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Автор книги: Франческо Доменико Гверрацци


Жанр: Зарубежная классика, Зарубежная литература


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Capitolo Sesto
Lucrezia Mazzanti

Questa avventura succedeva la notte prima dentro un corpo di guardia accanto alla porta di San Nicolò, unica tra le tante porte di Firenze che tuttavia si mantenga nella sua antica forma. Un solo lume sospeso alla volta rischiarava di splendore vermiglio piccola parte della vasta stanza: e tu vedevi dei soldati raccolti lì, qualcuno disteso per le panche in atto di dormire, altri seduti novellare dei casi di guerra; molti altri bevevano spensierati, come uomini per cui il tempo scorso ì nulla, il futuro anche meno, e si godono il presente fugace – e lieto, perché vuoto di affanno.

Uno fra loro, di volto leggiadro, giovanissimo, stava appoggiato con le spalle alla parete, la faccia china, immerso in pensieri i quali, come sembrava, non dovevano essere buoni nì tristi: questo era Lodovico Machiavelli. Lupo invece sedeva con le pugna strette, fortemente puntellate nelle guance sotto gli zigomi; gli occhi socchiusi: a volte prorompe dal petto profondi sospiri. Guizzando intanto la fiamma sanguigna sopra quei volti, per tutta la scena, presentava un quadro fantastico, stupenda materia ai dipinti di Gherardo delle Notti o del Rembrandt.

Adesso, mentre i soldati del corpo di guardia staccavano le partigiane dalla parete per accorrere in aiuto, spalancato fragorosamente le porte, balza in mezzo della stanza una femmina, come palla briccolata dalla bombarda, la quale, corsi allo indietro tre o quattro passi, quasi compiendo l’urto di spinta impressa contro di lei, andò a percuotere supina il capo nella parete.

Indifferenti a questo, i soldati uscirono dal corpo di guardia; rimasero Lodovico e Lupo per ragione di ufficio ed anche per vaghezza di soccorrere la misera donna. Le si accostarono pertanto e, rilevandola, la trovarono giovanissima, bella e di gentile aspetto: le sue vesti apparivano schiette, quali costumano le donzelle di contado, se non che fatte di panni più fini e con sottile lavorio ricamate di passamani e nastri di seta. Sul suo viso delicato si vedevano i segni di patimenti sofferti, certo a lei più gravosi quanto più nuovi: pallida era ed aveva bianche le labbra, gli occhi chiusi come se fosse morta. Alla fine trasse un gran gemito, e lo splendore degli occhi si manifestò. Li volse esterrefatta d’intorno, e la prima parola che uscisse dalle sue labbra fu:

“O padre mio! Dov’è mio padre?” E chiuse gli occhi di nuovo.

Vico la seguitando veloce, la trattiene; e confortandola con dolci parole, le dice:

“Non temete; il padre vostro ritroveremo; vi ricondurremo alle vostre case… ai vostri parenti…”

Qui lo interrompe un alto riso della fanciulla:

“Vuoi rendermi la casa! Oh! rendimela via, e con essa[11]11
  essa – la camera


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la mia cameretta linda, pelita, col soffitto tinto d’azzurro, e il letticciolo con le coperte di rascia rossa e il bel capoletto di Sicilia: rendimi la immagine della Madonna dell’Impruneta di Luca della Robbia e la lampada e il vaso dove ogni giorno mutava fiori freschi di mia mano colti nel giardino… Ma come farai a rendermela, se quando ne uscii, il pavimento, le pareti, il soffitto tutta andava in fiamme?… Mi vuoi gettare tra il fuoco? In che peccai? Questa è la stanza dei dannati, ed io non ho fatto male a nessuno nel mondo. Io sono innocente, io! Tu mi hai parlato di madre: portami a vederla, e ti dirò fratello, perocché io sappia ogni creatura nascere da una madre ed essere amata da lei sopra ogni cosa: ma io, sai? Non ho conosciuta la mia… nessuno ha risposto allorché domandai: siete mia madre voi? ed io fin qui ho dubitato di essere venuta al mondo senza. Ben ho padre e amatissimo. Almeno lo avevo un’ora fa; ora poi non so più se io lo abbia. Adesso poi che madonna Lucrezia è morta. Oh! le sventure vengono sempre e troppo accompagnate. Questa magnanima donna, di cui vi narrerò il pietosissimo caso, che aveva di qualche anno condotto a marito Iacopo Palmieri da Firenze, abitava in villa poco lontana dalla casa che fu nostra nel popolo di Dudda: lei era un esempio di domestica virtù; per santità di costumi venerata, dai poverelli per la sua beneficenza benedetta, a ragione della donnesca sua leggiadria a quanti la conoscevano gradita, discreta, ben parlante, amorevole. A lei dunque mi voltai interrogandola dove fosse mio padre: e lei mi ha detto di stare in luogo sicuro; non dubitassi; lo avrei rivisto un giorno, sotto cielo meno inclemente, circondato da creature più buone. Queste parole non mi confortavano per niente; ricordai lo scoppio dell’archibugio, il padre scomparso, e stemperandomi in pianto, più e più sempre invocava il mio povero padre. Le compagne, non sapendo come consolarmi, dolenti anche loro per uguali sventure, piansero al mio pianto, ai miei gridi gridarono. Sola madonna Lucrezia, trattenute le lacrime, non facendo atto che apparisse vile, con soavi parole ci conforta, in mille modi diversi s’ingegna raumiliarci: “Il pianto, ci dice, può solamente aggravare i colpi di fortuna; abbiamo coraggio per i casi con i quali il Signore intenderà provarci; ricordiamoci le donne che con rischio della vita avevano pigliato in mano la difesa della patria e che non dovevano piangere; a nemico superbo opponiamo tutte le nostre forze; un giorno anche loro scontrerebbero amare queste esultanze nefande; a Dio volgiamo il cuore rassegnato e contrito; alla Madre Santissima ci raccomandiamo; viviamo le nostre vite con onore; se no, scegliaimo la morte, e il cielo si aprire a raccogliere la nostra anima cantando le glorie dei martiri.” Così accesa nel volto con occhi lucenti favellava la santissima donna, quando, schiusa la porta, apparve tra noi l’abborrito ordinatore della morte di mio padre. Le compagne si strinsero attorno a me, come colombe paurose del nibbio; io lo guardavo fisso e sentivo ribollirmi nel cuore orribile sete di sangue, sicchì se avessi in mano daga o archibugio e avessi saputo come si uccide un uomo, lo avrei trucidato di certo. Quel uomo, che seppi tenere grado di capitano, e chiamarsi Giovambattista da Recanati, si restrinse a colloquio con Madonna; procedevano da prima le sue parole dimesse, la persona piegava in atto di ossequio, poi diventò a mano a mano, concitato nel dire, gli occhi gli avvamparono ardenti. Madonna rispondeva raro, come schermendosi da molesta domanda, e noi la vedevamo a volte impallidire, a volte arrossire a guisa di persona posta al tormento. All’improvviso quel triste proruppe: “Fin qui pregai. Ora sappiate che io posso volere e voglio…” Lucrezia lo supplicava tacesse, il luogo considerasse e le persone; ma l’altro non udiva ed ambe le braccia distese per afferrarla. In quello estremo la donna gli strappa la daga dal fianco e, alquanto indietreggiando, gliel’appunta alla gola gridando: “Scostati, o sei morto.” Declinando il giorno, comparve il capitano Recanati in compagnia di alquanti suoi scherani, e con loro noi tutti uscimmo. Lucrezia volse i passi frettolosi alle sponde dell’Arno. Talora si ferma, guardando il cielo e la terra: e poichì il cielo appariva divinamente sereno e la terra lieta di verdi piante… Volgendosi a noi ci disse: “L’ultima ora di un giorno e di una vita è compiuta; pregate per un’anima che sta per passare.” Il senso di quelle parole non ci era chiaro, pure pregammo con ardentissimi voti. Cosa stupenda e a me medesima, dove non l’avessi con i propri miei occhi contemplata, incredibile. I masnadieri e il capitano, i quali ci vigilavano da vicino, commossi dallo spettacolo di amore e di fede, loro malgrado si prostrarono anche loro, sforzandosi richiamare sulle labbra l’orazione nei primi anni della vita imparata dalla pia genitrice. Noi donne stavamo sopra il ciglione dell’argine; menava sotto vertiginose le acque l’Arno grosso per le pioggie cadute nei giorni precedenti. Madonna Lucrezia si leva: aveva nel volto gran parte di cielo; il crepuscolo dorato lo vestiva di luce serafica: ci guardò mesta, non abbattuta; secura non baldanzosa; e aprendo la bocca favellò: Figliuole mie, che voi sceglieste piuttosto la morte con onore che la vita con vergogna, stamani con parole io v’insegnavo; guardate, adesso ve lo confermo con l’esempio. Ah! il pianto mi toglie possibilità di raccontarvi partitamente come ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume: come vedessimo ora apparire sulle acque, ora scomparire sotto, la santissima donna; e tanta era in lei la voglia di preporre l’onestà alla vita che quante volte l’impeto dei vortici la respinse su a galla, altrettante ella mettendosi le mani sul capo si attuffava giù nel fondo. Una voce lontana penetrò nel corpo di guardia, che chiamava:

“Lena! Annalena!”

“Silenzio!”

“Lena!”

“Ah! padre, padre, padre!…”

E tutti uscirono dalla porta a gola spiegata gridando:

“Qua. Da questa parte. Venite oltre. Qui è vostra figlia”. Cessa la voce, s’intendono passi precipitati; arriva un vecchio ansante, si slancia con giovanile leggierezza fra le braccia della vergine, ella di lui; e piangendo, mormorando parole slegate, alternando baci e carezze, godono piena la gioia umana, la cessazione del dolore!

Alcuno dei circostanti piegava altrove il volto, vergognando mostrarlo lacrimoso; Lupo rideva, non capiva in sì dalla contentezza. Poichì si furono alquanto rimesse quelle calde dimostranze di affetto, il vecchio con labbra ridenti e cuore devoto diceva grazie agli ospiti della figlia.

“Oh! – rispondeva Lupo – qui non ci capiscono grazie; noi non abbiamo fatto altro che dirle buone parole… e queste costano tanto poco, e tante ne sprechiamo invano e per male che davvero non meritano pregio le pochissime proferite per bene. Io ve l’ho conservata, come padre; e sebbene la presenza vostra mi tolga la dolcezza di questo nome, siate ben venuto, buon uomo. Se però non vi offendesse la proposta, e voi voleste accoglierla con quell’animo col quale ve la offeriamo noi, starebbe a voi renderci gli uomini più lieti di questa terra (perdonate il rozzo dire alla sincerità delle intenzioni)… accettando parte dei nostri denari…”

“Lupo ci vince in valore, in magnanimità, in anni, in tutto”, – esclamarono i giovani.

“Per gli anni, sta pur troppo e, mio malgrado, bene; pel rimanente, e nasca quello che sa nascerne, voi mentite per la gola”.

“Gente da bene, la vostra cortesia supera la parola: io ve ne rendo con l’animo quelle grazie che so e posso maggiori. Dal naufragio della fortuna tanto ancora mi avanza da sostentare me e la mia figliuola finchì il nemico duri nelle nostre contrade. Allora spero che Dio vorrà concedermi tanto di vita da restituire in lieto stato le mie terre, rialzare la casa…”

“Amen!” risposero i circostanti.

“Però tra morire e vivere da schiavo”, – continuava il padre di Annalena, – “la differenza è questa: i morti non sentono nulla, i vivi si consumano sotto il peso delle catene. Lena mia, ti faccio manifesto il mio testamento alla presenza di questi valenti uomini; dove il leone coronato rimanga insegna della Repubblica, tu vivi, prova gli affetti di sposa, le santissime cure di madre; se le palle trionfano… eccoti… prendi questo coltello… comunque corto sia, può sciogliere un’anima dai legami del corpo”.

Capitolo Ottavo
Giovanni Bandino

Poco oltre a mano destra del principe di Orange[12]12
  Filiberto di Châlons (1502–1530) – un condottiero francese, nonché principe d’Orange e viceré di Napoli dal 1528 al 3 agosto 1530


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, immobile come pietra, sta Giovanni Bandino; tiene il volto e gli sguardi tesi verso Firenze. Dalla fronte pallida gli piovono grosse gocce di sudore; paiono lacrime piante sopra di lui da occhi invisibili: trema forte e non dice parola. In campo lo spregiavano e temevano; ma lui fuggendo ogni umano consorzio non dava luogo alle offese: quando negli scontri di guerra vedeva i soldati bestialmente inferocire e farsi ciechi per ira, lui, scoperto di ogni arme difensiva, si cacciava là dove i colpi e gli uomini cadevano più spesso. All’assalto di Spelle seguitò impassibile fin sotto il muro gli assalitori; fischiavano le palle intorno al suo capo, rovinarono corpi di uccisi o sconciamente mutilati, e pareva che lui non vedesse e non ascoltasse nulla; quando un colpo di sagro percotendo a mezzo il petto Giovanni da Urbino, tra quanti erano prodi nello esercito, valorosissimo, lo balestrò sfracellato ai suoi piedi, lui allora proruppe in altissime risa e balzò al posto dove rimase ucciso l’infelice guerriero; a tutti sembrò il demonio della strage: non perdonava a cui implorasse quartiere, o a chi resistesse; dal capo alle piante spesso appariva sordidato di sangue del nemico senza che pure una scalfittura ne versasse del suo. Gli Spagnoli, secondo l’indole loro superstiziosi, sospettavano che fosse ciurmato, ma poi, sapendolo uomo del papa si ricredevano, in seguito nel sospetto si confermavano. Dovunque mostra la faccia cessano i colloqui, la gente si apre in due file per lasciarlo passare, assalita da misterioso ribrezzo. Immemore dei circostanti, lunga pezza il Bandino dimorò nello stato di fissazione di che scriveva poc’anzi; all’improvviso, stendendo ambe le braccia, con voce angosciosa prorompe: “O patria mia!”

Quando monsignore di Orange aveva udito quell’esclamazione, pose la mano sopra la spalla sinistra lo interrogando così: “E perché dunque tra i nemici di lei?…”

Si riscuote il Bandino, guata bieco l’Orange e brontolando fugge via a precipizio.

“Ditemi, principe”, – soggiunse poi il Bandino arrestandogli per le redini il cavallo, – “in conto di che mi avete voi?”

“Ma… nel conto che mi avreste me, se io fossi voi”.

“Principe, per favore parlatemi apertamente, in qual concetto mi tenete?”

“Fiorentino movete ai danni di Firenze… di uomo siffatto può essere mai dubbiosa la fama?”

“Ah! certo il nome ch’ei merita ì un solo per tutto il mondo”, – favella in suono sconsolato il Bandino lasciando le redini del cavallo…

“Noi altri Italiani c’innamoriamo in chiesa. Rammento il giorno e il luogo in che lei primamente mi comparve dinanzi”, – continua il Bandino senza rispondere alle parole del principe, fisso com’era nel suo pensiero, – “per la festa di san Zanobi in santa Maria del Fiore, là presso alla parete dov’è sospeso il simulacro del divino poeta, i nostri occhi s’incontrarono insieme; parve che i miei sguardi la infiammassero, Perché lei si fece accesa nel volto, come le vampe di fuoco le ardessero davanti, e abbassò il velo: poco importa; ormai la sua immagine mi stava incisa nel cuore; dovunque guardassi io la vedevo; e quando lei si partì dalla chiesa, io non rimossi mai gli sguardi dal luogo che lei tenne occupato; gli uffici divini cessarono, tacquero gli organi, spensero le cere, ed io per sempre mi rimanevo immobile credendo tuttavia di vederla. Secondo il costume dei giovani cominciai a passare sovente sotto alle sue finestre; presi dimestichezza con gli artefici vicini per avere onesto motivo di trattenermi nella contrada; nella notte o sul mattino, accompagnandomi sul liuto, le cantai sotto il balcone dolcissimi versi d’amore; praticai insomma quello che costumano le persone quando le scalda il petto l’ardente fuoco della passione e loro non sanno che fare solo che manifestarlo alla donna amata. Con quanta speranza io mi muovevo da casa, e come avvilito ci rientravo! Nessun cenno apparve alle finestre mai; mai vidi sporgere un capo il quale indicasse intendere all’amoroso lamento; io conducevo tristissimi giorni disperato della vita.

Venisse l’istante nel quale la fanciulla, vinto il pudore verginale, mi confessava: “Io ti amo… Io vi giuro, monsignore… in che vi giurerò io? Non conosco più nulla di sacro nella terra o nel cielo.”

L’altra notte un famiglio mi conduce verso il palazzo della mia donna. Mi vidi al capezzale il padre della donna, il quale con volto benigno, mi disse: “Attendete a ristorarvi e preparatevi ad ascoltarmi; quello che il cielo vuole forza è che uomo anche voglia!” Lo rividi verso sera, ed accostatosi quanto più presso poteva al mio volto, “Figliuol mio, – cominciava, – poichì umano argomento non vince l’amore che la mia figlia porta per te, e poiché vedo a prova manifesta come anche tu ardentissimamente l’ami, e il contristarvi le nozze sarebbe certa ragione della morte di entrambi, a Dio non piaccia che in questa mia vecchia età prossimo a rendere conto della mia vita all’Eterno, contro al mio sangue mi renda micidiale. La tua stirpe è gentile, i tuoi costumi onesti: una sola cosa mi offende in te, e non è tua colpa, voglio dire il difetto dei beni di fortuna, ciò mi trattenne fin qui dal consentire che tu tolga in moglie la mia figliuola Maria: tu saprai un giorno quanto piaccia al cuore del padre allogare i figliuoli in famiglie più potenti della sua e quanto all’opposto rincresca scemare; però siete giovani entrambi, che tu non mi sembri toccare il diciottesimo anno, e la fanciulla appena ne conta quindici: la fortuna, come donna, ama i giovani; viviamo in tempi nei quali riesce di leggeri, a cui vuole davvero, metter insieme denari; sopra tutte le parti del mondo vedo prosperare i nostri mercadanti in Spagna, fuori di misura doviziosa per l’oro che a lei manda l’India non ha guari scoperte. Io ti prometto la figlia: fidanzatevi, ve lo concedo: poi su questa croce giurami che te ne andrai a procacciare tua ventura in Spagna per tornare presto a condurre donna e statuire famiglia con lo splendore conveniente alla stirpe donde esci e a quella a cui la tua moglie appartiene.” – Promisi e con pieno cuore; – che cosa non avrei promesso? Restituito alla vita, rigoglioso di giovanezza, felice per potere consumare i miei giorni al fianco della donna amata e dirle: “Io ti amo”, e sentirla rispondere: “Ed io pure ti amo”; parole mille volte ripetute e mille volte ascoltate con dolcezza ineffabile… miracolo nuovo di amore!

La fortuna, per flagellarmi meglio, spirò un fiato favorevole nelle vele; partii, giunsi e arrivai a Cadice e a Siviglia, dove impresi traffici smisurati: nei traffici rovina agli altri, io crescevo; i pazzi consigli miei riuscivano meglio dei savi provvedimenti altrui; apparvi oracolo, e fui soltanto avventuroso; la turba m’invidiava, mi applaudiva e adulava.

Due anni passati, tornò a Firenze. E come forte mi tremò il cuore quando prima scopersi da lontano la cupola della basilica nostra! se avessi avuto le ali non mi sarebbe sembrato di affrettarmi a mia voglia: pur giungo e difilato mi avvio alla casa paterna; la mano mi manca per bussare alla porta, altri bussano per me, si apre, chi mi apriva non guardo, corro, corro in traccia di mio padre; la casa ì vuota!.... Rifaccio i passi, e vedo il vecchio genitore genuflesso davanti un Crocifisso, e ascolto tra i singhiozzi pregare riposo all’anima mia.... “Sono io morto, perché mi diciate il requiem?” – esclamò maravigliato; e il padre piange e più che mai si raccomanda: mi accosto, ei trema e non ardisce guardarmi. “Anima benedetta, lui diceva con stupenda prestezza, anima benedetta, va in pace, io spenderò in suffragarti l’ultima mia masserizia… Va in pace”. Tornate le persuasioni invano, mi vinse lo sdegno, mi dolsi del modo col quale mi accoglieva, minacciai andarmene tanto lontano che mai più avrebbe riveduto la mia faccia, di poco amore lo rampognai. Lui sorse allora tra stupido e spaventato, e: “Tu vivi?” – mi domanda con parole interrotte… Mi tocca… mi bacia… e quando il suo dubbio fu tutto spento, crudeli! crudeli! esclama e mi cade semivivo tra le braccia. Qual io rimanessi non saprei raccontarvi con discorso convenevole.

Lui rivenne tosto, e io ansiosamente gli domandai: “Chi è questo, padre? e la donna mia?” – “La donna tua? Vieni a vedere la tua donna”, – e con impeto giovanile mi trasse fuori di casa.

Giungiamo alle porte di Santa Maria del Fiore; lì incontrammo fanti e donzelle, i quali tenevano per le redini in copia palafreni; entriamo in chiesa, la più parte sepolta in profondissima oscurità; andiamo avanti, e pervenuti al punto della nave dove sospeso alla parete si ammira il simulacro di Dante, coronata con la ghirlanda nuziale, con lo sposo al fianco, blandita da gioconda comitiva, ritorna da legare la sua fede eternalmente ad un uomo dal piè degli altari una donna, e questa donna è la mia!… Empii di un grido orribile le volte del santuario e, stretto il pugnale, mi precipitai a trucidare la spergiura; mutati appena due passi, il ghiaccio di un ferro mi penetra nelle viscere, e precipito avvolgendomi nel mio sangue sul pavimento. Non piacque all’inferno ch’io mi morissi: udite stupenda nequizia umana! Aperti gli occhi, mi trovo giacente sopra miserabile pagliericcio, dentro una stanza vuota, le mani e i piedi stretti da funi… non mi rinveniva, cercava con la mente nì giungeva a indovinare in qual luogo mi avessero condotto e perché così legato. All’improvviso mi spaventa uno schiamazzo confuso di minacce, di percosse, di pianto, di preghiere e di risa; e sopra tutte queste voci tempestare un urlo che diceva: “Chiudete le porte, san Pietro!” – “san Paolo, di grazia, a che tenete quello spadone ai fianchi?” – “Ora dov’ì andato l’arcangelo Michele?” – “I demoni danno l’assalto al paradiso.... e’ l’hanno preso”, – “l’hanno preso,” – “scomunicati!” – “eretici!” – “così bussate il Padre Eterno? poveraccio!” Mi accorsi che mi avevano condotto all’ospedale dei pazzi.

Un giorno corsi dall’ospedale; poichì ebbi corsa lunga ora non pensando a nient’altro che a fuggire, incominciai a divisare dove procurarmi un asilo, come sottrarmi alle persecuzioni dei miei feroci nemici; pericoloso mi parve, ed era, ridurmi alla casa paterna, ma anelando conoscere come il caso avvenisse, colà appunto mi condussi; – oscurità e silenzio; – chiamo, busso, torno a chiamare, e sempre invano; tolto di speranza da questa parte, il cuore mi augurando sinistramente, ma pur non sapendo qual male temere, mi venne in pensiero il castaldo che abitava certe casette di nostro alla estremità della via; – lo trovai con la famiglia prostrato a terra, perché le campane avevano suonato l’ora prima di notte, a recitare il De profundis per le anime dei defunti: siccome inosservato io penetravo là dentro, udii pregare pace all’anima mia e a quella di mio padre. “Sarebbe lui morto?” esclamai con immenso dolore. Immaginate voi lo spavento prima, poi la meraviglia e la esultanza di quei buoni, – i soli che mi siano occorsi nella vita. Il mio povero padre era morto pur troppo! Alle persecuzioni e all’odio del malvagio, che pei rimorsi riarde più feroce, soccombeva i miei nemici con le proprie mani avendomi distrutto, con le proprie mie mani io mi ero deliberato distruggerli; dente per dente, pelle per pelle, come insegna Moisè; presi nella destra il pugnale, nella manca un pugno della terra che l’ossa ricopriva di mio padre e giurai vendicarmi… di vendetta italiana… Aspettate e vedrete come saprò vendicarla.

“E per colpa di un solo volete sommersa la barca? A parere mio, io vi terrei meno triste, se uccideste i vostri nemici a tradimento. Per odio privato voi condannate a morte l’antica repubblica di Firenze”.

“Che significa repubblica? E’ una parola di largo contorno e che dentro di sì comprende libertà da comizio e tirannide d’inquisitori di stato. Il governo dove impunemente si commettono misfatti quali soffersi io non può dirsi libero, e tale invero non fu mai il nostro; e poi io sacrifico volentieri la libertà passaggiera alla forza perenne, madre vera di durevole libertà. Messere, voi pensate avere gettato un germe nel mio cuore, ed lui ha già partorito da parecchio tempo il suo frutto; non pertanto grazie vi siano della proposta. Aiutatemi: quello che non fecero i cinque e i dieci anni, lo faranno i venti; le piaghe del vostro cuore saranno sanate; vi confidi il futuro. Voi mio maestro e mio duca dovete vivere, amare e governare”.

“Camminate la vostra via. Non vi trattenete a guardare i miei fati, io vi sovverrò come e dovunque possa, ma non per vivere; se avessi intenzione di durare nella vita, il Bandino non conosce signore degno della sua servitù, tranne uno solo, e questi è il Bandino”.

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