la vita il fremito
     fioco per l’aura vernal disperdesi,


     tu passi, o dolce spirito:
     forse la nuvola ti accoglie pallida
     là per le solitudini
     del vespro e tenue teco dileguasi.


     Noi, quando a’ soli tepidi
     un desio languido ricerca l’anime
     e co’ i fiori che sbocciano
     torna Persèfone da gli occhi ceruli,


     noi penseremo, o tenero,
     a te non reduce. Sotto la candida
     luna d’april trascorrere
     vedrem la imagine cara accennandone.



   NEVICATA


     Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinerëo: gridi,
     suoni di vita piú non salgon da la città,


     non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
     non d’amor la canzon ilare e di gioventú.


     Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
     gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dí.


     Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
     spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.


     In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore —
     giú al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.



   CONGEDO


     A’ lor cantori diano i re fulgente
     collana d’oro lungo il petto, i volghi
     a’ lor giullari dian con roche strida
     suono di mani.


     Premio del verso che animoso vola
     da le memorie a l’avvenire, io chiedo
     colma una coppa a l’amicizia e il riso
     de la bellezza.


     Come ricordo d’un mattin d’aprile
     puro è il sorriso de le belle, quando
     l’età fugace chiudere s’affretta
     il nono lustro;


     e tra i bicchier che l’amistade infiora
     vola serena imagine la morte,
     come a te sotto i platani d’Ilisso,
     divo Platone.




   VERSIONI


   TOMBE PRECOCI

   DA FR. G. KLOPSTOCK


     Ben vieni, o bell’astro d’argento,
     compagno tacente a la notte.
     Tu fuggi? oh rimanti, splendore pensoso!
     Vedete? ei rimane: la nuvola va.


     Piú bel d’una notte d’estate
     è solo il mattino di maggio:
     a lui la rugiada gocciando da i ricci
     riluce, e vermiglio pe ‘l colle va su.


     O cari, già il musco severo
     a voi sopra i tumuli crebbe:
     deh come felice vedeva io con voi
     le notti d’argento, vermigli i bei dí!



   NOTTE D’ESTATE

   DA FR. G. KLOPSTOCK


     Quando il tremulo splendore de la luna
     si diffonde giú pe’ boschi, quando i fiori
     e i molli aliti de i tigli
     via pe ‘l fresco esalano,


     il pensiero de le tombe come un’ombra
     in me scende; né piú i fiori né piú i tigli
     dànno odore; tutto il bosco
     è per me crepuscolo.


     Queste gioie con voi, morti, m’ebbi un tempo:
     come il fresco era e il profumo dolce intorno!
     come bella eri, o natura,
     in quell’albor tremulo!



   LA TORRE DI NERONE

   DA A. VON PLATEN


     Narra la fama, e ancor n’ha orrore il popolo:
     Nerone, indétto a la città l’incendio,
     salí su quella torre a lo spettacolo
     del rogo, allegro ed avido.


     Correano al cenno suo gl’incendiarii,
     baccanti in festa, e roteavan picei
     serti di fiamma. Dritto su’ merli aurei
     Neron tocca la cetera.


     – Gloria – egli canta – al fuoco: a l’oro ei simile
     ei degno del Titan che al cielo tolselo:
     l’augel di Giove il porta; ed il primo alito
     egli accolse di Bromio.


     Vieni, splendido nume: al crine i pampini,
     molle danza su ‘l mondo anzi che in polvere
     torni: di Roma qui raccogli il cenere
     e nel tuo vino mescilo.



   ERO E LEANDRO

   DA A. VON PLATEN


     Ero l’amata muore, ne i flutti cercando la morte:
     Saffo l’amante muore, morte chiedendo a i flutti.


     Amore, iddio crudele, a te cadon vittime entrambe:
     scorgile tu nel cheto reame di Persèfone.


     Ma di Leandro al petto conduci la vergin di Sesto,
     guida al fiume di Lete la deserta di Lesbo.



   LA LIRICA

   DA A. VON PLATEN


     A la materia l’anima s’appiglia,
     polso del mondo è l’azïone; e a sorde
     orecchie spesso versa i canti l’alta
     lirica musa.


     A tutti Omero s’apre e svarïati
     gli arazzi de la favola dispiega,
     l’autor del dramma trascinando i volghi
     le scene eleva.


     Ma il vol del sacro Pindaro, di Flacco
     l’arte e, o Petrarca, il tuo librato verso,
     lento ne i cuori imprimesi, e a la plebe
     ardüo sfugge.


     Grazia che pensa, non agevol ritmo
     di canzoncine intorno la teletta:
     non lieve sguardo penetra le loro
     alme possenti.


     Eterno vaga per le genti il nome,
     ma raro ad essi spirito s’aggiunge
     amico e pio che onori le gagliarde
     menti profonde.