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|  Giovanni Pascoli
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|  Primi poemetti (1904)
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   Giovanni Pascoli
   PRIMI POEMETTI


   A MARIA PASCOLI

   Maria, dolce sorella: c’è stato un tempo che noi non eravamo qui? che io non vedevo, al levarmi, la Pania e il Monte Forato? che tu non udivi, la notte, il fruscìo incessante del Rio dell’Orso? Il campaniletto di San Niccolò, bigio e scalcinato, che mi apparisce tra i ciliegi rosseggianti de’ loro mazzetti di bacche, e i peri e i meli; quel campaniletto, c’è stato un tempo in cui non lo sentivamo annunziare la festa del domani? Din don… Din don don… Din don don… Non fu quel prete smunto e cereo, che viene su per la viottola col breviario in mano, non fu esso il rettore che ci battezzò? non era Mère il buon contadino che ci rallegrava fanciulli col suo parlare a scatti, coi suoi motti e proverbi curiosi? “Il cane fa ir la coda, perché non ha cappello da cavarsi”: ecco una sua osservazione sottile a proposito del nostro Gulì. E quel fringuello che canta così da vicino il suo francesco mio e il suo barbazipìo, non è stato sempre così vicino? Non li abbiamo sentiti sempre quei più minuti e più confusi e più teneri chiacchiericci dei cardellini? Quelle verlette (sono venute da poco a portare il caldo), quelle canipaiole (vennero quando c’era da seminar la canapa; vennero a dirlo ai contadini), che sembrano ninnare i loro nidiaci con una fila di note sempre uguali; tonde, in gorgia, le prime, limpide e veloci e tristi come un lamento di piccolo, le altre; non le abbiamo sempre avute nella nostra campagna? E non abbiamo sempre udito cantar gli sgriccioli, che hanno tanta voce e sono così piccini? gli sgriccioli che… Parlano romagnolo? Dicono magnè, magnè, magnè!… E quei balestrucci che strisciano intorno per l’aria coi loro scoppiettìi rapidi e sonori, non li abbiamo sempre avuti nella nostra casa? C’erano anzi, negli anni passati, anche le rondini, quelle che hanno il pettino rugginoso, non bianco, e la lunga coda biforcuta, e il canto più soave e più parlato; ma ebbero che dire con queste loro rissose sorelle del pettino bianco; e se ne sono andate. Ce n’è qualche nido sotto il tetto della chiesa, in un luogo molto ombroso e solitario. Sentono cantare i vespri e le litanie da una parte; dall’altra frusciare il Rio dell’Orso. Vivono in gran ritiro, come pensose ancora, nel loro appartato sfaccendare, d’una sventura domestica e comune, toccata là, nelle isole lontane. O rondinelle dal petto rosso, o rondinelle dal petto bianco, se poteste andar d’accordo! Le une e le altre io vorrei torno torno sotto le mie grondaie, e vorrei avere tutto il dì, mentre sto curvo sui libri, negli occhi intenti ad altro, la vertigine d’ombra del vostro volo! Mi fate tanta buona compagnia già voi, bianche. Io non so che cosa succede stamane. Ho sorpreso una viva conversazione familiare dentro un nido. C’erano pigolìi e strilli. Qualcuno alzava la voce. E ne siete usciti in tre o quattro. Che si è deliberato nella capannetta sospesa, che forse è la residenza del capo-tribù? forse l’impianto di nuove case? Fate pure. E buona caccia! Le mosche abbondano quest’anno, come sempre. A proposito: si chiede a che servono le mosche. Chiaro, che a nutrir le rondini. E le rondini? Chiaro, che a insegnare agli uomini (perciò si mettono sopra le loro finestre) tante cose: l’amore della famiglia e del nidietto. La prima capanna che uomo costruì, di terra seccata al sole, alla sua donna, gli insegnò una coppia di rondini a costruirla. Ciò fu al tempo dei nomadi. Le rondini viaggiatrici insegnarono all’uomo di fermarsi. E gli dettero il modellino della casa. Solo, l’uomo lo capovolse.
   Ma questa voce che è? un rotolìo che mai non finisce, come d’un treno che non arriva mai. È il Fiume, cioè il Serchio. Di’, Maria, dolce sorella: c’è stato tempo che noi non s’udiva quella voce? Oh! sì: belle Panie aguzze e taglienti, bel fiume sonoro, cari balestrucci affaccendati, care verlette, care canipaiole, cari reattini, caro campanile; sì, c’è stato quel tempo che noi non si viveva così da presso. E se sapeste, che dolore allora, che pianto era il nostro, che solitudine rumorosa, che angoscia segreta e continua! Ma via, uomo, non ci pensare: mi dite. Ma no, pensiamoci anzi. Sappiate che la dolcezza lunga delle vostre voci nasce da non so quale risonanza che esse hanno nell’intima cavità del dolore passato. Sappiate che non vedrei ora così bello, se già non avessi veduto così nero. Sappiate che non godrei tanto di così tenue (per altri!) materia di gioia, se il martòro non fosse stato così duro e così durevole e non fosse venuto da tutte le possibili fonti di dolore, dalla natura e dalla società, e non ne avesse ferito tutte le possibili sedi, l’anima e il corpo, l’intelligenza e il sentimento. Non è vero, Maria? E benedetto dunque il dolore! Perché in ciò riconoscere un atroce sgarbo della matrigna Natura, che il poco bene che ci dà, ci dia solo a patto di male? Io dico parola più giusta. Io dico: O madre Natura, siano grazie a te che anche dal male ricavi per noi il bene. Noi, mansueta Maria, abbiamo a lungo camminato per l’erta viottola del dolore, e ci siamo anche stancati, o Maria, molto; ma la passeggiata ci ha dato un giovanile appetito di gioia. Sì, che anche una crosta ammuffita e una scodella di legumi sono buon cibo alla nostra fame.
   Ricordiamo, o Maria: ricordiamo! Il ricordo è del fatto come una pittura: pittura bella, se impressa bene in anima buona, anche se di cose non belle. Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo. Quindi noi di poesia ne abbiamo a dovizia. Potrò significarla altrui? Aspettando i “Canti di Castelvecchio” e i “Canti di San Mauro”, il presente e il passato, la consolazione e il rimpianto, aspettando questi canti che echeggiano già così soave nelle nostre due anime sole; leggi, o Maria, anzi rileggi questi poemetti. E leggeteli voi, anime candide, cui li affido. Leggeteli candidamente. Perché pare naturale in chi legge una continua preoccupazione, come se egli pensasse o sapesse che chi scrive si rivolge a lui con aria di baldanza e quasi di sfida, dicendogli: Vedi come sono bravo! Onde il lettore fa ogni sforzo per resistere e non lasciarsi persuadere o commuovere da colui che egli suppone sia per menar vanto di tale successo. Oh! no, candide anime! io non voglio farmi onore; voglio, cioè vorrei, trasfondere in voi, nel modo rapido che si conviene alla poesia, qualche sentimento e pensiero mio non cattivo. Vorrei che voi osservaste con me, che a vivere discretamente, in questo mondo, non è necessario che un po’ di discrezione… Vorrei che pensaste con me che il mistero, nella vita, è grande, e che il meglio che ci sia da fare, è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero affanna e spaura. E vorrei invitarvi alla campagna.
   Appunto oggi è arrivata gente di fuori, di lontano. I rondoni. Strillano in gruppi di quattro o cinque: in corse disperate, come pazzi. Fanno il nido nei buchi lasciati dalle travi. Ecco che io ho intorno casa anche i rondoni, popolo bellicoso e straniero, vestito di nero opaco. Ahimè! con le rondini non andranno d’accordo! saranno risse e guerre! Ma no. Io vi racconto, per finire, un fatto di cui sono stato testimonio or ora. Un rondone (è forse una femmina: certe bontà si suppongono meglio in una che fu o è per essere madre), un rondone viene e rinviene, col suo volo di saetta, a uno de’ miei nidini di balestruccio. Vuol forse impadronirsene? cacciarne la famiglia che c’è già? No: egli porta ogni volta qualche cosa da mangiare; sta arrampicato un poco alla porticella o finestrella del nido, ed è subito sbarazzato della sua piccola preda. O caro buon rondone: tu non hai forse da fare oggi; tu non hai forse ancora compagno o compagna; e, tanto per non stare (ero per dire, con le mani in mano: ma non si tratta d’uomini, qui) per non stare in ozio, dài un po’ d’aiuto a una rondinella, a una d’altra nazione e razza, che ha forse troppi figliuoli e troppo da fare e poco da mangiare. Carità… internazionale! O caso più pietoso ancora, si tratta d’orfanelli? e un altro povero li nutre e tira su alla meglio?
   Uomini, dirò come in una favola per i bimbi: uomini, imitate quel rondone. Uomini, insomma contentatevi del poco («assai» vuol dire sì abbastanza e sì molto: filosofia della lingua!), e amatevi tra voi nell’ambito della famiglia, della nazione e dell’umanità.
   Ma io non parlo più a te, dolce Maria. Eccomi a te di nuovo… Ma c’è da fare il pane. Oggi è sabato. Lasciamo la penna, e andiamo. Andiamo, buona sorella, a fabbricarci il nostro pane quotidiano, o, a dir meglio, settimanale, che ci sembra poi così buono, né solo perché fatto a crocette, come è usanza della nostra Romagna (qua li chiamano colombini, come quelli di Pasqua), ma perché intriso, rimenato e foggiato dalle nostre proprie mani. Andiamo dunque a fare opera… indovina, di che?… di emancipazione, figliuola mia!
   Castelvecchio di Barga, 5 giugno 1897.
   Giovanni


   LA SEMENTA


   L’ALBA

 //-- I --// 

     Allor che Rosa dalle bianche braccia
     aprì le imposte, piccola e lontana
     dal cielo la garrì la cappellaccia.
     Dalla Pieve a’ Cipressi la campana
     sonava l’alba: in alto, sul Mongiglio
     erano bianchi bioccoli di lana.
     Raspava una gallina sopra il ciglio
     d’un fosso. Po s’alzò, scosse la brina,
     scodinzolando, con uno sbadiglio.
     Ed al frizzar dell’aria mattutina,
     nel comun letto si svegliò Viola,
     all’improvviso, e mormorò: «Rosina!
     Rosina!». E già taceva la chiesuola
     lasciando udire un canto di fringuello,
     e, per i campi ombrati di viola,
     lo squillar de’ pennati sul marrello.


 //-- II --// 

     E Rosa in tanto, al davanzale, i semi
     coglieva d’una spiga d’amorino,
     e mondava dal secco i crisantemi.
     Si sfumò d’oro un bioccolo argentino:
     oh! una mandra, tutta oro, tranquilla
     pasceva in alto in mezzo al cilestrino.
     Corsero come guizzi di pupilla;
     tutto via via razzava: un fil di paglia
     nel concio nero, un ciottolo, una stilla.
     Ma il sole entrava come in una maglia
     sottil di nubi d’un color d’opale,
     e traspariva dalla nuvolaglia.
     Rosa si ravviava al davanzale:
     or luce, or ombra si sentìa sul viso;
     ché il sol montando per il cielo a scale
     appariva e spariva all’improvviso.


 //-- III --// 

     Appariva e spariva; e venìa meno
     la terra all’occhio, e poi, come in un fiato,
     tutto balzava su verso il sereno.
     A monte, a mare, ella guardò: guardato
     ch’ebbe, ella disse (udiva sui marrelli
     a quando a quando battere il pennato):
     «Aria a scalelli, acqua a pozzatelli».



   NEI CAMPI

 //-- I --// 

     Il capoccio avea detto: «Odimi, moglie.
     Senti le rare tremule tirate
     che fanno i grilli? Cadono le foglie;
     e tristi i grilli piangono l’estate.
     L’altra notte non chiusi occhio, tanto era
     quel gridìo! – Seminate! Seminate! —
     credei sentire. Poi, sentii ier sera
     passar su casa un lungo rombo d’ale:
     l’anatre vanno per la notte nera.
     C’è sopra il verno. Il primo temporale
     cova nell’aria. Sai che, per il grano,
     presto è talora, tardi è sempre male.
     Domani voglio il mio marrello in mano;
     ché chi con l’acqua semina, raccoglie
     poi col paniere; e cuoce fare in vano
     più che non fare. Incalciniamo, o moglie».


 //-- II --// 

     E per due giorni consegnava il grano
     alle soffici porche. Seminare
     volle la costa, seminare il piano.
     E per due giorni non uscì da mare
     pure una nube; e il garrulo vicino,
     «Il tempo è in filo,» gli dicea, «compare!»
     Ma egli arava tutto il giorno, chino
     sopra le porche. Il terzo dì, cantava
     al buio il gallo, prima di mattino.
     Ed egli al buio sorse, ed aggiogava
     le brune vacche (uscirono mugliando
     e rugumando la lor verde bava),
     e seminava. Dore al giogo, Nando
     era alla coda: Nando, il suo maggiore,
     che ammoniva le bestie a quando a quando,
     tarde, e la forza pargola di Dore.


 //-- III --// 

     Forza di Dore, le divincolanti
     vacche reggevi; ma tuo padre il grano
     pulverulento si gettava avanti.
     La sementa spargea con savia mano;
     altri via via copriva la sementa.
     L’aratro andava, nell’ombrìa, pian piano:
     qualche stella vedea l’opera lenta.



   PER CASA

 //-- I --// 

     Vedea nell’ombra qualche muta stella
     gli uomini arare. Nella mattinata
     ci fu lo spruzzo d’una scosserella.
     La casa aveva aperto ogni impannata.
     Passò lontano, ripassò vicino
     lo stridulo fruscìo della granata.
     Fumò nell’aria torpida il camino.
     Poi le stoviglie parvero fra loro
     rissare nel silenzio mattutino.
     Poi la fanciulla dai capelli d’oro
     tessea cantando. Andò la spola a volo,
     corsero i licci e il pettine sonoro.
     Cantò: «Maria cercava il suo figliuolo.
     Maddalena le disse: Ave Maria:
     sui neri monti io l’ho veduto: o duolo!
     porta una croce e sanguina per via».


 //-- II --// 

     Tra il colpeggiar del pettine sonoro
     ed il suo canto, ella sentì, «Rosina!»
     la verginella dai capelli d’oro.
     Sorse dalla panchetta ed in cucina
     venne e trovò la cara madre pia
     «Figlia,» le disse, «staccia la farina.
     Viola è fuori con la mucca, via
     per Ginestrelle. Babbo oggi non viene
     se non al tocco dell’Avemaria.
     Sai, per il grano, che spicciarsi è bene:
     presto è talora, tardi è sempre male!
     E già piange le sue notti serene
     il grillo stanco, e il primo temporale
     cova nell’aria. Non lo senti a sera
     passar su casa un lungo rombo d’ale?
     L’anatre vanno per la notte nera».


 //-- III --// 

     E seguitava: «Io voglio accomodare,
     se mi riesce, questi due radicchi,
     ch’ho già intoccati, con altr’erbe amare.
     E tu, mentr’io soffriggo uno o due spicchi
     d’aglio trito, costì, su la brunice,
     fa la polenta, buona anco pei ricchi,
     quando s’ha un bocconcino che ci dice».



   IL DESINARE

 //-- I --// 

     Ubbidì Rosa al subito comando.
     Sotto il paiolo aggiunse legna, il sale
     gettò nell’acqua che fremé ronzando.
     Stacciò: lo staccio, come avesse l’ale,
     frullò fra le sue mani; e la farina
     gialla com’oro nevicava uguale.
     Ne sparse un po’ nell’acqua, ove una fina
     tela si stese. Il bollor ruppe fioco.
     Ella ne sparse un’altra brancatina.
     E poi spentala tutta a poco a poco,
     mestò. Senza bisogno di garzone,
     inginocchiata nel chiaror del fuoco,
     mestò, rumò, poi schiaffeggiò il pastone,
     fin che fu cotto; e lo staccò bel bello,
     l’ammucchiò nel paiolo, col cannone
     di pioppo; e lo sbacchiò sopra il tarvello.


 //-- II --// 

     Ora la madre nella teglia un muto
     rivolo d’olio infuse, e di vivace
     aglio uno spicchio vi tritò minuto.
     Pose la teglia su l’ardente brace,
     col facile olio; e, solo intenta ad esso,
     un poco d’ora l’esplorò sagace.
     L’olio cantò con murmure sommesso;
     un acre odore vaporò per tutto.
     Fumavano le calde erbe da presso,
     nel tondo ch’ella inebbriò del flutto
     stridulo, aulente; e poi nel canovaccio
     nitido e grosso avviluppava il tutto.
     E Rosa intanto sospendea lo staccio,
     ponea le fette sopra un bianco lino,
     stringea le còcche, e v’infilava il braccio.
     Tornò Viola, e furono in cammino.


 //-- III --// 

     Rosa e Viola furono in cammino.
     Ma la pia madre altro pensò; discese;
     spillò la botte d’un segreto vino.
     E poi, tornata, con le figlie prese
     pei greppi; lesta, poi ch’una campana
     si sentiva sonare dal paese:
     non più che un’ombra pallida e lontana.



   L’ANGELUS

 //-- I --// 

     Sì: sonava lontana una campana,
     ombra di romba; sì che un mal vestito
     che beveva, si alzò dalla fontana,
     e più non bevve, e scongiurò, di rito,
     l’impazïente spirito. Via via
     si sentì la campana di San Vito,
     si sentì la campana di Badia
     e gli altri borghi, di qua di là, pronti
     cantando si raggiunsero per via.
     C’era di muti spiriti nei fonti
     un palpitare al tremolìo sonoro
     ch’empieva l’aria e percotea nei monti.
     La donna andava con le figlie; e loro
     squillò sul capo, subito e soave,
     dalla lor Pieve un gran tumulto d’oro.
     E tu nascesti Dio da un piccolo Ave…


 //-- II --// 

     – Tu che nascesti Dio dal piccolo Ave,
     dalla sorrisa paroletta alata
     (disse la voce tremolando grave):
     tu che nell’aia bianca e soleggiata
     eri e non eri, seme che vi avesse
     sperso il villano dalla corba alzata;
     ma poi l’uomo ti vide e ti soppresse,
     t’uccise l’uomo, o piccoletto grano;
     tu facesti la spiga e poi la mèsse
     e poi la vita: fa’ che non in vano
     nei duri solchi quella gente in riga
     semini il pane suo quotidïano.
     O Dio, neve raffrena, pioggia irriga,
     sole riscalda quei futuri steli;
     fa’ che granisca la futura spiga,
     o tu cui l’uomo seminò nei cieli! —


 //-- III --// 

     Così diceva tremolando grave
     la voce d’oro su l’aerea Pieve;
     e gli aratori l’Angelus e l’Ave
     dissero; e in mezzo alla preghiera breve
     la dolce madre a lui venìa; non sola:
     l’erano accanto con andar più lieve
     bionda la Rosa e bruna la Viola.



   IL CACCIATORE

 //-- I --// 

     Po le seguiva, il fido cane. Or essi
     siedono su la porca assai contenti.
     La Pieve sorridea sotto i cipressi.
     Po ringhiò, fece biancheggiare i denti:
     passava un uomo, un cacciator; ristette.
     «Giovine, giunto qui tra le mie genti!
     ciò che avanza per sei, basta per sette»
     disse il capoccio; e poi con lieta cera:
     «Male per voi, che bene per noi mette!
     Noi ci vedemmo, o giovine, alla fiera
     di Castiglione, all’osteria di Betto.
     Tuo padre, Andrea buon’anima, non c’era
     l’uomo più bravo e tuttavia più schietto;
     e dava tempo al tempo: ecco e tu ari
     un campetto con siepe e con fossetto…
     Bevi il mio vino e siedi tra’ miei cari!»


 //-- II --// 

     Ed ei s’assise, il giovane, tra loro,
     e bevve il rosso vino. Era di faccia
     alla fanciulla da’ capelli d’oro.
     Ma la fanciulla dalle bianche braccia
     non lo guardava. Ed il capoccio allora
     gli domandò della sudata caccia.
     E lui: «La prima non ho fatto ancora;
     e sì, che non so dir con quanta pena
     io tutta notte l’aspettai, l’aurora!
     Che ieri io rincasava a notte piena,
     pensando ad altro, a non so che: zirlare
     io sentiva nell’alta ombra serena.
     Erano i tordi, che già vanno al mare,
     in alto, in alto, in alto. Io sentìa quelle
     voci dell’ombra, nel silenzio, chiare;
     e mi pareva un canticchiar di stelle.


 //-- III --// 

     Ma i tordi ancor non calano, e non sento
     se non il fischio delle ballerine
     seguire il solco dell’aratro lento;
     e lo scoppiettìo trito senza fine
     del pettirosso mattinier… Comincia
     il passo. Sono piene le saggine
     e le olivete. Sì; ma c’è la cincia!»



   LA CINCIA

 //-- I --// 

     Sorrise, e disse che una volta c’era
     un re piccino; e s’egli era piccino,
     la sua reggia era grande e nera nera.
     E un aio aveva questo reattino
     nero, e l’aio era lì sempre a gracchiare,
     e più, quando vedea torbo il mattino.
     Il re veniva alle finestre a mare,
     il re veniva alle finestre a monte:
     «Avessi l’ale! Potessi volare!»
     Nitrir sentiva alla sua voce pronte
     le sue pulledre sparse alla pastura
     nel grande prato ch’era dopo il ponte.
     E quel nitrito, per le antiche mura,
     per gl’infiniti muti colonnati,
     destava i cani; e nella reggia oscura
     rimbombavano in tanto alti latrati.


 //-- II --// 

     Or una fata l’ode. Ecco, sia fatto!
     La gran reggia doventa una gran macchia
     a colonne di pino e d’albogatto.
     Nera tra i lecci vola una cornacchia.
     È l’aio. Vola su brentoli e mortelle,
     libero, il recacchino, il redimacchia.
     E il curvo collo svincolano snelle
     quelle pulledre scalpitando, ed ecco
     ch’elle frullano azzurre cinciarelle.
     Tengono l’osso ancora (od uno stecco?)
     le cinciallegre, piccoli mastini,
     sotto le zampe, e picchiano col becco.
     Dunque, dagli albigatti esse e da’ pini
     fanno la guardia, e il re ne’ suoi sambuchi,
     tra molta signoria di fiorrancini,
     regna, e si svaga con la caccia ai bruchi.


 //-- III --// 

     Così, vedete, il cacciator che gira,
     vede calare un branco. Egli bel bello
     s’appressa, egli già mira, egli già tira…
     suona un nitrito tremulo d’uccello,
     come starnuto, suona un bau bau chiaro,
     come doppio squillar di campanello;
     e il branco fugge prima dello sparo.



   L’AVEMARIA

 //-- I --// 

     E poi sazi sorgevano: le zolle
     sbriciò l’aratro, della terra nera,
     dietro le vacche non ancor satolle.
     Rosa, con gli altri e con Viola, a schiera,
     ricopriva le porche col marrello.
     Babbo voleva aver finito a sera.
     Il dì passò tra sole e solicello:
     il sole s’insaccò, né tornò fuori,
     e Montebello si pose il cappello.
     Stridule, qua e là, di più colori,
     correan le foglie: non s’udia per gli ampi
     filari che il vocìo degli aratori.
     Palpitavano, a tratti, larghi lampi;
     serrava il cardo le argentine spade;
     ma tutta la sementa era nei campi.
     Venne la sera ed abbuiò le strade.


 //-- II --// 

     E le vacche tornavano alle stalle;
     e la gente, ciarlando per la via,
     saliva co’ marrelli su le spalle.
     Sonò, di qua di là, l’Avemaria:
     si sentì la campana di San Vito,
     si sentì la campana di Badia.
     Era nel cielo un pallido tinnito:
     Dondola dondola dondola! – A nanna
     a nanna a nanna! – Il giorno era finito.
     Ora il fuoco accendeva ogni capanna,
     e i bimbi sazi ricevea la cuna,
     col sussurrare della ninnananna.
     E le campane, A nanna a nanna! l’una;
     l’altra, Dondola dondola! tra il volo
     de’ pipistrelli per la costa bruna.
     A nanna, il bimbo! e dondoli, il paiuolo!


 //-- III --// 

     La madre era su l’uscio, poi che intese
     un parlottare ed uno scalpicciare
     tra la confusa romba delle chiese.
     Ed un lampo alitò sul casolare,
     e bianche bianche illuminò le strade;
     e il capoccio ella udì dal limitare,
     che diceva: «La festa il dì che cade!»



   LA NOTTE

 //-- I --// 

     Nella notte scrosciò, venne dirotta
     la pioggia, a striscie stridule infinite;
     e il tuono rotolò da grotta a grotta.
     Egli, il capoccio, avvolto nel suo mite
     tacito sonno, non udiva. Udiva
     nascere l’erba. Vide le pipite
     verdi. Il grano sfronzò, quindi accestiva.
     Nevicava, in suo sogno, a fiocco a fiocco:
     candido il monte, candida la riva.
     No: quel bianco era fiori d’albicocco
     e di susino, e l’ape uscìa dal bugno
     ronzando, e il grano già facea lo stocco:
     Anzi graniva; ch’era già di giugno.
     La cicala friniva su gli ornelli.
     Egli l’udiva, con la falce in pugno.
     L’acqua veniva stridula a ruscelli.


 //-- II --// 

     L’acqua veniva, stridula, a ruscelli.
     Rosa dormiva e non udiva: udiva
     cantare al bosco zigoli e fringuelli.
     Era nel bosco, nella reggia estiva
     del redimacchia. Intorno udìa beccare.
     gemme di pioppo e mignoli d’uliva.
     E la macchia pareva un alveare,
     piena di frulli e di ronzìi. Ma ella
     sentiva anche un frugare, uno sfrascare,
     un camminare. Chi sarà? Ma in quella
     che riguardava tra un cespuglio raro,
     improvvisa cantò la cinciarella.
     E sonò d’ogni parte il bau bau chiaro,
     come un tintinno, delle cincie; ed ecco
     pronto all’orecchio risonar lo sparo.
     Ma era un tuono, che rimbombò secco.


 //-- III --// 

     E tra il tumulto carezzò Viola
     che s’era desta e che piangea. Pian piano
     l’addormentava. E Rosa rifù sola.
     Pensava… i licci della tela, il grano
     della sementa, il cacciatore… e Rosa
     lo ricercava. Dove mai? Lontano.
     In una reggia. E risognò… Che cosa?




   IL BORDONE – L’AQUILONE


   IL BORDONE


     Si tagliò da una siepe – era un mattino
     triste ma dolce – il suo bordone, e, volta
     la fronte, mosse per il suo cammino.
     Sì: mosse. E quella era la siepe folta
     d’un camposanto, ed era il camposanto,
     quello, dove sua madre era sepolta.
     D’allora ha errato. Seco avea soltanto
     il suo bordone. E qua tese la mano,
     e qua la porse. E ha gioito e pianto.
     E vide il fiume, il mare, il monte, il piano:
     tutto: e a tutto era più presso il cuore
     di quanto il piede n’era più lontano.
     Disperò sui tramonti, e su le aurore
     sperò; sì che la via sempre riprese.
     Vuoto era il frutto, ma soave il fiore.
     Sopra la soglia d’infinite chiese
     pregò. Vide infiniti uomini: alcuno,
     Raca! gli disse, ed altri, Ave gli rese:
     scòrsero i più, come su lago bruno
     ombra di nube nera presso nera
     ombra di nube. E fu tutto e nessuno.
     Sì ch’ora è stanco. Ed è, ora, una sera
     triste ma dolce. E sta, come una volta,
     presso una siepe. E questa è ancor com’era.
     Ché fermo è là, presso la siepe folta
     d’un camposanto; e questo camposanto
     è quello dove è sua madre sepolta.
     Egli è quel ch’era, ma il suo corpo è franto
     dall’error lungo; e nel suo cuore è vano
     ciò che gioì, ma piange ciò che ha pianto.
     E sta, vecchio e canuto, con la mano
     sul bordone d’allora. Ed ecco, vede
     che da quel giorno radicò pian piano,
     il suo bordone, e che visse, e che diede
     già fiori e foglie: sotto le sue dita
     germinò, radicò sotto il suo piede.
     E gli resta una foglia inaridita
     che trema. E il vento soffia. E il pellegrino,
     curvo sopra la immobile sua vita,
     par che muova ora, per il suo cammino.



   IL VISCHIO

 //-- I --// 

     Non li ricordi più, dunque, i mattini
     meravigliosi? Nuvole a’ nostri occhi,
     rosee di peschi, bianche di susini,
     parvero: un’aria pendula di fiocchi,
     o bianchi o rosa, o l’uno e l’altro: meli,
     floridi peri, gracili albicocchi.
     Tale quell’orto ci apparì tra i veli
     del nostro pianto, e tenne in sé riflessa
     per giorni un’improvvisa alba dei cieli.
     Era, sai, la speranza e la promessa,
     quella; ma l’ape da’ suoi bugni uscita
     pasceva già l’illusïone; ond’essa
     fa, come io faccio, il miele di sua vita.


 //-- II --// 

     Una nube, una pioggia… a poco a poco
     tornò l’inverno; e noi sentimmo, chiusi
     per lunghi giorni, brontolare il fuoco.
     Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi
     dentro il nebbione; e per il cielo smorto
     era un assiduo sibilo di fusi;
     e piovve e piovve. Il sole (onde mai sorto?)
     brillò di nuovo al suon delle campane:
     tutto era verde, verde era quell’orto.
     Dove le branche pari a filigrane?
     Tutti i petali a terra. E su l’aurora
     noi calpestammo le memorie vane
     ognuna con la sua lagrima ancora.


 //-- III --// 

     Ricordi? Io dissi: «O anima sorella,
     vivono! E tu saprai che per la vita
     si getta qualche cosa anche più bella
     della vita: la sua lieve fiorita
     d’ali. La pianta che a’ suoi rami vede
     i mille pomi sizïenti, addita
     per terra i fiori che all’oblìo già diede…
     Non però questa (io m’interruppi), questa
     che non ha frutti ai rami e fiori al piede».
     Stava senza timore e senza festa,
     e senza inverni e senza primavere,
     quella; cui non avrebbe la tempesta
     tolto che foglie, nate per cadere.


 //-- IV --// 

     Albero ignoto! (io dissi: non ricordi?)
     albero strano, che nel tuo fogliame
     mostri due verdi e un gialleggiar discordi;
     albero tristo, ch’hai diverse rame,
     foglie diverse, ottuse queste, acute
     quelle, e non so che rei glomi e che trame;
     albero infermo della tua salute,
     albero che non hai gemme fiorite,
     albero che non vedi ali cadute;
     albero morto, che non curi il mite
     soffio che reca il polline, né il fischio
     del nembo che flagella aspro la vite…
     ah! sono in te le radiche del vischio!


 //-- V --// 

     Qual vento d’odio ti portò, qual forza
     cieca o nemica t’inserì quel molle
     piccolo seme nella dura scorza?
     Tu non sapevi o non credevi: ei volle:
     ti solcò tutto con sue verdi vene,
     fimo si fece delle tue midolle!
     E tu languivi; e la bellezza e il bene
     t’uscìa di mente, né pulsar più fuori
     gemme sentivi di tra il tuo lichene.
     E crebbe e vinse; e tutti i tuoi colori,
     tutte le tue soavità, col suco
     de’ tuoi pomi e il profumo de’ tuoi fiori,
     sono una perla pallida di muco.


 //-- VI --// 

     Due anime in te sono, albero. Senti
     più la lor pugna, quando mai t’affisi
     nell’ozïoso mormorio dei venti?
     Quella che aveva lagrime e sorrisi,
     che ti ridea col labbro de’ bocciuoli,
     che ti piangea dai palmiti recisi,
     e che d’amore abbrividiva ai voli
     d’api villose, già sé stessa ignora.
     Tu vivi l’altra, e sempre più t’involi
     da te, fuggendo immobilmente; ed ora
     l’ombra straniera è già di te più forte,
     più te. Sei tu, checché gemmasti allora,
     ch’ora distilli il glutine di morte.



   IL TORELLO

 //-- I --// 

     Su la riva del Serchio, a Selvapiana,
     di qua del Ponte a cui si ferma a bere
     il barrocciaio della Garfagnana,
     da Castelvecchio menano, le sere
     del dì di festa, il lor piccolo armento
     molte ragazze dalle treccie nere.
     Siedono là sul margine, col mento
     sopra una mano, riguardando i pioppi
     bianchi del fiume; e parlano. Ma il vento
     porta brusìo di voci, eco di scoppi
     di mortaretti, eco di passi presta
     ed un confuso tremito di doppi.
     Dolce ascoltare allora, con la testa
     voltata altrove, quelle due parole…
     coperte un po’ dalle campane a festa!
     altrove… al Serchio che risplende, al sole
     che prende il monte… o Nelly, anco ai vivagni
     del tuo pannello, anco alle mucche sole
     che brucano il palèo sotto i castagni.


 //-- II --// 

     To’… quel vitello – al cui grande occhio appari
     immensa, con un lento albero in mano,
     quando con una vetta tu lo pari —
     guarda stupito, nuovo, al monte, al piano:
     tutto una selva, il monte; la costiera
     sembra un velluto tenero di grano.
     Egli che non sapea la primavera,
     la dura coda svincola, saluta
     il mondo bello. Prima, esso non c’era:
     ci si ritrova: fiuta l’aria, fiuta
     la terra: all’aria sobbalzando avventa
     le brevi corna della fronte bruta;
     e con le zampe irrequïete tenta
     la terra. Il cielo è tutto pieno d’oro,
     Nelly, ed il suolo è tutto pien di menta.
     Vuole empir della sua gioia il sonoro
     spazio, il vitello, e trae dalle profonde
     fauci un muglio arrotato, agro, di toro.
     Una giovenca lontana risponde.


 //-- III --// 

     Dunque, Nelly, rimeni oggi un torello:
     savio, però, che sempre ha te di fronte
     con nella mano il grande albero snello.
     Arrivi a Castelvecchio, alla sua fonte
     nuova, perenne, a cui vengono in fila
     le gravi mucche nel calar dal monte.
     Queste, da un canto, alla marmorea pila
     succhiano l’acqua; e quando alzano il collo,
     l’acqua dalle narici nere fila.
     Dall’altro, suona, empiendosi al rampollo
     vivo, la secchia: una fanciulla aspetta
     con sui riccioli bruni il suo corollo.
     A questa fonte, o Nelly, ora s’affretta
     il tuo torello, a bere: dalla piena
     conca l’acqua discende alla cunetta,
     così ch’ell’ha come un pulsar di vena.
     Egli guarda coi grossi occhi, né beve;
     ché dentro l’acqua che si muove appena,
     vede un coltello azzurro ondeggiar lieve…


 //-- IV --// 

     Mugola e fugge. E poi mugolando erra
     due dì, da selva a selva, nel suo colle,
     strappando qualche fil d’erba alla terra.
     Cerca dolente le segrete polle
     verdi di capelvenere; vi mira
     dentro: il coltello taglia l’ombra molle.
     Aspetta al pozzo, quando alcuna tira
     la secchia: l’acqua vi trabocca e sbalza:
     dentro, il coltello gira gira gira.
     Allora, al botro: dall’aerea balza,
     scende: il coltello posa su la ghiaia;
     ma la corrente un po’ l’urta, e lo scalza
     forse, e lo porta. Aspetta egli: si sdraia
     sui lisci giunchi, e coi grandi occhi spia,
     fissando l’acqua di tra la giuncaia,
     se mai quell’ombra della morte via
     portino l’onde. Sopra la sua testa
     il tempo corre per la muta via.
     Aspetta: e l’acqua passa e l’ombra resta.


 //-- V --// 

     Il terzo giorno… «Ecché tu piangi, sciocca?
     Sa ‘ssai! En bestie, ‘un ci han lunari: scólta:
     ‘un si sa gnanco noi quel che ci tocca!»
     dice tuo padre, o Nelly. Tu sei volta
     alla Via Nova, guardi nella valle,
     per vederlo passare anche una volta.
     Passa: un uomo alla testa, uno alle spalle:
     è impastoiato, ad or ad or trempella…
     Passa… Oh! poggi solivi! ombrose stalle!
     E quanto fieno! quanta lupinella!



   IL SOLDATO DI SAN PIERO IN CAMPO

 //-- I --// 

     Era poc’anzi nella valle il ronzo
     dell’altre sere. Ogni campana prese
     poi sonno in una lunga ansia di bronzo.
     Si dicevano Ave! Ave! le chiese,
     e i vecchi preti, che ristanno un poco
     con le mani alla fune anco sospese.
     Ave! tra uno scampanìo più fioco
     dai monti, che, lassù, pare una voce
     che dian quei cirri e cumuli di fuoco…
     Ave! tra uno scoppiettìo veloce
     di balestrucci, che nel cielo intorno
     gettan ombre di pii segni di croce…
     segni di croce, sul morir del giorno,
     nel campo, nella via, nel casolare
     dove sospira i passi del ritorno
     il nonno, solo… E già venian più rare
     le squille delle Avemarie lontane;
     e s’alzò dalla valle, di tra un mare
     di foglie, un suono a morto, a tre campane.


 //-- II --// 

     Oh! Piangi… Pensa… Dormi… Piangi… Pensa…
     Dormi… echeggiava in ogni cuor San Piero
     nell’ora dolce in cui fuma la mensa:
     nell’ora in cui risuona ogni sentiero
     di piedi scalzi, e anche di novelle
     e di ragioni dette con mistero:
     San Piero in Campo sperso là tra quelle
     file di pioppi, garrulo, ai tramonti,
     di rane gravi e allegre raganelle.
     Echeggiava tra i monti. Erano i monti
     tutti celesti; tutto era imbevuto
     di cielo: erba di poggi, acqua di fonti,
     fronda di selve, e col suo blocco acuto
     la liscia Pania, e con le sue foreste
     il monte Gragno molle di velluto.
     Sfiorava il sole tuttavia le creste,
     toccando qua e là nuvole vane
     e di laggiù, tra tutto quel celeste,
     veniva il suono delle tre campane.


 //-- III --// 

     E Dormi… Piangi!… Chi piange, lo sanno
     tutti: sua madre. Come era contenta!
     Egli le ritornava ora, nell’anno,
     tra pochi mesi. Ognuno lo rammenta,
     buono! bello! ma il dito alza alla bocca,
     come sua madre sia per lì, che senta.
     Quel dolore ha una lunga ombra che tocca
     tutte le case. Col cucchiaio in mano
     resta, come la veda, una che imbocca
     il suo piccino, al fuoco. – Era a Milano,
     credo, a Modena… – Dove la via sale,
     due calessini vanno su pian piano,
     al passo: intorno suona il disuguale
     tonfo degli otto zoccoli, ed, appena,
     il cigolìo leggiero delle sale.
     Dolce il ritorno! Dolce essere a cena
     spartendo ai bimbi irrequïeti il pane…
     Vanno; e nell’aria concava e serena
     rimbomba il suono delle tre campane.


 //-- IV --// 

     E Pensa… Dormi… È limpida la sera:
     si vede sempre, e non s’accende il lume.
     C’è nelle selve fumo qua, che annera,
     là, che biancheggia: bruciano il pattume:
     presto si coglie. E l’uva ingrossa, e invaia
     i chicchi già. La canapa è nel fiume.
     È già stesa a capretta su la ghiaia,
     via via: dura ha la tiglia, alta la canna.
     Ecco che già si mazzola in qualche aia.
     Vengono all’aia, avanti la capanna,
     i giovinotti, e ognuno si promette
     con la ragazza che gli tien la manna.
     Il sessantino ha messo i crini, mette
     la rappa. Già si sguscia. Nelle stalle
     le manse vacche mangiano le vette.
     È uno splendore di pannocchie gialle
     per tutto, alle finestre, nelle altane.
     La sera è dolce: solo nella valle
     suonano a morto quelle tre campane.


 //-- V --// 

     E Piangi… Pensa… Dormi… Egli, sotterra
     dorme! ed in terra appena benedetta!
     dorme sotterra, e non nella sua terra!
     Fuori è restato un po’ di lui, che aspetta;
     chiama i rettori del suo vicinato;
     chiede la messa della sua chiesetta;
     vuol l’acquasanta ch’ebbe appena nato,
     che le sue fasce già bagnò, che bagni
     or la sua cassa; vuol esser portato
     al camposanto suo, tra i suoi castagni,
     sotto il suo panno dalla frangia nera,
     sopra le spalle de’ suoi pii compagni,
     tra il calpestìo de’ suoi compagni a schiera,
     tra il muto calpestìo che, dove passa,
     lascia nel timo un morto odor di cera;
     e il cataletto or s’alza, ora s’abbassa:
     si va pian piano ma per vie non piane:
     e dolcemente il capo nella cassa
     si culla al suono delle sue campane.


 //-- VI --// 

     E dice Mamma… Mamma… Mamma… Vuole
     sua madre. Ahimè! che voglia, quella voglia
     di mamma! quel dolore, quanto duole!
     Ora, più nulla. Stride qualche foglia;
     si chiamano e rispondono tranquilli
     due chiù; va la Corsonna che gorgoglia.
     Tu su la bruna valle alta sfavilli,
     Barga, coi cento lumi tuoi. Rimane
     l’orma del pianto tra un gridìo di grilli
     e un interrotto gracidar di rane.



   L’ALBERGO


     Qual ne corse parola oggi per l’aria,
     alata? Soli, a due, quindi a branchetti,
     a stormi, nella macchia solitaria
     giungono muti i passeri, dai tetti
     neri tra i salci, dalla chiesa nera
     tra i pampani, dai borghi al monte stretti
     per non cadere. È limpida la sera:
     segnano i boschi un bruno orlo sottile
     su le montagne, una sottil criniera.
     Non garrirà di passeri il cortile,
     e salutando con le squille sole
     vaporerà nell’ombra il campanile!
     Non i loquaci spettator che suole,
     avrà sui merli il volo de’ rondoni
     (uno svolìo di moscerini al sole
     par di lontano sopra i torrïoni
     del castellaccio); e assorderà le mura
     mute il lor grido, e i muti erbosi sproni!
     Giungono sempre nella macchia oscura;
     frullano, entrano, affondano in un pino:
     nel pino solo in mezzo alla radura.
     Pende un silenzio tremulo, opalino,
     su la radura: dondolano appena
     le cavallette il lor campanellino.
     Ed ecco nella queta aria serena
     scoppia un tumulto – l’albero ne oscilla —
     subito come un rotolar di piena.
     È il pino, il pino che cinguetta, strilla,
     pigola; ogni ago tremola e saltella.
     Le imposte, per udire, apre una villa.
     Nella radura quella nera ombrella
     aerea tumultua… St!… Solo
     ora s’ode un ronzìo di cantarella.
     Che è? Crocchiava un ghiro sul nocciuolo?
     Secca una pina crepitò? Lontano
     cantava l’invisibile assiuolo?
     Silenzio. Solo il ronzìo grave e piano
     s’ode in disparte, e qualche cavalletta
     che scuote il suo campanellino invano.
     Ma di nuovo quel pino, ecco, cinguetta,
     pigola, strilla; e tutta la boscaglia
     ne suona intorno, mentre l’ombre getta
     più grandi. Azzurra in cielo si ritaglia
     ogni cresta dei monti; una vetrata
     a mezzo il poggio razza ed abbarbaglia.
     Dura il frastuono, e par d’una cascata:
     pare sopra il fogliame ampio e sonoro
     lo scroscio d’una luminosa acquata.
     Sfuma gli alberi neri un vapor d’oro.



   LA CALANDRA

 //-- I --// 

     Galleggia in alto un cinguettìo canoro.
     È la calandra, immobile nel sole
     meridïano, come un punto d’oro.
     E le sue voci pullulano sole
     dal cielo azzurro, quando è per tacere
     la romanella delle risaiole;
     e non più tintinnìo di sonagliere
     s’ode passare per le vie lontane;
     ché già desina all’ombra il carrettiere.
     Né più cicale, né più rauche rane,
     non un fil d’aria, non un frullo d’ale:
     unica, in tutto il cielo, essa rimane.
     Rimane e canta; ed il suo canto è quale
     di tutto un bosco, di tutto un mattino;
     vario così com’iride d’opale.
     Canta; e tu n’odi il lungo mattutino
     grido del merlo; e tu senti un odore
     acuto di ginepro e di sapino,
     senti un odore d’ombra e d’umidore,
     di foglie, di corteccia e di rugiada;
     un fragrar di corbezzole e di more.
     Vai per un bosco e senti, ove tu vada,
     quei fischi uscir più liquidi e più ricchi;
     poi, come colpi da remota strada
     di spaccapietre, il martellar de’ picchi.

 //-- II --// 

     Ma no: dib dib: è il passero. Ricopre
     la nebbia i campi, dove è dall’aurora
     de’ bovi il muglio e il viavai dell’opre.
     Fuma la terra, fuma il cielo; ancora
     fuma il camino e, tra le tamerici,
     fuma il letame e grave oggi vapora.
     Vaniscono laggiù le zappatrici;
     di qua l’aratro emerge per incanto,
     tra un pigolìo di passeri mendici.
     Ma donde viene chiaro e dolce il canto
     or della quaglia? È in fior lo spigo; tondo
     s’apre nei campi il fior dell’elïanto.
     È sera forse? e dentro il ciel profondo
     il crepuscolo indugia? e nel sereno
     canta la quaglia di tra il grano biondo?
     E pieno il prato è già di trilli, e pieno
     il grano è già di lucciole, e su l’aie
     bianche s’esala il buon odor del fieno.
     E no, ch’è l’alba: è sotto le grondaie
     tutto un ciarlare. Sono intorno al nido
     le rondinelle garrule massaie.
     La casa dorme. Niuno ancor nel fido
     bricco il caffè, nemico al sonno, infuse.
     Vola e rivola il mattutino strido
     lungo le verdi persïane chiuse.

 //-- III --// 

     Un torvo strillo di poiana… muta
     solitudine… roccie irte, malvage…
     qualche cesto d’assenzio e di cicuta…
     Il cielo sfuma in un rossor di brage.
     Solo un torrente urlare odo: russare
     d’un ebbro in mezzo una sua muta strage.
     E la poiana strilla. Ecco mi appare
     una rovina, una deserta chiesa,
     da cui te, solitario, odo cantare.
     Canti come una dolce anima presa
     da’ suoi ricordi, tu, dalla rovina
     dove è già la pietosa edera ascesa,
     passero azzurro! O donde mai, vicina
     cincia, m’inviti in vano a te? Da un orto
     rosso, cui cinge il bosso e l’albaspina.
     Pendono rosse tra il fogliame smorto
     le dolci mele, e ingiallano le pere.
     Nel mezzo un fico, nudo già, contorto.
     E vi cantano cincie e capinere…
     Ma no, sei tu che, immobile nel sole,
     canti, o calandra, sopra le brughiere.
     E le tue voci pullulano sole
     dal cielo azzurro, con virtù segreta,
     come veggenti limpide parole,
     o grande su le brevi ali poeta!



   CONTE UGOLINO

 //-- I --// 

     Ero all’Ardenza, sopra la rotonda
     dei bagni, e so che lunga ora guardai
     un correre, nell’acqua, onda su onda,
     di lampi d’oro. E alcuno parlò: «Sai?»
     (era il Mare, in un suo grave anelare)
     «io vado sempre e non avanzo mai».
     E io: «Vecchione,» (ma l’eterno Mare
     succhiò lo scoglio e scivolò via, forse
     piangendo) «e l’uomo avanza, sì; ti pare?»
     E l’occhio, vago qua e là mi corse
     alla Meloria… Di che mai ragiona,
     le notti, il tardo guidator dell’Orse
     ozïando su l’acqua che risuona
     lugubre e frangesi alla rea scogliera?…
     E vidi te, cerulea Gorgona;
     e più lontana, come tra leggiera
     nebbia, accennante verso te, rividi
     l’altra. Io vedeva la Capraia, ch’era
     come una nube, e lineavo i lidi
     della Maremma, e imaginai sonante
     un castello di soli aerei stridi,
     in un deserto; e poi te vidi, o Dante.

 //-- II --// 

     Sedeva sopra un masso di granito
     ciclopico. Pensava. Il suo pensiero
     come il mare infinito era infinito.
     Lontani, i falchi sopra il capo austero
     roteavano. Stava la Gorgona,
     come nave che aspetti il suo nocchiero.
     E la Capraia uscìa d’una corona
     di nebbia, appena. Or Egli dritto stante,
     imperïale sopra la persona,
     tese le mani al pelago sonante,
     sì che un’ondata che suggea le rosse
     pomici, all’ombra dileguò di Dante.
     Ed ecco, dove il cenno suo percosse,
     la Gorgona crollò, vacillò; poi
     salpava l’eternale àncora, e mosse.
     E la Capraia scricchiolò da’ suoi
     scogli divelta, e tra un sottil vapore
     veniva. O due rupestri isole, voi
     solcavate le bianche acque sonore,
     la prua volgendo dove non indarno
     voleva il dito del trïonfatore:
     alla foce invisibile dell’Arno.

 //-- III --// 

     Avanzarono come ombra che cresca
     all’improvviso… quando udii, vicino:
     «Conte Ugolino della Gherardesca…»
     Chi parlava di te, Conte Ugolino?
     Uno, fiso nel mare. Oh! tutto in giro,
     sotto il turchino ciel, mare turchino,
     su cui tremola appena al tuo sospiro
     un velo vago, tenue! O Capraia,
     o Gorgona color dello zaffiro,
     ferme io vi scòrsi, come plaustri in aia
     cerula, immensa. E a’ miei piedi l’onda
     battea lo scoglio e risorbìa la ghiaia.
     E nella calma lucida e profonda,
     nudo sul trampolino, con le braccia
     arrotondate su la testa bionda,
     era un fanciullo. «Quello» io chiesi «in faccia
     a noi?» «Sì, quello.» «Quel fanciullo? il Conte
     che rode il teschio nell’eterna ghiaccia?»
     «Foglie d’un ramo, gocciole d’un fonte!»
     Egli guardava un tuffolo pescare
     stridulo; scosse i ricci della fronte,
     e con un grido si tuffò nel mare.



   DIGITALE PURPUREA

 //-- I --// 

     Siedono. L’una guarda l’altra. L’una
     esile e bionda, semplice di vesti
     e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna,
     l’altra… I due occhi semplici e modesti
     fissano gli altri due ch’ardono. «E mai
     non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti
     più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
     e le rividi le mie bianche suore,
     e li rivissi i dolci anni che sai;
     quei piccoli anni così dolci al cuore…»
     L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi
     quell’orto chiuso? i rovi con le more?
     i ginepri tra cui zirlano i tordi?
     i bussi amari? quel segreto canto
     misterioso, con quel fiore, fior di…?»
     «morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto
     io ci credeva che non mai, Rachele,
     sarei passata al triste fiore accanto.
     Ché si diceva: il fiore ha come un miele
     che inebria l’aria; un suo vapor che bagna
     l’anima d’un oblìo dolce e crudele.
     Oh! quel convento in mezzo alla montagna
     cerulea!» Maria parla: una mano
     posa su quella della sua compagna;
     e l’una e l’altra guardano lontano.

 //-- II --// 

     Vedono. Sorge nell’azzurro intenso
     del ciel di maggio il loro monastero,
     pieno di litanie, pieno d’incenso.
     Vedono; e si profuma il lor pensiero
     d’odor di rose e di viole a ciocche,
     di sentor d’innocenza e di mistero.
     E negli orecchi ronzano, alle bocche
     salgono melodie, dimenticate,
     là, da tastiere appena appena tocche…
     Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
     ospite caro? onde più rosse e liete
     tornaste alle sonanti camerate
     oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
     Ave Maria, la vostra voce in coro;
     e poi d’un tratto (perché mai?) piangete…
     Piangono, un poco, nel tramonto d’oro,
     senza perché. Quante fanciulle sono
     nell’orto, bianco qua e là di loro!
     Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
     di vele al vento, vengono. Rimane
     qualcuna, e legge in un suo libro buono.
     In disparte da loro agili e sane,
     una spiga di fiori, anzi di dita
     spruzzolate di sangue, dita umane,
     l’alito ignoto spande di sua vita.

 //-- III --// 

     «Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
     si premono. In quell’ora hanno veduto
     la fanciullezza, i cari anni lontani.
     Memorie (l’una sa dell’altra al muto
     premere) dolci, come è tristo e pio
     il lontanar d’un ultimo saluto!
     «Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
     dice tra sé, poi volta la parola
     grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»
     mormora, «sì: sentii quel fiore. Sola
     ero con le cetonie verdi. Il vento
     portava odor di rose e di viole a
     ciocche. Nel cuore, il languido fermento
     d’un sogno che notturno arse e che s’era
     all’alba, nell’ignara anima, spento.
     Maria, ricordo quella grave sera.
     L’aria soffiava luce di baleni
     silenzïosi. M’inoltrai leggiera,
     cauta, su per i molli terrapieni
     erbosi. I piedi mi tenea la folta
     erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
     Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
     tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
     alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
     con un suo lungo brivido…) si muore!»



   SUOR VIRGINIA

 //-- I --// 

     Tum tum… tum tum… – Ell’era stata in chiesa
     a pregar sola, a dir la sua corona
     sotto la sola lampadina accesa.
     Avea chiesto perdono a chi perdona
     tutto, di nulla; simile ad ancella
     ch’ha gli occhi in mano della sua padrona;
     a una che su l’uscio di sorella
     ricca, socchiuso, prega piano, a volo;
     ch’altri non oda. Era tornata in cella.
     E ora avanti il Cristo morto solo,
     avanti l’agonia di Santa Rita,
     si toglieva il suo velo, il suo soggólo.
     Il cingolo a tre nodi dalla vita
     poi si scioglieva; un giallo teschio d’osso
     girò tre volte nelle ceree dita.
     Tum tum… – Chi picchia? Si rimise in dosso
     lo scapolare. Forse alla parete
     dell’altra stanza. L’uscio non s’è mosso.
     Forse qualche educanda. Una ch’ha sete,
     ch’ha male… Aprì soavemente l’uscio.
     Entrò. Niente. I capelli nella rete,
     le braccia in croce, gli occhi nel lor guscio…

 //-- II --// 

     dormivano, composte, accomodate,
     le due bambine. Aperta la finestra
     era a una gran serenità d’estate.
     L’avea lasciata aperta la maestra
     per via del caldo. Un alito di vento
     recava odor d’acacia e di ginestra.
     Ma che frufrù nell’orto del convento!
     Passava, ora d’un gufo, ora d’un gatto,
     un sordo sgnaulìo subito spento.
     Un grillo ora trillava, ora d’un tratto
     taceva: come? Come se lì presso
     fosse venuto chi sa chi, d’appiatto.
     Un fischiettare, un camminar represso,
     un raspare, un frugare, uno sfrascare
     improvviso su su per il cipresso…
     Brillavan qua e là lucciole rare,
     come spiando. Un ululo ogni tanto
     veniva da un lontano casolare.
     L’urlo d’un cane alla catena, e il canto
     più lontano d’un rauco vagabondo,
     nell’alta notte, era la gioia e il pianto
     che al monastero pervenìa, dal mondo.

 //-- III --// 

     Dormivano. Sì: anche la sorella
     piccina. Era composta, era coperta.
     Suor Virginia tornò nella sua cella.
     Tornò lasciando la finestra aperta
     a quel lontano canto, a quel lontano
     bau bau di cane ch’era sempre all’erta;
     aperta a quello scalpicciar pian piano
     d’uomini o foglie, a quel trillar d’un grillo,
     che poi taceva sotto un piede umano…
     Dormivano. Il lor cuore era tranquillo
     La suora si svestì, così leggiera,
     ch’udì per terra il picchio d’uno spillo.
     S’addormentava. – Tum tum tum… – Che era?
     E Suor Virginia si levò seduta
     sul letto, mormorando una preghiera.
     Ella ascoltò: la piccola battuta
     venìa di là. Si mise anche una volta
     lo scapolare. Entrò. Riguardò muta.
     No. L’una e l’altra si tenea raccolta
     al dolce sonno. Non avean bisogno
     di lei. La bimba s’era, sì, rivolta
     sul cuore; all’altra; a ragionarci in sogno.

 //-- IV --// 

     Tornò, comprese. Avea bussato il Santo.
     Era venuto il tempo di lasciare
     il suo cantuccio in questa Val di pianto.
     A quel Santo ogni sera essa all’altare
     dicea tre pater. Egli non ignora
     nell’ampia terra il nostro limitare.
     Poi ch’egli va, pascendo il gregge ancora,
     come allora: e devìa dalla sua strada
     per dire a questo o quello ospite: «È l’ora».
     Egli è notturno come la rugiada.
     E viene, e bussa fin che il sonnolento
     pellegrino non s’alza e non gli bada.
     Egli era, dunque, entrato nel convento
     per rivelarle l’ora del trapasso.
     Picchiò. Poi stava ad aspettare attento.
     Ella sentito non ne aveva il passo,
     perché va scalzo. Sulla soglia trita
     certo aspettava col cappuccio basso.
     Suor Virginia il fardello della vita
     doveva fare: il cielo era già rosso:
     il suo fardello. Tra le ceree dita
     prese il rosario col suo teschio d’osso.

 //-- V --// 

     E vennero le morte undicimila
     vergini, con le lampade fornite
     d’olio odoroso; camminando in fila;
     di bianco lino, come lei, vestite;
     nelle pallide conche d’alabastro
     portando accese le lor dolci vite;
     passando, sì che in breve erano un nastro
     bianco, ondeggiante, a un alito, pian piano,
     nel cielo azzurro tra la terra e un astro;
     passando, come gli Ave a grano a grano
     d’una corona. E le dicean parole
     di sotto il giglio che teneano in mano.
     Aveva ognuna, su le bianche stole,
     l’orma di sangue della sua tortura.
     Anch’ella, al cuore. Le dicean: «Non duole».
     Era, la prima d’esse, Ursula pura,
     lassù, che tuttavia lampade accese
     splendeano in fila per la terra oscura.
     Le vergini non tutte erano ascese.
     Quella picchiò tre volte con lo stelo
     del giglio. E in terra Suor Virginia intese
     quei colpettini al grande uscio del cielo.

 //-- VI --// 

     Tum tum… – Di là, con tutto quel gran cielo
     alla finestra, oh! trema come foglia
     secca che prilla intorno a un ragnatelo,
     la bimba, e bussa, e par ch’ora, sì, voglia
     dirglielo: Madre, c’è uno laggiù:
     chiuda! E volge gli aperti occhi alla soglia
     dell’uscio: aspetta. Ella non venne più.



   LA QUERCIA CADUTA


     Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande
     morta, né più coi turbini tenzona.
     La gente dice: Or vedo: era pur grande!
     Pendono qua e là dalla corona
     i nidietti della primavera.
     Dice la gente: Or vedo: era pur buona!
     Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
     ognuno col suo grave fascio va.
     Nell’aria, un pianto… d’una capinera
     che cerca il nido che non troverà.



   L’AQUILONE


     C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
     anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
     che sono intorno nate le viole.
     Son nate nella selva del convento
     dei cappuccini, tra le morte foglie
     che al ceppo delle quercie agita il vento.
     Si respira una dolce aria che scioglie
     le dure zolle, e visita le chiese
     di campagna, ch’erbose hanno le soglie:
     un’aria d’altro luogo e d’altro mese
     e d’altra vita: un’aria celestina
     che regga molte bianche ali sospese…
     sì, gli aquiloni! È questa una mattina
     che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
     tra le siepi di rovo e d’albaspina.
     Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
     d’autunno ancora qualche mazzo rosso
     di bacche, e qualche fior di primavera
     bianco; e sui rami nudi il pettirosso
     saltava, e la lucertola il capino
     mostrava tra le foglie aspre del fosso.
     Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
     ventoso: ognuno manda da una balza
     la sua cometa per il ciel turchino.
     Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
     risale, prende il vento; ecco pian piano
     tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.
     S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
     come un fiore che fugga su lo stelo
     esile, e vada a rifiorir lontano.
     S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
     petto del bimbo e l’avida pupilla
     e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
     Più su, più su: già come un punto brilla
     lassù lassù… Ma ecco una ventata
     di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?
     Sono le voci della camerata
     mia: le conosco tutte all’improvviso,
     una dolce, una acuta, una velata…
     A uno a uno tutti vi ravviso,
     o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
     su l’omero il pallor muto del viso.
     Sì: dissi sopra te l’orazïoni,
     e piansi: eppur, felice te che al vento
     non vedesti cader che gli aquiloni!
     Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
     solo avevi del rosso nei ginocchi,
     per quel nostro pregar sul pavimento.
     Oh! te felice che chiudesti gli occhi
     persuaso, stringendoti sul cuore
     il più caro dei tuoi cari balocchi!
     Oh! dolcemente, so ben io, si muore
     la sua stringendo fanciullezza al petto,
     come i candidi suoi pètali un fiore
     ancora in boccia! O morto giovinetto,
     anch’io presto verrò sotto le zolle
     là dove dormi placido e soletto…
     Meglio venirci ansante, roseo, molle
     di sudor, come dopo una gioconda
     corsa di gara per salire un colle!
     Meglio venirci con la testa bionda,
     che poi che fredda giacque sul guanciale,
     ti pettinò co’ bei capelli a onda
     tua madre… adagio, per non farti male.



   IL VECCHIO CASTAGNO


     E Viola tornò per coglitora,
     dopo sementa, dal suo zio d’Albiano.
     Ed ecco, i cardi non cadeano ancora.
     E dava nel frattempo ella una mano
     all’altre donne, e lungo il Rio con esse
     facea brocche di càrpino e d’ontano.
     Ora sfogliava le seconde mèsse,
     dei gelsi, ora segava erba e trifoglio,
     che la brinata non gliele cocesse.
     Perché la bestia dice all’uomo: «Io voglio
     l’ultime frasche, s’altri ebbe le prime.
     A me l’avanzo, s’è di te il rigoglio!
     Le pigne tu, le pampane io: le cime
     io, tu le rappe. Io do, se tu mi desti.
     Fin che c’è verde, non mi dar guaime.
     Padrone, c’è del verde, che tu pesti.
     Menami alle covette della strada,
     menami un poco nella selva ai cesti:
     ai cesti ch’ora a tutto ciò che cada,
     aprono i lor fioretti color carne;
     e cade brina, che attendean rugiada».
     Ed ella andava qualche volta a farne
     per loro, e qualche volta, ch’era bello,
     menava là le vaccherelle scarne.
     E con loro godeva il solicello
     di fin d’ottobre, tra i castagni, sotto
     il re di tutti, un vecchio mondinello.
     Sotto il re dei castagni, sur un grotto
     pieno di musco, si sedea Viola,
     col gomitolo, i ferri e un calzerotto.
     E gettava alle bestie una parola,
     anco un toffo di terra, anco due ghiare
     con le sue mosse di canipaiola.
     Ora un giorno che stava a lavorare
     sotto il castagno, e che sotto i suoi sguardi
     pendean le vacche dalle stipe amare,
     dei tonfi udì, come se quei bastardi
     fosser lì con sassetti e con pinelle,
     chiotti, per darle briga… Erano i cardi.
     Cadeano giù con le castagne belle
     e nere in bocca, che sul musco arsito
     ruzzolavano fuori della pelle.
     Udiva; e il gran castagno ecco sul dito
     le picchiò con un cardo, anzi un pallone,
     piccolo, giallo, chiuso. Era un invito:
     l’albero volea dir la sua ragione.
     Alzò Viola, come se capisse,
     gli occhi, poi li voltò: vide un piccone;
     vide un’accétta. E il vecchio re le disse:
     le disse il re:


 //-- I --// 

     …Viola!… Violetta!…
     Non la vedi costì? C’è da stamani.
     Ce l’ha lasciata il caro zio. L’accétta!
     La piglia su, domani, oggi, a due mani,
     e picchia giù. Dove ella picchia, guai
     a quei frassini! tristi quelli ontani!
     e quei castagni! Non credevi mai,
     Violetta? Lo credo! Ero il più grande!
     Sono il più vecchio. Ella è per me: vedrai.
     Si sa: la quercia deve dar le ghiande,
     e il fico i fichi, ed il castagno i cardi.
     Vivande, noi; solo il rosaio, ghirlande!
     E i cardi son più pochi, ora, e se guardi,
     non son più pieni, ch’io non ho più forza.
     Io ho la lupa. Ho messo poco e tardi.
     Il vecchio re sente impassir la scorza!


 //-- II --// 

     E mi ricordo ch’ero il più piccino
     del branco, quando venni qua; di tutto
     quello d’allora. Io, sai, nacqui a bacino,
     di là del Rio. Di là crescevo sdutto,
     lungo, con molta frasca e molte polle.
     All’ombra, messa tanta e poco frutto!
     Qui, posto al sole, in cima in cima al colle,
     mi dava noia, i primi anni, l’asprura.
     Bramavo quel bel fresco, quel bel molle.
     Ma poi con gli anni feci tiglia dura,
     e il sole amai, che vaporava il fiato
     nella florida mia capellatura.
     A un fin di verno, un uomo col pennato
     mi cuccò tutto per filo e per segno!
     E io restai pulito e dicapato,
     con due mazzette tra la buccia e il legno.


 //-- III --// 

     Vedi i due rami dalle mille vette,
     anzi il doppio grande albero che porto
     sul tronco? Sono quelle due mazzette.
     Ché venne aprile, e io sentiva, assòrto,
     dalle mie fibre risalire il succhio
     cercando in alto ciò che m’era morto:
     ciò che non era, là di lì, che un mucchio
     di verghe dalla lunga acqua percosse,
     cui s’attorceva l’ellera e il vilucchio.
     Ma io sognava tuttavia che fosse
     sopra il mio fusto, e che mettesse i fiocchi
     verdicci dalle sue vermelle rosse.
     Io mi spingeva tutto verso gli occhi
     che non avevo; io mi gettava verso
     il mio passato. C’era quei due brocchi.
     Li empii di me: ma mi sentii diverso.


 //-- IV --// 

     Più dolce, o bimba, mi sentii: più manso.
     Con gli anni feci le castagne. Alcuna
     ce n’è nei cardi. Cerca. A te le canso.
     Le canso a te, mia pastorella bruna
     che vieni qui per cogliere, e due volte
     in cielo fare qui vedrai la luna.
     Son mondinelle; tu le sai, n’hai colte.
     Mòndano bene. Esce da sé pulita
     la carne, il buono, dalle vesti sciolte.
     Tu le mondi per gli altri con le dita
     svelte, seduta al fuoco, sul pannello.
     Gli uomini stanno muti alla partita.
     Quei giorni di novembre, che fa bello,
     che si colma la botte del buon vino,
     che, con indosso mezzo il suo mantello,
     mezzo tra freddo e caldo è San Martino!…


 //-- V --// 

     Da quanti inverni vivo qui sublime!
     E vidi tante creature bionde
     venir su l’alba a cogliere le prime,
     che poi con gli anni, esciti non so donde,
     io li vedeva curvi bianchi tristi
     ruspare lì, nei mucchi delle fronde,
     l’ultime. All’ultimo, io non li ho rivisti.
     Non ne so nulla. So che i coglitori
     vengono e vanno, come tu venisti
     e… Ma quello che sempre, ai dì peggiori,
     anche ho veduto, sia che nella bruma
     la pioggia scrosci e che la neve sfiori,
     è il fiato che nell’aria fredda fuma
     dalla lor casa, il caldo alito, quando
     il vecchio tramontano anche lui ruma
     qua ne’ frondai gridando e farfugliando…


 //-- VI --// 

     O fiamma allegra, che scricchioli e schiocchi,
     scaldando i mesti vecchi, i bimbi savi,
     da noi li avesti cioccatelle e ciocchi!
     O casa buona, messa su dagli avi,
     che pari il freddo, e brilli nella notte,
     da noi li avesti travicelli e travi!
     O mamma, che il laveggio ora o le cotte
     metti all’uncino o sopra i capitoni,
     da noi li avesti i necci e le ballotte!
     O babbo, che nel mezzo al desco poni
     il vinetto che sente un po’ di rame,
     da noi li avesti i pali ed i forconi!
     E tu che mugli, mugli tu per fame
     o per freddo, vacchina dello stento?
     E da noi abbi i vincigli e lo strame…
     mentre noi qui rabbrividiamo al vento.


 //-- VII --// 

     Io ne godeva. Io amo chi mi coglie.
     Ora, capanna casa fuoco vigna,
     non do più frutto né legna né foglie.
     Ora l’accétta scoprirà maligna
     i miei segreti. Ho dentro me dei bruchi
     d’oro, che fanno, come uva, la pigna.
     Aveva dentro, qua e là, nei buchi,
     altri alati che nero di tra il musco
     sporgeano il capo allo svolar dei fuchi.
     Oh! da quanti anni sento nel mio rusco
     sempre ronzare, e sempre nella state
     cantarellare odo tra lusco e brusco!
     Oh! scoprirà l’accétta, abbandonate
     sopra lane di pioppi e ragnatele,
     ovine acquide, avanzi di covate
     di cinciallegre, e un gran favo di miele.


 //-- VIII --// 

     Quanto a me… Quanto a me, mi schiapperanno
     per il metato. Prima lì nel mezzo
     due ciocchi soli col pulacchio d’anno;
     poi tutto v’entrerò pezzo per pezzo.
     Le castagne seccate col castagno
     vengono bianche e sono di più prezzo.
     Ecco, il nostro fruttato io l’accompagno
     anche in morte, morendo a poco a poco,
     e di me l’uomo ha l’ultimo guadagno.
     Mi sfarò piano, non sprizzerò fuoco
     non farò vampa; adagio, come deve
     un buon castagno vecchio che sa il giuoco.
     Poi nel dì che si canta che si beve
     che si picchia su l’aia del metato,
     non sarò più. Sarò cenere, lieve
     cenere, buona per il tuo bucato.


 //-- IX --// 

     E il ceneraccio, al prato!… Odimi. Il fusto
     è marcio, e non può darsi che ributti.
     Gli dia l’accétta e l’accettino. È giusto.
     Ma vedrai, nella ceppa, che tra tutti
     lo zio ralleverà qualche novello
     che viva e cresca, che riscoppi e frutti.
     Fa che salvi codesto, così snello,
     che se tu venga quando avrai marito,
     tu dica: È come il padre; anzi più bello!
     Codesto, sì, costì, presso il tuo dito,
     dove ho picchiato il cardo… Oh! tuo zio!… Digli:
     Questo novello come cresce ardito!
     che speriamo, io e tu, che mi somigli!
     che dia su me, non dia su lui, l’accétta!
     Ti farà le mondine pe’ tuoi figli.
     Diglielo!… su… Viola! Violetta!




   L’ACCESTIRE


   L’ALLORO

 //-- I --// 

     «Ecco l’orbaco:» disse Dore, entrando
     con un ramo d’alloro umido in mano:
     «prendete: io devo ritornar da Nando».
     «A che fare?» la madre gridò. «Piano
     con le mie scarpe! So che il babbo è stanco:
     ci vuole mezzo per calzarli il grano:
     andranno scalzi! due siete ed un branco
     parete!» L’uscio era socchiuso. Fuori
     era per tutto un gran barbaglio bianco.
     La neve nascondea tutti i colori.
     Su, v’appariva qualche fila nera
     delle grandi orme degli agricoltori:
     dove scendeva per veder se c’era
     la terra più, dal tetto e dalla scala,
     il passero: egli che avea messo a sera
     tranquillamente il capo sotto l’ala.


 //-- II --// 

     «L’orbaco…» ripeté Dore, voltando
     all’uscio aperto il suo nasetto rosso:
     «devo aiutarlo: l’ho promesso, a Nando».
     «A che fare? io lo so, mamma, e lo posso
     dir io» fece Rosina: «hanno gli archetti
     per pigliar qualche cincia e pettirosso!
     Povere cincie! poveri uccelletti!
     non hanno ove posare le zampine
     nude! coperti i campi, alberi, tetti!
     Non hanno che beccar, queste mattine:
     né un pippolo né un becio: ecco, e costoro
     tendono… Oh! babbo è troppo buono, infine!»
     Parlava, ed attendeva al suo lavoro,
     stacciando su la conca alta la lieve
     cenere. E Dore le porgea l’alloro
     di su l’uscio, tra un gran bianco di neve.


 //-- III --// 

     «L’orbaco…». «Dà». Lei prese il ramoscello,
     e lui sparì. Ma non pensava a loro
     più Rosa bionda. Era il suo giorno, quello.
     Poco era il giorno e molto era il lavoro:
     la falce è grande, ma più grande il prato.
     E su la conca ella sfogliò l’alloro,
     perché sapesse odore il suo bucato.



   IL BUCATO

 //-- I --// 

     Viola entrò col secchio su la testa,
     e su gli arguti zoccoli ristette
     presso la conca, e disse: «Ora sei lesta?»
     «Mamma!» Rosa chiamò «non ci si mette
     due gusci d’ova?» Rientrava lenta
     la madre con un suo fascio di vette.
     «Eccoli» disse. «Quella legna stenta
     a prender fuoco, e questa era pel forno;
     ma la riposi dopo la sementa:
     è asciutta bene. Il babbo cerca, intorno
     casa, quel ciocco (dov’è mai?) del pero
     dal vischio. Oggi ce n’è per tutto il giorno.
     E i ragazzi, io mi struggo, io mi dispero,
     rincaseranno fradici, se pure…
     Ma sento (se Dio vuole, ecco un pensiero
     di meno) il babbo lavorar di scure».

 //-- II --// 

     «Sei lesta, ora?» «Un minuto anche, Viola».
     Rosa corse al telaio, ed il cannello
     vuoto cavò dalla sua liscia spola.
     E Viola dicea: «Mamma, il vitello,
     lo venderà? Vedeste come viene!
     e, mamma, è così manso, è così bello!
     Tra la sua madre e me, vuole più bene,
     credete, a me». Rispose ella: «E le tasse?
     Figlia, chi disse pane, disse pene.
     Il babbo ha detto: l’acque sono basse…»
     E Viola pensava, e la Turella
     mugliava di laggiù, come ascoltasse.
     Rosa intanto ponea la catinella
     sotto il bocciolo, e poi levata in piedi,
     vedendo gli occhi della sua sorella,
     esclamò: «Meglio non averli, i redi!»

 //-- III --// 

     «Ora?» «Sì: versa a modo: ecco!» Con molle
     gorgoglio su la cenere quell’onda
     fredda scorreva tra cerulee bolle;
     e poi spariva; e giù per la profonda
     conca invadeva i panni… che parenti
     erano anch’essi, e su la stessa sponda
     vedevi insieme poi ruzzare ai venti.



   LA BOLLITURA

 //-- I --// 

     Già: sciorinati su la stessa siepe
     sono come una greggia che soletta
     beva ad un pozzo e mangi ad un presèpe.
     Ma non lontana è l’umile casetta
     con gli occhi aperti delle sue finestre,
     che veglia il dì, che a sera poi li aspetta.
     Essi appartati dalle vie maestre,
     piccoli e grandi stanno insieme al sole,
     empiendo di fruscìo l’angolo alpestre.
     Stridono appena, là con loro, sole
     le foglie secche, e v’è col bianco odore
     della tela l’odor delle viole.
     Ma s’imbevono d’acqua, ora, per ore,
     tiepida prima, e quindi a poco a poco
     più calda, e quindi tolta via col fiore
     nel paiolo che brontola sul fuoco.

 //-- II --// 

     Li coglierete quando il sole sfiora
     i monti aguzzi, voi, Rosa e Viola,
     e vostra madre. È dolce assai quell’ora.
     Mamma coglie, con qualche sua parola,
     i suoi mazzetti, e voi sul greppo liete
     stirate le schioccanti ampie lenzuola.
     Ripasserete il tutto e riporrete,
     troppo per l’ago e poco pel bisogno,
     dentro il comune canteral d’abete;
     dove poi dorme, e sempre vede in sogno
     la soave domenica, piegato
     in odore di spigo e di cotogno.
     Ma or di ranno imbevesi il bucato;
     e il ranno dal paiòl nero, quand’alza
     la schiuma, su la conca alta versato,
     sgorga dal fondo e scivola e rimbalza.

 //-- III --// 

     E la cucina tutto il dì fu piena
     del casalingo e tacito lavoro,
     e il paiolo pendé dalla catena.
     E c’era odor di cenere e d’alloro,
     e il fuoco ardeva. Giù la tramontana
     scendea mugliando; ed un tin tin sonoro
     s’udiva intanto come di fontana.



   LA CANZONE DEL BUCATO

 //-- I --// 

     Quel tintinno diceva: – Era l’estate:
     le cicale cantavano sui meli:
     bianca famiglia, voi dove eravate?
     Certo nei campi: lunghi e verdi steli
     col fiore in cima: ondoleggiando allora
     non pensavate a diventar dei teli.
     Venne l’autunno: usciste d’una gora
     umidi e bianchi: bianchi sì, ma canne
     dal fiume usciste a riveder l’aurora.
     E poi sembraste piccole capanne
     là sul greto tra i ciottoli e le ghiaie,
     ritte sui piedi delle quattro manne.
     Sonava presso voi nelle pescaie
     il cadenzato canto delle rane,
     pari a quello che poi venne dall’aie,
     chiaro gracchiar di gramole lontane.

 //-- II --// 

     Venne l’inverno; e vennero al camino
     l’esili nonne, con una gran ciocca
     bianca, e ciascuna con un suo piccino;
     un piccino che ronza e che non tocca
     mai terra, eppure, non va mai lontano,
     frullando giù col filo nella cócca.
     Con queste rócche venne poi pian piano
     lo stridulo arcolaio; e le sorelle
     dietro si corsero corsero invano.
     E il telaio sonò tra le procelle:
     rumoreggiava tutta la contrada
     di battenti, di calcole e girelle.
     Dopo tanto rumore; alla rugiada,
     sul verde prato, in una rosea sera,
     diritta e lunga, simile a una strada,
     c’era la tela; ed era primavera.

 //-- III --// 

     Sopra le margherite e sopra il timo
     stava la tela, e si vedea lì presso
     un canapaio nero ancor di fimo.
     E la luna pendea sopra il cipresso
     e tu guardavi quella strada, o Rosa,
     lunga, e quel campo, dove a quel riflesso
     il tuo corredo già nascea, di sposa. —



   LA VEGLIA

 //-- I --// 

     Canticchiò la fontana tutto il giorno
     tra sé e sé, gemendo dal bocciuolo,
     salutando ciascuno al suo ritorno.
     Con l’arruffato brivido del volo
     vennero i figli, mentre soli i ciocchi
     ardean russando a quel ciangottar solo.
     Venne il babbo; e, le mani sui ginocchi,
     sedea pensando, mentre dal cantone
     le monachine rincorrea con gli occhi.
     Il piede avea sopra un capitone
     del focolare, dove ardean russando
     i ciocchi; e lo vincea quella canzone.
     Dolce obliar la vanga a quando a quando,
     fin ch’è lungi la prima acqua d’aprile…
     Egli ascoltava quel gorgoglio blando,
     le mani all’asta e il piede sul vangile.

 //-- II --// 

     Alzava il capo al rientrar sonoro
     di frettolosi zoccoli; ed apriva
     gli occhi, e lasciava a mezzo il suo lavoro.
     La vanga rimanea presso un’oliva.
     Ma ecco, a poco a poco e in un momento,
     si trovava le mani su la stiva.
     E l’aratro strideva col lamento
     di legna verde, e per il solco duro
     muggìan le vacche a lungo, come il vento
     di tramontana. E poi tra lume e scuro
     si ritrovava, uscito alfin di pena,
     nel suo cantuccio placido e sicuro.
     Si fece buio, e la lucerna, piena
     d’olio, brillò; più vivo il focolare
     brillò; si cosse e si mangiò la cena;
     e poi le rócche vennero a vegliare.

 //-- III --// 

     E venne Rigo. E venne il vino arzillo,
     e bevve ognuno: il vino aspro, raccolto
     quando nei campi già piangeva il grillo.
     E allora il babbo ragionò, rivolto
     verso le rócche. E Rigo ancor, per uso,
     guardava a quelle, tacito, in ascolto
     dell’incessante sibilar d’un fuso.



   GRANO E VINO

 //-- I --// 

     «Oh! il campetto con siepe e con fossetto!
     Nel verno io voglio, ch’io non son cicala,
     il mio grano con me sotto il mio tetto.
     Il buon odor di pane che si esala
     da quel brusìo di mille chicchi d’oro,
     quando il mio mucchio muovo con la pala!
     Caro il mio grano! Quando il mio tesoro
     mando al mulino, se ne va, sì, questo;
     ma quello nasce sotto il mio lavoro.
     Io le mie braccia, Dio ci mette il resto.
     Me ne sa male; ed ecco che ogni staio
     che mando, dice: – Mandami: fo cesto;
     mandami: imboccio. – Io mando al buon mugnaio.
     – Mandami: impongo; mandami: rassodo. —
     Poi, quando nulla resta nel solaio,
     l’ultimo dice: – To’ la falce: a modo! —

 //-- II --// 

     Lodo la spiga e lodo ancor la pigna.
     Ma la pigna e la spiga hanno gran liti
     tra loro. – Io non vo’ grano nella vigna.
     Padrone, su le prode io non vo’ viti:
     se lo bei, non lo mangi. – Io non do noia:
     tanto mi tagli, quando mi mariti! —
     È infida… – Ogni anno ella convien che muoia. —
     Sempre soffietti… – E ari a capo chino. —
     Io sono la tua vita. – Io la tua gioia. —
     Tua carne è il pane. – Ma tuo sangue, il vino. —
     Che odore sa l’odore di pan fresco! —
     E che cantare fa cantar di tino! —
     Io son di casa. – Io più, che mai non esco:
     tu mi macini in casa co’ tuoi piedi. —
     Tu, con me solo, puoi sederti a desco. —
     Ti levi, senza me, come ti siedi. —

 //-- III --// 

     Tu pigna dura per insù, tu molle
     spiga all’ingiù, vivete dunque in pace!
     Per l’una il piano, sia per l’altra il colle.
     Io la madia e la botte amo; e il loquace
     tino ben canta, e bene odora il forno:
     io ridirvi non so quanto mi piace
     il vin d’un anno con il pan d’un giorno!»



   L’OLIVETA E L’ORTO

 //-- I --// 

     E come li amo que’ miei quattro olivi,
     che al potatoio (sono morinelli)
     gridano ogni anno: – Buon per te, se arrivi! —
     Nonno di nonno li piantò; ma quelli
     buttano ancor la mignola, mentr’esso
     da un po’ non sente cinguettar gli uccelli!
     E ne vengono, sì, sopra il cipresso,
     là, verso sera! Ed esso è là; ma sento
     che verso sera è qui con noi, qui presso.
     Tra lusco e brusco, egli entra lento lento,
     venendo bianco dalla vita eterna,
     e versa l’olio con un viso attento.
     È lui, che il nostro lume anco governa
     con que’ suoi vecchi olivi: e quando l’Ave-
     maria rintocca, e splende la lucerna,
     – Filate, o donne, – mormora – da brave! —

 //-- II --// 

     E come l’amo il mio cantuccio d’orto,
     col suo radicchio che convien ch’io tagli
     via via; che appena morto, ecco è risorto:
     o primavera! con quel verde d’agli,
     coi papaveri rossi, la cui testa
     suona coi chicchi, simile a sonagli;
     con le cipolle di cui fo la resta
     per San Giovanni; con lo spigo buono,
     che sa di bianco e rende odor di festa;
     coi riccioluti càvoli, che sono
     neri, ma buoni; e quelle mie viole
     gialle, ch’hanno un odore… come il suono
     dei vespri, dopo mezzogiorno, al sole
     nuovo d’aprile; ed alto, co’ suoi capi
     rotondi, d’oro, il grande girasole
     ch’è sempre pieno del ronzìo dell’api!

 //-- III --// 

     E amo tutto: i vetrici ed i salci,
     che ripulisco ogni anno d’ogni vetta
     per farne i torchi da legare i tralci;
     quella fila di gattici soletta,
     alta e lunga, su cui cantano i chiù;
     il canneto che stride e che scoppietta:
     ma non sapete quello ch’amo più



   LA SIEPE

 //-- I --// 

     Siepe del mio campetto, utile e pia,
     che al campo sei come l’anello al dito,
     che dice mia la donna che fu mia
     (ch’io pur ti sono florido marito,
     o bruna terra ubbidïente, che ami
     chi ti piagò col vomero brunito…);
     siepe che il passo chiudi co’ tuoi rami
     irsuti al ladro dormi ‘l-dì; ma dài
     ricetto ai nidi e pascolo a gli sciami;
     siepe che rinforzai, che ripiantai,
     quando crebbe famiglia, a mano a mano,
     più lieto sempre e non più ricco mai;
     d’albaspina, marruche e melograno,
     tra cui la madreselva odorerà
     io per te vivo libero e sovrano,
     verde muraglia della mia città.

 //-- II --// 

     Oh! tu sei buona! Ha sete il passeggero;
     e tu cedi i tuoi chicchi alla sua sete,
     ma salvi il frutto pendulo del pero.
     Nulla fornisci alle anfore segrete
     della massaia: ma per te, felice
     ella i ciliegi popolosi miete.
     Nulla tu rendi; ma la vite dice;
     quando la poto all’orlo della strada,
     che si sente il cucùlo alla pendice,
     dice: – Il padre tu sei che, se t’aggrada,
     sì mi correggi e guidi per il pioppo;
     ma la siepe è la madre che mi bada. —
     – Per lei vino ho nel tino, olio nel coppo —
     rispondo. I galli plaudono dall’aia;
     e lieto il cane, che non è di troppo,
     ch’è la tua voce, o muta siepe, abbaia.

 //-- III --// 

     E tu pur, siepe, immobile al confine,
     tu parli; breve parli tu, ché, fuori,
     dici un divieto acuto come spine;
     dentro, un assenso bello come fiori;
     siepe forte ad altrui, siepe a me pia,
     come la fede che donai con gli ori,
     che dice mia la donna che fu mia.



   ACCESTISCE

 //-- I --// 

     Egli parlava; e vennero i pisani:
     presero Dore, adagio su le braccia:
     – Vi si riporterà, gente, domani! —
     Nando riprese allora la sua caccia.
     Viola lo seguì con la Turella
     pascendo i timi giù per la Pianaccia.
     Ma gli occhi aperti Rosa, la sorella
     bionda, teneva. Ella tra sé romita
     faceva e disfaceva una mannella.
     Sembravano un veloce aspo le dita
     silenzïose. Rigo s’era fatto
     più presso: «Ed ora, sola è la mia vita!»
     S’udiva solo quel parlare. Un gatto
     ronfava. La lucerna ora dimessa
     sfriggeva, ora guizzava alto d’un tratto,
     come in un sogno: ché dormiva anch’essa.

 //-- II --// 

     «… E fate a modo!» Rigo uscì. Non c’era
     per la campagna bianca che lui solo
     e l’ombra sua che lo seguiva nera.
     Splendea la luna su quel gran lenzuolo
     candido, come, accanto un letto, il lume
     dimenticato; e scricchiolava il suolo
     sotto i suoi passi; e brontolava il fiume
     là là: le giravolte sue lontane
     mostrava appena un vago fior di brume.
     Pestava un altro su la neve: un cane;
     Po: gli strisciò le gambe. Ecco che intese
     un arrochito suono di campane.
     Mezzanotte. Ogni casa, ogni paese
     dormiva. Egli era nella via maestra:
     guardava in alto, donde già discese:
     c’era un lume, un lumino, alla finestra.

 //-- III --// 

     E c’era un’ombra. Egli vedeva. Ed ella
     vedeva. E fece un segno colla mano.
     L’ombra sparì: si spense la fiammella.
     E la sua strada seguitò pian piano,
     e ripensava dentro sé: che cosa?
     Ch’era gennaio… ch’accestiva il grano…
     ch’era già tardi… ch’eri bella, o Rosa!




   I DUE FANCIULLI – I DUE ORFANI


   I DUE FANCIULLI

 //-- I --// 

     Era il tramonto: ai garruli trastulli
     erano intenti, nella pace d’oro
     dell’ombroso viale, i due fanciulli.
     Nel gioco, serio al pari d’un lavoro,
     corsero a un tratto, con stupor de’ tigli,
     tra lor parole grandi più di loro.
     A sé videro nuovi occhi, cipigli
     non più veduti, e l’uno e l’altro, esangue,
     ne’ tenui diti si trovò gli artigli,
     e in cuore un’acre bramosia di sangue,
     e lo videro fuori, essi, i fratelli,
     l’uno dell’altro per il volto, il sangue!
     Ma tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
     strappati e pésti!), o madre pia, venivi
     su loro, e li staccavi, i lioncelli,
     ed «A letto» intimasti «ora, cattivi!»


 //-- II --// 

     A letto, il buio li fasciò, gremito
     d’ombre più dense; vaghe ombre, che pare
     che d’ogni angolo al labbro alzino il dito.
     Via via fece più grosse onde e più rare
     il lor singhiozzo, per non so che nero
     che nel silenzio si sentia passare.
     L’uno si volse, e l’altro ancor, leggero:
     nel buio udì l’un cuore, non lontano
     il calpestìo dell’altro passeggero.
     Dopo breve ora, tacita, pian piano,
     venne la madre, ed esplorò col lume
     velato un poco dalla rosea mano.
     Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
     dormir li vide, l’uno all’altro stretto
     con le sue bianche aluccie senza piume;
     e rincalzò, con un sorriso, il letto.


 //-- III --// 

     Uomini, nella truce ora dei lupi,
     pensate all’ombra del destino ignoto
     che ne circonda, e a’ silenzi cupi
     che regnano oltre il breve suon del moto
     vostro e il fragore della vostra guerra,
     ronzio d’un’ape dentro il bugno vuoto.
     Uomini, pace! Nella prona terra
     troppo è il mistero; e solo chi procaccia
     d’aver fratelli in suo timor, non erra.
     Pace, fratelli! e fate che le braccia
     ch’ora o poi tenderete ai più vicini,
     non sappiano la lotta e la minaccia.
     E buoni veda voi dormir nei lini
     placidi e bianchi, quando non intesa,
     quando non vista, sopra voi si chini
     la Morte con la sua lampada accesa.



   NELLA NEBBIA


     E guardai nella valle: era sparito
     tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
     grigio, senz’onde, senza lidi, unito.
     E c’era appena, qua e là, lo strano
     vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
     uccelli spersi per quel mondo vano.
     E alto, in cielo, scheletri di faggi,
     come sospesi, e sogni di rovine
     e di silenzïosi eremitaggi.
     Ed un cane uggiolava senza fine,
     né seppi donde, forse a certe péste
     che sentii, né lontane né vicine;
     eco di péste né tarde né preste,
     alterne, eterne. E io laggiù guardai:
     nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
     Chiesero i sogni di rovine: – Mai
     non giungerà? – Gli scheletri di piante
     chiesero: – E tu chi sei, che sempre vai? —
     Io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante
     con sopra il capo un largo fascio. Vidi,
     e più non vidi, nello stesso istante.
     Sentii soltanto gl’inquïeti gridi
     d’uccelli spersi, l’uggiolar del cane,
     e, per il mar senz’onde e senza lidi,
     le péste né vicine né lontane.



   LA GRANDE ASPIRAZIONE


     Un desiderio che non ha parole
     v’urge, tra i ceppi della terra nera
     e la raggiante libertà del sole.
     Voi vi torcete come chi dispera,
     alberi schiavi! Dispergendo al cielo
     l’ombra de’ rami lenta e prigioniera,
     e movendo con vane orme lo stelo
     dentro la terra, sembra che v’accori
     un desiderio senza fine anelo.
     – Ali e non rami! piedi e non errori
     ciechi di ignave radiche! – poi dite
     con improvvisa melodia di fiori.
     Lontano io vedo voi chiamar con mite
     solco d’odore; vedo voi lontano
     cennar con fiamme piccole, infinite.
     E l’uomo, alberi, l’uomo, albero strano
     che, sì, cammina, altro non può, che vuole;
     e schiavi abbiamo, per il sogno vano,
     noi nostri fiori, voi vostre parole.



   L’IMMORTALITÀ

 //-- I --// 

     Poeta Omar, pupilla solitaria
     che vede e splende, che contempla e crea,
     diceva avanti il mausoleo di Caria:
     «Non mescerai la polvere all’idea!
     Misero te, cui nella rupe piace
     scoprir la bianca faretrata dea!
     e te che il fosco eroe dalla fornace
     susciti vivo sopra il suo cavallo
     che ringhia! Il tempo che cammina e tace,
     rode il tuo marmo, lima il tuo metallo.

 //-- II --// 

     Tra mille, tra duemila anni, tra poco,
     l’eroe sarà nella volante arena,
     sarà la dea ne’ grappoli di fuoco!
     Misero! Ma quest’opera serena,
     fatta d’anima pura e di parole,
     beltà dal tempo e dalla morte ha lena:
     vive la vita lucida del sole».

 //-- III --// 

     «Dunque morrà!» rispose Abdul, quïeta
     pupilla, su cui getta ombre il fulgore
     del cielo immenso: «Il sol morrà, poeta!
     Quando? Tu conta i bàttiti al tuo cuore:
     secoli sono i palpiti del sole;
     ma sono, istanti e secoli, a chi muore,
     o poeta, una cosa e due parole!»

 //-- IV --// 

     Disse. E al poeta il breve inno non piacque
     mai più. Godé del cielo egli e del suolo,
     di brevi rose e brevi trilli; e tacque.
     Moriva; e disse, mentre un usignolo
     cantava ancora ne’ verzieri suoi:
     «Giova ciò solo che non muore, e solo
     per noi non muore, ciò che muor con noi».



   IL LIBRO

 //-- I --// 

     Sopra il leggìo di quercia è nell’altana,
     aperto, il libro. Quella quercia ancora,
     esercitata dalla tramontana,
     viveva nella sua selva sonora;
     e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
     sembra che ascolti il tarlo che lavora.
     E sembra ch’uno (donde mai? non, certo,
     dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
     delle montagne e il vento del deserto,
     sorti d’un tratto…) sia venuto, e lento
     sfogli – se n’ode il crepitar leggiero —
     le carte. E l’uomo non vedo io: lo sento,
     invisibile, là, come il pensiero…

 //-- II --// 

     Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
     carta all’estrema, rapido, e pian piano
     va, dall’estrema, a ritrovar la prima.
     E poi nell’ira del cercar suo vano
     volta i fragili fogli a venti, a trenta,
     a cento, con l’impazïente mano.
     E poi li volge a uno a uno, lenta-
     mente, esitando; ma via via più forte,
     più presto, i fogli contro i fogli avventa.
     Sosta… Trovò? Non gemono le porte
     più, tutto oscilla in un silenzio austero.
     Legge?… Un istante; e volta le contorte
     pagine, e torna ad inseguire il vero.

 //-- III --// 

     E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
     nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
     tra un alïare come di chimere.
     E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
     tumidi al vento l’ombra tende, e viene
     con le deserte costellazïoni
     la sacra notte. Ancora e sempre: bene
     io n’odo il crepito arido tra canti
     lunghi nel cielo come di sirene.
     Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
     invisibile, là, come il pensiero,
     che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
     sotto le stelle, il libro del mistero.



   LA FELICITÀ


     «Quella, tu dici, che inseguii, non era
     lei…?» «No: era una vana ombra in sembiante
     di quella che ciascuno ama e che spera
     e che perde. Virtù di negromante!»
     «Ella è qui, nel castello arduo ch’entrai?»
     «Forse la tocchi, o cavaliere errante!»
     «Forse… E non la vedrò?» «Non la vedrai».
     «Oh!» «Tale è l’arte dell’oscuro Atlante:
     non è, la vedi: è, non la vedi». «E, mai…?»
     «Ma sì: se leggi in questo libro tante
     rapide righe». «E dicono…?» «S’ignora:
     chi lesse, tacque, o cavaliere errante!»
     «Se leggo…» «Sai: l’incanto è rotto». «Allora?»
     «La vedrai». «Su l’istante?» «In quell’istante!»
     «E il castello?» «Nell’ombra esso vapora».
     «Ed è?…» «La Vita, o cavaliere errante!»



   IL CIECO

 //-- I --// 

     Chi l’udì prima piangere? Fu l’alba.
     Egli piangeva; e, per udirlo, ascese
     qualche ramarro per una vitalba.
     E stettero, per breve ora, sospese
     su quel capo due grandi aquile fosche.
     Presso era un cane, con le zampe tese
     all’aria, morto: tra un ronzìo di mosche.

 //-- II --// 

     «Donde venni non so; né dove io vada
     saper m’è dato. Il filo del pensiero
     che mi reggeva, per la cieca strada,
     da voci a voci, dal dì nero al nero
     tacer notturno (m’addormii; sognai:
     vedevo in sogno che vedevo il vero:
     desto, più non lo so, né saprò mai…);

 //-- III --// 

     nel chiaro sonno, in mezzo a un rombo d’api,
     si ruppe il tenue filo. E poi che gli occhi
     apersi, cerco i due penduli capi
     in vano. Mi levai sopra i ginocchi,
     mi levai su’ due piedi. E l’aria in vano
     nera palpo, e la terra anche, s’io tocchi
     pure il guinzaglio, cui lasciò la mano

 //-- IV --// 

     addormentata. Oh! non credo io che dorma
     la mia guida, e con lieve squittir segua
     nel chiaro sonno il lieve odor d’un’orma!
     Egli è fuggito; è vano che l’insegua
     per l’ombra il suono delle mie parole!
     Oh! la lunga ombra che non mai dilegua
     per la sempre aspettata alba d’un sole,

 //-- V --// 

     che di là brilla! Vano il grido, vano
     il pianto. Io sono il solo dei viventi,
     lontano a tutti ed anche a me lontano.
     Io so che in alto scivolano i venti,
     e vanno e vanno senza trovar l’eco,
     a cui frangere alfine i miei lamenti;
     a cui portare il murmure del cieco…

 //-- VI --// 

     Ma forse uno m’ascolta; uno mi vede,
     invisibile. Sé dentro sé cela.
     Sogghigni? piangi? m’ami? odii? Siede
     in faccia a me. Chi che tu sia, rivela
     chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace
     o si compiange della mia querela!
     Egli mi guarda immobilmente, e tace.

 //-- VII --// 

     O forse una mi vede, una m’ascolta,
     invisibile. È grande, orrida: il vento
     le va fremendo tra la chioma folta.
     Siede e mi guarda. O tu che ignoro e sento,
     dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!
     dimmi ove sono! Ed essa è là, col mento
     sopra la palma, che mi guarda, e tace.

 //-- VII --// 

     Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
     me, parla dunque: dove sono? Io voglio
     cansar l’abisso che mi sento ai piedi…
     di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio
     n’odo incessante; e d’ogni intorno pare
     che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,
     tra un nero immenso fluttuar di mare».

 //-- IX --// 

     Così piangeva: e l’aurea sera nelle
     rughe gli ardea del viso; e la rugiada
     sopra il suo capo piovvero le stelle.
     Ed egli stava, irresoluto, a bada
     del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
     d’oblìo, volgeva; fin ch’ – io so la strada —
     una, la Morte, gli sussurrò – vieni! —



   L’EREMITA

 //-- I --// 

     Pregava all’alba il pallido eremita:
     «Dio, non negare il sale alla mia mensa,
     non negare il dolore alla mia vita.
     Ma del dolore che quaggiù dispensa
     la tua celeste provvidenza buona,
     a me risparmia il reo dolor che pensa.
     O, s’è destino, per di più mi dona,
     con quel che pensa, anche il dolor che grida:
     l’afa che opprime, il nuvolo che tuona;
     pensier che strugga e folgore che uccida!»

 //-- II --// 

     E ripregava a mezzodì: «Rimane,
     Dio, che tu lasci che il nemico muto
     pur mandi a me le nudità sue vane.
     Quando al vespro del mio dì combattuto
     dilegueranno, io penserò che, vere,
     le avrei non meno dileguar veduto.
     Nel cuore sono due vanità nere
     l’ombra del sogno e l’ombra della cosa;
     ma questa è il buio a chi desìa vedere,
     e quella il rezzo a chi stanco riposa».

 //-- III --// 

     A sera, disse: «Il servo, umile e grato,
     ti benedice! Tu mi desti, o Dio,
     l’aver provato e non aver peccato.
     L’anima mia tu percotesti e il mio
     corpo di tanto e tal dolor ch’è d’ogni
     dolcezza assai più dolce ora l’oblìo.
     Infelice cui l’occhio apresi ai sogni,
     apresi nella grande ombra che tace,
     sia che già tema, sia che sempre agogni!
     Piansi, non piango: io dormirò: sia pace!»

 //-- IV --// 

     E velò gli occhi il pallido eremita.
     Ed ecco gli fluìa per i precordi
     il dolce sonno della stanca vita;
     quando riscosso (egli scendeva a fior di
     grandi acque mute su labile nave)
     gridò: «Signore, fa ch’io mi ricordi!
     Dio, fa che sogni! Nulla è più soave,
     Dio, che la fine del dolor; ma molto
     duole obliarlo; ché gettare è grave
     il fior che solo odora quando è colto».



   L’ASINO

 //-- I --// 

     L’asino… Parmi adesso: era una sera
     d’ottobre, nella strada di Sogliano.
     Cigolava per l’erta la corriera.
     E io guardavo dietro me, nel piano,
     dove San Mauro mio già non appare
     – oh! mio nido di lodola tra il grano! —
     dove tra il verde luccica, e tra chiare
     brecce di ville borghi città, drago
     addormentato dal cantar del mare,
     la Marecchia argentina. E quando pago
     fui della vista, mi rivolsi e, nero
     come uno scoglio per un roseo lago,
     nero sopra un trascolorar leggiero
     di tutto il cielo, come un’ombra netta,
     nero e fermo lassù come un mistero,
     l’asino vidi con la sua carretta.

 //-- II --// 

     Non altro? No. Da non so qual pendice
     veniva un canto di vendemmiatore,
     veniva un canto di vendemmiatrice:
     veniva or sì, or no, tra lo stridore
     delle ruote. Sentii queste parole:
     – E m’hanno detto ch’è morto l’amore… —
     Io, sole queste; ma non queste sole
     l’asino che lassù stava, annerando
     dentro il morire fulgido del sole.
     Pur non vibrava, vidi, a quando a quando
     l’orecchie della lunga ombra per quello
     stornellamento così lungo e blando;
     sì le volgeva appena a un ritornello
     or chiaro come d’anelante piva,
     or aspro come d’avido succhiello…
     Su la carretta il carrettier dormiva.

 //-- III --// 

     Russava nella strada solitaria
     Schiuma, lo scalzo e rauco pesciaiolo,
     tuo figlio, o di marruche irta Bellaria.
     Lo prese e vinse il vino di Bagnolo
     nel suo ritorno; e l’altro, a poco a poco
     per non più fare la sua via da solo
     (senza il bastone!), si fermò tra il fuoco
     del vespro. Dietro, delle ondanti gote
     egli ascoltava il buffar grande e roco.
     L’uno dormiva su le ceste vuote,
     vidi passando: e l’asino, St! dorme!
     parve accennare alle sonore ruote.
     L’un su le ceste, e su le sue quattro orme
     l’altro, non meno immobile del primo.
     Soltanto l’ombra sua, lunga e deforme,
     pasceva al greppo un vago odor di timo.

 //-- IV --// 

     E l’uomo, con la cara anima invasa
     d’oblìo, dormiva nella via maestra;
     ma già la moglie l’attendeva in casa.
     Fosse andato pur là dove è maestra
     gente in far teglie, sotto cui bel bello
     scoppietti il pungitopo e la ginestra;
     a Montetiffi; o dove, a Montebello,
     passero solitario, ancor per uso
     torni nel solitario tuo castello;
     già l’attendeva; e la capanna al Luso
     più non udiva dell’industre moglie
     il fremebondo vortice del fuso;
     ch’ella destava il fuoco già, con foglie
     secche, e stacciava, e poi metteva il piede
     fuori, e le donne assise su le soglie
     interrogava ad or ad or: Si vede?

 //-- V --// 

     Ma l’uomo era lassù, lungi dal mare,
     sul monte azzurro; e nol sapea: pian piano
     credea seguire il suo tranquillo andare.
     Anzi, calava d’un buon passo al piano:
     già balzellando si sentì di sotto
     le tue selci sonanti, o Savignano.
     Anzi, a San Mauro s’era già condotto;
     e sentiva sonar l’Avemaria,
     grave e soave, tra il fragor del trotto.
     Anzi, alla Torre: e nella nera ombrìa
     del parco udiva un ultimo fringuello,
     mentre al galoppo egli svoltò la via.
     Anzi, era giunto: urlava: Arri! mio bello.
     L’aria marina gli pungea la fronte,
     e la rena legava: Arri!… Ma quello
     era là, fermo, su l’azzurro monte.

 //-- VI --// 

     Schiuma, la rena lega! Uomo, la rena
     lega le ruote! Il po’ di via che resta,
     si farà certo con un po’ di pena;
     ma è l’ultimo! l’ultimo! ma questa
     è la mèta, è il riposo! Odi: col canto
     delle mille onde il mare ti fa festa.
     Avanti! Si va piano, ora; ma quanto
     s’è corso prima! O Schiuma, ecco Bellaria!
     Avanti! ecco la gioia, uomo! – Frattanto
     l’asino è fermo, e l’uomo sogna. Svaria
     quel gruppo nero sul purpureo cielo.
     I pipistrelli sbalzano per l’aria.
     Viene un suon di campane dietro un velo
     di lontananza; e tutto si scolora.
     Laggiù chiede una donna al mare anelo,
     all’ombra muta: Non si vede ancora?



   IL TRANSITO


     Il cigno canta. In mezzo delle lame
     rombano le sue voci lunghe e chiare,
     come percossi cembali di rame.
     È l’infinita tenebra polare.
     Grandi montagne d’un eterno gelo
     póntano sopra il lastrico del mare.
     Il cigno canta; e lentamente il cielo
     sfuma nel buio, e si colora in giallo;
     spunta una luce verde a stelo a stelo.
     Come arpe qua e là tocche, il metallo
     di quella voce tìntina; già sfiora
     la verde luce i picchi di cristallo.
     E nella notte, che ne trascolora,
     un immenso iridato arco sfavilla,
     e i portici profondi apre l’aurora.
     L’arco verde e vermiglio arde, zampilla,
     a frecce, a fasci; e poi palpita, frana
     tacitamente, e riascende e brilla.
     Col suono d’un rintocco di campana
     che squilli ultimo, il cigno agita l’ale:
     l’ale grandi grandi apre, e s’allontana
     candido, nella luce boreale.



   IL FOCOLARE

 //-- I --// 

     È notte. Un lampo ad or ad or s’effonde,
     e rileva in un gran soffio di neve
     gente che va né dove sa né donde.
     Vanno. Via via l’immensa ombra li beve.
     E quale è solo e quale tien per mano
     un altro sé dal calpestìo più breve.
     E chi gira per terra l’occhio vano,
     e chi lo volge al dubbio d’una voce,
     e chi l’innalza verso il ciel lontano,
     e chi piange, e chi va muto e feroce.

 //-- II --// 

     Piangono i più. Passano loro grida
     inascoltate: niuno sa ch’è pieno,
     intorno a lui, d’altro dolor che grida.
     Ma vede ognuno, al guizzo d’un baleno,
     una capanna sola nel deserto;
     e dice ognuno nel suo cuore – Almeno
     riposerò! – Dal vagolare incerto
     volgono a quella sotto l’aer bruno.
     Eccoli tutti avanti l’uscio aperto
     della capanna, ove non è nessuno.

 //-- III --// 

     Sono ignoti tra loro, essi, venuti
     dai quattro venti al tacito abituro:
     a uno a uno penetrano muti.
     – Qui non fa così freddo e così scuro! —
     dicono tra un sospiro ed un singulto;
     e si assidono mesti intorno al muro.
     E dietro il muro palpita il tumulto
     di tutto il cielo, sempre più sonoro:
     gemono al buio, l’uno all’altro occulto;
     tremano… Un focolare è in mezzo a loro.

 //-- IV --// 

     Un lampo svela ad or ad or la gente
     mesta, seduta, con le braccia in croce,
     al focolare in cui non è nïente.
     Tremano: in tanto il bàttito veloce
     sente l’un cuor dell’altro. Ognuno al fianco
     trova un orecchio, trova anche una voce;
     e il roseo bimbo è presso il vecchio bianco,
     e la pia donna all’uomo: allo straniero
     omero ognuno affida il capo stanco,
     povero capo stanco di mistero.

 //-- V --// 

     Ed ecco parla il buon novellatore,
     e la sua fola pendula scintilla,
     come un’accesa lampada, lunghe ore
     sopra i lor capi. Ed ecco ogni pupilla
     scopre nel vano focolare il fioco
     fioco riverberìo d’una favilla.
     Intorno al vano focolare a poco
     a poco niuno trema più né geme
     più: sono al caldo; e non li scalda il fuoco,
     ma quel loro soave essere insieme.

 //-- VI --// 

     Sporgono alcuni, con in cuor la calma,
     le mani al fuoco: in gesto di preghiera
     sembrano tese l’una e l’altra palma.
     I giovinetti con letizia intiera
     siedon del vano focolare al canto,
     a quella fiamma tiepida e non vera.
     Le madri, delle mani una soltanto
     tendono; l’altra è lì, sopra una testa
     bionda. C’è dolce ancora un po’ di pianto,
     nella capanna ch’urta la tempesta.

 //-- VII --// 

     Oh! dolce è l’ombra del comun destino,
     al focolare spento. Esce dal tetto
     alcuno e va per suo strano cammino;
     e la tempesta rompe aspro col petto
     maledicendo; e qualche sua parola
     giunge a quel mondo placido e soletto,
     che veglia insieme; e il nero tempo vola
     su le loro soavi anime assorte
     nel lungo sogno d’una lenta fola;
     mentre all’intorno mormora la morte.



   I DUE ORFANI

 //-- I --// 

     «Fratello, ti do noia ora, se parlo?»
     «Parla: non posso prender sonno». «Io sento
     rodere, appena…» «Sarà forse un tarlo…»
     «Fratello, l’hai sentito ora un lamento
     lungo, nel buio?» «Sarà forse un cane…»
     «C’è gente all’uscio…» «Sarà forse il vento…»
     «Odo due voci piane piane piane…»
     «Forse è la pioggia che vien giù bel bello».
     «Senti quei tocchi?» «Sono le campane».
     «Suonano a morto? suonano a martello?»
     «Forse…» «Ho paura…» «Anch’io». «Credo che tuoni:
     come faremo?» «Non lo so, fratello:
     stammi vicino: stiamo in pace: buoni».

 //-- II --// 

     «Io parlo ancora, se tu sei contento.
     Ricordi, quando per la serratura
     veniva lume?» «Ed ora il lume è spento».
     «Anche a que’ tempi noi s’aveva paura:
     sì, ma non tanta». «Or nulla ci conforta,
     e siamo soli nella notte oscura».
     «Essa era là, di là di quella porta;
     e se n’udiva un mormorìo fugace,
     di quando in quando». «Ed or la mamma è morta».
     «Ricordi? Allora non si stava in pace
     tanto, tra noi…» «Noi siamo ora più buoni…»
     «ora che non c’è più chi si compiace
     di noi…» «che non c’è più chi ci perdoni».



   LE ARMI


     «Nando!» al su’ omo disse il babbo «Nando!
     Di tuo tu devi aver già l’armi, nuove,
     ben fatte. Dunque va dove ti mando.
     Il ponte sai, della Corsonna, dove
     entra nel Serchio. C’è un fruscìo di polle,
     in quel contorno, che fa dir: Qui piove!
     fa dire al cieco che vien giù dal colle
     col suo canetto, e, fosse il solleone,
     sente un frastuono, sente un fresco, un molle…
     Già gli par che di dosso il can barbone
     sgrolli le grosse gocciole, e la strada
     odori forte sotto l’acquazzone.
     Basta: se rumor d’acqua odi, che cada
     senza nuvole in cielo, ecco Aladino
     che farà la tua lancia e la tua spada.
     Forse t’aspetta all’ombra d’un gran pino
     bevendo vino. O è forse al lavoro
     col suo gran maglio dentro lo stendino.
     Tutto vestito d’ellera e d’alloro
     è lo stendino. Dentro, alla catena,
     è il gran maglio dal capo come toro
     Ed ecco il fabbro che l’avvia, lo frena,
     lo sferra, arresta, mentre soffia il vento
     e l’acqua stroscia e il focolar balena.
     E il maglio picchia, ora veloce, or lento
     lento, sul rosso ferro, come pare
     all’uomo: un uomo! ma che vale i cento.
     E dunque l’armi tu ne avrai, più care,
     figlio, più tue: ruvide e nere in prima,
     ma è il lavoro che le fa lustrare.
     Ma fa, il lavoro, come fa la lima:
     pulisce e rode: l’armi e l’uomo… Ebbene?
     Se il calcio è verde, secchi pur la cima!
     Fate armi nuove per ognun che viene
     nuovo nel mondo. Ed abbia ognuno in mano
     il suo marrello e il suo po’ po’ di bene».
     Così diceva. E Nando scese al piano
     di Castelvecchio. Nelle porche uguali,
     come un velluto verdicava il grano.
     Faceva l’unghia già qualcuno ai pali
     per le sue viti. Sui forconi vecchi
     cantavano, spiando, i pinzampali.
     Altri potava. Si sentian gli azzecchi,
     gli schiocchi delle forbici. Sui pioppi
     dava il pennato fitti colpi secchi.
     Oh! quanti olivi sul pendìo! Sin troppi.
     Erano un bosco. E ne cadean già nere
     le olive, e l’olio avrebbe empito i coppi.
     Castagne, grano, vino, olio… un podere,
     lì, gli garbava. C’era anche la fonte
     a cui menare le sue bestie a bere.
     Oh! c’era bello, lì tra piano e monte,
     lì tra il fiume il torrente il torrentello,
     e con la Pania cerula di fronte!
     Bello, sì, ma il suo nido era più bello.
     Bevve alla fonte e seguitò la strada,
     e vide il fiume e il ponte lungo e snello.
     Non lo passò: svoltò per la contrada
     dell’Arsenale e di Mologno, dove
     si facea la sua lancia e la sua spada.
     Era ancora prestino, eran le nove
     forse, e il mattino era di rose e d’oro,
     quando in suo cuore esclamò Nando: Piove!
     E non pioveva; ma s’udìa sonoro
     un cader d’acqua. Un casolare basso
     c’era, coperto d’ellera e d’alloro.
     Vi scese, udendo ad or ad or fracasso
     di ferro in mezzo al murmure incessante
     dell’acqua, e il maglio rimbombar sul tasso.
     Parea soffiare il vento tra le piante
     d’una foresta. Entrò guardando al fioco
     lume. E rosso gli apparve, ecco, un gigante
     tra un improvviso sgretolìo di fuoco.

 //-- I --// 

     S’appoggiò su l’incudine col mazzo.
     Sopra la fronte si strusciò due dita.
     Le sgrollò. Disse: «So chi sei, ragazzo.
     E so cosa tu vuoi dall’eremita
     fabbro ferraio: l’armi nuove e belle,
     l’armi che dànno anche al tuo re la vita.
     Sono sei: tre fratelli e tre sorelle.
     Tienle con te da quando sorge a quando
     cade lo stormo delle Gallinelle».
     Disse, e comandò l’acqua. Essa al comando
     rimbombò cupa, e mosse il vento, e il vento
     sul rosso fuoco si gettò fischiando.
     Nella spelonca il biondo fabbro, attento,
     movea, tra l’invisibile acqua e il rosso
     fuoco, due braccia che battean per cento.
     Ché la Corsonna a lui correa pel fosso
     perennemente, ad un suo cenno presta,
     quando accennava: Ora da me non posso.
     Ella, scendendo come la tempesta,
     movea la ruota, essa lo stile, e tu,
     maglio, sul ferro e su l’acciaio la testa
     alzavi e la lasciavi piombar giù.

 //-- II --// 

     E prima il fabbro fabbricò la vanga
     dalle due ali, l’arma che le zolle
     tagli e le franga: ed anche te ti franga;
     ma poi t’acconcia, per il ben che volle
     a te, che tu volesti a lei, fratello
     lavoratore, un letto molle molle…
     Bollì ferro ed acciaio, indi il massello
     fatto bianco afferrò con le tanaglie;
     e lo domò col maglio e col martello.
     Nasceva l’arma, tra un raggiar di scaglie
     rosse e turchine. L’acqua, il vento, il fuoco
     faceano l’arma delle tue battaglie.
     Saldo faggio lo stile sia. Tra poco
     la vangatura ti comincia. È giunta
     la rondinella ed è fiorito il croco.
     A tutto ferro! E il ferro poi ripunta,
     e tira su la bricia che rimane.
     La vanga ha d’oro, come sai, la punta.
     Oh! il campo pare un altro, ora. Stamane
     spioviscolava, e riè bello già.
     La zolla già lièvita come il pane,
     al solicello, e screpola e si sfa.

 //-- III --// 

     E poi fece il piccone, arma che dure
     chiede le braccia, e forte vuole il forte,
     d’acciaio, di qua zappa, di là scure.
     Con l’una taglia le radici torte,
     con l’altra scava. Ed esso vien secondo
     dopo la vanga e fruga anche la morte.
     Anche più della vanga esso va fondo,
     il buon piccone, e cerca le memorie
     che in fondo al cuore ha seppellite il mondo.
     Nasceva l’arma tra un raggiar di scorie
     azzurre azzurre. L’acqua, il fuoco, il vento
     faceano l’arma delle tue vittorie.
     Lavoratore, il manico sia lento
     frassino; e forte picchia pur sul vivo
     sasso che gli risuona come argento!
     E va! Per quella macchia aspra, a solivo,
     folta di stipe, fa venir filari
     di verde vite o di canuto olivo!
     Fa, col piccone, dov’è monte, pari,
     dov’acqua, terra, dove notte, dì,
     fa vie sotterra, un mare di due mari,
     o migratore che il tuo verso è il sì!

 //-- IV --// 

     Poi fece anche la falce, arma che appare
     anche nel cielo, quando l’aria imbruna,
     bianca, poi d’oro, sul monte o sul mare.
     Guardando la falciola della luna,
     la volle anch’esso per le sue figliuole
     il primo contadino, una per una.
     D’allora in poi son le fanciulle sole
     che con la loro falce e la crinella
     vanno a far l’erba sul cader del sole.
     Vanno, appuntata al fianco la gonnella,
     a tagliare una fetta d’erba sulla,
     a fare un quadro d’erba lupinella.
     E non si vede, nel campetto, nulla,
     altro che fiori; ma tra i fiori rossi
     è inginocchiata a terra una fanciulla.
     Tra i lunghi steli lievemente mossi
     stride la falce. Tra i giunchi e la sala
     già qualche rana gracida nei fossi.
     E, quando appar la stella, quando cala
     l’ombra dei monti, ella si leva su,
     cantando, e inzeppa l’erba, onde s’esala
     odor di fresco e verde e gioventù.

 //-- V --// 

     Poi, la frullana: quella che lavora
     come quell’altra che disfà le vite:
     lavora all’ombra, prima dell’aurora.
     Cade la guazza allora, cade il mite
     sonno dal cielo. Un sibilo si sente
     correre per le praterie fiorite.
     Dormite il sonnellino d’oro! È gente
     che falcia; taglia tutto, paleino,
     loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.
     Tre volte il prato parve un altro, insino
     che fu segato: tutto rosso a gli occhi
     e tutto giallo e tutto gridellino.
     Poi mise fuori ciuffi code fiocchi
     spighe rappe, la nebbia esile e vana,
     pendule nappe, tremuli balocchi.
     Ora tutto ha falciato la frullana.
     Su la sericcia s’è ammucchiato il fieno,
     ché dai fossi chiamava acqua la rana.
     E spesso dalle Panie ora un baleno,
     come una bocca aperta, alita, e fa
     vedere i mucchi: ed ogni volta un treno,
     lontano, un po’ rotola sordo, e sta.

 //-- VI --// 

     E poi fece il pennato, arma ch’ha il becco
     aguzzo e curvo il petto e il taglio fino
     e grave il colpo, per il verde e il secco.
     Fuor che di festa, portalo all’uncino
     sempre, quando esci; ch’egli t’asseconda
     in ogni tua faccenda, o contadino.
     Egli pota, egli innesta, egli rimonda;
     per le tue viti taglia i torchi al salcio,
     per i tuoi bachi al gelso fa la fronda.
     Fa sui castagni i bei rami di calcio
     pel verno. Nell’asprure dell’estate,
     la falce sciopra, ed esso dice: Io falcio!
     E falcia pioppi, gelsi, olmi. Mangiate,
     o vaccherelle! E quando invìa la pioggia,
     appezza legna per le tue fiammate.
     E fa con te valletti e ceste, o foggia
     un giogo, o squadra un erpice d’avorno,
     od una scala, sotto la tua loggia.
     O crea da un olmo che vedesti un giorno
     aver nel tronco una sua gran virtù,
     l’aratro che, quando lavora, ha intorno,
     piccoli e grandi, tutta la tribù.

 //-- VII --// 

     E poi fece il marrello, arma che scopre
     e che ricopre, zappa e, in un, badile,
     buona quant’altra, ma men grave all’opre.
     Egli comincia nel piovoso aprile:
     ritira il solco sopra il formentone,
     ma un poco prima egli zappò le file.
     Lo ronca, lo dirada, gli ripone
     la terra al calcio, perché faccia il costo,
     nel dolce maggio, dopo un acquazzone.
     Al sessantino pensa poi d’agosto;
     e lo smuove e lo svelge e lo rincalza:
     e poi riposa, quando bolle il mosto.
     Poi quando il sole pallido s’inalza
     sopra la nebbia, e ingiallano le spoglie
     del sessantino, e rossa appar la balza,
     e grigio il piano, e cadono le foglie,
     e viene il freddo, e cupo il vento geme;
     ecco, il solco novello esso ricoglie.
     Suonano a onde le campane treme-
     bonde sopra i villaggi e le città…
     ed il marrello seppellisce il seme,
     che nasce e poi… si riseminerà.
     E cessò il vento e il fragor d’acqua e il lampo
     del fuoco. Disse ch’era morto il giorno
     una campana di San Piero in Campo.
     Nando uscì co’ suoi ferri. E gli era intorno
     quella campana che soave e piana
     gli diceva che tardi era il ritorno!
     Via via soave e piana altra campana
     gli ripeteva ch’era ancora in basso!
     Poi solo udì, nella sua via lontana,
     squillargli l’armi sulle spalle al passo.




   ITALY

   Sacro all’Italia raminga


   CANTO PRIMO

 //-- I --// 

     A Caprona, una sera di febbraio,
     gente veniva, ed era già per l’erta,
     veniva su da Cincinnati, Ohio.
     La strada, con quel tempo, era deserta.
     Pioveva, prima adagio, ora a dirotto,
     tamburellando su l’ombrella aperta.
     La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto
     erano, sotto la cerata ombrella
     del padre: una ragazza, un giovinotto.
     E c’era anche una bimba malatella,
     in collo a Beppe, e di su la sua spalla
     mesceva giù le bionde lunghe anella.
     Figlia d’un altro figlio, era una talla
     del ceppo vecchio nata là: Maria:
     d’ott’anni: aveva il peso d’una galla.
     Ai ritornanti per la lunga via,
     già vicini all’antico focolare,
     la lor chiesa sonò l’Avemaria.
     Erano stanchi! avean passato il mare!
     Appena appena tra la pioggia e il vento
     l’udiron essi or sì or no sonare.
     Maria cullata dall’andar su lento
     sembrava quasi abbandonarsi al sonno,
     sotto l’ombrella. Fradicio e contento
     veniva piano dietro tutti il nonno.

 //-- II --// 

     Salivano, ora tutti dietro il nonno,
     la scala rotta. Il vecchio Lupo in basso
     non abbaiò; scodinzolò tra il sonno.
     E tentennò sotto il lor piede il sasso
     davanti l’uscio. C’era sempre stato
     presso la soglia, per aiuto al passo.
     E l’uscio, come sempre, era accallato.
     Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.
     Ed era buia la cucina allato.
     La mamma? Forse scesa per due ciocchi…
     forse in capanna a mòlgere… No, era
     al focolare sopra i due ginocchi.
     Avea pulito greppia e rastrelliera;
     ora, accendeva… Udì sonare fioco:
     era in ginocchio, disse la preghiera.
     Appariva nel buio a poco a poco.
     «Mamma, perché non v’accendete il lume?
     Mamma, perché non v’accendete il fuoco?»
     «Gesù! che ho fatto tardi col rosume…»
     E negli stecchi ella soffiò, mezzo arsi;
     e le sue rughe apparvero al barlume.
     E raccattava, senza ancor voltarsi,
     tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,
     brocche, fuscelli, canapugli, sparsi
     sul focolare. E si levò la fiamma.

 //-- III --// 

     E i figli la rividero alla fiamma
     del focolare, curva, sfatta, smunta.
     «Ma siete trista! siete trista, o mamma!»
     Ed accostando agli occhi, essa, la punta
     del pannelletto, con un fil di voce:
     «E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?»
     «Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce».
     I muri grezzi apparvero col banco
     vecchio e la vecchia tavola di noce.
     Di nuovo, un moro, con non altro bianco
     che gli occhi e i denti, era incollato al muro,
     la lenza a spalla ed una mano al fianco:
     roba di là. Tutto era vecchio, scuro.
     S’udiva il soffio delle vacche, e il sito
     della capanna empiva l’abituro.
     Beppe sedé col capo indolenzito
     tra le due mani. La bambina bionda
     ora ammiccava qua e là col dito.
     Parlava, e la sua nonna, tremebonda,
     stava a sentire e poi dicea: «Non pare
     un luì quando canta tra la fronda?»
     Parlava la sua lingua d’oltremare:
     «… a chicken-house» «un piccolo luì…»
     «… for mice and rats» «che goda a cinguettare,
     zi zi» «Bad country, Ioe, your Italy!»

 //-- IV --// 

     Italy, penso, se la prese a male.
     Maria, la notte (era la Candelora),
     sentì dei tonfi come per le scale…
     tre quattro carri rotolarono… Ora
     vedea, la bimba, ciò che n’era scorso!
     the snow! la neve, a cui splendea l’aurora.
     Un gran lenzuolo ricopriva il torso
     dell’Omo-morto. Nel silenzio intorno
     parea che singhiozzasse il Rio dell’Orso.
     Parea che un carro, allo sbianchir del giorno,
     ridiscendesse l’erta con un lazzo
     cigolìo. Non un carro, era uno storno,
     uno stornello in cima del Palazzo
     abbandonato, che credea che fosse
     marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo!
     Maria guardava. Due rosette rosse
     aveva, aveva lagrime lontane
     negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.
     La nonna intanto ripetea: «Stamane
     fa freddo!» Un bianco borracciol consunto
     mettea sul desco ed affettava il pane.
     Pane di casa e latte appena munto.
     Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva!
     nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:
     «Poor Molly! qui non trovi il pai con fleva!»

 //-- V --// 

     Oh! no: non c’era lì né pie né flavour
     né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:
     «Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»
     Oh! no: starebbe in Italy sin tanto
     ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly!
     E Ioe godrebbe questo po’ di scianto!
     Mugliava il vento che scendea dai colli
     bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta
     fissò la fiamma con gli occhioni molli.
     Venne, sapendo della lor venuta,
     gente, e qualcosa rispondeva a tutti
     Ioe, grave: «Oh yes, è fiero… vi saluta…
     molti bisini, oh yes… No, tiene un frutti-
     stendo… Oh yes, vende checche, candi, scrima…
     Conta moneta: può campar coi frutti…
     Il baschetto non rende come prima…
     Yes, un salone, che ci ha tanti bordi…
     Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima…»
     Il tramontano discendea con sordi
     brontoli. Ognuno si godeva i cari
     ricordi, cari ma perché ricordi:
     quando sbarcati dagli ignoti mari
     scorrean le terre ignote con un grido
     straniero in bocca, a guadagnar danari
     per farsi un campo, per rifarsi un nido…

 //-- VI --// 

     Un campettino da vangare, un nido
     da riposare: riposare, e ancora
     gettare in sogno quel lontano grido:
     Will you buy… per Chicago e Baltimora,
     buy images… per Troy, Memphis, Atlanta,
     con una voce che te stesso accora:
     cheap!… nella notte, solo in mezzo a tanta
     gente; cheap! cheap! tra un urlerìo che opprime;
     cheap!… Finalmente un altro odi, che canta…
     Tu non sai come, intorno a te le cime
     sono dell’Alpi, in cui si arrossa il cielo:
     chi canta, è il gallo sopra il tuo concime.
     «La mi’ Mèrica! Quando entra quel gelo,
     ch’uno ritrova quella stufa roggia
     per il gran coke, e si rià, poor fellow!
     O va per via, battuto dalla pioggia.
     Trova un farm. You want buy? Mostra il baschetto.
     Un uomo compra tutto. Anche, l’alloggia!»
     Diceva alcuno; ed assentiano al detto
     gli altri seduti entro la casa nera,
     più nera sotto il bianco orlo del tetto.
     Uno guardò la piccola straniera,
     prima non vista, muta, che tossì.
     «You like this country…» Ella negò severa:
     «Oh no! Bad Italy! Bad Italy!»

 //-- VII --// 

     Italy allora s’adirò davvero!
     Piovve; e la pioggia cancellò dal tetto
     quel po’ di bianco, e fece tutto nero.
     Il cielo, parve che si fosse stretto,
     e rovesciava acquate sopra acquate!
     O ferraietto, corto e maledetto!
     Ghita diceva: «Mamma, a che filate?
     Nessuna fila in Mèrica. Son usi
     d’una volta, del tempo delle fate.
     Oh yes! filare! Assai mi ci confusi
     da bimba. Or c’è la macchina che scocca
     d’un frullo solo centomila fusi.
     Oh yes! Ben altro che la vostra rócca!
     E fila unito. E duole poi la vita
     e ci si sente prosciugar la bocca!»
     La mamma allora con le magre dita
     le sue gugliate traea giù più rare,
     perché ciascuna fosse bella unita.
     Vedea le fate, le vedea scoccare
     fusi a migliaia, e s’indugiava a lungo
     nel suo cantuccio presso il focolare.
     Diceva: «Andate a letto, io vi raggiungo».
     Vedea le mille fate nelle grotte
     illuminate. A lei faceva il fungo
     la lucernina nell’oscura notte.

 //-- VIII --// 

     Pioveva sempre. Forse uscian, la notte,
     le stelle, un poco, ad ascoltar per tutto
     gemer le doccie e ciangottar le grotte.
     Un poco, appena. Dopo, era più brutto:
     piovea più forte dopo la quiete.
     O ferraiuzzo, piccolino e putto!
     Ghita diceva: «Madre, a che tessete?
     Là può comprare, a pochi cents, chi vuole,
     cambrì, percalli, lustri come sete.
     E poi la vita dite che vi duole!
     C’è dei telari in Mèrica, in cui vanno
     ogni minuto centomila spole.
     E ce n’ha mille ogni città, che fanno
     ciascuno tanta tela in uno scatto,
     quanta voi non ne fate in capo all’anno».
     Dicea la mamma: «Il braccio ch’io ricatto
     bel bello, vuole diventar rotello.
     O figlia, più non è da fare, il fatto».
     E tendeva col subbio e col subbiello
     altre fila. La bimba, lì, da un canto,
     mettea nello spoletto altro cannello.
     Stava lì buona come ad un incanto,
     in quel celliere della vòlta bassa,
     Molly, e tossiva un poco, ma soltanto
     tra il rumore dei licci e della cassa.

 //-- IX --// 

     Tra il rumore dei licci e della cassa
     tossiva, che la nonna non sentisse.
     La nonna spesso le dicea: «Ti passa?»
     «Yes», rispondeva. Un giorno poi le disse:
     «Non venir qui!» Ma ella ci veniva,
     e stava lì con le pupille fisse.
     Godeva di guardare la giuliva
     danza dei licci, e di tenere in mano
     la navicella lucida d’oliva.
     Stava lì buona a’ piedi d’un soppiano;
     girava l’aspo, riempìa cannelli,
     e poi tossiva dentro sé pian piano.
     Un giorno che veniva acqua a ruscelli,
     fissò la nonna e chiese: «Die?» La nonna
     le carezzava i morbidi capelli.
     La bimba allora piano per la gonna
     le salì, le si stese sui ginocchi:
     «Die?» «E che t’ho a dir io povera donna?»
     La bimba allora chiuse un poco gli occhi:
     «Die! Die!» La nonna sussurrò: «Dormire?»
     «No! No!» La bimba chiuse anche più gli occhi,
     s’abbandonò per più che non dormire,
     piegò le mani sopra il petto: «Die!
     Die! Die!» La nonna balbettò: «Morire!»
     «Oh yes! Molly morire in Italy!»



   CANTO SECONDO


     Italy allora n’ebbe tanta pena.
     Povera Molly! E venne un vento buono
     che spazzò l’aria che tornò serena.

 //-- I --// 

     Vieni, poor Molly! Vieni! Dove sono
     le nubi? In cielo non c’è più che poca
     nebbia, una pace, un senso di perdono,
     di quando il bimbo perdonato ha roca
     ancor la voce; all’angolo degli occhi
     c’era una stilla, e cade, mentre gioca.
     Vieni, poor Molly! Porta i tuoi balocchi.
     Dove sono le nubi nere nere?
     qualche lagrima sgocciola dai fiocchi
     delle avellane, e brilla nel cadere.

 //-- II --// 

     Porta the doll, la bambola, che viene,
     povera Doll, anch’essa dal paese
     lontano, ed essa ti capisce bene.
     E quando tu le parli per inglese,
     presso le guance pallide ti pone
     le sue color di rosa d’ogni mese.
     Dal suo lettino lucido, d’ottone,
     levala su, che l’uggia non la vinca.
     Non dorme, vedi. Vedi, dal cantone
     sgrana que’ suoi due fiori di pervinca.

 //-- III --// 

     O Moll e Doll, venite! Ora comincia
     il tempo bello. Udite un campanello
     che in mezzo al cielo dondola? È la cincia.
     O Moll e Doll, comincia il tempo bello.
     Udite lo squillar d’una fanfara
     che corre il cielo rapida? È il fringuello.
     Fringuello e cincia ognuno già prepara
     per il suo nido il mustio e il ragnatelo;
     e d’ora in ora primavera a gara
     cantano, uno sul pero, uno sul melo.

 //-- IV --// 

     Altre due voci ora dal monte al piano
     s’incontrano: uno scampanare a festa,
     con un altro più piano e più lontano.
     L’una tripudia, e i mille echi ridesta
     del monte, bianco ancora un po’ di neve.
     Di tanto in tanto ecco la voce mesta;
     ecco un rintocco, appena appena un breve
     colpo, che pare così lungo al cuore!
     No, non vorrebbe, o gente, no; ma deve.
     C’è là chi sposa, ma c’è qua chi muore.

 //-- V --// 

     Buoni villaggi che vivete intorno
     al verde fiume, e di comune intesa
     vi dite tutto ciò che fate il giorno!
     Si levano. Ora vanno tutti in chiesa,
     ora son tutti a desinare, ed ora
     c’è in ogni casa la lucerna accesa.
     Poi quando immersi ad aspettar l’aurora
     sembrano tutti, ecco più su più giù,
     più qua più là, le loro voci ancora.
     Pensano a quelli che non sono più…

 //-- VI --// 

     Lèvati, Molly. Gente ode parlare
     la tua parlata. Sono qui. Cammina,
     se vuoi vederle. Hanno passato il mare.
     Fanno un brusìo nell’ora mattutina!
     Ma il vecchio Lupo dorme e non abbaia.
     È buona gente e fu già sua vicina.
     Vengono e vanno, su e giù dall’aia
     alla lor casa che da un pezzo è vuota.
     Oh! la lor casa, sotto la grondaia,
     non gli par brutta, ben che sia di mota!

 //-- VII --// 

     Sweet… Sweet… Ho inteso quel lor dolce grido
     dalle tue labbra… Sweet, uscendo fuori,
     e sweet sweet sweet, nel ritornare al nido.
     Palpiti a volo limpidi e sonori,
     gorgheggi a fermo teneri e soavi,
     battere d’ali e battere di cuori!
     In questa casa che tu bad chiamavi,
     black, nera, sì, dal tempo e dal lavoro,
     son le lor case, là sotto le travi,
     di mota sì, ma così sweet per loro!

 //-- VIII --// 

     O rondinella nata in oltremare!
     Quando vanno le rondini, e qui resta
     il nido solo, oh! che dolente andare!
     Non c’è più cibo qui per loro, e mesta
     la terra e freddo è il cielo, tra l’affanno
     dei venti e lo scrosciar della tempesta.
     Non c’è più cibo. Vanno. Torneranno?
     Lasciano la lor casa senza porta.
     Tornano tutte al rifiorir dell’anno!
     Quella che no, di’ che non può; ch’è morta.

 //-- IX --// 

     Quando tu sei venuta, o rondinella,
     t’hanno pur salutata le campane;
     ti venne incontro il nonno con l’ombrella,
     ti s’è strusciato alle gambine il cane.
     Pioveva; ma tu, bimba, eri coperta;
     trovasti in casa il latte caldo e il pane.
     Il tuo nonno ansimava su per l’erta,
     la tua nonna pregava al focolare.
     Brutta la casa, sì, ma era aperta,
     o mia figliuola nata in oltremare!

 //-- X --// 

     Ha la pena da parte, oggi, e la vita
     gli sente, e il capo, alla tua nonna, e il cuore;
     e siede al focolare infreddolita.
     Ieri si colse malva ed erbe more.
     Oggi sta peggio. Ha due rosette rosse,
     che non le ha fatte il fuoco che rimuore.
     Molly, tu vieni e guardi. Ecco, ha la tosse
     che avevi tu. Tosse ogni tanto un po’.
     Sta lì nel canto come non ci fosse.
     E non tesse e non fila. Oggi non può.

 //-- XI --// 

     Ha tessuto e filato, anche ha zappato,
     anche ha vangato, anche ha portato, oh! tanto
     che adesso stenta a riavere il fiato!
     O dolce Molly, tu le porti accanto
     Doll nel lettino lucido, e tu resti
     con loro… Tanto faticato e pianto!
     pianto in vedere i figli o senza vesti
     o senza scarpe o senza pane! pianto
     poi di nascosto, per non far più mesti
     i figli che… diceano addio, col canto.

 //-- XII --// 

     Addio, dunque! Ed anch’essa Italy, vede,
     Italy piange. Hanno un po’ più fardello
     che le rondini, e meno hanno di fede.
     Si muove con un muglio alto il vascello.
     Essi, in disparte, con lo sguardo vano,
     mangiano qua e là pane e coltello.
     E alcun li tende, il pane da una mano,
     l’altro dall’altra, torbido ed anelo,
     al patrio lido, sempre più lontano
     e più celeste, fin che si fa cielo.

 //-- XIII --// 

     Cielo, e non altro, cielo alto e profondo,
     cielo deserto. O patria delle stelle!
     O sola patria agli orfani del mondo!
     Vanno serrando i denti e le mascelle,
     serrando dentro il cuore una minaccia
     ribelle, e un pianto forse più ribelle.
     Offrono cheap la roba, cheap le braccia,
     indifferenti al tacito diniego;
     e cheap la vita, e tutto cheap; e in faccia
     no, dietro mormorare odono: Dego!

 //-- XIV --// 

     Ma senti, Molly? Dopo pioggie e brume
     e nevi e ghiacci, con la sua gran voce
     canta passando a’ piè dei monti il fiume.
     Passa sotto la gran Pania alla Croce
     cantando, ed una lunga nube appare,
     bianca di sole, al suo passar veloce.
     Passa cantando: Al mare! Al mare! Al mare!
     e l’Alpe azzurra ne rimbomba in cerchio,
     e il cielo azzurro vede là fumare
     l’alito che si lascia addietro il Serchio.

 //-- XV --// 

     O fiumi, o delle rupi e dei ghiacciai
     figli rubesti, che precipitate
     a pazza corsa senza posar mai,
     con l’eterno fragor delle cascate,
     ruzzando come giovani giganti,
     senza perché, per atterrir le fate
     delle montagne; e trascinate infranti
     boschi e tuguri, urtate le città,
     struggete i campi, sempre avanti, avanti,
     avanti, pieni di serenità…

 //-- XVI --// 

     Acqua perenne, ottima e pessima, ora
     morte ora vita, acqua, diventa luce!
     acqua, diventa fiamma! acqua, lavora!
     Lavora dove l’uomo ti conduce;
     e veemente come l’uragano,
     vigile come femmina che cuce,
     trasforma il ferro, il lino, il legno, il grano;
     manda i pesanti traini come spole
     labili; rendi l’operare umano
     facile e grande come quel del Sole!

 //-- XVII --// 

     La madre li vuol tutti alla sua mensa
     i figli suoi. Qual madre è mai, che gli uni
     sazia, ed a gli altri, a tanti, ai più, non pensa?
     Siedono a lungo qua e là digiuni;
     tacciono, tralasciati nel banchetto
     patrio, come bastardi, ombre, nessuni:
     guardano intorno, e quindi sé nel petto,
     sentono su la lingua arida il sale
     delle lagrime; infine, a capo eretto,
     escono, poi fuggono, poi: – Sii male… —

 //-- XVIII --// 

     Non maledite! Vostra madre piange
     su voi, che ai salci sospendete i gravi
     picconi, in riva all’Obi, al Congo, al Gange.
     Ma d’ogni terra, ove è sudor di schiavi,
     di sottoterra ove è stridor di denti,
     dal ponte ingombro delle nere navi,
     vi chiamerà l’antica madre, o genti,
     in una sfolgorante alba che viene,
     con un suo grande ululo ai quattro venti
     fatto balzare dalle sue sirene.

 //-- XIX --// 

     Non piangere, poor Molly! Esci, fa piano,
     lascia la nonna lì sotto il lenzuolo
     di tela grossa ch’ella fece a mano.
     T’amava, oh! sì! Tu ne imparavi a volo
     qualche parola bella che balbetti:
     essa da te solo quel die, die solo!
     Lascia lì Doll, lasciali accosto i letti,
     piccolo e grande. Doll è savia, e tace,
     né dorme: ha gli occhi aperti e par che aspetti
     che li apra l’altra, ch’ora dorme in pace.

   XX

     Prima d’andare, vieni al camposanto,
     s’hai da ridire come qua si tiene.
     Stridono i bombi intorno ai fior d’acanto,
     ronzano l’api intorno le verbene.
     E qui tra tanto sussurrìo riposa
     la nonna cara che ti volle bene.
     O Molly! O Molly! prendi su qualcosa,
     prima d’andare, e portalo con te.
     Non un geranio né un bocciuol di rosa,
     prendi sol un non-ti-scordar-di-me!
     «Ioe, bona cianza!…» «Ghita, state bene!…
     «Good bye». «L’avete presa la ticchetta?»
     «Oh yes». «Che barco?» «Il Prinzessin Irene».
     L’un dopo l’altro dava a Ioe la stretta
     lunga di mano. «Salutate il tale».
     «Yes, servirò». «Come partite in fretta!»
     Scendean le donne in zoccoli le scale
     per veder Ghita. Sopra il suo cappello
     c’era una fifa con aperte l’ale.
     «Se vedete il mi’ babbo… il mi’ fratello…
     il mi’ cognato…» «Oh yes». «Un bel passaggio
     vi tocca, o Ghita. Il tempo è fermo al bello».
     «Oh yes». Facea pur bello! Ogni villaggio
     ridea nel sole sopra le colline.
     Sfiorian le rose da’ rosai di maggio.
     Sweet sweet… era un sussurro senza fine
     nel cielo azzurro. Rosea, bionda, e mesta,
     Molly era in mezzo ai bimbi e alle bambine.
     Il nonno, solo, in là volgea la testa
     bianca. Sonava intorno mezzodì.
     Chiedeano i bimbi con vocìo di festa:
     «Tornerai, Molly?» Rispondeva: – Sì! —